T.A.R. Lazio Roma Sez. II, Sent., 11-04-2011, n. 3161 Regolamenti comunali e provinciali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

e;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – La Società I.P.I.G. S.p.a. (d’ora in poi, per brevità, I.) ha impugnato dinanzi a questo Tribunale, in parte qua e contestandone la legittimità per tale parte, il Regolamento cavi stradali del Comune di Roma, nella nuova stesura di cui alla deliberazione del Consiglio comunale n. 260 del 20 ottobre 2005 con il quale erano contestualmente revocate tutte le precedenti disposizioni relative alla gestione del sottosuolo in contrasto con il nuovo regolamento.

In particolare la Società ricorrente, dopo aver premesso che il Comune di Roma aveva inteso apportare modifiche e integrazioni al regolamento scavi approvato con la delibera del Consiglio comunale n. 56 del 17 maggio 2002 per armonizzarlo con le previsioni dell’art. 40 della legge 1 agosto 2002 n. 166 ed adeguarlo alle disposizioni contenute nell’art. 16 della legge 16 gennaio 2003 n. 3 approvando così il nuovo regolamento scavi con la succitata delibera del Consiglio comunale n. 260 del 2005, muove nei confronti del suddetto provvedimento normativo due ordini di censure:

A) sotto un primo profilo si evidenzierebbe l’illegittimità dell’art. 26 del suddetto regolamento atteso che in spregio dei criteri che discendono dall’art. 23 Cost., del principio di legalità delle sanzioni amministrative ed evidenziando palesi vizi di eccesso di potere per sviamento della causa tipica, illogicità, irragionevolezza e contraddittorietà, ha fissato la soglia minima della sanzione amministrativa pecuniaria da irrogarsi nei confronti di chi viola le disposizioni del regolamento scavi in 50/80 euro, non tenendo affatto in considerazione che l’art. 7bis del D.lgs n. 267 del 2000 ha indicato, con previsione legislativa non modificabile per il tramite di una fonte secondaria quale è appunto quella regolamentare, in 25 euro detta misura minima. La previsione regolamentare, quindi, si porrebbe in aperto conflitto con numerosi principi che informano e conformano il settore delle sanzioni amministrative pecuniarie quali il principio di legalità, di obbligatorietà e di vincolatezza, dalla cui violazione discende il pagamento della sanzione pecuniaria che può ben non essere fissato in una fonte normativa primaria, essendo consentito anche ad una fonte secondaria tratteggiare il contenuto del comportamento che concretizza l’illiceità amministrativa; al contrario la individuazione dell’entità della sanzione amministrativa pecuniaria da irrogarsi in conseguenza della violazione di quel comportamento, nella misura del minimo e del massimo, costituisce intervento di esclusiva competenza della fonte legislativa;

B) sotto un secondo profilo si manifesterebbe nell’atto impugnato l’illegittimità della disposizione contenuta nell’art. 26bis dell’articolato regolamentare che vorrebbe sottoporre alla conseguenza del pagamento di una somma a titolo di penale talune tipologie di comportamenti violativi del provvedimento con il quale il Comune autorizza lo scavo, "quali il caso di ritardata ultimazione dei lavori e/o di mancata esecuzione dell’opera nel rispetto degli obblighi assunti in sede di autorizzazione e/o concessione – con conseguente alterazione e/o ritardo nella fruibilità delle strade interessate da parte degli utenti, ovvero, ammaloramento delle essenze arboree" (così, testualmente a pag. 9 del ricorso introduttivo). Ad avviso della Società ricorrente si evidenzia l’illegittimità della surriferita disposizione in quanto per la collocazione sistematica nell’articolato regolamentare si traduce in una ulteriore previsione sanzionatoria, non consentita dall’ordinamento, atteso che per un verso il regolamento non appare la sedes materiae della previsione di una "penale", per esserlo più correttamente un contratto o un capitolato d’appalto; per altro verso l’art. 8 del regolamento espressamente accomuna la previsione in tema di sanzioni amministrative pecuniarie di cui all’art. 26 con quella di cui all’art. 26bis affermando che ai tempi per l’esecuzione dei lavori ed alle eventuali proroghe trovano applicazione le previsioni di entrambi i suindicati articoli. In tal modo, dunque, la previsione di una penale da imputare a ritardi o cattiva esecuzione dei lavori di cui all’autorizzazione allo scavo finisce per il costituire, sostanzialmente ed effettivamente, una modalità di inflizione di una sanzione amministrativa pecuniaria per specifiche infrazioni regolamentari.

In ragione di quanto sopra l’I. ha chiesto l’annullamento in parte qua del nuovo regolamento scavi, nei termini sopra descritti, impugnando nel contempo, in parte con il ricorso principale ed in parte con successivo gravame recante motivi aggiunti alcune note inviate dal Comune con riferimento alle disposizioni regolamentari qui contestate quanto alla loro legittimità.

