T.A.R. Friuli-Venezia Giulia Trieste Sez. I, Sent., 08-04-2011, n. 184 Giurisdizione del giudice ordinario e del giudice amministrativo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il Comune di Pordenone aveva stipulato, in data 18.2.1996, una convenzione edilizia, con i proprietari di alcuni terreni in vista della loro edificazione, nella quale era prevista la destinazione ad uso pubblico in perpetuo di alcune aree, tra cui quella in questione, di cui si prevedeva la trasformazione a parcheggio pubblico, specificando le modalità dei lavori di sistemazione dell’area ed i rispettivi oneri a carico dei privati e del Comune.

Tale convenzione si inseriva nell’ambito di attuazione del Piano Regolatore del Comune di Pordenone, approvato il 23.9.1995, e di una successiva Variante, approvata il 29.1.1969.

La destinazione delle aree per l’uso pubblico risultava prevista come parziale contributo volontario a carico della proprietà privata, ai fini dell’attuazione della sistemazione urbanistica prevista nel piano regolatore, che comprendeva la realizzazione dell’edificio su cui insiste il Condominio ricorrente antistante l’area da trasformare in parcheggio pubblico.

Venivano eseguiti i lavori di sistemazione dell’area a parcheggio (ultimati nell’Aprile 1996), realizzati, come previsto in convenzione, a cura e spese in parte dei privati ed in parte del Comune.

Il Condominio ricorrente, costituito sulle aree dei medesimi proprietari che avevano sottoscritto l’indicata convenzione, chiedeva, con atto del 6.8.1992, al Comune l’uso del parcheggio per l’utilizzo esclusivo da parte dei condomini.

Il Comune negava al Condominio l’uso esclusivo dell’area con nota del 7.10.1992.

Il Condominio ricorrente, quindi, con lettera del 3.2.1993, domandava nuovamente l’autorizzazione all’uso esclusivo dell’area di parcheggio, richiedendo un riesame della decisione negativa in precedenza assunta dall’Amministrazione.

Il Comune, con nota del 25.11.1993, ribadiva il diniego in considerazione della destinazione dell’area all’uso pubblico.

In data 22.11.1996, il Condominio ricorrente presentava al Comune una Denuncia di Inizio Attività (in seguito anche "D.I.A.") per la realizzazione, sulle aree indicate, di n. 18 posti auto ad uso esclusivo del Condominio mediante delimitazione di una notevole porzione delle stesse aree con pali metallici ed accesso carraio chiuso con catenella munito di lucchetto.

In assenza di determinazioni negative in merito da parte del Comune, il Condominio, trascorso il termine di legge, poneva in essere le opere denunciate.

Successivamente, il medesimo Comune, con note n. 52208 del 3.11.2007 e n. 55872 del 27.11.1997, diffidava il Condominio alla rimozione di quanto realizzato.

Con nota n. 14331 dell’1.3.2004, il Comune diffidava ancora una volta il Condominio al ripristino dello Stato dei luoghi.

I luoghi non sono stati ripristinati ed, anzi il Comune accertava che il Condominio aveva ampliato l’uso a parcheggio privato dell’area in questione mediante apposizione al suolo di archetti dissuasori anche sull’area già destinata a parcheggio dei mezzi di rappresentanza e degli organi di Polizia dell’antistante Prefettura.

Infine, con l’ordinanza n. 2 del 19 febbraio 2007 (prot. n. 0012084/p dd. 19 febbraio 2007), il Comune di Pordenone ordinava al Condominio ricorrente di "ripristinare lo stato dei luoghi dell’area destinata a parcheggio di uso pubblico interdetta a seguito dei lavori eseguiti dal Condominio medesimo con Denuncia di Inizio Attività (D.I.A.) presentata in data 22.11.1996, prot. 55740 e di quella sottratta a seguito di installazione al suolo di dissuasori", disponendo altresì che in caso di inottemperanza, entro quindici giorni dalla notifica del provvedimento, si sarebbe proceduto d’ufficio.

Con ricorso notificato il 12.3.2007, il Condominio ricorrente impugnava quest’ultima ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi per l’area destinata a parcheggio pubblico, chiedendone l’annullamento previa sospensione degli effetti.

Deduceva i seguenti motivi di ricorso:

1) Incompetenza dell’organo comunale.

Parte ricorrente ha dedotto un vizio di incompetenza dell’organo emanante, in quanto l’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi sarebbe stata emessa a firma congiunta dal Dirigente del Settore della Pianificazione Edilizia ed Attività Economiche e da quello del Settore Finanza e Bilancio del Comune anzichè dal Sindaco.

L’ordinanza di ripristino dello stato dei luoghi troverebbe, difatti, il suo fondamento normativo nell’art. 378 della legge 20 marzo 1865, n.2248, all. F, che riserva al Sindaco il potere di intervento per ordinare il ripristino dello stato dei luoghi nelle ipotesi ivi contemplate.

Tale competenza, aggiungeva parte ricorrente, non sarebbe transitata in capo alla Dirigenza Comune in seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267/2000.

2) Violazione ed errata applicazione di legge in relazione all’art. 378 della legge 20 marzo 1865, n.2248, all. F.

Nel secondo motivo di ricorso, titolato come appena indicato, parte ricorrente ha introdotto diverse ed eterogenee censure di illegittimità dell’atto gravato che si vanno di seguito ad indicare.

2.1) Decadenza del potere esercitato.

Il Comune, nel disporre il ripristino dello stato dei luoghi, avrebbe fatto applicazione del potere concesso dall’art. 378 della legge 20 marzo 1865, n.2248, all. F.

Quest’ultima configura una autotutela possessoria esercitabile dal Sindaco in materia di salvaguardia del demanio stradale che, inserendosi appunto nell’ambito delle azioni possessorie sarebbe soggetta al termine perentorio di decadenza di un anno dal sofferto spoglio o turbativa, previsto dall’art. 1168 c.c., ed ampiamente decorso nel caso in esame (la D.I.A. cui hanno fatto seguito i lavori risulta essere del 1996 mentre l’ordinanza gravata è del 2007).

Parte ricorrente evidenziava ancora che, in ogni caso, anche qualora non si vedesse applicabile il termine di annuale di decadenza, il potere esercitato dall’Amministrazione locale riveste indubbiamente natura cautelare e, pertanto, sarebbe dovuto essere esercitato con immediatezza, pena l’illegittimità dei relativi atti.

2.2) Omessa comunicazione dell’avvio del procedimento.

Parte ricorrente ha lamentato la violazione dell’art.7 della legge n.241/90, per aver l’Amministrazione omesso la comunicazione di avvio del procedimento che ha portato al provvedimento gravato.

