Cass. pen. Sez. VI, (ud. 08-06-2010) 06-07-2010, n. 25841

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo e motivi della decisione

1.0) la provvisoria incolpazione.

P.F. nata ad (OMISSIS) indagata per il reato p.e p. dagli artt. 81 cpv. e 314 c.p., art. 61 c.p., nn. 7 e 11, perchè, in qualità di notaio pubblico ufficiale nell’esercizio delle proprie funzioni, avendone disponibilità per ragione della sua professione, risultando anche "sostituto d’imposta" ai sensi delle vigenti leggi, si appropriava reiteratamente di somme, complessivamente ingenti, di denaro, quantificabili in circa Euro 704.731,00 ottenute da parti acquirenti di atti di compravendita immobiliare, quale importo riferito ad Imposte gravanti sugli stessi al momento della loro redazione o comunque anticipatamente rispetto alla loro registrazione, somme che venivano introitate dal notaio che poi non provvedeva a versare all’erario o a versare in maniera incompleta per importi inferiori al dovuto. In (OMISSIS).

1.1) i fatti e gli obblighi del notaio come responsabile d’imposta.

I fatti traggono origine dalla denuncia depositata presso la Procura di Campobasso in data (OMISSIS) da D.B.M., Presidente del Consiglio Notarile dei Distretti Riuniti di Campobasso – Isernia e Larino che riferiva delle condotte, attribuite alla P., in relazione ad un esposto di alcuni acquirenti che lamentavano che le somme da loro versate al notaio, a titolo di imposte di registro, ipotecarle e catastali non erano state corrisposte alla Agenzia delle entrate. Da ciò le successive indagini ed accertamenti che hanno portato alla pronuncia della misura cautelare oggi impugnata.

L’ordinanza del G.I.P. di Campobasso, oggetto di ricorso per saltum di cui all’art. art. 311 c.p.p., premette alla parte dispositiva una breve prospettazione degli obblighi del notaio con riferimento al pagamento delle imposte, precisando che il notaio, nel rogare un atto pubblico, è obbligato ad effettuare un duplice adempimento nel termine di 30 giorni: la registrazione dell’atto; il pagamento delle rispettive imposte (di registro, catastali ed ipotecarie).

Dalla decisione impugnata risulta che la P., pur avendo regolarmente riscosso dai contraenti, le somme da questi dovute allo Stato per le imposte, non le ha poi materialmente versate all’ufficio competente, il quale, all’atto del prelievo sul conto delle somme autoliquidate non ha trovato alcunchè e la sua richiesta è stata respinta dalla banca.

Il provvedimento precisa ancora in fatto che, in alcuni casi, l’indagata ha autoliquidato le somme dovute in modo corretto ma non ha versato alcunchè; in altri casi ha liquidato e pagato somme assolutamente inferiori rispetto a quelle dovute per tipologia dell’atto, pur avendo incassato dai contraenti somme notevolmente superiori: in tali ultime evenienze l’indebita appropriazione e l’avviso di liquidazione ha riguardato la differenza tra i due valori.

2.) le esigenze cautelari secondo il provvedimento impugnato.

Il G.I.P. premette che la notaia P. si è sostanzialmente appropriata del denaro versato per le imposte dai contraenti per ogni atto stipulato tra il (OMISSIS).

Per l’ordinanza impugnata, il numero di rogiti, per i quali è stato omesso ogni versamento (o vi è stato versamento solo in parte minima), e l’arco temporale in cui la condotta è stata realizzata consentono di escludere che si sia trattato di meri errori ed inducono invece a ritenere che si è trattato di un fatto doloso e preordinato, diretto all’accaparramento di quanto più denaro possibile con una azione sistematica, consentita anche dai tempi della Agenzia delle Entrate, che ha iniziato ad inviare gli avvisi di liquidazione solo dopo svariati mesi dalla omissione.

In conclusione: negli ultimi due anni poi la P., con azione altrettanto sistematica, si è spogliata di tutti i suoi beni ed ha venduto tutti gli immobili di cui era proprietaria (tra cui una casa centralissima in (OMISSIS), una casa al mare a (OMISSIS), alcuni immobili in (OMISSIS)) incassando i relativi prezzi, per un valore di oltre un milione di Euro.

Altro denaro (circa 135 mila Euro) risulta incassato con la conclusione di un contratto preliminare avente ad oggetto un immobile ipotecato, per il quale non è stata effettuata nè la cancellazione della ipoteca, nè la vendita definitiva.

Per il G.I.P. l’azione, reiterata per così lungo tempo, consente di ritenere che la prevenuta, con una modalità ormai sperimentata, assolutamente redditizia e tutto sommato molto semplice da attuare, abbia sostanzialmente deciso di raccogliere più soldi possibile dagli ignari clienti, sfruttando la stima di cui godeva in città e grazie alla fiducia riposta da ciascuno per la funzione esercitata.

In proposito l’ordinanza cita l’esempio dei consorti Mandato i quali, per la sola stipula del preliminare, e nonostante sull’immobile vi fosse una ipoteca – per la quale evidentemente la P. aveva assicurato la cancellazione – hanno corrisposto al notaio la somma di Euro 135 mila Euro su 150 mila.