2. – Si è costituito in giudizio il Comune di Roma contestando analiticamente le avverse prospettazioni e chiedendo la reiezione del gravame. In via preliminare la difesa comunale eccepisce l’inammissibilità delle censure dedotte nei confronti dell’art. 26 del regolamento per difetto di attualità dell’interesse a ricorrere dal momento che la Società ricorrente non è stata ancora destinataria di alcun provvedimento irrogativo di una sanzione amministrativa oltre alla loro infondatezza. Con riguardo alle censure mosse nei confronti dell’art. 26bis del regolamento la difesa comunale rammenta, in particolare, che esso "è riprodottorichiamato negli atti di autorizzazioneconcessione e "sorregge" le prescrizioni tecnicheamministrative per l’esecuzione e ripristino degli scavi con un duplice e legittimo scopo: 1) compulsivo dell’esatto adempimento e 2) di predeterminazione del danno" (così, testualmente, a pag. 7 della memoria del Comune).

3. – Si è costituita in giudizio l’A. S.p.a. spiegando anche atto di intervento ad adiuvandum attraverso il quale, riproponendo e sostenendo le censure dedotte dalla Società ricorrente ed integrandole con puntualizzazioni ed approfondimenti valutativi, chiede anch’essa l’annullamento in parte qua del rinnovato regolamento scavi del Comune di Roma.

Le parti hanno prodotto memorie conclusive con le quali hanno confermato le già rassegnate conclusioni.

Trattenuta riservata la decisione nell’udienza di merito del 9 giugno 2010 la riserva è stata sciolta nelle Camere di consiglio del 9 dicembre 2010.

4. – Vale la pena chiarire preliminarmente che sia la Società ricorrente che quella controinteressata nonché interveniente ad adiuvandum vantano un interesse attuale e concreto alla proposizione del ricorso avente ad oggetto le due disposizioni regolamentari qui più volte citate, in quanto sia con riferimento all’art. 26 che con riferimento all’art. 26bis della deliberazione n. 260 del 2005 il Comune di Roma richiede, all’atto del rilascio dell’autorizzazione per apertura scavi ed a pena di diniego della relativa istanza, che il soggetto interessato ad ottenere quel titolo abilitativo dal Comune rediga un apposito atto di impegno "in cui si attesta di ben conoscere e di accettare le clausole contenute nel Regolamento scavi, ivi compresa, specificatamente, la disciplina di cui all’art. 26bis attinente all’applicazione delle penali" (così, testualmente, nel fax inviato all’I. datato 1 marzo 2006 e depositato dalla difesa comunale quale allegato 5 al fascicolo di parte ed identicamente riprodotto negli atti comunali numerati quali allegati 3 e 4 del medesimo fascicolo).

La surriportata dicitura, imposta peraltro dal Comune con riguardo a "tutte le pratiche giacenti presentate con i vecchi modelli" (così ancora, testualmente, nel fax inviato all’I. datato 1 marzo 2006 e depositato dalla difesa comunale quale allegato 5 al fascicolo di parte), costituisce per i soggetti obbligati ad accettarla una immediata rappresentazione della potenziale portata pregiudizievole delle disposizioni regolamentari contenute negli artt. 26 e 26bis, la cui piena conoscenza è dimostrata proprio dal carteggio epistolare prodotto dalla difesa comunale, situazione idonea a radicare in capo all’I. ed all’A. quella posizione differenziata ed attuale che sempre deve sorreggere la proponibilità dell’azione di annullamento ai sensi dell’art. 100 c.p.c..

Ne deriva sia l’ammissibilità del gravame proposto e di quanto sostenuto nell’atto di intervento sia l’infondatezza della specifica eccezione preliminare formulata dalla difesa comunale, tenendo peraltro conto che, dalla collocazione sistematica delle due disposizioni nell’articolato regolamentare (per quanto più specificamente si dirà nel prosieguo) l’eventuale violazione della disposizione attinente alle c.d. penali (art. 26bis) costituirebbe, nel contempo, la violazione di una norma contenuta in un regolamento comunale, determinando l’applicazione della sanzione la cui misura minima, fissata dalla disposizione contenuta nell’art. 26, è qui ritenuta illegittima.

5. – Passando al merito della controversia, giova anzitutto indicare gli esatti confini della contenzioso in merito al quale è qui chiamato a giudicare il Tribunale. La Società ricorrente e quella intimata come controinteressata ed intervenuta in giudizio ad adiuvandum del ricorso principale contestano la legittimità degli artt. 26 e 26bis del nuovo regolamento scavi adottato dal Consiglio comunale del Comune di Roma con la deliberazione 20 ottobre 2005 n. 260.

Le due disposizioni così testualmente recitano:

1) "Art. 26(Sanzioni).

Le violazioni del presente Regolamento, in applicazione dell’art. 7 bis del Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267, introdotto dalla Legge 16 gennaio 2003, n. 3, comportano, quando la legge non disponga altrimenti, l’applicazione delle sanzioni riportate nell’allegato "E’ (che fissa, fermo il massimo di 500 euro, la sanzione minima tra i 50 e gli 80 euro, n.d.r.).

