Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 31-01-2011) 12-04-2011, n. 14547

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

e della pena.
Svolgimento del processo

1. – Con sentenza del 20 luglio 2007, emessa nelle forme del giudizio abbreviato il G.u.p. del Tribunale di Palermo ha dichiarato colpevoli:

– D.M.A. dei reati di associazione mafiosa (capo 17), di danneggiamento (capi 2, 3, 4), di estorsione (capi 9, 10 e 18), di trasferimento illegale di valori (capo 12) e di detenzione di armi (capo 5) e ritenuta la continuazione tra essi, lo ha condannato alla pena di anni 10 e mesi 4 di reclusione ed Euro 6.000,00 di multa;

– D.S. dei reati di associazione mafiosa (capo 17) e di estorsione aggravata (capo 16) e ritenuti i reati in continuazione tra essi e con altri reati oggetto di una precedente sentenza divenuta definitiva, lo ha condannato alla pena di anni 13 e mesi 6 di reclusione;

– V.V. dei reati di partecipazione ad associazione mafiosa (capo 1) e di estorsione (capo 9) e ritenuti i reati in continuazione tra essi e con altri reati oggetto di una precedente sentenza divenuta definitiva, lo ha condannato alla pena di anni 8 e mesi 6 di reclusione.

Inoltre, gli imputati sono stati condannati, in solido, al risarcimento dei danni in favore delle parti civili costituite, S.O.S. Impresa Palermo, Federazione delle Associazioni Antiracket ed antiusura italiane (F.A.I.) e Comitato Addiopizzo.

2. – La Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, con riferimento alla posizione di D. M.A., ha dichiarato non doversi procedere in ordine al reato di danneggiamento contestato al capo 3) per mancanza di querela, ha qualificato come tentate le estorsioni di cui ai capi 10 e 18, rideterminando in anni 8, mesi 8 di reclusione ed Euro 4.800,00 di multa la pena per i restanti reati; inoltre, ha assolto D. S. dal reato di estorsione aggravata (capo 16) perchè il fatto non sussiste, rideterminando la pena per il residuo reato associativo, in relazione al quale ha escluso l’aggravante di cui all’art. 416-bis c.p., comma 2, ad anni 9, mesi 9 e giorni 23 di reclusione; infine, ha confermato la responsabilità di V. V. in ordine ai due reati contestatigli, ma ha ridotto la pena ad anni 4, mesi 10 e giorni 20 di reclusione.

3. – Secondo la Corte d’appello l’inserimento di D.M. all’interno del sodalizio mafioso (capo 17) sarebbe dimostrato da un impegno costante, orientato alla realizzazione delle finalità dell’associazione mafiosa, di cui rappresentano un sintomo significativo le diverse condotte delittuose contestate in questo processo all’imputato.

Per quanto riguarda i reati di danneggiamento aggravati contestati al D.M. (capi 2 e 4), la sentenza ha precisato che il ruolo di coordinatore da questi svolto nelle azioni criminose è emerso dalle indagini effettuate dalla p.g. che ha potuto seguire le singole azioni delittuose con precisione "militare" attraverso il sistema di localizzazione satellitare, individuando con esattezza i luoghi dei vari "attentati" e verificando che gli esecutori materiale dei danneggiamenti si sono recati più volte proprio a casa di D.M. A..

Nella vicenda estorsiva ai danni di B. (capo 9) i giudici territoriali ritengono provata la partecipazione dell’imputato, soprattutto sulla base della conversazione intercettata il 27.9.2003, nell’abitazione di P., quando, presente anche D.M., in relazione al progetto edilizio di un complesso di villette nella zona di Carini vengono richiesti al B. 500 milioni e l’assicurazione di sub-appalti, in cambio la famiglia avrebbe "curato" i rapporti con l’amministrazione competente ad emettere le necessarie autorizzazioni.

Anche nell’estorsione ai danni di B. (capo 10), ritenuta nella forma tentata, i giudici hanno affermato il pieno coinvolgimento dell’imputato, utilizzando le conversazioni intercettate del 2 e 9 ottobre 2003, tra P.V. e C.A..

I giudici territoriale hanno, inoltre, respinto l’eccezione di nullità ex art. 522 c.p.p., proposta in relazione alla condotta contestata al capo 12), qualificata ai sensi della L. n. 356 del 1992, art. 12-quinquies.

