Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 17-02-2011) 12-04-2011, n. 14670 armi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Roma confermava il giudizio di responsabilità di S.D. per il reato di omicidio colposo commesso in danno di H.F. ed, in parziale riforma della sentenza di primo grado, escludeva la ritenuta aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 3, così riducendo la pena, tenuto conto delle già concesse attenuanti generiche, ad anni due di reclusione e revocando la disposta pena accessoria.

Deve, innanzitutto, darsi atto che non esiste una univoca ricostruzione dei fatti, che dal testo delle sentenze di primo e secondo grado possono essere riassunti nei seguenti termini.

Intorno alle ore 21 del 1 febbraio 2002, la pattuglia del nucleo radiomobile della Compagnia Carabinieri di Tivoli composta dal vice brigadiere S.D. e dall’appuntato D.F., era posizionata con l’autovettura di servizio all’ingresso del campo nomadi di via di Salone, in Roma, per attività di controllo;

il S., in quel momento fuori dall’autoradio, intimava l’alt con la paletta d’ordinanza ad un veicolo FIAT (successivamente risultato essere di provenienza furtiva e condotto da minorenne privo di patente di guida) con quattro persone a bordo, ma, mentre si accingeva a prelevare i documenti del conducente, questi improvvisamente accelerava effettuando una brusca sterzata, lo colpiva all’altezza della gamba destra, facendolo rovinare al suolo;

Il S. rialzatosi si poneva a piedi all’inseguimento del veicolo, armando la pistola.

Risulta, altresì, che, alle ore 21,30 di quello stesso giorno, il sedicenne H.F., il quale era tra i passeggeri dell’autovettura, oggetto di inseguimento, della quale occupava il sedile posteriore destro, era stato trasportato in ospedale dai congiunti in stato di coma, ove decedeva qualche ora dopo per arresto cardiocircolatorio.

Dall’esame autoptico era emerso che la causa della morte doveva individuarsi in un colpo d’arma da fuoco, esploso non nell’ambito di brevi distanze, che aveva attinto, trapassandolo, il distretto toraco- addominale del ragazzo con foro d’ingresso posto a livello lombare sinistro e foro d’uscita posto in regione toracica destra.

La versione fornita dall’imputato è poi divergente rispetto alla ricostruzione operata dai giudici di merito.

L’imputato sostiene che il conducente dell’autovettura aveva posto in essere una repentina manovra di retromarcia, a seguito della quale egli, prima ancora di essere sbalzato indietro dall’urto, cadendo per terra, aveva colpito con la canna della pistola il lunotto posteriore dell’auto provocandone la rottura.

Lo stesso imputato riferisce di non ricordare se la esplosione si era verificata durante la fase della caduta, a causa di una contrazione nervosa delle mani o se il proiettile era partito a causa del contraccolpo fisico all’atto dell’impatto con il terreno.

I giudici di merito, rilevata l’inattendibilità sul piano probatorio di tali dichiarazioni sotto diversi profili hanno sostenuto, diversamente, che il racconto, oltre che privo di dimostrazione, era contraddetto dalla natura dei luoghi e dalla scansione logica dei fatti.

In particolare, l’esplosione del colpo nella fase di caduta all’indietro era severamente contrastata dagli esiti degli accertamenti tecnici svolti, che avevano rilevato come la traiettoria del proiettile che condusse a morte la vittima era stata dall’alto verso il basso e da sinistra verso destra, con un percorso del tutto inconciliabile con l’assunto del prevenuto di una caduta all’indietro quale causa della accidentale partenza del colpo.

La volontarietà del colpo veniva inoltre desunta dalle condizioni della pistola in ottimo stato di conservazione e che non presentava alcun problema di estrema sensibilità: l’imputato perciò doveva aver esercitato sul grilletto una pressione tale da determinare l’abbattimento del percussore.

Il giudice di appello aveva dedotto, altresì, la volontarietà del colpo dalle dichiarazioni rese dallo stesso imputato che avrebbe dichiarato di avere sparato volontariamente come avvertimento.

Anche la presenza del lunotto infranto non era stata ritenuta dai giudici di merito valido riscontro alle dichiarazioni rese dal prevenuto, sussistendo varie ipotesi a giustificazione dell’evento, tutte egualmente valide, essendo stata esclusa solo quella che la rottura del vetro fosse stata la conseguenza della penetrazione del proiettile nell’abitacolo attraverso il portellone posteriore in vetroresina, come pure quella della esplosione di un secondo colpo.

In conclusione, l’azione di sparo doveva essere ricondotta alla piena volizione del soggetto agente, che intendeva bloccare l’auto in fuga e non all’evento di fattori causali ed imprevedibili.