E’ facoltà dell’Amministrazione imporre alla Società l’immediata rimozione dei cavidotti e delle condutture realizzati anche in parziale difformità dal titolo autorizzativo.

Alle sanzioni amministrative previste dal presente Regolamento si applicano le disposizioni della Legge 24 novembre 1981, n. 689 e s.m. e i..

Per quanto concerne l’applicazione della COSAP valgono le disposizioni vigenti, salvo che per quanto previsto all’art. 19.

I competenti Uffici del Municipio riferiranno semestralmente al Dipartimento LL.PP. e Man. Urbana sulle eventuali violazioni delle disposizioni del presente Regolamento, da parte delle Società e dei privati responsabili delle violazioni stesse e sulle sanzioni e penali conseguentemente applicate.

Nel caso di Società il Dipartimento LL.PP. e Man. Urbana ha la facoltà, una volta accertata la recidività per più di due volte nella violazione delle disposizioni del Regolamento da parte di un’Impresa che esegue i lavori per conto del Concessionario, di richiedere, in aggiunta alle sanzioni sopra riportate, la sospensione della stessa per un periodo non inferiore ad un mese e non superiore ad un anno";

2) "Art. 26 bis(Penali).

In caso di ritardo e/o di inadempimento agli obblighi assunti in sede di autorizzazione e/o concessione di suolo pubblico, ai soggetti di cui all’art. 6 del presente Regolamento saranno comminate le seguenti penali, salva la risarcibilità dell’ulteriore danno, in relazione alle seguenti fattispecie che, alterando o ritardando la integrale fruibilità da parte degli utenti delle strade interessate dagli interventi previsti nel presente Regolamento, ovvero provocando la caduta e/o l’ammaloramento delle essenze arboree a seguito degli interventi eseguendi o eseguiti, sono identificative di un danno per il quale si individua il conseguente risarcimento:

Euro 2.500,00 (duemilacinquecento) per ogni progetto e per ogni Municipio: qualora la Società non rispetti gli impegni assunti con i programmi semestrali, per cui, senza giustificato motivo, un progetto venga realizzato per meno dell’80% (in metri lineari) rispetto a quanto approvato;

Euro 5,00 (cinque) per ogni metro lineare di cantiere (esclusa area destinata ad attività strumentali): per ogni giorno di ritardo sulla data di ultimazione dei lavori prevista nell’autorizzazione,

Euro 60,00 (sessanta) per ogni 5 cm. (escluse frazioni) di scavo effettuato nello spazio di pertinenza della essenza arborea in difetto rispetto alle distanze previste dal fusto delle essenze arboree e arbustive come disciplinato dall’art. 21 punto A3 del presente Regolamento o dalle condizioni particolari impartite all’atto del rilascio del titolo autorizzativo o dal sopralluogo preliminare.

La penale non si applica quando trattasi di interventi di emergenza di cui all’art. 15".

Nei confronti della prima disposizione se ne contesta la legittimità, sinteticamente, in quanto sarebbe violativa del principio di legalità che è proclamato nel settore della sanzioni amministrative dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981 n. 689, atteso che la norma regolamentare avrebbe disciplinato, quanto meno nel minimo l’entità della sanzione amministrativa da irrogarsi in caso di violazione delle disposizioni contenute nel regolamento scavi.

Nei confronti della seconda previsione surriprodotta, se ne contesta la legittimità, altrettanto sinteticamente, perché contiene disposizioni regolatrici del rapporto tra l’Amministrazione comunale ed il soggetto autorizzato ad effettuare scavi stradali che, per natura e funzioni, non avrebbero dovuto essere contenute in un regolamento comunale, trattandosi di "penali" per comportamento inadeguato da parte del soggetto autorizzato ad effettuare lo scavo e quindi di comportamenti non sanzionabili ai sensi della legge n. 689 del 1981: ciò vuol dire che tali previsioni avrebbero dovuto essere contenute in un apposito disciplinare collegato al titolo abilitativo allo scavo stradale ed idoneo a regolare i rapporti tra l’Amministrazione ed il soggetto autorizzato e non in un regolamento comunale..

6. – Per quanto riguarda la prima delle due principali doglianze sulle quali si incentra il gravame proposto da I., il Collegio ritiene che essa colga nel segno.

Va innanzitutto premesso che il principio della riserva di legge fissato nella materia delle sanzioni amministrative della legge 24 novembre 1981 n. 689, all’art. 1, impedisce che l’illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie: la norma non esclude, tuttavia, che i precetti della legge, sufficientemente individuati, siano eterointegrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare.

Nello specifico caso, che qui interessa, delle violazioni del regolamento comunale, la potestà sanzionatoria dell’ente territoriale trovava fonte nell’art. 106 della legge comunale e provinciale ( R.D. 3 marzo 1934 n. 383, testo unico degli Enti locali prima dell’entrata in vigore del nuovo Testo unico, approvato con il decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267), che sanzionava le contravvenzioni alle disposizioni dei regolamenti comunali che non trovassero la loro previsione sanzionatoria in altre espresse disposizioni legislative: tale norma non era stata abrogata per effetto dell’entrata in vigore dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981.