4. – Riguardo alla posizione di D. la Corte d’appello, dopo aver premesso che in precedenti sentenze, tra cui quella della Corte d’assise di Palermo del 14.12.1990, l’imputato era già stato condannato per reati associativi mafiosi, in quanto era risultato appartenere alla famiglia di Partanna Mondello sulla base delle dichiarazioni accusatorie di B.T., Co.

S., Ca.An. e M.M., ha ritenuto che le comunicazioni intercettate nel presente processo abbiano fornito la prova dell’attualità del ruolo dell’imputato all’interno della medesima famiglia mafiosa. In particolare, dalle conversazioni intercettate i giudici territoriali hanno desunto elementi di prova circa il ruolo dell’imputato nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, ruolo di rilievo consistito nell’intervenire nelle negoziazioni aventi ad oggetto beni immobili di rilevante valore, gestendo affari anche per conto di L.P.S., latitante. La tesi dei giudici di secondo grado è che il D. abbia sempre mantenuto legami saldi con l’associazione e che dopo il lungo periodo di detenzione a seguito della condanna riportata si sia messo nuovamente a disposizione dell’associazione per il perseguimento dei fini illeciti nella zona di sua competenza, come dimostrerebbe la trattativa condotta per l’acquisto di un terreno a scopo edificatorio, in cui l’intervento del D. sarebbe stato funzionale a far ottenere somme di denaro all’organizzazione in relazione all’attività di intermediazione immobiliare svolta per conto della famiglia, nonchè per assicurare sostegno economico alle famiglie dei detenuti e dei latitanti. Elementi che confermano l’appartenenza dell’imputato alla famiglia di Partanna, in una posizione di prestigio e di rispetto, anche se i giudici hanno escluso che abbia avuto un effettivo ruolo di direzione e di organizzazione.

5. – Per quanto concerne la posizione di V. la Corte d’appello ha premesso che questi in precedenti giudizi era già stato ritenuto un uomo d’onore della famiglia di Carini, collocazione che viene ritenuta ancora attuale in relazione ai risultati probatori emergenti da questo processo. Nella sentenza in oggetto le prove sono costituite soprattutto dalle intercettazioni, come quella del 9.6.2003, tra C. e P., in cui quest’ultimo riferendosi al V., gli rimprovera una serie di condotte poco "corrette" nel trattare alcuni affari nei quali era interessata la famiglia mafiosa, tra cui le vicende dei villini da costruire in località (OMISSIS) e le richieste di denaro a A. L..

Sempre in forza dei risultati delle intercettazioni è stato ritenuto responsabile anche dell’estorsione ai danni di B..

6. – Tutti gli imputati hanno presentato ricorso per cassazione.

6.1. – Gli avvocati Giuseppe Giambanco e Marco Maria Monaco hanno proposto ricorso per cassazione, nell’interesse di D.M. A..

Preliminarmente hanno eccepito l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche e ambientali in relazione alle modalità di apposizione delle microspie e alla motivazione in ordine all’utilizzazione di impianti di intercettazione diversi da quelli in uso in Procura.

Sotto il primo profilo viene eccepita l’incostituzionalità dell’art. 266 c.p.p., comma 2 e D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 13 convertito nella L. 12 luglio 1991, n. 203, in materia di intercettazioni ambientali, in riferimento all’art. 14 Cost., nella parte in cui consentono, fra le modalità operative delle captazioni di conversazioni, la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora in assenza di una specifica disciplina legislativa che tassativamente indichi i casi e i modi in cui sia consentita la limitazione della "libertà domiciliare". In particolare, si ritiene contraria alla norma costituzionale indicata la attuale disciplina che non prevede alcuna indicazione da parte del pubblico ministero delle attività che devono essere compiute al fine di immettersi nella privata dimora e che non impone la redazione di un verbale di posizionamento delle microspie, da cui risulti la data, l’ora, i soggetti che hanno agito, con la specificazione di quanto compiuto.

Sotto un distinto profilo viene eccepita l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni per violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3, rilevando la violazione dell’art. 8 CEDU nei casi in cui la disciplina normativa non preveda in modo concreto l’effettivo controllo delle operazioni di captazione da parte del giudice.

Pertanto, si sostiene che la mancata indicazione specifica delle modalità esecutive da seguire e degli strumenti da utilizzare, al pari dell’assenza di una completa verbalizzazione dell’attività di polizia giudiziaria, impedendo il controllo giurisdizionale, determina una inutilizzabilità delle intercettazioni ovvero una illegittimità costituzionale della norma per violazione dell’art. 14 Cost..