Ha dedotto, al riguardo, che non risulterebbe idonea ad integrare validamente la formalità comunicatoria di cui al predetto art.7, l’atto di diffida n. 14331 dell’1.3.2004, con cui Comune, nel diffidare il ripristino dello stato dei luoghi, aveva specificato che lo stesso atto doveva intendersi anche quale comunicazione di avvio del procedimento ai sensi della legge n. 241/90.

Sostiene parte ricorrente che quest’ultimo atto avrebbe ad oggetto il solo aspetto attinente alla mancanza o insufficienza del tutolo edilizio degli interventi effettuati e non il diverso profilo – sottostante al provvedimento gravato – della tutela del demanio stradale.

2.3) Mancanza dei presupposti e dei requisiti per l’esercizio del potere di ordinanza sindacale; erronea e travisata ricostruzione dei fatti; eccesso di potere.

Ha lamentato, ancora, parte ricorrente, l’insussistenza dei presupposti per l’emanazione del provvedimento impugnato sotto diversi profili, deducendo, in particolare, che: (i) innanzitutto il titolo negoziale rispetto al quale il Comune rivendica l’esistenza di un diritto di uso pubblico – ovverosia la convenzione edilizia del 18.2.1966 – non risulterebbe essere stata sottoscritta dal Comune ma dai soli proprietari delle aree; (ii) la convenzione edilizia in questione, contrariamente a quanto in essa previsto, non sarebbe poi stata successivamente stipulata in forma pubblica, nè trascritta nei registri immobiliari.

Non sarebbe, di conseguenza, sorto alcun diritto di uso pubblico ed, in ogni caso, lo stesso non risulterebbe opponibile (in forza della mancata trascrizione) al Condominio ricorrente, soggetto terzo e comunque costituito solo il 5.2.1981.

Asseriva, inoltre, che il Comune non avrebbe eseguito i lavori di sua competenza in conformità a quanto previsto nella stessa convenzione edilizia che, pertanto, si dovrebbe dichiarare risolta per inadempimento o per l’avveramento di una condizione risolutiva.

Deduceva, ancora, parte ricorrente che sarebbe mancato nella fattispecie in esame l’elemento della illegittimità della turbativa dell’uso, necessario affinchè il Comune potesse azionare il potere di autotutela amministrativa.

Ciò in quanto l’intervento in questione era stato realizzato in base ad regolare titolo edilizio, ovverosia la presentazione di una D.I.A. seguita dalla mancata adozione di provvedimenti repressivi o inibitori da parte dell’Amministrazione entro il termine previsto di trenta giorni.

Lamentava ulteriormente il Condominio ricorrente l’illegittimo esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione, in quanto seppure quest’ultima conserva il potere di intervenire tardivamente in funzione repressiva sugli interventi soggetti a D.I.A. tale intervento è soggetto a limiti e forme particolari a garanzia del privato.

In particolare, l’adozione di atti repressivi rispetto agli interventi soggetti a D.I.A. (decorso il termine di trenta giorni dalla sua presentazione) presuppone l’esercizio di un potere di autotutela secondo le forme ed i limiti stabiliti dagli artt. 21 quinqies e 21 nonies della legge n. 241/90, che nel caso di specie non sarebbero stati rispettati.

Negava ancora l’esistenza concreta sull’area di un uso pubblico (non essendosi poi realizzata la destinazione a parcheggio pubblico prevista nella convenzione e negli strumenti urbanistici) deducendo, in ogni caso, la necessità di una prova rigorosa da parte del Comune in ordine all’esistenza della destinazione al pubblico uso.

2.4) Violazione degli artt.3, 7 e 10 della legge n. 241/90; omessa, incompleta, incongrua e contraddittoria motivazione; violazione delle regole del contraddittorio che disciplinano il procedimento amministrativo.

Ha dedotto, in sostanza, parte ricorrente la carenza di motivazione dell’atto impugnato ed il difetto di istruttoria per non aver l’Amministrazione tenuto conto della corrispondenza intercorsa tra le parti e delle osservazioni presentate ex art. 10 legge n. 241/90.

3) Violazione ed errata applicazione di legge in relazione all’art. 22 della legge 20 marzo 1865, n.2248, all. F.

Con il terzo motivo di ricorso parte ricorrente ha dedotto l’erroneità, nel caso di specie, dell’applicazione della presunzione di demanialità delle aree adiacenti a strade comunali o aperte al suolo pubblico prevista nell’art. 22 della legge 20 marzo 1865, n.2248, all. F e richiamata nel provvedimento gravato.

Si costituiva il Comune intimato formulando, in via preliminare, un’eccezione di inammissibilità del ricorso e deducendo argomentazioni difensive nel merito.

L’eccezione di inammissibilità verte sull’argomentazione della natura meramente confermativa del provvedimento gravato, per essere lo stesso atto meramente confermativo di un precedente analogo provvedimento (l’atto di diffida a rimuover le opere prot. 14331 dell’1.3.2004) che non risulta essere stato impugnato.

La causa veniva chiamata all’udienza pubblica del 9 marzo 2011 e trattenuta in decisione.
Motivi della decisione

1) In primo luogo il Collegio ritiene di affrontare d’ufficio la questione della giurisdizione, data per implicita dalla parti che non hanno sollevato contestazioni al riguardo.

Il Collegio non ignora quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui la controversia in cui venga in rilievo la sussistenza di una servitù di uso pubblico su di un’area, dalla quale deriverebbe la legittimità del provvedimento che ne inibisce l’uso, la giurisdizione appartiene non già al giudice amministrativo, bensì al giudice ordinario, trattandosi in sostanza di un’actio negatoria servitutis (T.A.R. Sicilia Catania, sez. IV, 23 novembre 2009, n. 1905; T.A.R. Lombardia Brescia, 29 dicembre 2000, n. 1079).

Viene al riguardo negato che appartenga al plesso giurisdizionale amministrativo il potere di accertamento, anche in via incidentale, della sussistenza o meno del diritto della collettività sul suolo pubblico o soggetto ad uso pubblico (T.A.R. Puglia Bari, sez. III, 10 gennaio 2007, n. 59) e ciò anche qualora il potere esercitato dall’Amministrazione sia espressione di una potestà generale di autotutela sui beni pubblici desumibile dagli articoli 823 e 825 del codice civile, nonché dall’articolo 378, secondo comma, della legge n. 2248 del 1865, allegato F, per ipotesi di turbative che impediscano o rendono disagevole il normale godimento del passaggio pubblico.