Va poi considerato che il R.D. n. 383 del 1934 è stato abrogato, insieme ad altre disposizioni normative, dal decreto legislativo 18 agosto 2000 n. 267, per effetto della previsione contenuta nell’art. 274. Giova aggiungere che l’art. 275 (norma finale) recita: "salvo che sia diversamente previsto dal presente decreto e fuori dei casi di abrogazione per incompatibilità, quando leggi, regolamenti, decreti, od altre norme o provvedimenti, fanno riferimento a disposizioni espressamente abrogate dagli articoli contenuti nel presente capo, il riferimento si intende, alle corrispondenti disposizioni del presente testo unico, come riportate da ciascun articolo. La norma ha dunque inteso evidentemente stabilire che, nel caso in cui delle fonti normative facciano rinvio a disposizioni previste dai testi abrogati dal decreto legislativo n. 267 del 2000, tale rinvio debba intendersi riferito alle corrispondenti disposizioni che, in quanto siano state recepite e riprodotte nel citato decreto legislativo n. 267 del 2000, ("in quanto riportate da ciascun articolo") siano perciò tuttora vigenti.

Ed invero, lo stesso legislatore, resosi conto del vuoto legislativo verificatosi per effetto dell’abrogazione dell’art. 106 del R.D. n. 383 del 1934 ha poi provveduto con l’art. 16 della legge 16 gennaio 2003 n. 3 ad inserire nel Testo unico Enti locali, dopo l’art. 7, l’art. 7 bis (sanzioni amministrative) che così recita: "salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da Euro 25,00, a Euro 500,00".

Fin qui la vicenda che ha riguardato la previsione normativa attraverso la quale la violazione dei regolamenti degli Enti locali e delle ordinanze sindacali e del presidente della Provincia comporta l’irrogazione della sanzione oggi stabilita dall’art. 7bis del decreto legislativo n. 267 del 2000.

7. – Si possono ora passare in rassegna i principi che sottendono, in via generale, alla individuazione della tipologia delle fonti normative alle quali l’ordinamento consente, nel rispetto degli artt. 3, 23 e 97 Cost., di prevedere l’imposizione del pagamento di una sanzione amministrativa pecuniaria a fronte di un comportamento considerato amministrativamente rilevante.

Come è noto l’intero sistema della reazione dell’ordinamento a taluni comportamenti gravi violativi di norme di legge che, pur tuttavia, non destano particolare allarme sociale tanto da meritare l’intervento della reprimenda penale, sul presupposto che tale intervento deve costituire esclusivamente la extrema ratio della reazione dell’ordinamento nei confronti dei comportamenti che lo violano, cfr., per tutte, Corte cost. 23 marzo 1988 n. 364) si regge sul principio di legalità, espresso in modo puntuale nell’art. 1 della legge n. 689 del 1981.

In argomento, come è noto, la Corte Costituzionale ha fermamente escluso la riferibilità della riserva di legge, prevista dall’art. 25, comma secondo, della Costituzione per le sanzioni penali, alle sanzioni amministrative (pur se con quelle possono presentare una qualche affinità), le quali non si pongono come strumento di difesa dei valori essenziali del sistema, come tali non misurabili sul terreno della convenienza economica, ma vengono a costituire un momento ed un mezzo per la cura dei concreti interessi pubblici affidati all’amministrazione; ed ha affermato (o presupposto più o meno esplicitamente in numerose decisioni) che il parametro riferibile alle sanzioni amministrative – depenalizzate o no – è costituito dal principio della riserva di legge relativa stabilito dall’art. 23 Cost. (oltre che dal principio di imparzialità della P.A. di cui all’art. 97, che qui non viene in rilievo). All’uopo essa ha indicato i limiti e le garanzie sufficienti a far ritenere rispettato il principio suddetto, precisando che la prestazione obbligatoria autoritativamente imposta debba avere "base" in una legge e che la legge stessa stabilisca i criteri idonei a regolare eventuali margini di discrezionalità lasciati alla Pubblica amministrazione nella determinazione in concreto della prestazione ed inoltre, al fine di escludere che la discrezionalità possa trasformarsi in arbitrio, che la legge determini direttamente l’oggetto della prestazione stessa ed i criteri per quantificarla (cfr., solo ad esempio, tra le tante, Corte Cost. 3 maggio 2002 n. 150, 3 giugno 1992 n. 250, 14 aprile 1988 n. 447 e 2 febbraio 1988 n. 127).

