Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 11-02-2011) 12-04-2011, n. 14635

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Adele del foro di Catanzaro.
Svolgimento del processo

Con ordinanza in data 12.7.2010, il Tribunale del Riesame di Reggio Calabria confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa dal GIP del Tribunale di Reggio Calabria in data 20.5.2010 nei confronti di P.A., accusato del delitto di cui all’art. 416-bis c.p., per aver svolto il ruolo di partecipe nel gruppo che faceva riferimento a F.G., agendo per il controllo di ampi spazi del territorio milanese e lo sviluppo in quella zona delle attività delittuose del gruppo.

Il Tribunale riteneva che, anche non utilizzando la corrispondenza epistolare tra l’indagato e F.G., illegittimamente intercettata, emergeva comunque, soprattutto dal complesso delle conversazioni telefoniche ed ambientali intercettate, un solido quadro indiziario a carico del P. in ordine al delitto ascrittogli.

Dalle intercettazioni, infatti, era emerso che il clan Pesce si era stabilmente insediato in Lombardia dove, tra l’altro, aveva interessi nel campo della vendita in forma ambulante di beni di ristoro, realizzando ingiusti profitti – avvalendosi della forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo e dalle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne deriva – grazie alle estorsioni compiute ai danni di commercianti del settore.

Le indagini conseguenti alle dichiarazioni rese da F.R., che aveva collaborato con gli inquirenti, avevano consentito di accertare le attività illecite della famiglia Pesce a Milano, gestite da F.G. il quale, nel settore sopra indicato, si serviva di L.C. e P.A..

Il Tribunale, dopo aver esaminato il complesso degli accertamenti, e in particolare il contenuto di conversazioni intercettate, concludeva che:

– il clan Pesce era stabilmente insediato in Lombardia, dove aveva anche interessi nel campo della vendita di beni di ristoro;

– F.G. era il principale referente del clan per gli aspetti più strettamente legati al controllo di quel territorio;

– L. e P. avevano di fatto gestito almeno un camion attrezzato per la vendita di beni di ristoro per conto di F., in una zona di Milano controllata dal clan Pesce:

– i predetti si erano anche occupati della riscossione del pizzo, in territorio milanese, per conto del clan;

– al pagamento del pizzo a L. e P. si erano assoggettati alcuni personaggi – tali Po. non meglio identificati – resisi in seguito protagonisti di una controversia nata da contestazioni sull’appartenenza al clan Pesce di L.C.;

– per dirimere detta controversia si erano recati in Calabria, in momenti diversi, sia i Po. sia L. e P., e tutti avevano incontrato il reggente del clan – Pe.Gi. – sottoponendosi al suo insindacabile giudizio. Il Tribunale, infine, non condivideva le deduzioni difensive – volte ad interpretare la disponibilità del P. quale un mero sentimento di amicizia che lo legava a F.G. – in quanto dissonanti con le conversazioni intercettate, dalle quali invece risultava la piena condivisione da parte del P. alle dinamiche e alle logiche del gruppo.

Avverso la suddetta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione il difensore di P.A., chiedendone l’annullamento per mancanza e contraddittorietà della motivazione con atti indicati dalla difesa ed allegati alla memoria difensiva depositata all’udienza camerale.

Secondo il ricorrente, dagli atti indicati dalla difesa emergeva, contrariamente a quanto ritenuto dal Tribunale, che P. non aveva gestito, insieme a L.C., un camion attrezzato per la vendita di beni di ristoro in una zona di Milano controllata dal clan Pesce.

In particolare, dalla intercettazione indicata dalla difesa si evinceva chiaramente che il proprietario del suddetto camion era solo L.C.. Dalla stessa conversazione, se interpretata correttamente, emergeva che nè L. nè P. andavano a riscuotere soldi per conto di F.G. e che i predetti L. e P. si erano rifiutati di compiere le attività illecite che F. da loro pretendeva.

Il Tribunale, nel ricostruire la vicenda, non aveva tenuto conto della versione fornita dal P. nel suo interrogatorio.

Circa le richieste rivolte da F. a P. alla fine della suddetta conversazione, non vi erano elementi da cui desumere che quest’ultimo avesse soddisfatto le richieste di F., ed anzi non era illogico ritenere che, dopo l’accesa conversazione, non avesse avuto la forza di opporre l’ennesimo diniego e avesse solo finto di assecondarlo.

Il Tribunale non aveva considerato, infine, che P. intratteneva rapporti solo con F.G., che è suo cugino, e che il bisogno di denaro che questi manifestava era di tipo personale e non finalizzato ad incrementare le casse dell’organizzazione criminosa.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile, non essendo deducibili in questa sede di legittimità motivi di fatto che questa Corte non ha modo di apprezzare, non essendo suo compito esaminare il contenuto degli elementi di prova posti alla base del provvedimento impugnato.

Il ricorrente ha incentrato il ricorso sul contenuto soprattutto di una conversazione telefonica, la cui interpretazione è stata sottoposta al Tribunale del Riesame, illustrandola con apposita memoria.

Nel ricorso si sostiene che da detta conversazione telefonica e dagli altri atti indicati nella memoria emergerebbe che P. non curava la gestione del camion attrezzato per la vendita in Milano di beni di ristoro; che P. e L. non avevano il compito e comunque si erano rifiutati di compiere le attività illecite che F.G. pretendeva da loro; che P., in occasione di quella conversazione telefonica intercettata, aveva solo fatto finta di cedere alle insistenze del F., perchè non aveva avuto la forza di opporre l’ennesimo diniego.

In definitiva, nel ricorso viene proposta a questa Corte una interpretazione alternativa delle risultanze processuali, senza però indicare specifici errori di logica, contraddizioni, carenze di motivazione rilevabili dalla motivazione del provvedimento impugnato.

Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile e a questa dichiarazione consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di prova circa l’assenza di colpa nella proposizione dell’impugnazione (Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 2000), al versamento della somma alla Cassa delle Ammende indicata nel dispositivo, ritenuta congrua da questa Corte.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di euro mille alla Cassa delle Ammende.

Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1-ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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