Era da escludersi l’esimente di cui all’art. 53 c.p., giacchè era da ritenere pacifico, secondo l’assunto del giudice di merito, che quando era avvenuto lo sparo non era in atto da parte degli occupanti l’autovettura alcuna forma di violenza nei confronti degli operanti o di terze persone e che, verosimilmente, essi tentavano di sottrarsi con la fuga al controllo dei Carabinieri, in quanto in possesso di un’autovettura rubata.

Avverso l’anzidetta sentenza e le ordinanze pronunciate in data 16 maggio, 22 settembre, 19 novembre 2008 e 20 febbraio 2009, con le quali la Corte di merito respingeva reiteratamente le richieste di rinnovo dell’istruzione dibattimentale aventi ad oggetto l’espletamento di perizia balistica, ha proposto ricorso per cassazione l’imputato per mezzo di due difensori, chiedendone l’annullamento.

L’avv. Pierfrancesco Bruno censura la sentenza sotto più profili.

In primo luogo, deduce la manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla ritenuta esclusione del caso fortuito.

Contrariamente a quanto affermato dai giudici di appello – sostiene il ricorrente – l’imputato aveva pienamente ottemperato all’onere di allegazione, gravante sul medesimo, di fornire le indicazioni e gli elementi necessari all’accertamento della causa di non punibilità, contestando la ricostruzione dinamica delle modalità con cui era stato esploso il colpo di arma da fuoco e la traiettoria dell’ogiva, come ricostruita dai consulenti tecnici del pubblico ministero, e chiedendo il rinnovo dell’incarico peritale sul punto, richiesta condivisa dai rappresentanti della Procura generale.

Censura la sentenza come manifestamente illogica anche nella parte in cui ha escluso che il conducente dell’autovettura abbia potuto investire il S. innestando la retromarcia, invocando, a sostegno di tale affermazione, una circostanza non decisiva quale la mancata contestazione da parte del pubblico ministero di una specifica volontà omicida in capo allo stesso conducente.

Tale conclusione non teneva inoltre conto – per il difensore- che l’innesto della retromarcia poteva avere anche una diversa motivazione, come emerge dalla stessa sentenza, laddove si ipotizza, in alternativa alla volontà omicida del conducente, che l’esecuzione di tale manovra possa essere stata dettata dalla necessità di tirare via l’auto dalla fossa in cui era caduta.

Si sostiene, inoltre, che la Corte di merito avrebbe del tutto trascurato la documentata sussistenza a carico del ricorrente di lesioni e conseguenze fisiologiche perfettamente compatibili con un investimento, indicate dalla difesa a sostegno della configurabilità della scriminante.

Analogamente la Corte di merito avrebbe affermato impropriamente che l’imputato aveva premuto volontariamente il grilletto, senza tener conto delle dichiarazioni di segno contrario rese in più occasione da uno degli occupanti l’autovettura e della circostanza obiettiva che un auto in fuga risultava difficilmente raggiungibile a piedi da un individuo.

In secondo luogo, sotto altro profilo, si duole della mancata rinnovazione delle istruttoria dibattimentale nonchè della mancata assunzione di una prova decisiva con riferimento al diniego opposto all’espletamento di un accertamento peritale di tipo balistico.

Si censura come manifestamente illogica la motivazione che, partendo dalla pregiudiziale esclusione della ipotesi del colpo partito accidentalmente a causa dell’impatto con la vettura, contestata dalla difesa, arriva a qualificare come cosciente e volontaria l’attivazione del meccanismo di sparo, facendo da ciò illogicamente discendere il giudizio di irrilevanza di una perizia balistica perchè un eventuale approfondimento in ordine alla distanza di fuoco ed alla esatta descrizione della traiettoria dell’ogiva, non aggiungerebbe nulla alla responsabilità del prevenuto.

Si sottolinea, invece, che la richiesta di rinnovazione era giustificata da talune incertezze emerse dalla relazione tecnica del perito balistico in ordine all’andamento della traiettoria dell’ogiva, descritta come discendente e deviante da sinistra verso destra.

Tale valutazione, come ammesso dallo stesso consulente, non aveva tenuto conto della incerta conformazione dei luoghi ed era fondata su dati del tutto convenzionali che presuppongono una collocazione dell’auto e dell’utente dell’arma su di un comune piano orizzontale, con il S. che opera ritto sul busto e con il braccio disteso nell’ideale posizione di 90 gradi.

Analoghe considerazioni il ricorrente svolge con riferimento al mancato approfondimento relativo alla frantumazione del lunotto posteriore dell’autovettura.