In conclusione, la mancata verbalizzazione delle modalità esecutive scelte dagli agenti operanti per il posizionamento delle microspie ha impedito un effettivo controllo giurisdizionale, da qui la inutilizzabilità delle intercettazioni ambientali disposte.

Con separato motivo si censura la sentenza per avere, in assenza della contestazione relativa alle aggravanti di cui all’art. 635 c.p., comma 2 e di un valido atto di querela, dichiarato l’infondatezza della questione sulla improcedibilità dei reati di danneggiamento di cui ai capi 2) e 4).

Con un successivo motivo si deduce la mancanza assoluta di motivazione in ordine alla conferma delle condanne relative ai reati di danneggiamento di cui ai capi 2) e 4) e al reato di detenzione di arma di cui al capo 5). Nonostante nell’atto di appello fossero stati dedotti specifici rilievi critici su tali imputazioni, la Corte territoriale non ha offerto alcuna risposta.

Con riferimento alla conferma della condanna per il tentativo di estorsione ai danni di Bi.Gi. (capo 9), i ricorrenti hanno dedotto il vizio di motivazione, sostenendo che i giudici di secondo grado non avrebbero fornito alcuna risposta ai rilievi contenuti nell’atto di impugnazione in cui si evidenziava la assenza di ogni forma di intimidazione rivolta nei confronti della vittima, la quale, invece, aveva agito in piena autonomia, ritenendo opportuno rivolgersi a quelle persone che considerava idonee ad agevolare la propria attività imprenditoriale, situazione questa che non poteva portare alla configurabilità di un’ipotesi di estorsione.

Peraltro, si contesta la sentenza che ha fondato la responsabilità dell’imputato su un’unica intercettazione, trascurando il contesto complessivo delle indagini eseguite.

L’assenza di motivazione viene dedotta anche in relazione alla tentata estorsione contestata al capo 10, là dove la sentenza sostiene, apoditticamente, il concorso dell’imputato nel reato solo in quanto cognato di P.V..

Con riferimento alla condanna per il reato di trasferimento fraudolento di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12-quinquies (capo 12) si deduce la violazione dell’art. 522 c.p.p., in ordine alla mancata correlazione tra accusa e sentenza, in quanto all’imputato è stata attribuita una condotta del tutto diversa da quella contenuta nell’originaria contestazione di riciclaggio.

Nel merito, inoltre, si contesta la sussistenza del reato, non risultando motivata la ritenuta riferibilità della società Giellei Electro Trading al D.M..

L’assoluta mancanza di motivazione viene dedotta anche in relazione al capo 18), per quanto concerne l’estorsione ai danni di S. G., in concorso con V. e i P.. hi relazione al reato associativo di cui al capo 17) si deduce il vizio di motivazione, in quanto la sentenza non avrebbe dimostrato l’appartenenza dell’imputato all’organizzazione criminale e, soprattutto, avrebbe omesso di rispondere alle specifiche critiche avanzate nell’atto di appello.

Con gli ultimi tre motivi è stata denunciata l’erronea applicazione dell’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7, ritenuta incompatibile con il reato di cui all’art. 416-bis c.p., e della recidiva, erroneamente applicata in base alla nuova formulazione, nonchè l’applicazione di pena illegale.

6.2. – Nell’interesse di D. ha presentato ricorso per cassazione il difensore di fiducia, avvocato Salvatore Petronio.

Con il primo motivo ha dedotto la manifesta illogicità della motivazione, rilevando che i giudici di secondo grado hanno ritenuto la responsabilità dell’imputato esclusivamente in base ai risultati di intercettazioni de relato. Da questi elementi hanno desunto l’appartenenza del D. nell’ambito della associazione mafiosa, attribuendogli la qualifica di capo della famiglia di Partanna, attraverso un vero e proprio travisamento delle conversazioni, da cui non emergerebbe affatto quanto desunto in sentenza. Peraltro, si sottolinea l’insufficienza delle prove a dimostrare la responsabilità dell’imputato, trattandosi di intercettazioni aventi ad oggetto conversazioni riguardanti un terzo, senza che risulti in maniera univoca che i dialoganti si riferivano all’imputato e che discorressero di attività illecite. Secondo il ricorrente l’attribuzione della condotta illecita, consistita soprattutto nell’effettuare negoziazioni immobiliari nell’interesse dell’associazione, sarebbe il frutto di valutazioni del tutto apodittiche.