D’altro canto, però, il Collegio osserva che un altro orientamento giurisprudenziale, a cui ritiene di aderire, afferma la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo in materia di azione possessoria esercitata, "iure publico", dal sindaco, a norma dell’art. 378 comma 2, l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, anche ove venga richiesto al medesimo giudice di accertare, in via incidentale, la sussistenza o meno del diritto della collettività sul suolo pubblico o soggetto ad uso pubblico (T.A.R. Lazio Roma, sez. II ter, 3 novembre 2009, n. 10781; T.A.R. Lazio Roma, sez. I quater, 19 aprile 2007, n. 3419; TAR Campania Napoli, 27 giugno 2000, n. 2466).

In particolare, non sussisterebbe la giurisdizione del giudice amministrativo per l’accertamento in via principale di una servitù pubblica di passaggio, essendo detta questione devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario.

Al contrario la giurisdizione del giudice amministrativo ricorrerebbe pienamente qualora l’esistenza della servitù pubblica risulti essere un presupposto dell’atto impugnato e, pertanto, la valutazione della sua sussistenza si ponga come questione da valutare, incidenter tantum, ai limitati fini di verificare legittimità degli atti impugnati, non sussistendo alcuna pregiudiziale obbligatoria, in queste questioni, a favore del giudice ordinario (Cons. Stato, Sez. IV, 7 settembre 2006, n. 5209)

Nel caso di specie, l’Amministrazione ha indubbiamente esercitato un potere autoritativo di autotutela amministrativa, di cui in seguito si analizzerà meglio la natura, a salvaguardia di diritti di servitù di uso pubblico ed, in particolare, per l’utilizzo da parte della collettività di alcuni spazi destinati a parcheggio.

Parte ricorrente, impugnando il provvedimento in questione, ha contestato la sussistenza dei presupposti per il corretto esercizio del potere amministrativo, tra i quali rientra anche l’esistenza di una servitù di diritto pubblico.

La domanda giudiziale non è volta ad ottenere in via principale l’accertamento dell’inesistenza di una servitù di uso pubblico bensì a contestare le modalità di esercizio del potere amministrativo, chiedendo l’annullamento dell’atto risultante.

La presenza dell’interesse pubblico e l’esercizio del potere autoritativo, infatti, determina l’assoggettamento dei privati all’esercizio della pubblica funzione che vi è riconnessa e la conseguente degradazione delle relative posizioni giuridiche..

Il giudizio sull’esistenza o meno della servitù di uso pubblico o su eventuali altri diritti di natura demaniale si pone, quindi, come un accertamento incidenter tantum relativo a diritti, che il giudice amministrativo ha il potere di effettuare, ai sensi dell’art. 8 del codice del processo amministrativo, al fine di verificare i presupposti del corretto esercizio del potere amministrativo e pronunciarsi in ordine alla domanda principale di annullamento dell’atto gravato.

Il Collegio rileva ancora che, in ogni caso, anche laddove fosse diversamente configurabile nella fattispecie in questione una residuale posizione di diritto soggettivo, questa non potrebbe che essere devoluta al medesimo giudice amministrativo, in via di giurisdizione esclusiva, essendo la controversia attinente alla materia "urbanistica" intesa in senso ampio come riguardante "tutti gli aspetti dell’uso del territorio" di cui alla fondamentale legge n. 205 del 2000, art. 7, sul riparto di giurisdizione (vigente nel momento in cui è stato incardinato il giudizio), come interpretato dalla Corte Costituzionale nelle sentenze nn. 204 e 291 del 2004

L’adito T.A.R. si ritiene, pertanto, munito di giurisdizione in ordine alla decisione della controversia in esame.

2) Quanto alle questioni preliminari di rito, va in primo luogo disattesa l’eccezione di inammissibilità formulata dal Comune intimato per essere il provvedimento gravato un atto meramente confermativo della precedente diffida al ripristino dei luoghi di cui alla nota prot. 14331 dell’1.3.2004.

Al riguardo, il Collegio osserva che l’atto impugnato, seppure di contenuto sostanzialmente analogo a quello del 2004, non può essere considerato un atto meramente confermativo in quanto il provvedimento gravato, lungi dal limitarsi a riconfermare determinazioni già assunte in precedenza, ha effettuato una globale riconsiderazione della vicenda in esame, motivando ex novo il provvedimento di ripristino che peraltro contiene, quanto al corredo motivazionale, valutazioni più estese ed approfondite rispetto alla precedente diffida al ripristino del 2004, a cui poi il Comune stesso non aveva dato seguito.

3) Quanto al merito, il ricorso deve essere rigettato.

Il Collegio ritiene, prima di entrare nel merito dello scrutinio dei singoli motivi del ricorso, di dover puntualizzare, in via preliminare, alcune circostanze in punto di fatto e presupposti in punto di diritto che, da una parte, precisano i termini delle controversie e, dall’altro, sono stati posti a base dello scrutinio dei motivi di ricorso.

3.1) Parte ricorrente ha impostato il ricorso inquadrando il potere esercitato dall’Amministrazione negli stretti limiti di quanto previsto dall’art. 378, secondo comma, della legge n. 2248 del 1865, allegato F.

Quest’ultimo articolo configura, secondo giurisprudenza, un’ipotesi di autotutela possessoria in via amministrativa "iure publico" – finalizzata all’immediato ripristino dello stato di fatto preesistente di una strada in modo da reintegrare la collettività nel godimento del bene – che costituisce espressione di un potere generale desumibile dagli art. 823 e 825 c.c., da esercitare nel caso di turbative che impediscano o rendono disagevole il normale godimento del passaggio pubblico (Cons. Stato, sez. IV, 7 settembre 2006, n. 5209; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 3 giugno 2003, n. 821; Cons. Stato, Sez. V, 10.1.1997, n. 29).

Da tale natura discende, quanto ai presupposti di esercizi del potere, la conseguenza che questa forma di autotutela possessoria possa essere esercitata anche a prescindere dall’effettiva esistenza di un diritto reale di servitù pubblica di passaggio o dall’esistenza di una pubblica via – che tra l’altro prescinderebbe anche dall’inclusione della via stessa dagli elenchi comunali – in quanto sussiste il potere dell’amministrazione comunale di rimuovere i materiali ostativi al libero transito con le modalità esistenti anteriormente e, quindi, il ripristino dello stato dei luoghi, ove sussista quantomeno una situazione di fatto di oggettivo possesso di un pubblico passaggio.