A fronte del dettagliato motivo di impugnazione con il quale il difensore portava tale elemento a riscontro della accidentalità della condotta in contestazione in quanto dimostrava l’attendibilità delle dichiarazione rese dall’imputato secondo il quale la frantumazione del lunotto era stato determinato dall’impatto con il vivo di volata della pistola in dotazione, trovando altresì conferma in ulteriori elementi istruttori, la Corte di merito avrebbe ignorato i dati processuali acquisiti, proponendo due ulteriori possibili ricostruzioni dell’accaduto, fondate su mere congetture (la rottura del cristallo era dipesa da un secondo colpo di arma da fuoco oppure era stata deliberatamente progettata da qualcuno rimasto ignoto al solo scopo di far apparire in danno dell’imputato una reiterata condotta di fuoco).

Con altro motivo deduce l’erronea applicazione dell’art. 53 c.p..

I giudici di appello avevano erroneamente escluso l’esimente di cui all’art. 53 c.p., presupponendo violato il rapporto di proporzionalità nell’uso dell’arma in considerazione del carattere non violento della condotta posta in essere dal conducente della vettura in fuga, della quale avevano escluso illogicamente la repentina manovra di retromarcia.

L’avv. Melucco articola 14 motivi.

Con il primo lamenta la manifesta illogicità delle sentenza con riferimento alla ricostruzione dei fatti ed alla interpretazione data delle dichiarazioni dell’imputato, il quale sarebbe stato sempre coerente nell’affermare che, al momento del secondo impatto con la vettura, il lunotto posteriore della FIAT Tipo aveva urtato contro la pistola disintegrandosi e l’imputato aveva perso l’equilibrio cadendo a terra; il colpo di pistola era partito negli istanti tra tale urto e la caduta, per l’accidentale contraccolpo all’urto o anche per la involontaria reazione del movimento delle dita della mano.

Con il secondo si duole della manifesta illogicità della motivazione in ordine alla volontarietà dello sparo, affermata dalla Corte di merito sulla base dei seguenti tre argomenti:

1) quando il colpo era partito l’imputato si trovava in piedi, anche se non necessariamente eretto;

2) la pistola era in ottimo stato di conservazione e non presentava alcun problema di estrema sensibilità;

3) l’imputato avrebbe dichiarato di avere sparato volontariamente come avvertimento.

Si sostiene l’illogicità di ciascuno di tali argomenti.

Quanto al primo, l’asserita posizione in piedi, oltre a non fornire la prova della volontarietà dello sparo, non smentirebbe la veridicità delle dichiarazioni dell’imputato, la cui caduta nel terreno fangoso aveva trovato riscontro nelle macchie di fango rinvenute sull’auto dei Carabinieri dove aveva preso posto il S..

Lo stesso perito balistico nell’esame dinanzi alla Corte di merito aveva dichiarato che al momento dello sparo il S. si trovava in piedi ma non necessariamente eretto.

Si sottolinea che la posizione in piedi è solo una ipotesi, privilegiata dal consulente perchè la direzione del proiettile era leggermente dall’alto verso il basso e che lo stesso consulente aveva ammesso che è anche possibile, anche se innaturale, cadere all’indietro tenendo l’arma leggermente puntata verso il basso.

Sul punto la difesa insiste che tale posizione del corpo al momento dello sparo non è neanche innaturale ma è pienamente verosimile perchè è logico presumere che la pallottola abbia una traiettoria verso l’alto se viene esplosa quando il corpo di chi spara è nella fase iniziale della caduta, ossia quando la persona ha una posizione quasi verticale rispetto al terreno.

Altra variabile nella direzione dello sparo è rappresentata dalla posizione del busto nella fase della caduta.

Quanto al secondo argomento si censura quale manifestamente illogica la valutazione connessa allo stato di conservazione della pistola, anche tenuto conto che lo stesso consulente balistico aveva ammesso espressamente che il colpo poteva essere partito involontariamente.

Quanto al terzo argomento si evidenzia che la sentenza di appello aveva desunto la volontarietà dello sparo da una dichiarazione dell’imputato del tutto estrapolata dal contesto complessivo, stravolgendone il contenuto (non è vero che l’imputato aveva dichiarato di aver sparato come avvertimento ma aveva solo affermato in via ipotetica "al limite" che poteva esplodere un colpo in aria se la situazione peggiorava).

D’altra parte in quella specifica situazione (da solo, di notte in un campo nomadi) sparare un colpo intimidatorio in quella situazione sarebbe stato pericoloso per la stessa incolumità del S..

Con il terzo motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione sotto il profilo della spiegazione della causa che aveva portato alla frantumazione del lunotto posteriore.

La Corte di merito aveva disatteso le dichiarazioni dell’imputato, il quale aveva sempre dichiarato che il lunotto si è distrutto perchè urtato dalla pistola, al momento del secondo impatto con la tipo e che era stato quell’urto ad aver portato all’involontario ed accidentale sparo.