Con il secondo motivo ha denunciato l’erronea applicazione dell’art. 416-bis c.p., in quanto nella sentenza non viene data alcuna prova circa l’asserito ruolo del D. all’interno dell’associazione mafiosa.

Con l’ultimo motivo il ricorrente ha eccepito l’inutilizzabilità dell’intercettazione tra presenti svoltasi il 20.1.2004 all’interno dei locali della ditta S.B.S. s.r.l., tra G.S. e C.F., in quanto sarebbe stata effettuata in mancanza del provvedimento di proroga.

6.3. – L’avvocato Gaetano La Barbera ha proposto ricorso nell’interesse di V..

Con il primo motivo, ha censurato la sentenza per l’omessa acquisizione di una prova decisiva, costituita dalle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Pu.Ga. in data 22 gennaio 2008, in relazione alle quali la difesa dell’imputato aveva chiesto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, istanza accolta con ordinanza del 15 dicembre 2008 che aveva disposto l’acquisizione del verbale dell’interrogatorio, ma poi inspiegabilmente respinta con motivazione illogica, nonostante tale dichiarazione escludesse l’attuale coinvolgimento dell’imputato nell’associazione mafiosa, segnalando l’esistenza di contrasti con il parente P. una volta allontanatosi dall’organizzazione criminale e l’assenza di condotte poste in essere nell’interesse dell’associazione. In sostanza, si ritiene che vi sia stato un vizio di motivazione per omesso esame di una prova decisiva, sopravvenuta al giudizio di primo grado.

Con il secondo motivo il ricorrente ha censurato la sentenza per avere ritenuto l’imputato partecipe dell’associazione nell’ambito della famiglia di Carini, anche in epoca successiva alla precedente sentenza irrevocabile di condanna per il medesimo reato associativo, solo perchè non sarebbero emerse dalle intercettazioni le prove della sua eventuale dissociazione. In altri termini, secondo i giudici la natura permanente del reato associativo la cui esistenza è stata accertata con sentenza determinerebbe una sorta di presunzione di affiliazione, che può essere superata dalla prova della dissociazione da parte dell’imputato, in questo modo operando un’inversione dell’onere probatorio. Tale impostazione è oggetto di critica, in quanto si assume che la Corte d’appello per poter ritenere che il V. abbia continuato a far parte della famiglia di Carini, avrebbe dovuto motivare in ordine al ruolo concretamente svolto in seno all’organizzazione in epoca successiva al settembre 2001, il che non è stato fatto, essendosi limitata ad affermare che questi conosceva alcuni sodali dell’associazione e condivideva i fini di essa, seppure agiva per il soddisfacimento di interessi personali.

Sotto altro profilo si sottolinea, ancora, l’omessa valutazione del verbale delle dichiarazioni del collaboratore P.G., da cui risulterebbe comunque la dissociazione dell’imputato.

Il terzo motivo riguarda la ritenuta partecipazione alla tentata estorsione ai danni di B. (capo 9). Secondo il ricorrente dalle due telefonate intercettate non emergerebbe il coinvolgimento del V. al di là di ogni ragionevole dubbio; inoltre, anche con riferimento a questa vicenda viene fatto rilevare il vizio motivazionale collegato alla omessa acquisizione delle dichiarazioni di P..

6.4. – Con riferimento alla posizione di V. il procuratore generale presso la Corte d’appello di Palermo ha presentato ricorso per cassazione, deducendo l’erronea applicazione dell’art. 81 cpv. c.p. per avere la sentenza impugnata rideterminato la pena senza tenere conto della condanna inflitta dal primo giudice a titolo di continuazione con la sentenza del 19 luglio 2002 emessa dalla Corte d’appello di Palermo, aumento peraltro considerato nella motivazione.
Motivi della decisione

7. – Con riferimento al ricorso proposto nell’interesse di D.M. A. si osserva, preliminarmente, che deve ritenersi manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 266 c.p.p., comma 2 e L. n. 203 del 1991, art. 13 in relazione all’art. 14 Cost. eccepita con il primo motivo. Questo Collegio, in linea con la prevalente giurisprudenza della Corte di cassazione, ritiene che la collocazione di microspie all’interno di un luogo di privata dimora costituisce una delle naturali modalità di attuazione delle intercettazioni, che sono un mezzo di ricerca della prova funzionale al soddisfacimento dell’interesse pubblico all’accertamento di gravi delitti, tutelato dal principio dell’obbligatorietà dell’azione penale di cui all’art. 112 Cost., con il quale il principio di inviolabilità del domicilio deve coordinarsi, subendo la necessaria compressione, al pari di quanto previsto dall’art. 15 Cost. in tema di libertà e segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione (v. Sez. 1^, 2 ottobre 2007, n. 38716, Biondo; Sez. 4^, 28 settembre 2005, n. 47331, Cornetto offre P.M.; Sez. 6^, 10 novembre 1997, n. 4397, Greco).

