Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 01-03-2011) 12-04-2011, n. 14549

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza dell’8 giugno 2010, la Corte di appello di Bari, in parziale riforma della sentenza del Tribunale della stessa città, con cui D.M.R. era stata dichiarata responsabile dei reati di cui agli artt. 368 e 388 c.p., riduceva la pena inflitta nella misura di anni tre di reclusione, confermando per il resto.

All’imputata era addebitato di aver presentato il 23 novembre 2002 una denuncia nei confronti dell’ex convivente D’.Mi., nella quale lo accusava falsamente di aver toccato, in tre occasioni, le parti intime della loro figlia di tre anni, causandole dolore e lieve rossore vaginale; nonchè di aver reiteratamente eluso l’esecuzione della statuizione del Tribunale per i minorenni, concernente il diritto di visita, impedendo al D’. di incontrare la figlia minore dal (OMISSIS).

2. Avverso la sentenza in epigrafe, hanno proposto ricorso per Cassazione i difensori dell’imputata, con separati atti, con cui denunciano:

– la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di calunnia, in quanto la condotta della ricorrente era da connettersi al grande allarme suscitato dalla notizia dell’episodio appresa dalla bimba, che, con il reiterarsi delle affermazioni della figlia, l’aveva indotta a presentare denuncia e cercare di impedire al padre di vedere la figlia. Quale elemento di illogicità dell’assunto dei giudici, la difesa evidenzia la circostanza che, se la D. avesse avuto certezza della "fantasia" dei racconti della bimba o se avesse voluto creare una prova a carico nei confronti dell’ex convivente, con la esperienza acquisita nel corso della attività esplicata presso la clinica ginecologica, non avrebbe di certo richiesto una visita specialistica che poteva essere soltanto in grado di smentire la sua versione dei fatti.

– la erronea interpretazione della legge penale, in relazione all’art. 368 c.p., comma 2, e art. 609-quater c.p., commi 1 e 4, artt. 62-bis e 69 c.p., in quanto risulterebbe errato il calcolo operato per la quantificazione della pena, per insussistenza dell’aggravante di cui all’art. 368 c.p., comma 2.

– la mancanza di motivazione in relazione alla pena inflitta per il reato di cui all’art. 388 c.p., comma 2, che con l’appello si era chiesto di sanzionare con il minimo.

– la contraddittorietà di motivazione in ordine alla richiesta di revoca della provvisoria esecuzione della provvisionale liquidata, posto che la sentenza a tal riguardo ha soltanto affermato che "mancano elementi per ritenere che la prevenuta non sia in grado di onorarla".

– la contraddittorietà tra motivazione e gli atti di processo e la mancanza di motivazione, in relazione alla affermazione della responsabilità per il reato di calunnia, posto che, nella denuncia, l’imputata non aveva denunciato abusi sessuali, nè aveva incolpato alcuno che sapeva essere innocente, ma soltanto esposto fatti raccontati dalla figlia e la richiesta dell’espletamento di tutti gli accertamenti tecnici e medici-sanitari del caso, al fine di verificare quanto occorso alla bambina. Inoltre, le deposizioni dei testi a discarico non sono state apprezzate adeguatamente, bensì liquidate come ininfluenti.

– la manifesta illogicità della motivazione, in ordine all’affermazione di responsabilità della D., basata sulle dichiarazioni dei testi L.R. e B.M.P., la cui attendibilità doveva essere apprezzata alla luce degli interessi di cui le stesse erano portatrici. Inoltre, sarebbe stato acquisito agli atti ed utilizzato un esposto della L. del quale non è provata l’autenticità, nè l’avvenuto deposito presso un’autorità giudiziaria. I giudici d’appello non avrebbero considerato le dichiarazioni rese dalla L. alla D. tre giorni prima del suo licenziamento, nelle quali la prima aveva affermato che la bambina non voleva parlare con il padre per telefono e che la stessa – senza la presenza della madre – aveva riferito che il padre era monello e le toccava la "farfallina" con il dito.

– la mancanza di motivazione in relazione alla ritenuta responsabilità per il reato di cui all’art. 388 c.p. ed alla quantificazione della pena. L’imputata avrebbe, nonostante le dichiarazioni della bambina, continuato a rispettare gli obblighi scaturenti del provvedimento del Tribunale per i minorenni, consegnando la figlia al padre anche le domeniche successive all’episodio contestato, evitando l’affidamento della bambina al genitore soltanto dopo avere presentato l’esposto contro di lui e ciò per motivi di prudenza e di opportunità. E’ stata invero utilizzata la deposizione della teste S. che non si riferisce al periodo contestato.

– la estinzione dei reati per prescrizione.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile in ogni sua articolazione.