A fronte di tali dichiarazioni i giudici di appello avrebbero prospettato due diverse spiegazione della rottura, alternative all’urto con la pistola dell’imputato, entrambe illogiche.

La prima ipotesi (il lunotto posteriore sarebbe stato rotto da un secondo proiettile esploso dall’arma dell’imputato) non ha trovato riscontro in alcun elemento istruttorio ed è stato smentito dal perito balistico che nel dibattimento in Corte di appello ebbe a dichiarare di ritenere che era stato esploso un solo colpo, in quanto era stato rinvenuto un solo bossolo e nel caricatore (contenente quindici cartucce) ne erano state rinvenute quattordici.

Con il quarto motivo deduce la manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata valutazione delle lesioni obiettivamente riscontrate sull’imputato e della prova della retromarcia.

Con il quinto motivo lamenta la mancanza di motivazione sotto il profilo della mancata indicazione delle ragioni per cui non si era tenuto conto della certificazione medica del pronto soccorso dell’ospedale di Tivoli.

Con il sesto motivo deduce la manifesta illogicità della sentenza sotto il profilo della mancata valutazione delle dichiarazioni rese da H.G., altro occupante dell’autovettura.

Con il settimo motivo deduce l’inosservanza della legge penale e dell’art. 2, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Premesso che i giudici di merito avevano ritenuta l’attendibilità della prima parte delle dichiarazioni rese dall’imputato (ossia l’intimazione dell’alt alla FIAT Tipo, l’improvvisa accelerazione da parte di questa ed il tentativo di investimento dell’imputato), la condotta dell’imputato sarebbe comunque da ritenersi lecita anche nella ipotesi in cui egli avesse sparato volontariamente, in quanto con il suddetto tentativo di investimento il conducente dell’autovettura aveva commesso in flagranza il reato di violenza o resistenza a pubblico ufficiale, con l’aggravante ex art. 61 c.p., n. 10, e, verosimilmente, anche di tentato omicidio.

Ciascuno di tali reati legittimava l’arresto e l’uso della pistola era a tal fine necessario, come previsto dal citato art. 2 CEDU. Con l’ottavo motivo lamenta l’inosservanza degli artt. 53 e 55 c.p. e la manifesta illogicità della motivazione laddove aveva disconosciuto la configurabilità di una resistenza attiva, nonostante la documentazione medica, comprovante le lesioni subite dal S..

Con il nono motivo lamenta la manifesta illogicità della motivazione della sentenza impugnata, che non avrebbe tenuto conto di elementi accertati nella sentenza di primo grado relativi alla ricostruzione dei fatti, coincidenti con la versione fornita dall’imputato (in particolare il primo tentativo di investimento, dopo aver forzato con violenza l’alt intimato dal S., che configurava la resistenza attiva e quindi idonea ad escludere la responsabilità quantomeno ex art. 53 c.p.).

Con il decimo motivo deduce sempre l’inosservanza degli artt. 53 e 55 c.p. sotto il profilo della rilevanza della distinzione tra resistenza attiva e passiva.

Con l’undicesimo motivo lamenta l’erronea applicazione della L. 4 marzo 1958, n. 100, art. 3 sull’uso delle armi da parte degli agenti operanti in materia di contrabbando, della quale si invoca l’applicazione analogica, nella ipotesi in cui venisse ritenuto che la condotta dell’imputato non è giustificata nè dall’art. 53 c.p. nell’art. 2 della Convenzione dei diritti dell’uomo.

Con il dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo motivo, strettamente connessi, lamenta l’erronea applicazione della legge penale con riferimento agli artt. 42, 43 e 45 c.p., nonchè la manifesta illogicità della motivazione afferente l’elemento soggettivo del reato.

Si sostiene che la sentenza impugnata aveva erroneamente identificato la coscienza e la volontà dell’azione con la colpa, affermando che l’imputato aveva fatto partire volontariamente il colpo, allo scopo di bloccare l’auto, ma che il colpo aveva attinto il ragazzo, essendo così evidente la colpa dell’imputato. Sempre sotto questo profilo, si sostiene che la sentenza avrebbe omesso di prendere in considerazione le risultanze istruttorie al fine di verificare la prevedibilità dell’evento, in ragione della acclarata posizione sulla autovettura del ragazzo deceduto.

Ciò premesso, va rilevato, che nelle more del giudizio di legittimità, il reato di omicidio colposo, per il quale sono state concesse le attenuanti generiche ed esclusa in appello l’aggravante di cui all’art. 61 c.p., n. 3, si è prescritto in data 25 maggio 2010, tenuto conto che il fatto si è verificato in data 1.2.2002, il reato si prescrive in sette anni e mezzo (5 anni + 2 e mezzo per interruzione) e che nel computo dei termini sono state incluse le cause di sospensione riscontrate.