Ne deriva l’infondatezza del connesso motivo con cui il ricorrente ha dedotto l’inutilizzabilità delle intercettazioni per la mancanza di indicazioni e di controllo da parte dell’autorità giudiziaria sulle concrete modalità esecutive con cui devono essere installati gli strumenti di captazione, in quanto l’autorizzazione a disporre le operazioni di intercettazioni rende superflua l’indicazione delle modalità da seguire nell’espletamento dell’attività materiale e tecnica da parte della polizia giudiziaria, mentre la prova delle operazioni compiute nel luogo e nei tempi indicati dal giudice stesso e dal pubblico ministero sono offerte dalla registrazione delle conversazioni intercettate (Sez. 1^, 9 dicembre 2003, n. 24539, Rigato).

Del resto già la sentenza impugnata aveva, in maniera molto puntuale e precisa, replicato alle deduzioni della difesa in punto di inutilizzabilità delle intercettazioni, sicchè in questa sede non si può che confermare quanto correttamente ritenuto dal giudice di appello.

Infine, generico è il motivo con cui si deduce la violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3. 7.1. – Fondati sono i motivi riguardanti i reati di danneggiamento contestati ai capi 2) e 4) e il delitto in materia di armi di cui al capo 5).

Per quanto riguarda quest’ultimo delitto la sentenza ha omesso del tutto ogni motivazione, nonostante sul punto l’imputato avesse dedotto motivi specifici. hi ordine alla partecipazione dell’imputato ai due episodi di danneggiamento, nella sentenza il collegamento tra gli esecutori materiale e il D.M. è dato dal fatto che i primi si siano recati presso la sua abitazione, ma si tratta di un elemento che, così come riportato in motivazione, appare insufficiente ad affermare il concorso dell’imputato nei reati in questione, tanto più che non viene neppure indicato in cosa sia consistito il suo contributo alla realizzazione dei delitti, se cioè sia stato il mandante ovvero se abbia svolto altri incarichi, peraltro non potendosi escludere neppure il ruolo di semplice connivente.

Su tali capi l’atto di appello aveva dedotto una serie di censure alle quali il giudice di secondo grado non ha offerto alcuna risposta.

Le evidenti carenze motivazionali impongono l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in relazione ai tre capi sopra indicati.

7.2. – Discorso analogo deve essere fatto per i capi 10) e 18) che si riferiscono a due episodi di tentata estorsione.

Riguardo al capo 10) si osserva che la responsabilità per questa tentata estorsione viene motivata nel senso che l’imputato "non poteva non essere coinvolto anche in questo affare". Si tratta di una motivazione apodittica. Peraltro, dalle stesse intercettazioni riportate in sentenza i riferimenti al D.M. non emergono con chiarezza, anzi vengono riportati brani di intercettazioni in cui il coinvolgimento dell’imputato non risulta in maniera inequivoca, tanto è vero che gli stessi giudici sono costretti a riconoscere che "non sono state acclarate le concrete modalità e circostanze idonee a contestualizzare l’effettiva locupletazione della somma concordata", ma anzichè individuare ulteriori elementi utili ad accertare l’esatto svolgimento dei fatti, individuando il contributo specifico offerto dal D.M., si opta per qualificare il reato di estorsione nella forma tentata, ma la diversa qualificazione non appare certo in grado di eliminare le carenze della motivazione circa il coinvolgimento dell’imputato, carenze che restano immutate.

E’ del tutto mancante la motivazione sul capo 18), nonostante l’atto di appello contenga motivi specifici anche in relazione a questa episodio. In realtà, la sentenza se ne occupa esaminando la posizione di P., qualificando il reato anche in questo caso come tentativo, ma il ruolo del D.M. non è preso in considerazione in maniera specifica, sicchè non risulta accertato il suo apporto concorsuale.

Le evidenti carenze motivazionali impongono l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata in relazione ai due capi sopra indicati.

7.3. – Fondato è pure il motivo con cui il ricorrente ha dedotto la violazione dell’art. 522 c.p.p. con riferimento al delitto di cui alla L. n. 356 del 1992, art. 12-quinquies (capo 12).