2. La sussistenza dell’elemento soggettivo del reato di calunnia è tratta dai giudici di appello dalla convinzione che il racconto della bambina circa i toccamenti del padre fosse il frutto del condizionamento psicologico ad opera della madre, che aveva ordito una vera e propria macchinazione nei confronti dell’ex convivente, diretta a screditarlo per sottrargli l’affidamento dei figli minori nell’aspro contenzioso instaurato dagli stessi presso il Tribunale per i minorenni (dopo la loro separazione, erano stati affidati i due maschietti più grandicelli al padre e la bimba alla madre, con diritto di visita al genitore non affidatario).

Tale convincimento è fondato su un solido quadro probatorio diffusamente esposto nella sentenza impugnata. In particolare, i giudici dell’appello hanno evidenziato che tutti i testi avevano riferito di aver appreso il racconto della piccola su sollecitazione della madre, ricevendo come risposta una sorta di cantilena ripetitiva, senza che la piccola mostrasse turbamento o disagio, quasi si trattasse di un gioco. Lo stesso video, filmato dalla madre ed acquisito agli atti su istanza della difesa, aveva rivelato ai giudici l’assoluta mancanza di spontaneità della bambina, tanto da sembrare il racconto di una favoletta.

Tra le testimonianze significative la sentenza impugnata indica in particolare quella delle testi B. e L.. La prima aveva riferito di essere stata contattata dall’imputata, perchè testimoniasse il racconto della piccola G. in quanto intendeva raggiungere lo scopo di ottenere l’affidamento dei suoi tre figli, escludendo qualslvoglia ingerenza da parte del padre; e che l’imputata, al rifiuto della teste ad aderire al complotto, non aveva esitato a minacciarla e ad inseguirla con il suo fuoristrada, in compagnia della piccola G., arrivando a tamponare la vettura sulla quale la B. e il marito si trovavano, tanto che a seguito dell’urto la piccola, che viaggiava sul sedile anteriore, era stata sbalzata in avanti cadendo.

La L., baby sitter di casa D’., aveva riferito della reiterata, quasi persecutoria, induzione da parte dell’imputata a che la bambina raccontasse al giudice minorile dei toccamenti subiti dal padre, istruendola anche sui gesti con cui accompagnare la narrazione, ricorrendo all’ausilio di un bambolotto sul quale esercitarsi, oltre alle frasi da dire. La teste aveva inoltre dichiarato che l’imputata l’aveva istigata a dichiarare il falso davanti all’autorità giudiziaria, dietro la minaccia di ritorsioni gravi e anche di morte, facendole firmare un testo, dalla stessa scritto ed ideato, poi depositato al giudice minorile, nel quale la L. dichiarava falsamente di aver sentito la bambina accusare il padre di averla abusata. Tale dichiarazione veniva ritrattata dalla L. con una successiva scrittura depositata alla Procura della Repubblica.

Ulteriori testimonianze riportate dai giudici nella sentenza convergono nel ritenere l’esistenza di interferenze di tipo ambientale idonee a suggestionare il racconto della bambina.

Altro elemento significativo per i giudici dell’appello della messinscena ordita dall’imputata ai danni dell’ex convivente è costituito dall’episodio della traumatica visita ginecologica a cui la piccola venne sottoposta per volontà della madre. I testi avevano riferito della freddezza con cui la donna, noncurante delle urla della piccola, aveva con determinazione fatto eseguire la visita. In ordine a tale episodio, i giudici hanno fornito logica spiegazione del perchè tale visita non dimostrasse affatto la buona fede dell’imputata: la Corte ha osservato che l’imputata – di professione medico ed esperta in ginecologia, come dalla stessa dichiarato – doveva essere ben consapevole dell’inutilità dell’accertamento clinico effettuato a distanza di molti mesi dall’ultimo presunto episodio di abuso, posto che era stato constatato, nell’immediatezza, soltanto un "lieve rossore", ben compatibile con l’uso del pannolino od attribuibile ad una non corretta igiene intima.

Altro dato sintomatico della falsità della denuncia è tratto dalla sentenza impugnata nella circostanza che la D., nel corso di una telefonata registrata dall’ex convivente, quando la stessa non aveva più consentito le visite alla figlia, lungi dal contestare a costui quanto appreso dalla figlia, si era espressa in modo sarcastico, chiedendogli come avesse trascorso la giornata, atteggiamento incomprensibile da parte di una madre preoccupata e convinta che la propria figlia avesse subito abusi sessuali.

A questa ricostruzione della vicenda, che appare priva di vizi logici e giuridici, la ricorrente oppone una diversa lettura degli elementi di prova (sostenendo che l’imputata avesse in buona fede dato credito al reiterato racconto della bambina, anche per il lieve rossore riscontrato, e per tale motivo si fosse determinata a denunciare l’ex convivente), che non può essere presa in considerazione in sede di legittimità.

Infatti, il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile, cioè l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti (cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi), ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.