La declaratoria di estinzione del reato, a fronte della pronuncia di condanna in primo e secondo grado, non esime però il giudice dell’impugnazione, in ossequio al disposto dell’art. 578 c.p.p. dal decidere sull’impugnazione agli effetti delle disposizioni dei capi della sentenza concernenti gli interessi civili e, per tale decisione, è necessario ovviamente esaminare e valutare i motivi della impugnazione proposta dall’imputato.

A tal riguardo, dovendosi ricordare, sulla scia di un orientamento consolidato, che in presenza di una causa estintiva del reato (come, nella specie, la prescrizione), il giudice deve pronunciare l’assoluzione nel merito solo nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale o la non commissione da parte dell’imputato, emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile, tanto che la valutazione da compiere in proposito appartiene più al concetto di "constatazione" che a quello di "apprezzamento".

Ciò in quanto il concetto di "evidenza", richiesto dall’art. 129 c.p.p., comma 2 presuppone la manifestazione di una verità processuale così palese da rendere superflua ogni dimostrazione, concretandosi in una pronuncia liberatoria sottratta ad un particolare impegno motivazionale (ex pluribus, Sez. 4^, 18 settembre 2008, n. 40799, PG in proc. Merli, rv 24174).

Coerente con questa impostazione è anche la uniforme giurisprudenza di legittimità che, fondandosi anche sull’obbligo di immediata declaratoria delle cause di non punibilità, esclude che il vizio di motivazione della sentenza impugnata, che dovrebbe ordinariamente condurre all’annullamento con rinvio, possa essere rilevato dal giudice di legittimità che, in questi casi, deve invece dichiarare l’estinzione del reato (v., anche Sez. 4^, 22 gennaio 2007, Pedone ed altri, non massimata, ed i riferimenti in essa contenuti).

Da ciò consegue che nel giudizio d’impugnazione, in presenza di una condanna al risarcimento dei danni o alle restituzioni pronunciata dal primo giudice (o dal giudice d’appello) ed essendo ancora pendente l’azione civile, il giudice penale, secondo il disposto dell’art. 578 c.p.p. è tenuto, quando accerti l’estinzione del reato per amnistia o prescrizione, ad esaminare il fondamento della medesima azione.

In questi casi la cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane integra e il giudice dell’impugnazione deve interamente verificare resistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunciata dal primo giudice ( o dal giudice di appello nel caso in cui l’estinzione del reato venga pronunziata dalla Corte di cassazione).

In conclusione, deve essere ritenuto un principio inderogabile del processo penale quello secondo cui la condanna al risarcimento o alle restituzioni può essere pronunziata solo se il giudice penale ritenga accertata la responsabilità penale dell’imputato; anche se l’estinzione del reato non gli consente di pronunziare condanna penale (v., in tal senso, la citata sentenza, Sez. 4^, Pedone ed altri).

Tale orientamento è stato ulteriormente confermato dalle Sezioni unite con la sentenza 28 maggio 2009, n. 35490, Tettamanti, rv.

244273-245, secondo le quali all’esito del giudizio dibattimentale, il proscioglimento nel merito, nel caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, posto che il giudice può pronunciare sentenza di assoluzione ex art. 129 c.p.p., comma 2, soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la sua rilevanza penale ovvero la non commissione del medesimo da parte dell’imputato emergano dagli atti in modo assolutamente incontestabile, ferme restando le ipotesi in cui il giudice sia chiamato a dover approfondire ex professo il materiale probatorio acquisito.

Ne deriva che il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova, solo nel caso in cui, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., il giudice di appello – intervenuta una causa estintiva del reato – è chiamato a valutare il compendio indiziario ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile;

ovvero nel caso in cui, a una sentenza di assoluzione in primo grado resa ai sensi dell’art. 530 c.p.p., comma 2 appellata dal pubblico ministero, sopravvenga una causa estintiva del reato ed il giudice di appello ritenga infondato nel merito l’appello del pubblico ministero.

Ciò premesso, i ricorsi, che vanno all’evidenza trattati congiuntamente evocando tematiche analoghe, non sono meritevoli di accoglimento.

Preliminarmente, per un corretto inquadramento della vicenda processuale, l’apprezzamento di questa Corte sulla tenuta e sulla logicità della decisione di condanna non può prescindere da una valutazione congiunta della decisione impugnata e di quella di primo grado, riformata in appello solo sotto il profilo dell’esclusione della colpa con previsione, ma, per il resto, ampiamente recepita e condivisa.

Infatti, allorchè le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo (cfr. Sezione 6^, 23 maggio 2007, Damiani, non massimata).