Si sostiene che la condanna per il reato di trasferimento fraudolento di valori non sia in correlazione con l’originaria contestazione di riciclaggio.

In effetti le condotte prese in considerazione dalle due fattispecie sono differenti, dal momento che nel riciclaggio si punisce chi effettui operazioni finalizzate ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa del denaro, mentre nell’altro reato si persegue chi elude le misure di prevenzione patrimoniali o anticontrabbando, ovvero agevoli la commissione di reati di ricettazione e di riciclaggio attribuendo fittiziamente ad altri la titolarità o la disponibilità di denaro, beni o altre utilità.

Si tratta di una diversità strutturale anche in considerazione del fatto che l’intestazione fittizia di beni può essere finalizzata ad agevolare lo stesso reato di riciclaggio. Inoltre, nel riciclaggio l’agente persegue lo scopo di rendere disponibili i proventi dell’attività criminosa; nel reato di cui all’art. 12-quinquies cit. l’agente si pone l’obiettivo di impedire che i propri beni siano sottoposti a provvedimenti di prevenzione reale.

Ne consegue che le diverse condotte non sono equivalenti o sovrapponigli, ma configurano diverse modalità del fatto, da intendersi come l’accadimento di ordine naturale dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica", con conseguente violazione del principio di cui all’art. 521 c.p.p., comma 2. Pertanto, per effetto della ritenuta nullità ex art. 522 c.p.p. sia la sentenza impugnata che quella di primo grado devono essere annullate, limitatamente al reato di cui al capo n. 12, per cui gli atti devono essere trasmessi al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.

7.4. – Nel resto il ricorso del D.M. deve essere respinto.

Con riferimento all’episodio di estorsione tentata di cui al capo 9) la sentenza non merita censure, in quanto ha offerto logiche e congrue giustificazioni in ordine al ritenuto coinvolgimento dell’imputato nella trattativa condotta con il B..

Anche per quanto concerne la partecipazione nel reato associativo la sentenza ha ampiamente motivato, mettendo in rilievo il ruolo del D. M. all’interno del sodalizio.

Manifestamente infondato è il motivo con cui il ricorrente ritiene debba essere esclusa l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7. Infatti, non sussiste incompatibilità tra la ritenuta appartenenza ad una associazione mafiosa e l’aggravante di cui all’art. 7 cit. contestata relativamente ai reati-fine realizzati dal soggetto appartenente alla predetta associazione.

Restano assorbiti dai disposti annullamenti gli altri motivi relativi alla determinazione della pena e alla recidiva.

8. – Il ricorso proposto nell’interesse di D. è inammissibile.

8.1. – Per quanto riguarda il motivo di natura processuale, con cui si eccepisce l’inutilizzabilità della conversazione tra G. e Ci. in data 20.1.2004, oggetto di intercettazione ambientale disposta il 26.11.2003, per la tardività con cui sarebbe intervenuto il provvedimento di proroga (21.1.2004), si osserva che il ricorrente ha omesso ogni indicazione sul rilievo che l’eventuale "eliminazione" di tale conversazione avrebbe ai fini del giudizio sulla sua responsabilità in ordine al reato associativo. Peraltro, della conversazione in questione non si fa alcun significativo cenno nella sentenza impugnata, nè nel ricorso stesso là dove si trattano altri motivi, sicchè in questa sede non è neppure possibile conoscere i termini della conversazione, con la conseguenza che la censura dedotta si rivela del tutto inidonea a mettere in crisi la tenuta probatoria della decisione che ha riconosciuto la colpevolezza dell’imputato per il reato associativo contestato sulla base di altri elementi, in particolare di altre conversazioni intercettate, come quelle tra R. e Ci., tra lo stesso D. e G..

Pertanto, il motivo proposto deve considerarsi generico, in quanto il ricorrente nell’eccepire l’inutilizzabilità avrebbe dovuto chiarirne l’incidenza sul complessivo compendio probatorio così come ritenuto dal giudice di merito, in modo tale da mettere in condizione questa Corte di valutare la decisività della censura dedotta in riferimento alla sentenza impugnata (in questo senso, Sez. un., 23 aprile 2009, n. 23868, Fruci).

8.2. – Inammissibili sono anche gli altri motivi dedotti.