3. Inammissibile è anche la censura relativa alla ritenuta sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 368 c.p., comma 2.

La ricorrente sostiene che il calcolo della pena risulterebbe erroneo, perchè la Corte di merito avrebbe ritenuto equivalenti le attenuanti generiche alla suddetta contestata aggravante, a suo avviso non configurabile in considerazione dei limiti edittali del reato falsamente attribuito al D’..

Tale rilievo è manifestamente infondato, in quanto il fatto di aver abusato sessualmente dello figlia minore di tre anni integra il reato di cui all’art. 609-quater c.p., punito, come prevede l’u.c. nel caso in cui la persona offesa non abbia compiuto gli anni dieci, con la pena, prevista dall’art. 609-ter c.p., comma 2, della reclusione da sette a quattordici anni.

Ai fini della configurazione dell’aggravante, nessun rilievo assume la circostanza riportata nel capo di imputazione che, a carico del D’., sia stato aperto un procedimento penale per il reato di cui "all’art. 609-quater, comma 1, n. 2, comma 4", perchè quel che conta è la descrizione del fatto come riportata nella prima parte del capo di imputazione dove si afferma che, nella denuncia, l’imputata aveva accusato il D’. di abusare sessualmente della loro figlia minore dell’età di tre anni.

Quanto alla rilevanza, ai fini della determinazione della pena agli effetti dell’art. 368 c.p., comma 2, dell’attenuante di cui all’art. 609-quater c.p., comma 4, va rilevato che, dalla descrizione del fatto attribuito al D’., non emergono circostanze fattuali tali da poter definire la condotta di costui di "minore gravità".

Ragionevolmente, pertanto, le sentenze in entrambi i gradi di merito hanno definito "gravi" gli elementi di fatto rappresentati nella denuncia (pag. 9 della sentenza di primo grado; pag. 16 della sentenza di appello).

Correttamente, quindi, la Corte di appello ha ritenuto sussistente la contestata aggravante di cui all’art. 368 c.p., comma 2, per poi effettuare il giudizio di bilanciamento rispetto alle riconosciute circostanze attenuanti generiche.

Val la pena di osservare che il fatto che la Corte barese, nell’operare il calcolo della pena, si riferisca al reato di "calunnia aggravata", deve ritenersi ininfluente, posto che nessun aumento, per effetto di circostanze aggravanti, è stato operato sulla pena base, individuata nella pena di anni due di e mesi sei di reclusione.

4. Manifestamente infondato è il motivo riguardante la mancanza di motivazione, in relazione alla pena inflitta per il reato di cui all’art. 388 c.p., comma 2.

La Corte di appello ha accolto l’appello dell’imputata con cui chiedeva di ridurre la pena di sei anni di reclusione inflitta in prime cure, contenendola nella "misura equa e congrua" di tre anni di reclusione, intervenendo sia sulla pena base sia sull’aumento per la continuazione (ridotto da un anno a tre mesi di reclusione).

Considerato che l’aumento per la continuazione non si è discostato di molto dai minimi edittali, deve ritenersi ottemperato l’obbligo motivazionale con la suddetta valutazione (v. per tutte, Sez. 3, n. 33773 del 29/05/2007, dep. 03/09/2007, Ruggieri, Rv. 237402).

5. Inammissibile è il motivo relativo al vizio di motivazione, in ordine alla richiesta di revoca della provvisoria esecuzione della provvisionale liquidata.

E’ invero costante insegnamento di questa Suprema Corte che il provvedimento con il quale il giudice di merito, nel pronunciare condanna generica al risarcimento del danno, assegna alla parte civile una somma da imputarsi nella liquidazione definitiva, non è impugnabile per Cassazione, in quanto per sua natura insuscettibile di passare in giudicato e destinato ad essere travolto dall’effettiva liquidazione dell’integrale risarcimento (Sez. U, n. 2246 del 19/12/1990, dep. 19/02/1991, Capelli, Rv. 186722).

6. Del tutto infondata è la doglianza con cui la ricorrente intende sostenere la mancanza dell’elemento materiale del delitto di calunnia.

Integra infatti il reato di calunnia la condotta del denunciante il quale riferisca circostanze di fatto diverse da quelle realmente verificatesi. In base a quanto già sopra illustrato, i giudici dell’appello hanno accertato che l’imputata aveva ordito ai danni dell’ex convivente una macchinazione, attuata anche "ammaestrando" la figlia a che riferisse di episodi di abusi sessuali subiti ad opera del padre, in realtà mai avvenuti.

7. Inammissibile è la censura con cui la ricorrente denuncia il travisamento di prove a discarico, sbrigativamente – a suo dire – licenziate dalla Corte di merito come ininfluenti.