Ciò, va detto, consente di spiegare e giustificare alcuni passaggi motivazionali della sentenza di appello eccessivamente semplificativi.

E’ questa valutazione congiunta che consente di ritenere spiegata la ricostruzione dell’accaduto in termini compatibili con la contestazione, ossia, per quanto interessa, con la volontarietà dell’esplosione del colpo, con modalità e in circostanze tali da integrare la condotta colposa; in assenza di situazioni giustificative quali l’uso legittimo delle armi, se non addirittura il caso fortuito.

A ben vedere, i ricorsi, pur ampiamente motivati, si risolvono in una lettura alternativa, ampiamente opinabile, degli elementi di prova acquisiti e, anzi, prima ancora, nella rappresentazione, altrettanto opinabile, di una vera e propria diversa verificazione dell’accaduto, frutto, per lo più, solo della rappresentazione soggettiva dello stesso imputato.

In realtà, dietro l’apparente schermo di una censura articolata sulla violazione della disciplina di settore in materia di valutazione delle prove e sul vizio di motivazione, si vuole qui proporre alla Corte di legittimità di procedere ad un’inammissibile attività di controllo sull’apprezzamento di merito dei mezzi di prova assunti, nel difetto delle condizioni di legge.

E’ una censura che si articola soprattutto nella pretesa di una "rilettura" delle risultanze degli elaborati tecnici esaminati dai giudici del merito e posti alla base della decisione (principalmente, la consulenza tecnica del PM, convergentemente valorizzata sia in primo che in secondo grado).

E’ pacifico, invece, che la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento.

Del resto, l’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), quando esige che il vizio della motivazione risulti dal testo del provvedimento impugnato, non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali o una diversa interpretazione delle prove, perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali.

Nè questa interpretazione può risultare superata in ragione della modifica apportata alla citata disposizione dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 dalla con la previsione che il vizio di motivazione può essere dedotto quando risulti non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche "da altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame".

Infatti, anche alla luce del nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. n. 46 del 2006, non è tuttora consentito alla Corte di cassazione di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti ovvero ad una rivalutazione del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamenti riservati in via esclusiva al giudice di merito, giacchè la previsione secondo cui il vizio della motivazione può risultare, oltre che dal "testo" del provvedimento impugnato, anche da "altri atti del processo", purchè specificamente indicati nei motivi di gravame, non ha affatto trasformato il ruolo ed i compiti del giudice di legittimità, il quale è tuttora giudice della motivazione, senza essersi trasformato in un ennesimo giudice del fatto.

In questa prospettiva, allorchè si deduca il vizio di motivazione risultante dagli "atti del processo", non è sufficiente che detti atti siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante o con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità nè che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudice.

Occorre, invece, che gli "atti del processo" su cui fa leva il ricorrente per sostenere la sussistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione.

Pertanto, il giudice di legittimità è chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica ed internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernente "atti del processo".

Tale controllo è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale "esistenza" della motivazione e sulla permanenza della "resistenza" logica del ragionamento del giudice.

Mentre resta precluso al giudice di legittimità, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: operazioni, queste, che appunto trasformerebbero la corte di legittimità nell’ennesimo giudice del fatto (cfr., tra le tante, Sezione 4^, 6 novembre 2009, D’Alesio, non massimata).

In questa prospettiva, non può affatto sostenersi che la ricostruzione della vicenda operata dal giudice del merito in primo e in secondo grado, secondo il procedimento di integrazione di cui si è detto, attraverso anche una attenta (e affatto contraddittoria) analisi degli esiti della consulenza tecnica, presti il fianco a censure di manifesta illogicità o presenti palesi contraddittorietà argomentative.

Del resto, lo stesso ricorrente, quando si duole della mancata rinnovazione del dibattimento per l’effettuazione di nuova perizia, pone alla base della pretesa solo la diversa ricostruzione soggettiva del fatto che il giudice di primo grado ha definito "ondivaga" e si esprime comunque in termini genericamente dubitativi e, comunque, non evidenzia quali concreti discrasie abbiano attinto la disamina operata dal giudicante sugli elaborati tecnici.

In nessun modo è quindi spiegata la complessiva "non tenuta" della motivazione della condanna nei termini di cui si è detto.

Nè le conclusioni mutano volendo soffermare l’attenzione sulla doglianza incentrata sulla mancata rinnovazione dell’accertamento tecnico.

Infatti, una rinnovazione del dibattimento quale quella prospettata dal ricorrente, specie se finalizzata alla effettuazione di un’attività squisitamente discrezionale quale è quella del conferimento di un incarico peritale, avrebbe finito a ben vedere con il contraddire il carattere assolutamente eccezionale dell’istituto.