La giurisprudenza ha, inoltre, più nello specifico evidenziato che i presupposti necessari e sufficienti per il legittimo esercizio dei citati poteri di tutela possessoria (che la pubblica amministrazione ha il dirittodovere di esercitare al fine dell’immediato ripristino dello stato di fatto preesistente sulla strada pubblica) sono: la sussistenza del predetto uso pubblico, l’avvenuta turbativa del medesimo debitamente accertata e l’urgenza di provvedere in via cautelare al fine di evitare l’aggravarsi del pregiudizio per il pubblico interesse (T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 29 marzo 2010, n. 1390; Consiglio Stato, Sez. V, 6.5.1987, n. 269)

Partendo da tali premesse, un orientamento giurisprudenziale puntualmente richiamato da parte ricorrente, ha evidenziato la necessità che il potere di ordinare la riduzione in pristino relativamente ad opere che hanno determinato l’invasione del suolo stradale, previsto dall’art. 378, l. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato F, in quanto autotutela possessoria iuris publici, sia esercitabile sulla base di quelle stesse condizioni che rendono possibile la tutela possessoria in diritto civile ed, in particolare, del mancato decorso del termine di un anno dal sofferto spoglio o dalla conoscenza dell’avvenuta turbativa, qualora questa sia stata posta in essere in modo clandestino, con la conseguenza che tale potere, pertanto, non può considerarsi legittimamente esercitato quando sia trascorso oltre un anno dal sofferto spoglio, o dalla scoperta di esso (se clandestino) (T.A.R. Marche Ancona, sez. I, 4 ottobre 2010, n. 3323).

Allo stesso modo è stata evidenziata in giurisprudenza l’esigenza di immediatezza dell’azione amministrativa di tutela del pubblico transito, che impone alla p.a. di non lasciare decorrere un notevole lasso di tempo tale da condurre al consolidamento della situazione di spoglio o di turbativa (T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 29 marzo 2010, n. 1390; T.A.R. Marche Ancona, sez. I, 4 ottobre 2010, n. 3323; T.A.R. Campania Salerno, 10 agosto1987, n. 283; T.A.R. Campania Napoli, 12 gennaio 1984, n. 33; T.A.R. Sicilia Catania, 5 aprile 1982, n. 298).

3.2) Al riguardo il Collegio osserva come il potere concretamente esercitato dal Comune intimato debba essere correlato al più ampio potere di autotutela in materia di beni demaniali prevista dall’art. 823 e 825 del cod. civ., senza ritenere lo stesso limitato alla stretta applicazione dell’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F, soprattutto qualora quest’ultimo venga interpretato in via restrittiva, come potere possessorio conferito per rimuovere in via d’urgenza ostacoli alla circolazione stradale.

Il provvedimento in concreto posto in essere dal Comune non è motivato dalla necessità di agire in via d’urgenza, per rimuover ostacoli alla circolazione stradale o comunque all’uso delle strade, bensì si palesa come un provvedimento volto al ripristino dello stato di esercizio del diritto di uso pubblico sulle aree, che ha quale presupposto l’esistenza di una servitù di uso pubblico su un’area e la sua violazione da parte del privato in seguito alla realizzazione di opere, senza alcuno specifico riferimento ad impedimenti od intralci della circolazione stradale o alla violazione della disciplina dettata in quest’ultima materia, né all’esistenza di una particolare situazione di urgenza

3.3) Quanto alla valenza normativa dell’art. 378 della Legge 20.3.1865 n. 2248 all. F, il Collegio evidenzia, sotto altro profilo, come l’articolo in questione attribuisca all’Amministrazione un potere di autotutela volto alla conservazione dello stato di fatto dei beni demaniali comunali e delle strade comunali soggette ad uso pubblico, di contenuto più ampio rispetto ai poteri di cui all’art. 20 del R.D. 8.12.1933 n. 1740, limitati a sanzionare le violazioni previste dal medesimo Testo Unico delle norme per la tutela delle strade e per la circolazione (T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 29 marzo 2010, n. 1390; T.A.R. Lombardia Brescia, sez. I, 3 giugno 2003, n. 8219).

Difatti, osserva ancora il Collegio, il richiamato art. 378 prevede in generale che "Per le contravvenzioni alla presente legge, che alterano lo stato delle cose, è riservato al prefetto l’ordinare la riduzione al primitivo stato, dopo di aver riconosciuta la regolarità delle denuncie, e sentito l’ufficio del Genio civile. Nei casi di urgenza il medesimo fa eseguire immediatamente di ufficio i lavori per il ripristino".

Le norme della richiamata legge 20.3.1865, n. 2248, all. F, che vengono qui in rilievo – in quanto rientranti nell’espressione "per le contravvenzioni alla presente legge" contenuta nell’art. 378 – sono disposizioni che prendono in esame, vietandola, la realizzazione non autorizzata di opere, depositi anche temporanei ed interventi volti a alterare la forma od invaderne il suolo di strade pubbliche o spazi ad esse attinenti.

In tal senso dispongono gli artt. 55 ed 80 per le strade nazionali e provinciali e l’art. 84 della legge in questione.

La facoltà di agire in via di autotutela amministrativa viene quindi attribuita in via generale alla p.a. a salvaguardia delle strade pubbliche, al di là ed oltre lo stretto profilo dell’interesse pubblico – comunque sicuramente rilevante – relativo alla corretta circolazione stradale ed alla necessità che la stessa non subisca turbamenti o interruzioni.

Questo potere di autotutela si estende anche alle opere ed agli spazi alle suddette strade inerenti.

Ai sensi dell’art. 22 della medesima legge 20.3.1865, n. 2248, all. F, difatti, sono considerati come parte della strada ai fini contemplati nella legge stessa "i fossi laterali che servono unicamente o principalmente agli scoli delle strade, le controbanchine, le scarpe in rialzo e le opere d’arte d’ogni genere stabilite lungo le strade medesime, non che le aiuole per deposito di materiali, le case di ricovero e quelle per abitazioni di cantonieri" ed all’interno "delle città e villaggi fanno parte delle strade comunali le piazze, gli spazi ed i vicoli ad esse adiacenti ed aperti sul suolo pubblico, restando però ferme le consuetudini, le convenzioni esistenti ed i diritti acquisiti".

Alla luce di queste premesse il Collegio passa quindi allo scrutinio dei singoli motivi del ricorso, rispetto a quanto non risulti assorbito e superato in base alle considerazioni in precedenza espresse.

4) Infondata risulta essere la censura di incompetenza dedotta nel primo motivo di ricorso.

Parte ricorrente, come già indicato in parte motiva, ritiene che la competenza ad emettere il provvedimento impugnato spettasse al Sindaco e non ai dirigenti comunali, in forza di quanto specificamente disposto dall’art. 378 della legge 20 marzo 1865, all. F, senza che tale potere potesse ritenersi trasferito alla dirigenza comunale in seguito all’entrata in vigore del D.Lgs. n. 267 del 2000, atteso che l’art. 107, comma 5, del predetto testo normativo fa espressamente salve le competenze del Sindaco previste dall’art. 50, comma 3 e dall’art. 54, e cioè le competenze espressamente attribuitegli dalla legge in determinate materie e, specificatamente, in materia di ordine e di sicurezza pubblica.