In relazione alla censura sul vizio di motivazione deve ribadirsi che il controllo di legittimità non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile, cioè l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti, ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento. Peraltro, l’illogicità della motivazione, come vizio denunciarle, deve essere evidente ("manifesta illogicità"), cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze. In altri termini, l’illogicità della motivazione, deve risultare percepibile ictu oculi, in quanto l’indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali. Inoltre, va precisato, che il vizio della "manifesta illogicità" della motivazione deve risultare dal testo del provvedimento impugnato, nel senso che il relativo apprezzamento va effettuato considerando che la sentenza deve essere logica "rispetto a se stessa", cioè rispetto agli atti processuali citati nella stessa ed alla conseguente valutazione effettuata dal giudice di merito, che si presta a censura soltanto se, appunto, manifestamente contrastante e incompatibile con i principi della logica. I limiti del sindacato della Corte non sono mutati neppure a seguito della nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), intervenuta a seguito della L. 20 febbraio 2006, n. 46, là dove si prevede che il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la motivazione della pronuncia sia "effettiva" e non meramente apparente, cioè realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; non sia "manifestamente illogica", in quanto risulti sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; non sia internamente "contraddittoria", ovvero sia esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; non risulti logicamente "incompatibile" con "altri atti del processo" (indicati in termini specifici ed esaustivi dal ricorrente nei motivi del suo ricorso per Cassazione: cd. autosufficienza) in termini tali da risultarne vanificata o radicalmente inficiata sotto il profilo logico. Alla Corte di Cassazione, infatti, non è tuttora consentito di procedere ad una rinnovata valutazione dei fatti magari finalizzata, nella prospettiva del ricorrente, ad una ricostruzione dei medesimi in termini diversi da quelli fatti propri dal giudice del merito. Così come non sembra affatto consentito che, attraverso il richiamo agli "atti del processo", possa esservi spazio per una rivalutazione dell’apprezzamento del contenuto delle prove acquisite, trattandosi di apprezzamento riservato in via esclusiva al giudice del merito. In altri termini, al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo della motivazione – la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa: un tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto.

Pertanto la Corte, anche nel quadro nella nuova disciplina, è e resta giudice della motivazione.

Nella specie, il ricorrente ripropone una rilettura delle conversazioni intercettate, laddove la sentenza ha offerto una interpretazione del senso di tali conversazioni in base ad una motivazione che in quanto coerente e logica non può essere oggetto di censura in sede di legittimità, in quanto è questione di fatto rimessa all’apprezzamento del giudice di merito (tra le tante v., Sez. 6^, 8 gennaio 2008, n. 17619, Gionta ed altri).

Manifestamente infondate sono, inoltre, le critiche in ordine al rilievo dato in sentenza alle conversazioni de relato, dal momento che alle indicazioni di reità provenienti da conversazioni intercettate non si applica il canone di valutazione di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3, perchè esse non sono assimilabili alle dichiarazioni che il coimputato del medesimo reato o la persona imputata in procedimento connesso rende in sede di interrogatorio dinanzi all’autorità giudiziaria, valendo per esse vale la regola generale del prudente apprezzamento del giudice (Sez. 1, 23 settembre 2010, n. 36218, Pisanello ed altri).

Riguardo al motivo con cui si lamenta la mancata indicazione del ruolo che l’imputato avrebbe ricoperto nell’ambito dell’associazione, si deve rilevare che, a differenza di quanto ritenuto dalla difesa, la sentenza attribuisce al D. una specifica competenza nell’organizzazione criminale, finalizzata a risolvere questioni economiche "in nome e per conto della famiglia di Partanna Mondello", compresa la gestione attinente al sostegno economico dei detenuti e dei latitanti.

8.3. – All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna di D.S. al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della cassa delle ammende, somma che si ritiene equo determinare in Euro 1.000,00. 9. – Il ricorso presentato nell’interesse di V. è infondato.

9.1. – Quanto al primo motivo, con cui si lamenta la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale per acquisire il verbale di interrogatorio del collaboratore P.G., si osserva che il giudice di secondo grado ha ampiamente motivato le ragioni per le quali ha ritenuto di non acquisire la prova nuova richiesta dall’imputato, spiegando che tale prova non sarebbe stata comunque in grado di smontare il compendio probatorio su cui poggiavano le accuse di partecipazione all’associazione e di estorsione. Come è noto, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale è un istituto di carattere eccezionale che ha come suo presupposto l’impossibilità per il giudice di decidere allo stato degli atti; nel caso di specie, la Corte territoriale ha escluso una tale evenienza ed infatti ha precisato di essere in grado di decidere, negando ogni decisività alla prova indicata dall’imputato.