Pertanto, lungi dal potersi ravvisare specifico vizio di motivazione, non può che evidenziarsi la linearità e correttezza della decisione quando non ha dato ingresso alla rinnovazione della perizia.

Ciò in ossequio al principio secondo cui, nel giudizio d’appello, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è istituto di carattere eccezionale, in relazione al quale vale la presunzione che l’indagine istruttoria abbia ormai raggiunto la sua completezza nel dibattimento svoltosi innanzi al primo giudice.

L’art. 603 c.p.p., comma 1, infatti, non riconosce carattere di obbligatorietà all’esercizio del potere del giudice d’appello di disporre la rinnovazione del dibattimento, anche quando è richiesta per assumere nuove prove, ma vincola e subordina tale potere, nel suo concreto esercizio, alla rigorosa condizione che il giudice ritenga, nella sua discrezionalità, di non poter decidere allo stato degli atti.

In una tale prospettiva, se è vero che il diniego dell’eventualmente invocata rinnovazione dell’istruzione dibattimentale deve essere spiegato nella sentenza di secondo grado, la relativa motivazione (sulla quale, nei limiti della illogicità e della non congruità, è esercitabile il controllo di legittimità) può anche ricavarsi per implicito dal complessivo tessuto argomentativo, qualora il giudice abbia dato comunque conto delle ragioni in forza delle quali abbia ritenuto di potere decidere allo stato degli atti (Sezione 4^, 6 novembre 2009, n. 43966,Morelli, rv. 245526).

Ma anche in ossequio al principio secondo cui la perizia qui, quella balistica è mezzo di prova neutro ed è sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova anche attraverso proprie consulenze.

La sua assunzione è pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità, anche ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), (cfr. Sezione 6^, 25 novembre 2008, Brettoni, non massimata).

Quanto poi alla corretta qualificazione del fatto, va detto che la Corte di merito ha correttamente escluso la sussistenza della scriminante di cui all’art. 53 c.p..

I fatti accertati mostrano, invero, che l’imputato ha fatto uso delle armi nell’ambito dell’attività di polizia giudiziaria, non per difendere un diritto, proprio o altrui, da un’aggressione.

La motivazione sul punto è adeguata ed immune da vizi logici, laddove è stata esclusa una situazione "di fatto" che poteva consentire di evocare legittimamente la scriminante.

La necessità di respingere una violenza o vincere una resistenza ovvero di impedire determinati delitti costituisce, infatti, presupposto oggettivo per la legittimità dell’uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica, ai fini, quindi, dell’applicabilità dell’esimente di cui all’art. 53 c.p..

Tale requisito va inteso, anzitutto, come applicazione del principio per cui l’uso delle armi o di altri mezzi di coazione deve costituire extrema ratio nella scelta dei metodi necessari per l’adempimento del dovere: diventa cioè legittimo solo ove non vi sia altro mezzo possibile.

Va interpretato, inoltre, come espressione dell’esigenza di una gradualità nell’uso dei mezzi di coazione (tra più mezzi di coazione ugualmente efficaci, occorrerà scegliere allora quello meno lesivo).

Infatti, deve ritenersi sussistente, quale limite non espressamente nominato nell’art. 53 c.p., ma implicitamente deducibile dalla disposizione e, comunque, applicabile quale principio generale dell’ordinamento giuridico, valido anche nella disciplina delle cause di giustificazione, il principio di "proporzione", inteso come espressione di un bilanciamento tra interessi contrapposti alla luce della situazione concreta.

Da ciò derivando che è regola irrinunciabile quella di graduare l’uso dell’arma secondo le esigenze specifiche del caso e sempre in ambito di proporzione: potrà essere sufficiente sparare in aria (a scopo intimidatorio e di coazione psichica) oppure ai lati del soggetto agente (sempre con intenti persuasivi) e così via, potendosi ammettere soltanto quale extrema ratio la possibilità di mirare e sparare al corpo della persona, giustificabile solo ove il conflitto riguardi interessi di valore assoluto.

Per l’effetto, soltanto se si perviene a ritenere legittimo l’uso delle armi e si riscontra il rispetto dell’essenziale requisito della proporzione, il rischio del verificarsi di un evento non voluto, più grave, rispetto a quello perseguito dall’agente, non può essere posto a carico dell’operante.

Mentre se si apprezza un errore valutativo, riguardante il limite imposto dalla necessità di respingere la violenza o vincere la resistenza ovvero il criterio della proporzione, deve ravvisarsi responsabilità penale a titolo di eccesso colposo ex art. 55 c.p. (cfr. Sezione 4^, 15 novembre 2007, n. 854, Saliniti, rv.238335).