Al riguardo il Collegio, pur prendendo atto dell’esistenza di giurisprudenza in favore di detta tesi (T.A.R. Veneto Venezia, sez. I, 11 febbraio 2010, n. 433; T.A.R. Lombardia Milano, sez. II, 18 gennaio 2005, n. 161), ritiene che la stessa non sia fondata.

L’attuale ordinamento degli enti locali prevede un discrimine tra le funzioni di indirizzo e di controllo politicoamministrativo, spettanti agli organi di governo dell’ente, e le funzioni tecnicheamministrative e gestionali, di competenza degli organi burocratici.

Il Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali, di cui al D.Lgs. n. 267 del 2000, ha difatti, sancito, nell’art. 107, un criterio di ripartizione delle attribuzioni di competenza in ambito comunale che attribuisce alla dirigenza gli atti gestionali e lascia agli organi di governo, quale il Sindaco, solo gli atti attinenti alle funzioni di indirizzo e controllo politico – amministrativo degli organi comunali.

A norma del principio sancito dall’art. 107 del citato D.Lgs., la competenza ad adottare provvedimenti amministrativi, consistenti in atti autoritativi posti in essere dalla p.a. nell’espletamento di una potestà amministrativa e aventi rilevanza esterna, è stata devoluta ai dirigenti degli enti locali – fatti salvi solo l’esercizio dei poteri di indirizzo e controllo politicoamministrativo spettanti agli organi di governo – con l’attribuzione ai dirigenti dei compiti non compresi espressamente dalla legge o dallo statuto fra le funzioni degli organi di governo o fra quelle del segretario comunale o del direttore generale.

L’art. 107 del D.Lgs. in questione prevede altresì che, a decorrere dalla data di sua entrata in vigore, le disposizioni che conferiscono agli organi di governo dell’ente "l’adozione di atti di gestione e di atti o provvedimenti amministrativi, si intendono nel senso che la relativa competenza spetta ai dirigenti, salvo quanto previsto dall’articolo 50, comma 3, e dall’articolo 54".

L’articolo 50, comma 3, prevede che, salvo quanto previsto dall’articolo 107, il sindaco e il presidente della provincia "esercitano le funzioni loro attribuite dalle leggi, dallo statuto e dai regolamenti e sovrintendono altresì all’espletamento delle funzioni statali e regionali attribuite o delegate al comune e alla provincia".

L’articolo 54 descrive le attribuzioni del sindaco nei servizi di competenza statale indicando che lo stesso sovraintenda, quale ufficiale del Governo: "a) all’emanazione degli atti che gli sono attribuiti dalla legge e dai regolamenti in materia di ordine e sicurezza pubblica; b) allo svolgimento delle funzioni affidategli dalla legge in materia di pubblica sicurezza e di polizia giudiziaria; c) alla vigilanza su tutto quanto possa interessare la sicurezza e l’ordine pubblico, informandone preventivamente il prefetto".

Alla luce di tale premessa la censura si rivela come infondata.

In primo luogo, come già indicato, il Collegio ritiene che l’Amministrazione abbia agito in virtù di un più ampio potere di autotutela amministrativa spettante alla stessa sui beni demaniali ex art. 823 cod. civ. (ed in forza dell’art. 825 cod. civ. anche sui diritti reali che spettano allo Stato, alle province e ai comuni su beni appartenenti ad altri soggetti quando sono stati costituiti per l’utilità di beni demaniali o per il conseguimento di fini di pubblico interesse) che esula dallo stretto disposto dell’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F (ovverosia secondo, certa interpretazione, con l’esercizio di un’azione possessoria in via d’urgenza a tutela della viabilità) riallacciandosi, nel caso in esame, l’azione dell’amministrazione al più ampio potere di tutela dei beni demaniali e dei diritti reali ad uso pubblico.

In questo senso, pertanto, l’atto posto in essere si connota sicuramente come atto gestionale di spettanza della dirigenza comunale senza che vengano in rilievo le specifiche problematiche di competenza sollevate per l’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F.

In ogni caso, anche con riguardo al potere specificamente previsto dal suddetto art.378, non si vede come tale competenza possa dirsi non essersi trasferita in capo alla dirigenza comunale a seguito del principio introdotto dall’art. 107 del D.Lgs. n. 267 del 2000, che ha devoluto ai dirigenti l’adozione di tutti gli di gestione e dei provvedimenti amministrativi già spettanti agli organi di governo dell’ente, salvo le ipotesi ivi previste.

L’esercizio del potere di cui all’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F, da un lato, difatti, si qualifica come atto gestionale, a tutela dell’uso dei beni pubblici, scevro da profili di indirizzo e controllo politicoamministrativo, e come tale attribuito alla competenza generale della dirigenza comunale, dall’altro non rientra nelle ipotesi previste dagli indicati artt. 50, comma 3, e 54.

A quest’ultimo riguardo il potere attribuito dall’art. 378 non rientra tra i compiti conferiti al sindaco quale ufficiale del Governo di cui all’art. 54.

Inoltre, alla luce dell’indicata natura del potere attribuito ai sensi dello stesso art. 378 – che risulta volto non alla stretta salvaguardia della circolazione stradale bensì in modo più ampio tutela delle strade pubbliche e quindi non è limitato al profilo della loro fruibilità – si ritiene comunque che lo stesso non rientri nelle leggi in materia di ordine e sicurezza pubblica legge, di cui all’art. 54 del D.Lgs. 1882000, n. 267.

5) Infondato risulta essere anche il secondo motivo di ricorso in relazione alle molteplici censure in esso formulate.

5.1) Quanto al profilo della decadenza del potere esercitato, basato sulla natura del potere attributo dall’art. 378 della legge 20 marzo 1865, n.2248, all. F, che configurerebbe una autotutela possessoria soggetta al termine perentorio di decadenza di un anno dal sofferto spoglio o turbativa ed, in ogni caso, implicherebbe, dato il suo carattere di urgenza, la necessità di un esercizio immediato, il Collegio rileva quanto segue.

E’ stato già indicato, nel punto 3.1, l’orientamento giurisprudenziale favorevole alla tesi del ricorrente.