Sulla scorta delle considerazioni formulate dal giudice delle leggi, la giurisprudenza (in particolare della Corte di Cassazione: cfr., ad esempio, sentt. 6 novembre 1999 n. 12367, 29 gennaio 1993 n. 1113 e 21 settembre 1990 n. 9633) ha più volte ribadito che una interpretazione estensiva dell’art. 25 cost. risulta incompatibile sia con la collocazione sistematica della norma, inserita fra una serie di principi squisitamente penalistici, sia con la sua derivazione storica dal principio nullum crimen sine lege ed oblitera il collegamento fra lo stesso art. 25, comma 2, cost. e l’art. 13 cost., che rende palese il riferimento alla libertà personale come ratio delle sottese garanzie. In particolare si è anche rilevato, sempre in giurisprudenza, che con l’art. 1, comma 1, della legge n. 689 del 1981 il legislatore ha introdotto per le sanzioni amministrative una riserva di legge analoga a quella posta dall’art. 25 cost. ("nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge"), impedendo che dette sanzioni possano essere comminate direttamente da disposizioni contenute in fonti normative subordinate, quali i regolamenti, ma non anche che una norma successiva di pari rango legislativo possa prevedere in via generale o per singoli settori l’introduzione di sanzioni amministrative mediante fonti secondarie; sicché il citato art. 1, primo comma, della legge n. 689 del 1981, pur irrigidendo la riserva per le sanzioni amministrative, non esclude che precetti sufficientemente individuati dalla norma primaria siano eterointegrati da norme regolamentari delegate che, in virtù del peculiare tecnicismo della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare, li rendano meglio aderenti alla multiforme realtà socioeconomica (cfr., ancora, più di recente, Cass., Sez. I, 27 gennaio 2005 n. 1696, 23 marzo 2004 n. 5743 e 20 novembre 2003 n. 17602).

La riserva di legge resta quindi assoluta e totale solo per quanto attiene alla determinazione della sanzione, esigendo che la stessa sia comminata direttamente dalla legge senza alcuna integrazione o specificazione da parte di autorità amministrative, consentendo il rinvio (e ciò fin dalla risalente, ma sempre attuale, decisione della Corte Costituzionale 11 luglio 1961 n. 48) "a provvedimenti amministrativi della determinazione di elementi o di presupposti della prestazione che siano espressione di discrezionalità tecnica, purché risultino assicurate le garanzie atte ad escludere che la discrezionalità si trasformi in arbitrio", al pari, del resto, di quanto si verifica nel diritto penale, allorquando sia prevista come reato l’inosservanza di un provvedimento legittimamente dato dall’autorità amministrativa in determinate materie (cfr., ad esempio la previsione di cui all’art. 650 c.p.).

In altre parole, la riserva di legge prevista dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981, mentre consente la integrazione meramente tecnica del precetto da parte di fonti non legislative, esige che la sanzione sia comminata direttamente dalla legge (per poi essere irrogata dall’Autorità amministrativa indicata come competente dalla legge).

8. – Da ciò deriva che:

a) per un verso, è legittima l’introduzione di sanzioni amministrative mediante fonti secondarie, in base ad una legge ordinaria che la preveda, in quanto il principio di stretta legalità, inteso come obbligo costituzionale di tipicità e determinatezza delle fattispecie sanzionatorie, si riferisce propriamente alla materia penale, ma non si estende, sullo stesso piano, all’illecito amministrativo, essendo la sanzione amministrativa soggetta a differenti parametri costituzionali (cfr., in tal senso, Corte d’Appello di Torino 17 marzo 2006). Di talché si ritiene generalmente consentita l’integrazione del precetto attraverso la previsione di norme subprimarie allorché la materia sia caratterizzata da un particolare tecnicismo e sia necessario pertanto rinviare a provvedimenti amministrativi che siano espressione di una discrezionalità tecnica, purché ovviamente venga circoscritto l’ambito entro cui tale discrezionalità possa operare, risolvendosi altrimenti in arbitrio un tale intervento in quanto privo di un sufficiente collegamento con la norma primaria (in tal senso fra le tante Cass., Sez. I, 4 novembre 2003 n. 16498);

b) per altro verso, per quanto riguarda invece la sanzione, la giurisprudenza ha sempre escluso che la legge possa rinviare per la sua determinazione ad una norma subprimaria anche qualora si ritenga necessario l’apporto a tal fine di valutazioni tecniche (cfr. Cass., Sez. I, 27 agosto 1999 n. 8986, 7 aprile 1999 n. 3351 e 20 marzo 1998 n. 2937), mentre parte della dottrina ha ritenuto possibile anche in tal caso detta integrazione, sia pure nell’ambito del limite fra un minimo ed un massimo fissato dalla legge, la cui previsione di massima è sembrata sufficiente garanzia di legalità tecnica. Purtuttavia tale apertura della dottrina non trova immediato riscontro possibilista nella norma di legge, intesa con la previsione dell’art. 1 della legge n. 689 del 1981 in quanto, pur ammessa per ipotesi la possibilità di un rinvio alla norma regolamentare anche ai fini della determinazione della sanzione, al rispetto di tale garanzia, volta – ripetesi – ad assicurare un’imprescindibile esigenza di legalità, non risponde però la ridetta norma contenuta nell’art. 1 della legge n. 689 del 1981, non essendo ravvisabile in essa la possibilità di deroga espressa al principio di legalità, e ciò sia per la legge statale (cfr., in argomento, Cass., Sez. I, 18 gennaio 2005 n. 936) che per quella regionale (sulla possibilità che la previsione sanzionatoria sia contenuta in una legge regionale piuttosto che in quella statale si veda Corte Cost. 16 luglio 1991 n. 350 e, successivamente, nel senso che il riparto di competenze tra Stato e Regioni ricalca quello nella materia cui le sanzioni si riferiscono, Corte cost. 12 febbraio 1996 n. 28 e 7 aprile 1995 n. 115).