Qui, come detto, la ricostruzione operata in sede di merito ha escluso la sussistenza dei presupposti della necessità di respingere una violenza, legittimanti l’invocabilità della scriminante, e una rinnovazione sul punto è preclusa in questa sede.

Per lo stesso motivo non è utilmente invocabile, come, invece, sostenuto dalla difesa, l’art. 2, comma 2, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Parimenti, è destituito di fondamento il riferimento all’uso legittimo delle armi, attraverso il rinvio a specifica disposizione di legge in materia di contrabbando, la cui applicazione, proprio perchè normativa di carattere eccezionale, non è consentita in via analogica (v. Sezione 4^, 13 marzo 1986, n. 9285, Rigano, rv.

173717).

Neppure potrebbe prospettarsi, allora, l’eccesso colposo, perchè, come è noto, allorquando non sussistano gli estremi della causa di giustificazione, neppure putativa qui, l’uso legittimo delle armi, non può neppure configurarsi l’eccesso colposo di legittima difesa, il quale, a norma dell’art. 55 c.p., presuppone in ogni caso l’esistenza della causa di giustificazione, fosse pure putativa, e si qualifica ulteriormente per il superamento, per colpa, dei limiti fissati dalla legge per l’esercizio della stessa.

In realtà, la causa di giustificazione "tipica" e il relativo eccesso colposo presuppongono identità di situazioni e si differenziano unicamente in ordine all’elemento della adeguatezza della reazione (Sezione 1^, 18 giugno 2009, Campanella, non massimata).

Anche la prospettata invocabllità del caso fortuito, a tacer d’altro, è frutto della già rilevata prospettazione soggettiva, che non può trovare ingresso in questa sede, dove certo non può procedersi a "ricostruire" in termini diversi da quelli operati in sede di merito, l’evento come verificatosi: in particolare, le modalità che avrebbero determinato l’esplosione del colpo.

Mentre, sempre per corrispondere alle censure della difesa, neppure può escludersi la ravvisata colposità della condotta, evocando il tema della prevedibilità/imprevedibilità dell’evento.

Va solo ricordato, in diritto, che, in tema di reato colposo, l’applicazione del principio di colpevolezza esclude qualsivoglia automatico addebito di responsabilità, a carico di chi pure ricopre la posizione di garanzia, imponendo la verifica in concreto della violazione da parte di tale soggetto della regola cautelare generica o specifica e della prevedibilità ed evitabilità dell’evento dannoso che la regola cautelare mirava a prevenire la c.d.

"concretizzazione" del rischio.

Infatti, l’individualizzazione della responsabilità penale impone di verificare non soltanto se la condotta abbia concorso a determinare l’evento ciò che si risolve nell’accertamento della sussistenza del "nesso causale" e se la condotta sia stata caratterizzata dalla violazione di una regola cautelare (generica o specifica) ciò che si risolve nell’accertamento dell’elemento soggettivo della "colpa", ma anche se l’autore della stessa nella specie, il titolare della posizione di garanzia in ordine al rispetto della normativa precauzionale che si ipotizzava produttiva di evento lesivo mortale potesse "prevedere" ex ante quello "specifico" sviluppo causale ed attivarsi per evitarlo.

In quest’ottica ricostruttiva, occorre poi ancora chiedersi se una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) avrebbe o no "evitato" l’evento: ciò in quanto si può formalizzare l’addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l’esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili, significative probabilità di scongiurare il danno (v. la già citata sentenza Sezione 4^, 6 novembre 2009, Morelli).

Ebbene, in questa prospettiva, venendo al caso concreto, a fronte del ravvisato colposo utilizzo dell’arma di ordinanza, in un contesto che non lo legittimava, con l’esplosione del colpo nei termini come ricostruiti tecnicamente nel processo di merito, non può affatto evocarsi correttamente il tema dell’imprevedibilità ex ante dell’evento mortale come poi verificatosi, risultando a tal fine irrilevante la specifica posizione assunta dal passeggero dell’autovettura, attinta dall’esplosione del colpo, trattandosi comunque di evenienza affatto eccezionale e comunque verificabile solo ex post..

E’ evidente che rimane assorbita dalla decisione la richiesta formulata ex art. 612 c.p.p. con i motivi di impugnazione di sospensione dell’esecuzione della condanna civile.

La natura della decisione impone che sia posto a carico dell’imputato il rimborso delle spese sostenute dalle parti civili in questo giudizio, liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali perchè estinto il reato per prescrizione.

Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese in favore delle costituite parti civili;

liquida quella in favore di Hu.Ra. e H.T., unitamente e complessivamente in Euro 3000,00, oltre accessori come per legge; quelle in favore di H.D. in Euro 2.500,00, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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