In senso contrario, però, si rileva ancora una volta la circostanza, indicata nel punto 3.2, che il potere concretamente esercitato dal Comune intimato debba correlarsi al più ampio potere di autotutela in materia di beni demaniali prevista dall’art. 823 e 825 del cod. civ. e non possa ritenersi limitato ad una interpretazione restrittiva dell’art. 378 della legge n. 2248 del 1865, allegato F, in quanto il provvedimento posto in essere dall’Amministrazione non è considerabile come un intervento d’urgenza in via possessoria per la tutela della viabilità delle strade, bensì come un provvedimento teso a tutelare l’esistenza di un diritto di uso pubblico su un’area, senza specifico riguardo alla sua destinazione alla circolazione stradale, né alla situazione d’urgenza e come tale non soggetto all’onere di esercizio entro i suindicati termini decadenziali, né sottoposto alla necessità di pronto ed immediato esercizio.

In secondo luogo il Collegio evidenza, come in ogni caso, un secondo orientamento giurisprudenziale, a cui ritiene di aderire, affermi che l’esercizio del potere di autotutela possessoria iuris publici, di cui all’art. 378 della l. 20 marzo 1865 n. 2248, all. F, non incontra limiti temporali, neppure in via analogica nel termine di un anno di cui all’art. 1168, c.c. (disciplinante la tutela possessoria privatistica), data l’eterogeneità dei due istituti, l’uno relativo ad una potestà amministrativa volta a perseguire interessi pubblici, l’altro concernente una forma speciale di tutela giurisdizionale di interessi privati (T.A.R. Veneto Venezia, sez. II, 26 febbraio 2007, n. 541; T.A.R. Abruzzo Pescara, 17 ottobre 2005, n. 580; T.A.R. Umbria, n. 57/05).

5.2) Infondata risulta, altresì, la censura relativo all’omessa comunicazione di avvio del procedimento, anche in quanto la ricevuta nota di diffida n. 14331 dell’1.3.2004, non sarebbe risultata idonea a svolgere la funzione di comunicazione di avvio del procedimento ai sensi dell’art. 7 della legge n. 241/90.

Al riguardo il Collegio rileva come la finalità del medesimo articolo 7, interpretato in una visione sostanzialistica, sia quella di fornire all’Amministrazione, in sede di partecipazione al procedimento, delle ragioni in base alle quale orientare in senso diverso, più favorevole al privato, l’esito finale del procedimento.

In tal senso, peraltro, la nota di diffida indicata e la corrispondenza intercorsa con gli organi comunali indicano che parte ricorrente ha avuto modo di far pervenire le sue ragioni al Comune prima dell’adozione del provvedimento gravato.

Il Collegio osserva, peraltro, come con successivo motivo di ricorso parte ricorrente abbia contraddittoriamente lamentato un difetto di istruttoria per mancata considerazione da parte dell’Amministrazione della corrispondenza intercorsa tra le parti e delle osservazioni presentate ex art. 10 legge n. 241/90.

In ogni caso, il Collegio ritiene che si rientri nell’ambito di applicazione dell’art.21 octies, comma II, della legge n.241/90, ed il provvedimento, quindi, non sarebbe comunque annullabile per violazione di norme sul procedimento o sulla forma, vertendosi peraltro in ambito provvedimentale vincolato.

In presenza difatti di opere realizzate senza permesso che impedivano l’esercizio di una servitù di uso pubblico, l’ordine di ripristino si palesava come atto sostanzialmente vincolato e risulta dagli atti che il contenuto dispositivo del "provvedimento non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato".

Nel caso di specie la partecipazione al procedimento da parte del ricorrente non avrebbe potuto far rilevare circostanze ed elementi tali da indurre l’amministrazione a recedere dall’emanazione del provvedimento di trasferimento in quanto le ragioni invocate a sostegno dell’illegittimità del provvedimento sono state proposte in questa sede giurisdizionale e da questo TAR nella presente sentenza confutate.

5.3) Infondate sono, altresì, le censure relative alla mancanza dei presupposti e dei requisiti per l’esercizio del potere di ordinanza sindacale e l’erronea e travisata ricostruzione dei fatti, nonché l’eccesso di potere, dove parte ricorrente ha lamentando l’insussistenza di una servitù di uso pubblico e, comunque, la sua inopponibilità al condominio ricorrente per la mancata sottoscrizione della stessa ed, in ogni caso, la mancata stipula in forma pubblica e trascrizione nei registri immobiliari, nonché, infine, per il mancato effettivo esercizio del pubblico uso.

Al riguardo il Collegio ritiene esistente una servitù di uso pubblico, essendosi la stessa costituita a seguito di prolungato esercizio del diritto d’uso pubblico o, quantomeno, per dicatio ad patriam e sia, pertanto, opponibile al condominio in questione.

Una servitù di uso pubblico può costituirsi, oltre che con un regolare atto negoziale di costituzione da parte del proprietario del terreno, anche mediante altre forme ed in particolare, per l’effettivo uso pubblico dell’area di pertinenza stradale per un tempo immemorabile e, comunque, almeno pari ad un ventennio oppure mediante l’istituto della dicatio ad patriam.

Le censure formulate dalla parte ricorrente in ordine all’effettiva sottoscrizione della convenzione edilizia da parte del Comune, della sua mancata formale stipula in forma pubblica e della conseguente mancata trascrizione nei registri immobiliari, risulterebbero, in ogni caso irrilevanti, nell’ipotesi in cui il titolo costituivo della servitù risulti essere un prolungato uso pubblico o la dicatio ad patriam.

L’insussistenza o irregolarità del titolo negoziale e, soprattutto, la sua inopponibilità a terzi nel caso di mancata trascrizione nei registri negoziali, diventano irrilevanti nell’ipotesi di costituzione della medesima servitù ai sensi degli altri titoli costituivi anzidetti.

Nel caso di uso pubblico prolungato nel tempo e dicatio ad patriam il titolo negoziale passa difatti del tutto in secondo piano e può anche essere assente.

Allo stesso modo risulta inapplicabile la disciplina relativa alla trascrizione nei registri immobiliari dei titoli negoziali ai fini dell’inopponibilità a terzi.

A tale riguardo, la costituzione di una servitù di uso pubblico su un’area stradale privata per passaggio del tempo presuppone l’uso pubblico ovverosia la concreta idoneità a soddisfare (anche per il collegamento con la pubblica via) esigenze di interesse generale e che la stessa sia di fatto accessibile al pubblico, "jure servitutis publicae", da parte di una collettività di persone qualificate dall’appartenenza ad una comunità territoriale (Cons. Stato, Sez. V – sentenza 24 maggio 2007 n. 2618; TAR Lombardia Milano, Sez. II – 18 aprile 2008 n. 1229).