In sintesi conclusiva, quindi, può ribadirsi che in tema di illecito amministrativo, se è compatibile con il principio di legalità la previsione di norme secondarie integrative del precetto contenuto nella norma primaria, è, invece, in ogni caso inibito alle norme primarie di demandare a fonti secondarie la determinazione della sanzione (cfr., da ultimo, Cass., Sez. II, 1 giugno 2010 n. 13344). La riserva di legge in materia, quindi, è cioè assoluta e totale per quanto attiene alla determinazione della sanzione, non consentendo che questa ultima riceva alcuna integrazione o specificazione da parte di autorità amministrative. L’intervento complementare ed integrativo da parte della Pubblica amministrazione deve rimanere circoscritto alla specificazione quantitativa (e qualche volta, anche qualitativa) della sanzione. La previsione legislativa – considerata nella complessiva disciplina della materia – deve, dunque, contenere criteri razionali, adeguati e puntuali per la concreta individuazione della sanzione, senza che residui la possibilità di scelte del tutto libere, e perciò eventualmente arbitrarie, della Pubblica amministrazione e le disposizioni regolamentari dovranno limitarsi ad enunciazioni di carattere tecnico, o comunque tali da non incidere sulla individuazione del disvalore del fatto e tanto meno sulla determinazione della sanzione.

9. – Da quanto sopra deriva che la previsione dell’art. 26 del regolamento scavi del Comune di Roma, approvato con la deliberazione n. 260 del 2005, nella parte in cui rinvia all’allegato E del regolamento stesso e, quindi, innalza la soglia minima della sanzione pecuniaria applicabile nei confronti di chi viola le disposizioni di quel regolamento comunale, si pone in evidente contrasto con l’art. 7bis, comma 1, del decreto legislativo n. 267 del 2000 il quale recita: "Salvo diversa disposizione di legge, per le violazioni delle disposizioni dei regolamenti comunali e provinciali si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da 25 euro a 500 euro".

Sotto tale profilo la discrasia tra la norma regolamentare e la fonte primaria che impone il minimo della sanzione pecuniaria che può essere inflitta nella misura di 25 euro, concretizza l’illegittimità della disposizione regolamentare richiamata (che, invece, indica l’entità della sanzione nel minimo elevando la soglia legislativa a 5080 euro) per evidente violazione del principio di legalità, i cui parametri applicativi sono stati sopra delineati.

Da ciò consegue l’accoglimento del primo motivo di ricorso e l’annullamento, in parte qua e nei limiti, sopra evidenziati, riferiti alla indicazione del minimo della sanzione pecuniaria prevista, della disposizione contenuta nell’art. 26 del regolamento comunale impugnato.

10. – Passando al secondo motivo principale di ricorso si ritiene necessario affrontare alcuni temi in premessa.

Preliminarmente sembra necessario verificare la discussa funzione della clausola penale.

Secondo un primo orientamento tale clausola risponde ad una finalità di anticipata liquidazione del danno contrattuale, staccata dall’entità del pregiudizio realmente sofferto dal creditore (cfr. Cass., Sez. II, 28 febbraio 1986 n. 1300 e 16 novembre 1973 n. 3071). Più in particolare è stato affermato, anche dal giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 4 giugno 2004 n. 3490), che la clausola penale, ai sensi dell’art. 1382 c.c., è una pattuizione con la quale viene stabilita una determinata sanzione per il caso di inadempimento o di ritardo e ha l’effetto di limitare alla somma pattuita il risarcimento del danno per inadempimento alla prestazione promessa, salvo che non sia stata convenuta la risarcibilità del danno ulteriore. Invero, la previsione di una clausola penale si configura come mezzo di rafforzamento del vincolo contrattuale sul diverso e successivo piano degli effetti dell’eventuale inadempimento, concretando una anticipata liquidazione convenzionale del danno, indipendentemente dalla prova della sua effettiva esistenza.

Sennonché, ad avviso di altro orientamento, il tentativo di ridurre ad unità il fine della penale pare scontrarsi con i poteri di autonomia privata (nonché di autotutela) di cui essa è pur sempre espressione, in quanto le parti – nell’esercizio dei medesimi – sono libere di perseguire diversi interessi empirici: della fissazione ora per allora del danno per l’eventuale inadempimento imputabile (nel senso che l’obbligazione di pagamento della penale presuppone l’assenza di una prova liberatoria ai sensi dell’art. 1218 c.c.: così Cass., 30 gennaio 1995 n. 1097), oppure dell’inflizione a carico del debitore di una sanzione punitiva determinante un sacrificio patrimoniale che va oltre l’entità del danno prevedibile. Sotto quest’angolo prospettico la pena contrattuale si esprimerebbe nell’obbligazione di corrispondere un quid pluris rispetto all’ammontare, stimabile ex ante, dell’interesse ex latere creditoris all’esatto adempimento.