D’altra parte, deve escludersi che la mancata acquisizione delle dichiarazioni del collaboratore possa rilevare ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. d), in quanto per prova decisiva deve intendersi quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante: nella specie, la prova in questione non appare in grado di portare ad un ribaltamento della decisione impugnata, dal momento le dichiarazioni del collaboratore di giustizia non potrebbero mai essere utilizzate senza i necessari riscontri.

9.2. – Infondato è pure il secondo motivo.

La sentenza ha offerto una motivazione logica e coerente circa le ragioni per le quali si è ritenuto che l’imputato fosse partecipe dell’associazione nell’ambito della famiglia di Carini, evidenziando come a dimostrare l’inserimento nel sodalizio siano state alcune intercettazioni da cui è risultato il contributo "concreto e consapevole" dato dal V. all’organizzazione criminosa, sebbene abbia sempre anche cercato di ricavare un proprio e personale tornaconto economico. Il riferimento puntuale è alle conversazioni del 9.6.2003 e del 25.9.2003 tra C.A. e P. V., in cui i dialoganti parlano dell’imputato criticando alcuni comportamenti del V. per avere richiesto somme di denaro a A.L. e per non aver saputo gestire la vicenda B., relativa alla realizzazione di un complesso di villette in località (OMISSIS).

Da tali intercettazioni i giudici hanno desunto che l’imputato, anche successivamente al 2001, abbia sempre continuato ad essere intraneo all’associazione mafiosa, per la quale era stato incaricato di gestire alcuni "affari" nel settore delle estorsioni e in genere di curare i rapporti con gli imprenditori della zona di Carini, peraltro attirandosi le critiche di P., che non sempre ha mostrato di condividerne la gestione. Si tratta di una ricostruzione che appare coerente con le acquisizioni probatorie e che il ricorrente si limita a censurare proponendo una lettura alternativa degli elementi probatori, omettendo di indicare eventuali contraddizioni intrinseche alla motivazione.

9.3. – Deve ritenersi infondato, per le medesime ragioni sopra indicate, anche l’ultimo motivo riguardante il tentativo di estorsione, per il quale la sentenza ha indicato come fonti di prova le telefonate intercettate.

9.4. – All’infondatezza dei motivi consegue il rigetto del ricorso con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

10. – Infine, sempre in relazione alla posizione di V., deve essere rigettato anche il ricorso del procuratore generale in ordine alla determinazione della pena per il mancato aumento a titolo di continuazione con una precedente sentenza.

Effettivamente, mentre nella motivazione la pena indicata è quella di anni sei e giorni venticinque di reclusione, così determinata in seguito all’aumento per il reato di cui ad una precedente condanna, nel dispositivo risulta inflitta la pena di anni quattro, mesi dieci e giorni venti di reclusione, che non tiene conto dell’aumento per la indicata continuazione. Tuttavia, la difformità tra motivazione e dispositivo della sentenza va risolta nel senso della prevalenza del secondo, che è l’atto con il quale si estrinseca la volontà della legge nel caso concreto, mentre la motivazione ha solo una funzione strumentale.

11. – Sia D.S. che V.V. devono essere altresì condannati, in solido, al pagamento delle spese in favore delle parti civili costituite, che si liquidano nella somma di Euro 2.000,00 per ciascuno, oltre accessori.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio nei confronti di D.M.A. la sentenza impugnata, limitatamente al reato di cui al capo n. 12 ( L. n. 356 del 1992, art. 12-quinquies), e dispone la trasmissione degli atti, a cura della Cancelleria del giudice a quo, al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo.

Annulla la stessa sentenza nei confronti di D.M. relativamente ai capi n. 2 e 4 ( art. 635 c.p.), al capo n. 5 (L. n. 897 del 1967) e ai capi n. 10 e 18 ( art. 629 c.p.), e rinvia per nuovo giudizio sui capi predetti ad altra sezione della Corte d’appello di Palermo.

Rigetta nel resto il ricorso del D.M..

Dichiara inammissibile il ricorso di D.S. e condanna lo stesso al pagamento delle spese processuali e alla somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Rigetta i ricorsi di V.V. e del procuratore generale e condanna il V. al pagamento delle spese processuali.

Condanna, inoltre, il D. e il V., in solido tra loro, alla rifusione delle spese, che liquida nella somma di Euro 2.000,00 per ciascuno, oltre accessori, in favore delle parti civili.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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