E’ inoltre necessario dimostrare la protrazione dell’uso stesso da tempo immemorabile (cfr. ex plurimis, C.d.S., Sez. V, 4 febbraio 2004, n. 373; C.d.S., Sez. V, 1 dicembre 2003, n. 7831; T.A.R. Abruzzo, Pescara, 4 marzo 2006, n. 144; T.A.R. Toscana, sez. III, 19 luglio 2004, n. 2637; T.A.R. Lazio, sez. II, 29 marzo 2004, n. 2922; TAR Campania – Napoli, Sez. VIII – sentenza 1 giugno 2007, n. 5906), almeno ultraventennale (Cons. Stato, Sez. V – sentenza 4 febbraio 2004 n. 373; Cons. Stato, Sez.. V – sentenza 4 febbraio 2004, n. 373; TAR Puglia – Lecce, Sez. I – sentenza 9 gennaio 2008 n. 48).

Il diritto di uso pubblico può altresì costituirsi tramite dicatio ad patriam.

La cosiddetto "dicatio ad patriam" quale modo di costituzione di una servitù di uso pubblico su un bene privato, consiste nel comportamento del proprietario che, se pur non intenzionalmente diretto a dar vita al diritto di uso pubblico, metta volontariamente, con carattere di continuità (non di precarietà e tolleranza), un proprio bene a disposizione della collettività, assoggettandolo al correlativo uso, che ne perfeziona l’esistenza, senza che occorra un congruo periodo di tempo o un atto negoziale od ablatorio, al fine di soddisfare un’esigenza comune ai membri di tale collettività "uti cives", indipendentemente dai motivi per i quali detto comportamento venga tenuto, dalla sua spontaneità o meno e dallo spirito che lo anima. (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 12167 del 12082002; Sez. II, sent. n. 7481 del 04062001; Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 10574 del 10121994; Cons. Stato, Sez. V – sentenza 24 maggio 2007 n. 2618).

La "dicatio ad patriam" quale titolo costitutivo di una servitù di uso pubblico, consiste, difatti, nel mero fatto giuridico di porre volontariamente, con carattere di continuità e non di precarietà e tolleranza, una cosa propria oggettivamente idonea al soddisfacimento, in astratto, di una esigenza comune ad una collettività indeterminata di cittadini, a disposizione del pubblico, assoggettandola al correlativo uso che ne perfeziona senz’altro l’esistenza e potendo l’intenzione di mantenere la cosa a disposizione della collettività risultare anche da un comportamento omissivo (Cass. Civ., Sez. II, sent. n. 875 del 2212001).

Per quanto riguarda una strada privata, l’assoggettamento ad uso pubblico può derivare: a) dall’inserimento, ricollegabile alla volontà del proprietario e palesatosi nel mutamento della situazione dei luoghi, della strada nella rete viaria cittadina, come può accadere in occasione di convenzioni urbanistiche, di nuove edificazioni o di espropriazioni o, in via alternativa; b) da un immemorabile uso pubblico (a sua volta indice di un comportamento del proprietario verificatosi in epoca remota e imprecisabile); tale uso deve essere inteso come comportamento della collettività contrassegnato dalla convinzione – pur essa palesata da una situazione dei luoghi che non consente di distinguere la strada in questione da una qualsiasi altra strada della rete viaria pubblica – di esercitare il diritto di uso della strada (Cons. Stato, Sez. V – sentenza 9 giugno 2008 n. 2864).

Osserva il Collegio che l’atto volontario di destinazione all’uso pubblico, necessario per la costituzione della servitù per dicatio ad patriam, ben può collocarsi nell’ambito degli accordi raggiunti ed impegni assunti in occasione di convenzioni edilizie, con il risultato di dare vita a diritti di uso pubblico tutte quelle volte che agli impegni assunti o le dichiarazioni fatte sia seguita l’effettiva destinazione del bene all’uso della collettività, ancorchè poi non si siano compiutamene perfezionati gli atti di trasferimento o di costituzione di tali diritti o le formalità di trascrizione necessarie ai fini dell’opponibilità ai terzi.

Nel caso di specie il Collegio ritiene che sussistano tutti i requisiti affinchè possa ritenersi essere venuta in esistenza una servitù di uso pubblico per uso ultraventennale o, in ogni caso, per dicatio ad patriam.

Al riguardo, con la sottoscrizione della convenzione edilizia del 18.2.1966, i proprietari delle aree, in vista dell’edificazione della zona e in sede di attuazione del vigente PRG del Comune, hanno manifestato in modo inequivocabile l’intenzione di destinare gli spazi in questione ad un uso pubblico perpetuo, trasformandole in parcheggio pubblico.

L’area è stata poi di fatto effettivamente trasformata in parcheggio, a cura e spese anche del Comune di Pordenone (doc. 4 e 5 di parte resistente), ed è stata messa a disposizione dell’uso pubblico.

La posizione e conformazione della stessa si confacevano, inoltre, in modo particolare a tale destinazione essendo l’area adiacente alla strada pubblica ed antistante ad un incrocio (Largo San Giovanni) tra due rilevanti vie della città di Pordenone (Via Montereale e Viale Giorgetti), con la caratteristica dell’immediata accessibilità allo spiazzo dall’area pubblica.

Le circostanza che le aree in questione siano state messe a disposizione dell’uso pubblico e non fossero invece a disposizione dei soli condomini del Condominio ricorrente si evince, peraltro, anche dal fatto che lo stesso Condominio ricorrente abbia presentato, prima in data 6.8.1992 e successivamente in data 3.2.1993, domanda al Comune (doc. 8 e 9 di parte resistente) per ottenere l’autorizzazione all’uso esclusivo del parcheggio in questione, ricevendo un diniego per entrambe le richieste (con le note del 7.10.1992 e del 25.11.1993) in considerazione della destinazione ad uso pubblico dell’area.

Inoltre, la sistemazione dell’area a parcheggio e la sua messa a disposizione in favore della collettività risalgono ragionevolmente al 1966 e l’uso pubblico della stessa è stata interdetto solo nel 1996, in seguito agli interventi per cui il Condominio aveva presentato la D.I.A..

Da quanto indicato deriva che risulta maturato un periodo di pubblico uso ultraventennale tale da aver determinato, per quanto in precedenza indicato, la costituzione di una servitù di uso pubblico sulle aree in questione.

Osserva ancora il Collegio che, in ogni caso, la conclusione dell’esistenza di una servitù di uso pubblico rimarrebbe immutata anche qualora non si ritenesse raggiunta la prova del decorso di un periodo di tempo ultraventennale di uso pubblico dell’area.