Ad ogni modo ed in disparte da quale delle due opzioni sopra delineate si preferisca per inquadrare la figura qui in esame, quel che rileva è il ruolo che la clausola penale svolge in concreto. Qualora essa, come accade nel caso posto all’esame del Tribunale per effetto dell’indagine sulla legittimità della disposizione recata dall’art. 26bis del regolamento scavi del Comune di Roma, svolga in concreto la duplice funzione, di liquidazione anticipata del danno e – nel contempo – di minacciata applicazione di una comminatoria destinata ad aggravare la posizione del debitore (il quale, per effetto della violazione degli obblighi assunti, sarà così tenuto a corrispondere una somma – o ad effettuare una prestazione in natura, pur entro i limiti imposti dal divieto di patto commissorio – che oltrepassa il puro danno contrattuale), in tale portata si concentrano gli indici rivelatori della sua natura di strumento indirettamente rafforzativo dell’efficacia del vincolo negoziale e, quindi, di pressione – in fase esecutiva – sulla volontà dell’obbligato per costringerlo vieppiù (rispetto a quanto non possano già fare le disposizioni contenute nel codice civile ovvero nelle leggi di settore) ad adempiere correttamente proprio al fine di sfuggire alle conseguenze della pena convenzionale.

V’è poi da dire, sempre in via generale, che il codice civile, attraverso l’istituto di cui all’art. 1384 c.c., legittimante l’intervento manipolativo del giudice quando l’ammontare della penale è "manifestamente eccessivo" e cioè quando il meccanismo assume contorni sproporzionati tanto da rendere non meritevole di tutela la posizione del creditore che con la clausola vuole "abusare" della sua posizione nei confronti del debitore, calmiera i possibili eccessi di applicazione dell’istituto e, al tempo stesso, escludendo la nullità (o l’inefficacia) della penale (sanzionatoria) ingiusta, ha dimostrato un atteggiamento di non completa sfiducia verso le pene contrattuali, nel cui novero – a questo punto e per tutto quanto si è osservato finora – rientra la clausola in questione.

11. – Le riflessioni di cui sopra permettono di introdurre in modo puntuale il tema centrale da affrontarsi per la soluzione del profilo della presente controversia attinente alla impugnazione dell’art. 26bis del regolamento scavi del Comune di Roma.

Infatti, accertato che tra Amministrazione che autorizza e soggetto autorizzato intercorre un rapporto di tipo privatistico per la gestione delle modalità di svolgimento dell’attività autorizzata e che, dunque, una clausola penale non appare essere estranea al quadro degli assetti tra le parti contrattuali tanto da essere pienamente affermata dal codice civile la sua (eventuale, se apposta nell’atto che disciplina quel rapporto contrattuale) legalità, quel che occorre ora verificare è se, piuttosto che in un disciplinare che regola la relazione sul piano contrattuale tra l’Amministrazione ed il privato, che sul piano amministrativo è sorta in virtù del rilasciato titolo abilitativo (vuoi sotto forma di autorizzazione vuoi sotto forma di concessione), la clausola penale possa essere contenuta in un regolamento, vale a dire in una fonte normativa di natura secondaria la cui portata ed efficacia non è limitata ai due protagonisti della relazione contrattuale, ma la cui osservanza si impone ad un numero indefinito di consociati.

Sotto un secondo, ma affatto secondario profilo, va poi verificato se, proprio per la particolare garanzia che si concentra nell’obbligo di osservanza delle norme contenute in un regolamento comunale (o provinciale), tanto che la loro eventuale violazione comporta l’irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria ai sensi dell’art. 7bis del decreto legislativo n. 267 del 2000 a carico del trasgressore, l’inserimento della clausola penale in tale tipologia di fonte non dia luogo, nel concreto, ad un "abuso" da parte dell’Amministrazione nei confronti del soggetto autorizzato ad effettuare lo scavo.

12. – Sotto il primo dei due versanti sopra selezionati è la stessa difesa comunale a chiarire che le disposizioni contenute nell’art. 26bis del regolamento scavi si configurano quali "penali civilistiche" (cfr. pag. 7 della memoria del Comune) atteso che la necessità di interventi volti all’erogazione dei servizi essenziali non può dar luogo ad un aggravio economico a carico del Comune "cosicché i costi impropri (ad es. le attività tecnicoamministrative d’istruttoria ecc.) devono essere ristorati" (cfr. pag. 9 della memoria del Comune), tanto che "l’art. 26bis è riprodottorichiamato negli atti di autorizzazioneconcessione" (cfr., ancora, pag. 7 della memoria del Comune).