A tale circostanza il G.I.P., al fine di ribadire la concretezza e l’attualità del pericolo di reiterazione di una condotta, particolarmente redditizia e posta in essere senza soluzione di continuità per due anni, fino all'(OMISSIS), utilizza l’ulteriore dato che l’indagata si è trasferita, dal (OMISSIS), in una città lontana da (OMISSIS) ((OMISSIS)) ossia in un luogo ove nessuno la conosce e nessuno sa delle irregolarità commesse nel (OMISSIS). Tale condotta è stata quindi interpretata come avente il verosimile obiettivo di consentire il protrarsi della azione illecita in modo indisturbato ed in luogo ove non erano noti i precedenti comportamenti.

Tale circostanza – a giudizio del G.I.P. – rafforza il convincimento di un pericolo di reiterazione, da considerarsi assolutamente concreto ed attuale.

E’ stata infine ritenuta anche la esigenza cautelare di cui all’art. 274 c.p.p., lett. a), desunta: dagli atti fraudolenti compiuti sul patrimonio; dall’attività posta in essere per eludere o quantomeno ritardare i controlli dell’ordine professionale; dall’attività realizzata per far fronte alle contestazioni del clienti (fax, assunzioni di responsabilità etc.); il trasferimento della sede in modo da sfuggire alle conseguenze del suo operato; la sparizione di una somma pari a circa 1 milione di Euro, oltre che ovviamente la grave violazione della fiducia dei clienti, inducono a ritenere concreto ed attuale anche il pericolo che la P. – che ha già mostrato di sapere operare in frode a tutti i suoi interlocutori – possa inficiare l’acquisizione di elementi di prova a suo carico ed in particolare possa sottrarre documenti attestanti i rapporti con i clienti e/o l’Agenzia delle Entrate od altri dati necessari per la ricostruzione dei fatti in sede processuale.

L’ordinanza poi, sulla scelta ed il contenuto della misura, ha ritenuto che il pericolo di reiterazione ed il pericolo di cui all’art. 274, lett. a), siano fronteggiabili con la misura degli arresti domiciliari, gravata del divieto di comunicazione con soggetti terzi, e quindi, anche di eventuali clienti, al fine di impedire la reiterazione della condotta nonchè la sottrazione e/o alterazione di elementi di prova, tutte attività che necessitano di una libertà di movimento sul territorio ed una libertà di incontro con terzi.

L’ordinanza ha infine precisato: che in relazione alla sola esigenza di cui all’art. 274 c.p.p., comma 1, lett. a), la durata della misura viene fissata in mesi uno; che i pagamenti effettuati in minima parte – a seguito dei solleciti insistenti dei clienti o per bloccare in qualche modo il procedimento disciplinare – non hanno una valenza tale da superare l’illiceità della condotta emersa nel corso delle indagini; che la pena irroganda non potrà essere contenuta nei benefici della sospensione condizionale, della quale la P. ha già fruito.

3.) i motivi di impugnazione e la decisione di inammissibilità della Corte.

Il ricorso, che non contesta la gravità del quadro indiziario a carico della P., critica invece l’affermazione di sussistenza della esigenza social – preventiva, quale desunta dalla "estrema disinvoltura con la quale l’indagata ha perseverato nell’illecito" e ha definito l’argomento usato come "suggestivo, ma privo di concretezza in quanto circoscrive la relativa valutazione ai soli fatti per i quali si procede e non si fa carico di considerare altri elementi che possono incidere nell’apprezzamento della capacità a delinquere della ricorrente".

Avrebbe quindi errato il G.I.P. nel desumere detto pericolo dal carattere e dalla protrazione nel tempo delle condotte contra legem, senza valutare l’incensuratezza della P.; il valore deterrente del deciso provvedimento disciplinare (8 mesi di sospensione); l’avvenuta confessione dell’indagata.

In conclusione, sul punto della ritenuta esigenza probatoria, vi sarebbe carenza assoluta di motivazione o motivazione apparente, invalidità suscettibili di tutela con il rimedio del ricorso "per saltum".

Il motivo come rilevato dal Procuratore generale che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità del ricorso, è palesemente privo di fondamento.

Il ricorso immediato per cassazione avverso una misura cautelare è infatti consentito unicamente per violazione di legge, sicchè può essere dedotta con tale mezzo di gravame solo la totale mancanza di motivazione e non anche la sua insufficienza, incompletezza od illogicità (Cass. Pen. Sez. 6^, 41123/2008 Rv. 241363 Melechi, Massime precedenti Conformi: N. 4348 del 1996 Rv. 206150, N. 2556 del 1997 Rv. 207416, N. 6392 del 1998 Rv. 209833, N. 982 del 1999 Rv. 212876, N. 1416 del 2000 Rv. 216074, N. 14441 del 2003 Rv. 223807. Massime precedenti Conformi Sezioni Unite: N. 5 del 1991 Rv. 1869999).

Nella specie nessuna di tali rilevanti patologie è ravvisabile nella diffusa motivazione del primo giudice il quale ha argomentato la necessità e la qualità della misura, individuandone I presupposti di giustificazione, con una scansione propositiva che si sottrae alle critiche proposte, le quali finiscono sostanzialmente con il proporre alla Corte di legittimità un diverso apprezzamento delle chiare emergenze processuali.

Il ricorso pertanto, nella verificata palese infondatezza delle critiche, formulate alla gravata sentenza, va dichiarato inammissibile con condanna dell’imputata al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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