Il dubbio sulla non raggiunta prova degli estremi per la costituzione della servitù di uso pubblico per decorso del tempo potrebbe infatti sorgere alla luce di quell’orientamento giurisprudenziale che ritiene sussista in capo all’Amministrazione un onere probatorio di particolare rigore (T.A.R. Lombardia Brescia, 20 dicembre 2005, n. 1365; T.A.R. Lombardia Brescia, 22 marzo 2004, n. 232) in ordine alla dimostrazione dell’esistenza e del protrarsi dell’uso pubblico (T.A.R. Abruzzo Pescara, sez. I, 10 dicembre 2008, n. 955; T.A.R. Trentino Alto Adige Trento, 10 novembre 2008, n. 286; Cons. Stato, Sez. V – sentenza 24 maggio 2007 n. 2618 secondo cui l’esistenza di una servitù pubblica di passaggio su una strada privata, quale è quella di specie, non si suppone, ma va dimostrata attraverso la prova dell’uso e dell’utilità pubblica di detta strada).

La servitù di uso pubblico, però, si dovrebbe comunque ritenere costituita per dicatio ad patriam sussistendone in questo caso tutti presupposti.

La dichiarazione, effettuata nell’ambito di una convenzione edilizia per l’edificazione della zona, dei proprietari di aree di destinare le aree in questione a finalità perpetue di uso pubblico (parcheggi pubblici), unitamente alla trasformazione delle aree stesse in conformità a quanto previsto ed alla concreta destinazione al pubblico uso, avrebbe comportato la venuta in esistenza di un diritto di uso pubblico per dicatio ad patriam a tutela del quale la Pubblica Amministrazione ha emesso il provvedimento gravato.

Ciò anche a prescindere dalla mancata stipula di un atto pubblico o dalla sua inopponibilità ai terzi per la mancanza della trascrizione nei registri immobiliari ed, addirittura, a prescindere dall’eventuale assenza della sottoscrizione del sindaco della convenzione in forma di scrittura privata – comunque approvata dalla Giunta con deliberazione n. 303 del 21 aprile 1996 e ratificata dal Consiglio Comunale con deliberazione del 2.6.1966 – in quanto è ravvisabile un atto di volontaria messa a disposizione del bene in favore della collettività con carattere di continuità idoneo a costituire in via autonoma una servitù di uso pubblico.

5.4) Infondata è, altresì, la censura, sempre formulata nel secondo motivo di ricorso, che fa derivare l’illegittimità del provvedimento gravato dall’esistenza di un asserito titolo edilizio perfezionatosi in modo tacito, ovverosia dalla circostanza che il Condominio ricorrente aveva presentato una D.I.A. per la realizzazione delle opere in questione e che l’Amministrazione non abbia adottato provvedimenti repressivi o inibitori entro il termine di trenta giorni previsto dalla normativa edilizia.

La censura è infondata.

L’adozione del provvedimento impugnato non è motivata – o comunque non lo è in via esclusiva – all’assenza del titolo edilizio bensì dalla realizzazione di opere su un’area gravata di una servitù di uso pubblico che ne impediscono l’esercizio da parte della collettività.

Tale ultimo aspetto è preminente e giustifica da solo l’adozione dell’atto di ripristino gravato.

Il profilo della presentazione della D.I.A. può rilevare ai soli limitati fini della disciplina urbanistica in senso stretto, ovverosia sull’aspetto della presenza del titolo edilizio.

La presentazione della D.I.A. non può però esplicare alcun effetto autorizzatorio sul profilo dell’impedimento dell’esercizio di una servitù di diritto pubblico e l’uso esclusivo delle aree e, comunque, relativamente al governo dei diritti demaniali ed agli atti di autotutela amministrativa ad essi inerenti.

La presentazione della D.I.A. e la mancata adozione da parte del Comune di un provvedimento inibitorio entro trenta giorni sono, quindi, circostanze del tutto irrilevanti nella vicenda in esame e non in grado, in alcun modo, di viziare il provvedimento di ripristino.

5.5) Infondata risulta, altresì, la censura, dedotta nel medesimo motivo di ricorso, relativa alla carenza di motivazione dell’atto impugnato ed al difetto di istruttoria, per non aver l’Amministrazione tenuto conto della corrispondenza intercorsa tra le parti e delle osservazioni presentate dal Condominio ex art. 10 legge n. 241/90.

Il provvedimento gravato, difatti, è ampiamente motivato, con il compiuto richiamo dei presupposti in fatto e le ragioni in diritto che hanno motivato l’adozione dell’ordine di ripristino.

Né, anche alla luce di quanto anzidetto, il Collegio ravvisa la sussistenza di difetti di istruttoria o travisamento dei fatti.

Quanto alla doglianza della mancata considerazione da parte dell’Amministrazione della corrispondenza intercorsa tra le parti e delle osservazioni presentate ex art. 10 legge n. 241/90, il Collegio ritiene che tale vizio sia assente e che la parte motivazionale del provvedimento gravato non evidenzi una mancata considerazione delle circostanze poste in rilievo dalla parte ricorrente precedentemente all’adozione dell’atto, bensì semplicemente la non condivisione delle argomentazioni fornite dal Condominio.

Inoltre, secondo giurisprudenza consolidata, non sussiste alcun obbligo di specifica disamina e confutazione, in capo all’Amministrazione procedente, delle singole osservazioni e controdeduzioni rassegnate dalla parte nell’ambito della partecipazione procedimentale, bastando che sia dimostrata, tramite la motivazione del provvedimento, l’intervenuta acquisizione, cognizione e valutazione di tali apporti partecipativi (T.A.R. Campania Napoli, sez. III, 9 novembre 2010, n. 23703; T.A.R. Molise Campobasso, sez. I, 10 dicembre 2010, n. 1543; T.A.R. Marche Ancona, sez. I, 8 novembre 2010, n. 3371).

6) Infondato risulta essere, infine, anche il terzo ed ultimo motivo di ricorso, incentrato sull’erroneità dell’applicazione della presunzione di demanialità delle aree adiacenti a strade comunali o aperte al suolo pubblico prevista dall’art. 22 della legge 20 marzo 1865, n.2248, all. F.

Il richiamo effettuato nel provvedimento gravato alla presunzione di demanialità prevista nel suddetto art. 22 risulta, difatti, del tutto irrilevante ai fini della legittimità dell’atto in questione.

Ciò in quanto il provvedimento gravato risulta giustificato in base all’esistenza di una servitù di uso pubblico, senza che la correttezza o meno del richiamo alla presunzione di demanialità possa esplicare alcun effetto viziante sul provvedimento stesso.

Il ricorso deve quindi essere rigettato.

7) In considerazione della peculiarità della vicenda e della complessità delle questioni trattate, il Collegio ritiene sussistano eccezionali motivi per disporre la compensazione delle spese di giudizio e dichiarare irripetibile il Contributo Unificato.
P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta per le ragioni di cui motivazione.

Spese compensate

Contributo Unificato irripetibile.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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