Anche a voler tacere della necessaria decisività che deve connotare tale vizio della motivazione, così da disarticolare l’intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la essenziale forza dimostrativa del dato processuale/probatorio travisato, la ricorrente non ha assolto al pregiudiziale onere di rappresentare in maniera adeguata a questa Corte gli "altri atti del processo" (c.d. autosufficienza del ricorso), pretermessi o travisati, con la completa trascrizione dell’integrale contenuto delle dichiarazioni rese dal testimone (Sez. F, n. 37368 del 13/09/2007, dep. 11/10/2007, Torino, Rv. 237302; Sez. 4, n. 37982 del 26/06/2008, dep. 03/10/2008, Buzi, Rv. 241023; Sez. 2, n. 38800 del 01/10/2008, dep. 14/10/2008, Gagliardo, Rv. 241449; Sez. 1, n. 06112 del 22/01/2009, dep. 12/02/2009, Bouyahia, Rv. 243225; Sez. F, n. 32362 del 19/08/2010, dep. – 26/08/2010, Scuto, Rv. 248141).

In ogni caso, dall’esposizione del motivo non si desume neppure il fumus del dedotto vizio, in quanto con esso si intende avvalorare una rinnovata valutazione dei fatti finalizzata, nella prospettiva della ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa.

8. Parimenti inammissibile è la censura con cui si denuncia l’inattendibilità delle testi L. e B.. Tali rilievi sono inammissibili, perchè tendenti a sottoporre alla Corte di legittimità una diversa interpretazione della portata e del significato delle fonti di prova, su cui la Corte di appello ha reso una motivazione completa e priva di vizi logici.

La Corte di appello ha infatti motivato al riguardo, affermando che l’attendibilità e la credibilità di entrambe – in mancanza di apparenti motivi di contrasto o di rivalsa diversi da quelli legati alle vicende del presente processo – risultava confermata dalla quantità di riscontri alla tesi accusatoria proveniente da altre persone, anche molte vicine all’imputata.

Il richiamo della ricorrente, per evidenziare la illogicità del giudizio espresso dai giudici di merito, ad alcuni passaggi pretermessi delle deposizioni delle testi B. e L. non risulta suffragato dalla loro rappresentazione in maniera adeguata come sopra indicato, non essendo consentito a questa Corte l’accesso diretto agli atti.

Quanto agli atti allegati (dichiarazione spontanea e esposto della L.), la Corte ha fornito logica spiegazione in ordine al diverso atteggiamento assunto dalla teste. Ha spiegato che, in un primo tempo, la L. era stata costretta dall’imputata a sottoscrivere un testo nel quale riferiva quanto appreso dalla bambina circa presunti abusi del padre; proprio a causa di tale episodio, si era licenziata e, contattata dal D’., gli aveva raccontato i fatti perchè dispiaciuta per la bambina, decidendosi a presentare l’esposto in atti.

In relazione alle diffuse censure sull’autenticità dell’esposto della L., va osservato che la Corte di merito – contrariamente all’assunto della ricorrente – non ha direttamente utilizzato tale documento nel suo ragionamento probatorio (si fa solo cenno a tale atto nel riferire il contenuto della testimonianza della L., a pag. 12 della sentenza).

9. Quanto alla dedotta mancanza di motivazione, in relazione alla ritenuta responsabilità per il reato di cui all’art. 388 c.p., vi è da osservare che, con l’atto di appello, l’imputata aveva devoluto soltanto il riesame delle prove in ordine alla sussistenza dello elemento soggettivo del reato, sostenendo di aver eluso il provvedimento del giudice minorile solo per la tutelare la bambina.

La Corte di appello ha diffusamente spiegato – come detto in precedenza – del perchè non era credibile la tesi difensiva, ritenendo la complessiva condotta dell’imputata il frutto della macchinazione ordita ai danni dell’ex convivente.

Inammissibili sono le deduzioni relative al travisamento della testimonianza della teste S., in quanto vi ostano i limiti del devolutum in appello che, trattandosi di cosiddetta "doppia conforme", non possono essere superati con recuperi in sede di legittimità, non avendo il giudice d’appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice (Sez. 4, n. 19710 del 03/02/2009, dep. 08/05/2009, Buraschi, Rv. 243636).

Quanto alla motivazione sulla quantificazione della pena, le relative doglianze sono state già esaminate in precedenza.

10. L’inammissibilità del ricorso preclude la declaratoria d’estinzione dei reati per prescrizione, che risulta maturata in data successiva alla pronunzia della sentenza di appello, come esattamente ritenuto dai giudici a quibus.

All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.

Inoltre, la ricorrente è tenuta alla refusione delle spese sostenute dalla parte civile, D’.Mi., che si liquidano come indicato in dispositivo.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 a favore della Cassa delle ammende. Condanna inoltre la ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida nella somma di Euro 3.000,00, oltre accessori, in favore della parte civile D’.Mi..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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