Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 10-03-2011) 13-04-2011, n. 14958 Sentenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata il Tribunale di Udine, sezione distaccata di Palmanova, ha assolto, perchè il fatto non sussiste M. A. e B.C. dall’imputazione di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, e art. 517 c.p., loro ascritta perchè, in qualità di legali rappresentanti della ditta "Martini Antonio di MA & C. s.n.c." importavano dalla (OMISSIS), a fini di commercializzazione, 106 paia di scarpe, che, pur non essendo originarie dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine (art. 24 del regolamento CE 2913/1992), recavano la stampigliatura "Made in Italy".

E’ stato accertato in punto di fatto che le paia di scarpe di cui all’imputazione, provenienti dalla Romania, erano prodotte dal tomaificio Martini Antonio di Martini Antonella & C. s.n.c. in base a regolare licenza del marchio Versace. Una fase della lavorazione e precisamente l’assemblaggio delle varie parti della scarpa, che venivano progettate e prodotte in Italia, era stata affidata alla ditta Linea Blu S.r.l. di Cluj-Napoca, avente sede in (OMISSIS).

Dopo tale operazione le calzature venivano reimportate in Italia per le finiture, il confezionamento e la commercializzazione. Secondo il giudice di merito il mero processo di delocalizzazione ovvero trasferimento all’estero di alcune fasi della lavorazione non vale di per sè solo ad alterare l’origine nazionale del prodotto, si da configurare la fattispecie penale di cui alla L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, allorchè il bene sia progettato e realizzato in via prevalente in Italia ed ivi abbia la sua origine imprenditoriale.

Si osserva inoltre nella sentenza che tale orientamento interpretativo ha ricevuto sostanziale conferma dalle modificazioni apportate alla materia dal D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, convertito in L. 20 novembre 2009, n. 166, che prevede come fattispecie di reato la condotta consistente nell’uso fallace di un’indicazione che presenti il prodotto come interamente realizzato in Italia, quali "100% made in Italy", "100% Italia", "tutto italiano" o altre idonee a ingenerare nel consumatore l’erronea convinzione della realizzazione interamente in Italia del prodotto.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso immediato per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine, che la denuncia per violazione di legge.
Motivi della decisione

Con un unico mezzo di annullamento la pubblica accusa ricorrente denuncia la violazione ed errata applicazione della L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, e art. 517 c.p..

Si osserva, in sintesi, che le argomentazioni della impugnata sentenza sono condivisibili e trovano riscontro nella giurisprudenza di questa Corte con riferimento all’ipotesi in cui il concetto di origine e provenienza di un bene venga riferito ad un determinato produttore, nel qual caso deve considerarsi lecita la scelta dell’imprenditore di affidare a terzi, mediante delocalizzazione, l’incarico di produrre materialmente in tutto o in parte il proprio prodotto secondo le caratteristiche qualitative da lui stabilite.

Con riferimento, invece, all’ipotesi in cui il prodotto non porti impresso solo il marchio del produttore italiano, ma anche la dicitura "made in Italy", trova applicazione la espressa previsione contenuta nell’art. 4, comma 49, con riferimento alla citata indicazione di origine, secondo la quale "costituisce falsa indicazione", come tale punibile ai sensi dell’art. 517 c.p., "la stampigliatura made in Italy su prodotti e merci non originari dell’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine".

Tale normativa è costituita dal regolamento CEE n. 2913/92 del 12.10,1992, istitutivo del codice doganale comunitario. diverso, contenuto nella sentenza citata nella pronuncia impugnata (sez. 3, 17.2.2005 n. 13712 e conforme successivamente: sez. 3, 24.1.2007 n. 8684, P.M. in proc. Emili, RV 236087).

Tali pronunce, infatti, non si riferiscono alla dicitura "made in Italy", la cui corretta applicazione deve essere valutata in conformità delle indicazioni contenute nella disposizione citata del Codice Doganale Comunitario, bensì alle indicazioni di provenienza ed origine della merce da un determinato produttore, nel qual caso trovano applicazione i meno rigorosi criteri seguiti dal giudice di merito.

Va, infine, osservato che il D.L. 25 settembre 2009, n. 135, art. 16, convertito in L. 20 novembre 2009, n. 166, detta criteri ancora più rigorosi di quelli previsti da Codice Doganale Comunitario per l’ipotesi in cui si utilizzino diciture destinate ad attestare che il prodotto è stato interamente realizzato in Italia, quali "100% made in Italy", "100% Italia", "tutto italiano", poichè in tal caso devono porsi in essere esclusivamente sul territorio italiano tutte le fasi di progettazione e produzione della merce ("il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento").

Sicchè la disposizione citata non si palesa affatto idonea a giustificare una interpretazione diversa e per così dire più elastica della L. n. 350 del 2003, art. 4, comma 49, nel suo riferimento a quanto previsto dal Codice Doganale Comunitario in materia di indicazioni di origine della merce da un determinato paese.

La sentenza impugnata deve essere, pertanto, annullata con rinvio alla Corte territoriale competente, ai sensi dell’art. 569 c.p.p., comma 4, per un nuovo giudizio che tenga conto degli indicati principi di diritto.
P.Q.M.

La Corte annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Trieste.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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