Posto che non si ha prova documentale che la clausola penale sia riprodotta o richiamata negli atti di autorizzazione o di concessione, appare evidente che quest’ultima costituisce la sedes materiae per l’apposizione della clausola stessa e non certo il regolamento: ciò sta a significare che, ferma la legittima apposizione della clausola idonea a governare il rapporto discendente dall’atto autoritativo di autorizzazione o di concessione, essa deve riguardare esclusivamente l’atto che disciplina dal punto civilistico la relazione civilistica rispetto alla quale l’atto amministrativo costituisce solo il suo presupposto giuridico e fenomenico, senza mutare il quadro degli assetti tra la parte pubblica e quella privata, che nella fase di realizzazione e gestione dello scavo restano confinati nell’alveo civilistico (come lealmente conviene la difesa comunale a pag. 8 della memoria facendo puntuale richiamo alla sentenza della Corte costituzionale 6 luglio 2004 n. 204).

Sotto tale profilo, dunque, ad avviso del Collegio le contestazioni mosse dalla Società ricorrente e da quella intervenuta meritano di essere condivise.

13. – Con riguardo al secondo versante selezionato appare evidente che inserire la previsione della clausola penale in un regolamento comunale determina, all’un tempo, la sottoponibilità del trasgressore (individuabile nella società autorizzata ad effettuare lo scavo che non si sia attenuta alle buone regole tecniche di condotta fissate dal Comune) alle conseguenze proprie che discendono dall’applicazione della clausola (di natura civilistica) ed alla irrogazione nei suoi confronti della sanzione amministrativa pecuniaria.

La previsione in sede regolamentare di una clausola penale fa sì, in altri termini, che il comportamento violativo delle regole di condotta che informano il rapporto tra Amministrazione autorizzante e soggetto autorizzato, concretizzi nello stesso tempo un ulteriore vicenda sanzionabile amministrativamente e ciò, in particolare, perché il nostro ordinamento – segnatamente l’art. 7bis del decreto legislativo n. 267 del 2000 – stabilisce la conseguenza amministrativo sanzionatoria in corrispondenza con la violazione di una disposizione contenuta in un regolamento comunale o provinciale.

Posto che, per quanto si è più sopra approfondito, il sistema delle sanzioni amministrative pecuniarie si conforma al principio di legalità che trova espressione nella disposizione contenuta nell’art. 1 della legge n. 689 del 1981, nel caso di inserimento di una clausola penale in un regolamento comunale (o provinciale) si verrebbe a creare una condizione non prevista dall’ordinamento e cioè che uno strumento di tutela civilistica del rapporto obbligatorio tra due soggetti venga trasformato in un precetto alla cui violazione consegue (anche) l’irrogazione della sanzione pecuniaria. Peraltro, visto che l’impugnato art. 26bis del regolamento comunale scavi contiene, ovviamente, anche l’entità della clausola penale e l’ammontare del dovuto a carico del soggetto inadempiente, tale importo di confonderebbe con l’entità della sanzione pecuniaria da infliggersi al trasgressore finendo per costituire (l’importo della penale) esso stesso un "dovuto sanzionatorio" fissato con fonte di carattere secondario, possibilità questa decisamente esclusa nel nostro ordinamento e per effetto della relativa interpretazione giurisprudenziale (per quanto si è più sopra riferito), essendo consentito alla fonte regolamentare nell’ambito delle sanzioni amministrative pecuniarie, in virtù del cennato principio di legalità, esclusivamente integrare il precetto, lasciando alla fonte primaria il compito di definire, nel minimo e nel massimo, l’entità della sanzione.

D’altronde tale riflessione è stata pienamente condivisa in giurisprudenza allorquando si è affermato che, proprio perché in tema di sanzioni amministrative vige il principio di legalità di cui all’art. 1 della legge n. 689 del 1981, deve escludersi che una circolare esplicativa di una legge possa estendere l’applicazione della sanzione ad una condotta non prevista dalla legge, della quale essa pretende costituire attuazione (così Cass., Sez. II, 22 maggio 2007 n. 11826).

14. – In ragione di tutto quanto si è sopra esposto il Collegio reputa fondate le censure dedotte sia dalla Società ricorrente che da quella intervenuta nei confronti degli artt. 26 e 26bis del regolamento scavi del Comune di Roma approvato con delibera del Consiglio comunale 20 ottobre 2005 n. 260, di talché limitatamente alle disposizioni contenute nei due articoli suindicati, detto regolamento va annullato; specificandosi che, con riferimento alle disposizioni contenute nell’art. 26 del regolamento scavi, l’annullamento è limitato alla indicazione nel minimo dell’entità della sanzione pecuniaria irrogabile per come definita nel richiamato allegato "E’ del ridetto regolamento.

La novità e la complessità dei temi trattati inducono il Collegio, in applicazione dell’art. 92 c.p.c. novellato, a disporre l’integrale compensazione delle spese di lite tra le parti costituite.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio, Sezione Seconda, pronunciando in via definitiva sul ricorso in epigrafe, lo accoglie e, per l’effetto, annulla in parte qua il regolamento impugnato.

Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *