Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 01-03-2011) 13-04-2011, n. 15002 Imputato residente all’estero

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

J.D.S.R., C.I.S.J., R. T.H. hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Torino del 16.04.2010, di riforma della sentenza del Tribunale dello stesso capoluogo del 19.02.2009, ritenendoli responsabili dei reati, ascritti ai capi 9 e 9 bis della rubrica, di cui all’art. 590 c.p., comma 2, per aver cagionato lesioni personali gravi ai pazienti Cu.Sa. (tutti e tre gli imputati) e a G.A. (i primi due imputati).

La Corte d’Appello ha inoltre dichiarato non doversi procedere nei confronti degli imputati in ordine al reato di lesioni colpose gravi, di cui ai capi 9 e 9 bis della rubrica, in danno del paziente S.M. in quanto estinto per prescrizione.

E’ opportuno, per una migliore intelligenza dei motivi posti a base dei ricorsi, puntualizzare la contestazione ed, in particolare, le modalità della condotta, integrante il reato contestato, posta in essere dagli imputati, ritenuta provata dai giudici del merito.

La vicenda che ci occupa riguarda una serie di complicanze su pazienti cardiopatici, verificatesi nell’arco temporale 2002-2005, sfociate anche in decessi, successive all’impianto su di essi operato, presso l’ospedale "(OMISSIS)" di (OMISSIS), di protesi valvolari cardiache di tipo meccanico prodotte in Brasile dalla soc. TRI TECHNOLOGIES Ltda, con sede in (OMISSIS).

All’esito delle indagini, rimasto accertato che i dispositivi di cui trattasi erano carenti sul piano della sicurezza di utilizzo, si formalizzava l’accusa, tra l’altro (originariamente figuravano quali imputati anche medici primari della divisione cardiochirurgia dell’Ospedale "Molinette" di Torino, nonchè membri della Commissione di gara dell’11.09.2000 per la fornitura di protesi valvolari cardiache nei cui confronti il procedimento si è concluso con condanne, assoluzioni e dichiarazioni di estinzione dei reati per prescrizione), nei confronti degli odierni ricorrenti contestandosi ad essi, nella qualità, il R. ed il J.D.S., di soci della TRI TECHNOLOGIES Ltda ed, il C., di rappresentante e procuratore della stessa società, le seguenti condotte: 1) fabbricavano le valvole cardiache meccaniche chiamate Tri Technologies con materiale (carbonio) di scarsa qualità chimico- fisica; 2) non disponevano adeguati controlli sulla qualità dei dispositivi medicali prodotti; in particolare, non garantivano che venisse eseguito il miglior assemblaggio possibile tra le componenti delle valvole e che venisse eseguita la migliore lucidatura delle superfici destinate a venire in contatto con il sangue; 3) non analizzavano e non eliminavano i rischi derivanti – dalla formazione di trombi sulle superfici ruvide valvole; – dal rigurgito valvolare nelle sue due parti – "volume di chiusura" che rappresenta il volume di sangue necessario a far chiudere le due alette di una protesi (nel caso a doppio emidisco), e "leakage" che rappresenta la perdita ematica a valvola chiusa attraverso la cosiddetta "clearance", fessura lasciata tra le alette e la gabbietta; – dal funzionamento "a scatto" degli emidischi mal assemblati sulle valvole medesime; 4) impiegavano un silicone non idoneo all’utilizzo, in quanto destinato a deteriorarsi in breve termine (29 gg massimo); 5) non eseguivano controlli sulle valvole tali da consentire di valutare l’effettivo rischio di distacco o parziale bloccaggio degli emidischi durante il normale funzionamento di tali dispositivi: 6) non eseguivano controlli sulle valvole tali da consentire di valutare le caratteristiche del rigurgito valvolare conseguente al funzionamento delle valvole 777 Technologies, al sistema di "incernieramento" per garantire un efficace lavaggio delle superfici e minimizzare il rischio di trombosi valvolare, e di valutare altresì dal punto di vista funzionale le due criticità per i pazienti consistenti nell’insufficienza valvolare e nella possibilità di innesco della cosiddetta "cascata coagulativa".

Il Tribunale di Torino riteneva provato il nesso causale tra l’impianto delle protesi di cui trattasi, con le patologie riscontate sui pazienti sui quali erano state impiantate, e perveniva alla dichiarazione di responsabilità degli imputati in ordine ai decessi e/o alle lesioni procurati a numerosi pazienti.

La Corte d’Appello, pur ritenendo corretta l’impostazione del giudice di primo grado nella individuazione del nesso causale, ne ha riformato la sentenza attribuendo rilevanza penale alla condotta degli imputati, attuali ricorrenti, solo con riferimento alle lesioni gravi riportate dai pazienti Cu.Sa., G.A. e S.M. a seguito dell’impianto delle protesi incriminate.

In particolare, e questo è un passaggio motivazionale già oggetto delle censure degli imputati con il gravame di merito e riproposto con quello di legittimità, la Corte d’Appello ha ritenuto corretta l’impostazione del Tribunale secondo cui l’accertamento del nesso causale inteso in senso naturalistico prescindesse – in forza, proprio, del regime probatorio tipico della causalità commissiva – dalla prova che, con l’uso di un dispositivo realizzato da altro fabbricante, l’evento non si sarebbe realizzato, rifacendosi all’orientamento giurisprudenziale di questa Corte che ha distinto il diverso statuto probatorio della causalità attiva e di quella omissiva, evidenziando come, nel caso della causalità attiva, il giudizio contraffattale non vada compiuto.

MOTIVI POSTI A BASE DEI RICORSI. Per ragioni di ordine logico-sistematico è opportuno esporre i motivi che attengono alle questioni procedurali.

Con il primo motivo J.D.S.R. e C.I. S.J. denunciano:

a) inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità – violazione dell’art. 169 c.p.p., comma 1, art. 171 c.p.p., lett. d) ed f), art. 178 c.p.p., lett. c) e art. 185 cod. proc. pen. – nullità o inesistenza della notifica dell’avviso ex art. 169 cod. proc. pen. e nullità degli atti conseguenti, in particolare, degli avvisi ai sensi dell’art. 415 bis cod. proc. pen., artt. 369 e 369 bis cod. proc. pen., dell’avviso di attività integrativa di indagine ex art. 430 cod. proc. pen., della richiesta di rinvio a giudizio, del decreto di fissazione dell’udienza preliminare, del decreto che dispone il giudizio nonchè delle sentenze di primo e secondo grado. b) Manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione nella parte relativa alla giustificazione della correttezza della procedura di notificazione all’imputato all’estero.

Si premette: In data 20 novembre 2004 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino ha disposto la notificazione all’estero dell’avviso ex art. 169 c.p.p., comma 1, all’allora persona sottoposta alle indagini C.I., in relazione ai procedimenti penali nn. 2793/04 r.g.n.r. e 30168/03 r.g.n.r..

Gli avvisi sono stati spediti a mezzo di lettera raccomandata: dalla lettura dell’avviso di ricevimento si è potuto constatare che l’atto non era stato ricevuto dal destinatario, ma da tale signora R. M., la quale apponeva la propria sottoscrizione in data 6 gennaio 2005.

Allo stesso modo, nel dicembre 2004 la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Torino notificava l’avviso ex art. 169 c.p.p., comma 1, al J.D.S.R., quale persona sottoposta alle indagini.

Anche in questo caso la raccomandata non risultava essere stata ricevuta dal destinatario, ma da tale signor M.A., il quale sottoscriveva l’avviso di ricevimento.

Dunque, in entrambi i casi, gli avvisi non risultavano essere stati recapitati ai destinatari dell’atto, nè a persone che siano risultate collegate a questi ultimi da rapporti di parentela, coabitazione o lavoro.

Difatti, gli avvisi di ricevimento delle raccomandate non consentivano neppure di individuare la qualità dei prenditori dell’atto.

Per questo motivo, la difesa degli imputati all’udienza preliminare, in data 20 ottobre 2004, eccepiva la nullità dell’avviso ex art. 415 bis cod. proc. pen., della richiesta di rinvio a giudizio e del decreto di fissazione dell’udienza preliminare per omessa informazione agli imputati del contenuto minimo delle informazioni di cui avevano diritto ai sensi dell’art. 169 c.p.p., comma 1, ovvero l’indicazione della "autorità che procede", del "titolo di reato" e della "data del luogo in cui è stato commesso" – rispetto alla quale la richiesta di dichiarare od eleggere domicilio in Italia era strumentale.

Il Giudice per l’udienza preliminare ha respinto l’eccezione, che, riproposta innanzi al Tribunale, è stata nuovamente rigettata e, posta a base dei motivi di appello, è stata ancora una volta ritenuta infondata.

Il ricorrente R.T.H. denuncia:

con il primo motivo violazione di legge con riferimento agli artt. 143, 601 e 429 1 c.p.p. e art. 178 c.p.p., lett. c) e, specificamente, impugna l’ordinanza dibattimentale pronunciata dalla Corte d’Appello di Torino il 27.02.2010.

Si eccepisce la nullità derivante dall’omessa traduzione di atti che dovevano essere conosciuti dall’imputato e cioè :A) sentenza di condanna di primo grado e decreto di citazione innanzi alla Corte d’Appello; B) sentenza di secondo grado e notifica dell’estratto contumaciale.

Come dato di fatto si rappresenta che il ricorrente è cittadino statunitense che non conosce la lingua italiana e tale circostanza emerge pacificamente dagli atti del procedimento (interrogatorio in sede di indagini preliminari).

Si premette che innanzi alla Corte d’Appello era stata già eccepita la nullità degli atti indicati al punto A) e la Corte, con l’ordinanza indicata, con riferimento alla omessa traduzione del decreto di citazione a giudizio aveva rilevato che "si versa in situazione nella quale la notifica doveva avvenire presso i difensori degli imputati, ed in tali casi, secondo la giurisprudenza, l’obbligo di traduzione non sussiste per l’autorità procedente, essendo onere dell’interessato munirsi di interprete/traduttore".

Si argomenta che tale motivazione risulta intrinsecamente illogica, in quanto l’elezione del domicilio nel territorio dello Stato italiano da parte dell’imputato residente all’estero costituisce un obbligo giuridico derivante dalla disposizione dell’art. 169 c.p.p., comma 1, tanto che, nel caso di omessa elezione di domicilio in Italia da parte dell’imputato straniero, gli atti vengono notificati ex lege presso il difensore, che in questo caso funge da mero "fermo posta".

Pertanto, appare evidente che l’elezione di domicilio in Italia – ed in particolare presso il difensore come da prassi – non ha nulla a che vedere con il contenuto dell’atto da notificare, ma attiene esclusivamente alla regolamentazione della procedura di notifica, che è volta non certo a rendere comprensibile l’atto, ma solo a garantirne l’effettiva destinazione.

Si fa riferimento all’orientamento della giurisprudenza di legittimità sui principi interpretativi di diritto espressi dalla relazione preliminare al Codice di procedura Penale, sui criteri interpretativi affermati dalla Corte Costituzionale "la mancata traduzione nella lingua dell’imputato alloglotta del decreto di citazione a giudizio, in presenza delle condizioni richieste dall’art. 143 cod. proc. pen. come integrati dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 10/1993 integra una nullità di tipo intermedio". Con riferimento all’omessa traduzione della sentenza di primo grado la Corte distrettuale ha sostenuto: "l’omessa traduzione nei confronti dell’imputato alloglotta non è causa di nullità poichè non si tratta di un atto per il quale è previsto il diritto dell’imputato alloglotta ad ottenere la nomina di un interprete per la traduzione in lingua a lui conosciuta".

Il ricorrente, pur evidenziando che sul punto la stessa giurisprudenza di legittimità non è pacifica, rileva come, nel caso di specie, l’omessa traduzione della sentenza di primo grado, privando l’imputato della possibilità di conoscere le motivazioni che hanno determinato il Tribunale alla condanna, ne ha conseguentemente minorato la difesa, vanificando la possibilità di esperire in prima persona un autonomo atto di impugnazione.

Le stesse argomentazioni si apportano in riferimento all’omessa traduzione della sentenza di secondo grado e dell’estratto contumaciale.

MOTIVI ATTINENTI ALLA CONTESTAZIONE. Con un secondo motivo (il primo è quello esposto in riferimento alle questioni procedurali) J.D.S.R. e C.I. S.J. denunciano: inosservanza o erronea applicazione della legge penale – nella specie degli artt. 40 e 41 cod. pen. – e manifesta illogicità e/o contraddittorietà della motivazione nella parte relativa alla ricostruzione del meccanismo causale nella produzione degli eventi lesivi.

Si rileva che la condotta contestata dovesse essere intesa come omissiva, e non come commissiva: conseguendone, pertanto, l’applicazione dei principi caratteristici sul piano causale, per come interpretati, anche, dalla dominante giurisprudenza della Suprema Corte.

Ritenendo la condotta contestata e realizzata in forma omissiva, il nesso causale si sarebbe potuto ravvisare soltanto sulla base di un giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – sulla scorta della quale potesse accertarsi che, ipotizzandosi come realizzata la condotta doverosa impeditiva dell’evento, hic et nunc realizzato, questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca, significativamente posteriore o con minore entità lesiva.

Inoltre, avrebbe dovuto il Giudice di merito – riscontrata preliminarmente come omissiva la condotta addebitata agli imputati – verificare la validità della legge di copertura nel caso concreto, sulla base del fatto e dell’evidenza disponibile, risultando così certo che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica. Si rappresenta che il tenore della contestazione è univoco nell’indicare – in un coacervo di comportamenti – le componenti rilevanti delle condotte oggetto dell’imputazione in termini omissivi.

Se si considerano gli episodi di lesioni personali rilevanti, in quanto per essi è stata confermata la condanna o è stata emessa sentenza di n.d.p. per estinzione del reato per prescrizione, relativi alle lesioni riportate da Cu., G. e S. si nota chiaramente come la Corte torinese abbia motivato la pronuncia sulla scorta delle "ragioni di disfunzionamento delle valvole".

Si osserva, innanzitutto, che, sul piano generale, l’addebito consiste nell’omessa osservanza di obblighi – ossia di comandi – normativamente imposti al fabbricante di dispositivi medicali di cui si discute (non si attenevano agli obblighi previsti per il fabbricante dalla Direttiva 93/42/CEE allegato H).

Nello specifico, si fa notare, nell’ambito dei vari punti evidenziati in seno al capo di imputazione 9), ai fini della tipicità della condotta, come rilevino le seguenti, particolari, contestazioni (n.d.r. la numerazione è quella della contestazione): 2) sull’omessa esecuzione di controlli sulla qualità dei dispositivi prodotti; 3) sull’omessa analisi e sull’omessa eliminazione dei rischi derivanti dalla formazione di trombi e dal rigurgito valvolare; 5) sull’omessa esecuzione di controlli sulle valvole in ordine al rischio di distacco o di bloccaggio degli emidischi; 6) sull’omessa esecuzione di controlli sulle valvole tali da consentire le caratteristiche del rigurgito valvolare. Rilevano i ricorrenti che la contestazione è stata strutturata sui contenuti della Direttiva CEE 42/93 che fa riferimento ad un insieme di "obblighi" nei quali si rinvengono le espressioni normative riprese nella contestazione nei punti evidenziati. Deriva che la prima valutazione che si ricava dalla lettura della contestazione – formulata in termini omissivi nei suoi aspetti fondanti – è confermata dalla natura dei presupposti normativi, a loro volta formulati in termini di previsione di obblighi impeditivi, volti ad evitare eventi lesivi, da un lato, ed a realizzare obblighi di protezione della salute e della sicurezza dei pazienti, destinatari dei dispositivi medici in tal modo regolati, dall’altro lato.

La sentenza impugnata non ha correttamente affrontato la questione in quanto si è mossa alla ricerca della "prevalenza" di una fra le componenti attive o omissive delle condotte realizzate, senza considerare che la prioritaria analisi, imposta dal relativo motivo di appello, consisteva nell’indagare l’imputazione causale dell’evento. Il giudice è tenuto, anche in casi di coesistenza di condotte di diversa natura, ad individuare quale sia quella causale.

Il termine "prevalenza" usato dalla Corte non è stato adottato con riferimento alla effettiva individuazione della condotta causale, perchè se fosse avvenuto si sarebbe dovuto trovare nella sentenza un ulteriore passaggio: destinato a chiarire che, positivamente confermato quale sia la condotta prevalente, le altre – di natura omissiva – non sono casualmente rilevanti; tanto non è dato riscontrare nella sentenza impugnata.

Dunque, si deve riconoscere che la mera ricerca del rapporto di "prevalenza" fra condotte attive ed omissive introduce un inaccettabile coefficiente di incertezza nella individuazione e nell’accertamento del rapporto causale nella fattispecie concreta.

Anche a voler riconoscere come prevalente una condotta attiva nella produzione dell’evento, non si riesce a comprendere quale significatività posseggano, ai fini del rapporto causale, le condotte omissive che il Giudice riconosca come partecipanti al fatto illecito nel caso concreto.

Si ritiene che compito del Giudice penale sia, in questa materia, quello di isolare la condotta rilevante, ossia la condotta tipica in quanto condotta illecita, da un lato, di individuarne la natura – attiva od omissiva – e, quindi, di applicare i principi noti ed accettati in tema di causalità.

Il mero giudizio di prevalenza non consente, invece, di capire se le condotte omissive non prevalenti abbiano o meno avuto un’efficacia causale nella produzione dell’evento; nè consente di capire se esse, non possedendo efficacia causale, debbano o possano essere altrimenti qualificate nella struttura della fattispecie concreta. Analizzando la motivazione i ricorrenti rilevano che, in riferimento alle lesioni patite da Cu., G. e S., la Corte ha istituito una relazione causale fra l’omessa attivazione dei fabbricanti rispetto alle possibili anomalie di funzionamento dei dispositivi e le lesioni asseritamente causate dal reimpianto dei dispositivi stessi, in quanto provocato, a sua volta, proprio da quelle anomalie. Ciò posto si evidenzia che la condotta commissiva non ha avuto efficacia causale nella produzione dell’evento proprio così come è stato ricostruito il concreto meccanismo causale di produzione degli eventi lesivi. E pertanto non è stata affrontata l’analisi della condotta tipica ma di una condotta irrilevante.

L’evento è stato cagionato – seguendo la Corte – a causa di anomalie di funzionamento che i fabbricanti non hanno impedito. Le condizioni impeditive dell’evento, come già rilevato, sono state desunte dalla Direttiva CEE 42/1993 che ha statuito un insieme di obblighi, rivolti ai fabbricanti, proprio al dichiarato fine di evitare le lesioni del tipo di quelli concretamente realizzatisi.

La contraddittorietà della motivazione è palese: la Corte prima ha affermato che la condotta contestata è attiva, poichè realizzata in violazione di un divieto e, poi, ha concretamente ricostruito il meccanismo causale di produzione degli eventi lesivi per i quali ha confermato la condanna fondandolo su una condotta omissiva.

Incidenza sui casi contestati della qualificazione della condotta omissiva anzichè commissiva.

Caso G.. (Per la descrizione della patologia di cui era affetta la paziente e gli interventi eseguiti nonchè il tipo di protesi impiantata e le anomalie riscontrate dai periti V. sentenza impugnata da pag. 114 a 119).

I periti hanno ritenuto che "si ipotizza che l’intervento di sostituzione sia stato effettuato in ottica essenzialmente profilattica. Rimane il fatto che all’esito dell’espianto in entrambe le valvole si palesarono gravi difetti di costruzione. In definitiva la sostituzione fu motivata dal punto di vista clinico solo dalla profilassi, ed è pertanto ragionevole ritenere che la presenza di valvole diverse non avrebbe determinato tale intervento".

Entrambe le perizie espletate nel giudizio di merito non hanno confermato i ritenuti profili di maggiore trombogenicità della valvole prodotte dalla Tri Technologies. Risulta invece sia stato accertato – dai primi periti – che tutte le valvole cardiache inventate si caratterizzano per il fatto di provocare l’insorgenza di trombi. I secondi periti hanno scritto che "nonostante i notevoli progressi intercorsi l’obiettivo della realizzazione della protesi valvolare cardiaca ideale non può considerarsi ancora raggiunto.

Sicuramente migliorate sono le caratteristiche emodinamiche delle protesi così come la loro biocompatibilità in rapporto ad effetti di trauma sulle cellule del sangue ma non ancora aperta risulta la problematica per quanto riguarda trombogenicità e durata. Le protesi meccaniche (..) presentano ad oggi una durata pressochè illimitata ma hanno tutte caratteristiche più o meno spiccate di trombogenicità tanto da richiedere il trattamento anticoagulante a vita. Tale trattamento non annulla completamente il rischio di formazione dei trombi" (cfr. atto di appello, p. 34 s.).

Più specificamente, il secondo collegio peritale ha osservato che "contrariamente a quanto riportato per i fenomeni di rottura delle valvole non sono stati segnalati in letteratura dati allarmanti circa una maggiore trombogenicità della valvola 7T (..). L’incidenza dei fenomeno non è certo trascurabile e la performance della valvola non può certo dirsi, da questo punto di vista ottimale ma si colloca, comunque, nei "range" riportati in letteratura relativamente ad altri modelli valvolari". Ed ancora "è importante qui sottolineare che l’incidenza di trombosi per le valvole TT e altri modelli essenzialmente sullo stesso ordine di grandezza…".

Fatta questa premessa, i ricorrenti pongono in rilievo l’assenza di documentazione concernente la terapia anticoagulante praticata alla paziente.

L’assenza di prova in ordine alla assunzione di tale terapia, ed alla tipologia di terapia anticoagulante, configurano, serie causali alternative a quella prospettata dalla sentenza impugnata, di per sè capaci di incrinare il giudizio di imputazione causale presupposto nella sentenza impugnata.

Infatti, i periti del secondo collegio hanno sostenuto che "se fossimo stati in presenza di un trattamento anticoagulante adeguato potremmo con sicurezza affermare che il malfunzionamento fu dovuto alle caratteristiche della protesi e in particolare a cattive grossolane lavorazioni e a debolezze strutturali della matrice".

CASO CU.. (Per la descrizione della patologia di cui era affetto il paziente e gli interventi eseguiti nonchè il tipo di protesi impiantata e le anomalie riscontrate dai periti V. sentenza impugnata da pag. 112 a 114).

Con riguardo a questo caso, i periti del primo collegio peritale nominato dal Giudice per l’udienza preliminare hanno escluso il nesso causale, affermando che "la profilassi della rimozione protesica fu inconsapevolmente indicata anche se, all’epoca, non comprovabile e non clinicamente manifesta"; i periti del secondo collegio peritale, non potendo peraltro disporre della descrizione dell’intervento di rimozione, hanno affermato che "con elevata probabilità l’impianto di una valvola diversa esistente e conosciuta all’epoca dei fatti non avrebbe determinato la necessità di sostituzione in concreto verificatesi.

I ricorrenti, quindi, ripropongono, anche per questa fattispecie, quanto appena sostenuto, in ordine all’esistenza di prova positiva – supponendo, come corretto, la realizzazione di condotta omissiva e non commissiva – di insussistenza del nesso causale, in quanto il secondo collegio peritale, difformemente dal primo, ha dovuto risolversi ad affermarne l’esistenza, pur difettando il dato probatorio relativo all’intervento: circostanza, questa, che impone di prendere in considerazione le serie causali alternative, tali da destituire di fondamento la formulazione di un giudizio di imputazione causale con grado di verificabilità prossimo alla certezza, come richiesto in modo ormai pacifico.

CASO S.. Per la descrizione della patologia di cui era affetto il paziente e gli interventi eseguiti nonchè il tipo di protesi impiantata e le anomalie riscontrate dai periti V. sentenza impugnata da pag. 103 a 104.

Non è emersa, nemmeno in questa ipotesi, la legge scientifica di copertura utile a comprendere il fenomeno causale in modo oggettivo.

Il cedimento strutturale, invero, può essere determinato – non in astratto, ma per come accertato nel corso del processo di merito – dalla degradazione dei materiali sintetici componenti la valvola, usura, fatica strutturale o danno da cavitazione; ovvero, per come accertato, da inappropriate manovre eseguite in fase di impianto del dispositivo, che, in effetti, in taluni casi sono state dimostrate (cfr. dichiarazioni del teste dott. Di Rosa e del teste dott. T. all’udienza del 25 gennaio 2007; cfr., altresì, le dichiarazioni del teste dott. A. all’udienza del 28 febbraio 2007: dichiarazioni riportate alla pagina 63 s. dell’atto di appello).

In particolare, la causa della lesione è stata individuata nelle difettose caratteristiche della valvola brasiliana, e la causa alternativa rappresentata da scorrette manovre in fase di impianto dovrebbe essere esclusa, atteso che soltanto per le valvole Tri Technologies sarebbe emersa una peculiare tendenza al distacco degli emidischi. La motivazione della sentenza – per relationem – si fonda su erronea applicazione della legge penale (att. 40 c.p.), atteso che si basa sul mero dato statistico di una maggiore propensione alla rottura delle valvole esaminate, per escludere il concorso di fattori causali alternativi.

Con un terzo motivo i ricorrenti censurano la motivazione in quanto illogica ed incoerente in riferimento alla posizione apicale attribuita ai due coimputati brasiliani laddove si afferma che i due erano soggetti in posizione di vertice della compagine societaria; il primo è un ingegnere, il secondo è un medico "e dunque si trattava di individui con una formazione tecnico/scientifica utile a muoversi nel settore delle protesi valvolari".

Trattasi di un’asserzione apodittica e di portata neutra. Apodittica, in quanto la sentenza avrebbe dovuto, prima, spiegare e chiarire gli obblighi dei quali si fa carico ai due coimputati fossero tali da potersene pretendere l’osservanza direttamente ad opera di tutti i soggetti apicali. Si sarebbero dovuto evidenziare le prove dalle quali potersi desumere che la struttura e l’organizzazione della società erano tali da non frapporre alcun "filtro" rispetto all’osservanza degli obblighi contestati fra i dipendenti della società chiamati specificamente alla funzione di controllo, soprattutto, della produzione delle valvole e di tutti gli organi di vertice, anche a prescindere dalla peculiarità dei compiti da ciascuno di essi svolto.

Come dato di fatto si rileva che la Corte d’Appello aveva tutta una serie di documentazione dalla quale rilevare che la società TRI TECHNOLOGIES era dotata di una struttura organizzativa e di procedure e protocolli di controllo tali da evitare che i soggetti apicali – tra cui gli imputati – (fatta eccezione per colui che era chiamato ad occuparsi dello specifico settore di controlli, vale a dire il R.), potessero percepire segnali di disfunzionamento della produzione, tali da porre in essere i difetti che sono stati, ex posi, riscontrati nelle valvole prodotte dalla società.

La sentenza impugnata avrebbe dovuto, prima, sul piano logico, dimostrare che tutte le procedure esistenti fossero fittizie, meramente apparenti, o inefficaci, e, solo dopo, avrebbe potuto affermare che tutti i soggetti in posizione apicale, per l’accertata insussistenza dei sistemi di controllo e verifica idonei ed efficaci sulla fabbricazione delle valvole, dovessero rispondere per ciascuna disfunzione o difettosità di funzionamento.

Si rappresenta che agli atti del processo è acquisita la prova dell’esistenza del "Manuale di qualità della società Tri Technologies".

Detto manuale non contiene soltanto le procedure già evidenziate, ma costituisce, anche, un vero e proprio sistema di deleghe, in un’articolazione di attribuzione di ruoli nelle fasi operative.

Compaiono, infatti, il T.L.R. – quality manager – d.

S.R., responsabile della fase di produzione e controllo, con particolare riguardo alla lucidatura, nonchè F.A., dirigente generale della produzione della società.

Questa organizzazione ha ricevuto anche il conforto della prova documentale, attraverso l’organigramma societario in atti.

Lo stesso R. – nelle dichiarazioni rese a dibattimento, ed altresì nella memoria scritta depositata in tale sede, ha avvalorato questa ricostruzione, ribadendo che la società Tri Technologies era organizzata e suddivisa in dipartimenti, ciascuno dei quali soggetto alla direzione ed al controllo di un dirigente. Tra costoro non sono inseriti i ricorrenti C. e J..

La Corte di Appello, mentre da un lato attribuisce piena credibilità alle dichiarazioni di R. (cfr. le pagine 187 e 188 della sentenza) in senso accusatorio nei confronti dei coimputati J. e C., ritenendo che costoro si siano concretamente occupati della gestione anche tecnico-operativa della società, e dei connessi problemi di fabbricazione dei dispositivi, dall’altro lato non rende motivazione in ordine all’ulteriore, e diverso profilo, sempre proveniente dal R., concernente l’organizzazione della società, siccome prima delineata.

E’ evidente l’intima contraddittorietà della sentenza – emergente dal testo del provvedimento impugnato – emessa dalla Corte territoriale, nella parte in cui attribuisce rilevanza ad una parte delle dichiarazioni eteroaccusatorie di un coimputato e, nello stesso tempo, nega, o trascura, tale rilevanza ad altra parte delle stesse dichiarazioni, senza spiegare, peraltro, quale sia il criterio logico- giuridico che abbia imposto siffatto approdo argomentativo o, comunque, questa selezione fra dichiarazioni rese da uno stesso soggetto.

Quanto poi al dato argomentativo riguardante le qualifiche professionali dei signori J. e C. – ingegnere e medico – ed il loro, parallelo, impegno professionale nella società Labcor, produttore di valvole biologiche, vengono svolte le seguenti osservazioni.

Anzitutto, si scorge, anche in tal caso, un profilo di contraddittorietà della sentenza.

La Corte, allorquando si è occupata della posizione dei tecnici del TUV, Rader, Janzen e Kohler, ha preso in esame anche le loro competenze scientifiche e professionali e ha ben fatto leva sulle loro competenze specifiche e sulla loro capacità in concreto di verificare il compito da altri svolto.

Ma, per quanto riguarda la posizione dei ricorrenti, si adduce che questa analisi delle concrete e specifiche competenze tecnico- professionali, utili a rilevare i presunti difetti di organizzazione e di funzionamento della fase produttiva della società TRI TEHCNOLGIES, non è stata svolta. Si è fatto riferimento al possesso di un certo titolo di studio unito – sul piano della verifica logica – alla constatazione del parallelo impegno nella società Labcor (anch’essa produttrice di valvole biologiche).

Si eccepisce che, se anche i due coimputati fossero stati effettivamente (circostanza non provata) impegnati nella gestione operativa della Labcor, ciò non avrebbe Le protesi valvolari cardiache, ai sensi della Direttiva 93/42/CEE, punto 15 preambolo, art. 9 Direttiva (allegato 9, parte 3, sez. 2.4, regola 8), sono annoverate tra i dispositivi impiantabili e invasivi a lungo termine di tipo chirurgico destinati a sorvegliare o correggere difetti del cuore o del sistema circolatorio centrale e ad essere utilizzati a contatto diretto con il cuore, il sistema circolatorio centrale o il sistema nervoso centrale. Tale destinazione determina il loro raggruppamento nella classe 3, caratterizzata da un alto potenziale di rischio che, a sua volta, rende necessario, per la normativa in oggetto, un controllo da parte di un cd. "organismo notificato", sia nella fase di progettazione dei dispositivi che nella fase di fabbricazione (nonchè un’ autorizzazione di conformità preliminare all’immissione in commercio).

Gli organismi notificati sono, in buona sostanza, degli organismi indipendenti e competenti preposti a detta verifica di conformità, ai quali gli Stati membri hanno affidato le competenze contemplate dalle procedure di valutazione di conformità, previste all’art. 11 della Direttiva 93/42/CEE. Secondo l’art. 16 di tale Direttiva (e il D.Lgs. n. 46 del 1997, art. 15) gli Stati membri devono comunicare (notificare) alla Commissione e agli altri Stati membri il nominativo di detti organismi, che da ciò, evidentemente, assumono la qualifica di "notificati", nonchè i compiti specifici per i quali sono stati designati.

Il TUV-PS è, appunto, un organismo notificato.

L’art. 11 della Direttiva statuisce in generale le modalità di esecuzione della valutazione di conformità, che – previa autocertificazione del produttore e verifiche dell’organismo notificato – conduce all’apposizione della marcatura CE, presupposto ineludibile per la commercializzazione del dispositivo nell’Unione Europea), automaticamente significato che i due fossero in grado, a causa della rilevante diversità dell’attività delle due società (valvole meccaniche per la TRI, valvole biologiche per la Labcor) di accorgersi di disfunzioni in fase di fabbricazione all’interno della TRI ed, anche ammesso che se ne accorgessero, che avessero i poteri per concretamente intervenire in proposito.

Per altro la sentenza, con riferimento all’attività svolta dai due ricorrenti in seno alla Labcor, neanche approfondisce la struttura organizzativa di detta società onde verificare se gli imputati erano dotati delle competenze specifiche dando per scontato che anche nello svolgimento di detta attività essi avevano le conoscenze idonee a verificare il cattivo funzionamento delle protesi.

La vera fonte probatoria sul punto delle attribuzioni al J. ed al C. di concreti compiti di gestione della produzione in seno alla TRI T. deriva dalle dichiarazioni rese dal R., ebbene, si rileva che, richiamando i principi in tema di valutazione della chiamata in correità, non esiste affatto riscontro esterno alla dichiarazione accusatoria del R. che resta affidata esclusivamente al dichiarato, non ulteriormente corroborato da elementi probatori di segno diverso. Per vero la Corte d’Appello richiama degli elementi di riscontro ma che, però, non hanno carattere individualizzante.

Possono sintetizzarsi:

– la peculiarità del compito di supporto per il Brasile attribuitogli dal R.;

– il concreto ausilio prestato a questi per la selezione del personale;

– il successivo ruolo di "polo" dei referenti e degli interlocutori tecnici della TRI T., confermato da copiosa documentazione, rappresentata dal carteggio tra C. ed il consulente tecnico del P.M. di Padova nel processo gemello; la rappresentanza della TRI T. in Europa ed, infine, il Ministero della Salute.

Ma, anche sotto questo profilo, si adduce il vizio di motivazione.

Le valvole di cui si discute furono tutte impiantate nel 2001 ( Cu. e G. il 19.01.2001), in un arco di tempo in cui il R. era amministratore della TRI T. Il C. assunse compiti di amministrazione e gestione soltanto nel 2002, allorchè, avendo nel frattempo il R. abbandonato la società, occorreva che qualcuno si occupasse dei problemi e delle questioni che la coinvolgevano.

Quanto allo J. la sentenza si affida esclusivamente alle dichiarazioni del R., il quale ha alluso al "dominio finanziario" esercitato dal ricorrente nella società TRI T. ed altresì al suo interessamento in alcune transazioni commerciali.

Dunque, anche per tali versi la sentenza è viziata per non aver la Corte territoriale fatto buon uso delle evidenze probatorie.

Con altra argomentazione, nell’ambito dello stesso motivo, i ricorrenti evidenziano il vizio di motivazione con riferimento alla ritenuta inapplicabilità del principio dell’affidamento.

La Corte d’Appello di Torino ha ritenuto, nella sentenza impugnata, non invocabile da parte di J. e C. l’affidamento, che essi – nella progettazione difensiva – avrebbero riposto nell’attività dell’amministratore R. e degli altri dipendenti della società, i quali specificamente si occupavano del controllo della produzione dei dispositivi medici.

In particolare, osserva la sentenza impugnata che "il malfunzionamento delle protesi TT e gli inconvenienti che più frequentemente si verificavano nelle stesse non dipendevano da una cattiva progettazione, mai contestata agli imputati, ma semmai da cattive modalità di fabbricazione (come appunto è stato contestato al N. 1) dei capi 9) e 9bis) e si è visto come della fabbricazione", e delle attività prodromiche e collaterali, si occupassero tutti e tre i prevenuti, J.d.S., C. e R., con una prevalenza di quest’ultimo, ma non certo, da un punto di vista formale e da un punto di vista sostanziale, senza un concreto apporto causale dei due brasiliani" (cfr. sentenza appello, p. 189).

La costruzione della motivazione appare chiara: se J. e C. si sono concretamente ingeriti nella gestione operativa della società, ed in particolare nel settore della produzione dei dispositivi medicali, allora non potevano certo ritenere estranea a sè la relativa attività e, in conclusione, non potevano fare affidamento sul diligente svolgimento ad opera dei soggetti (esclusivamente) preposti dei compiti di controllo sulla fabbricazione.

Il presupposto del ragionamento della Corte di Appello si basa sul concreto compimento di atti di gestione nel settore della fabbricazione ad opera dei due coimputati brasiliani: il presupposto è fallace, in quanto, come dianzi dimostrato, è frutto di erronea motivazione, ed in particolare di illogica e contraddittoria valutazione degli elementi di prova, e di erronea valutazione ed applicazione dei principi in materia di chiamata di correità.

Con un’ultima argomentazione si denuncia illogicità della motivazione nella parte relativa alle statuizioni civili.

La sentenza impugnata si occupa, alle pagine 191 e 192, delle statuizioni civili, ed in particolare del motivo di appello attraverso il quale si chiedeva di revocare la statuizione in primo grado disposta dal Tribunale, che imponeva il risarcimento del danno subito dall’Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista, dalla Regione Piemonte e dalla associazione Cittadinanza Attiva – Tribunale dei diritti del Malato.

Si chiedeva altresì di revocare o di ridurre le provvisionali statuite in favore delle parti civili in danno delle quali il Tribunale aveva affermato la realizzazione del reato contestato.

Ad esito del giudizio di appello, la Corte territoriale ha confermato le statuizioni civili quanto agli Enti pubblici e quanto alla associazione Cittadinanza Attiva, così come ha confermato le statuizioni civili in favore delle parti civili in relazione ai reati di lesioni personali colpose per i quali la sentenza di appello ha confermato la condanna. Ciò premesso, e ribadito che dall’accoglimento dei motivi di ricorso 2 e 3 discende la declaratoria della insussistenza del fatto ovvero che il fatto non costituisce reato per difetto dell’elemento soggettivo del reato, dalla quale, a sua volta, deriva, quale conseguenza necessitata, la revoca delle statuizioni civili contenute nella sentenza impugnata, preme mettere in rilievo un ulteriore profilo. Allude la Corte di Appello alle cause ed alle modalità delle lesioni procurate, che avrebbero cagionato un rilevantissimo danno di immagine agli Enti Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista e Regione Piemonte.

MOTIVI AGGIUNTI. Con atto depositato l’11.02.2011 i ricorrenti, sebbene dichiarino di presentare nuovi motivi, in sostanza espongono argomentazioni integrative a quelli già esposti. In particolare, quanto all’eccezione in rito (primo motivo), si riporta altra giurisprudenza di questa Corte in materia di cui alla sentenza n. 19735 del 2010, e si rappresenta che non è assimilabile la situazione della notifica dell’avviso ex art. 169 cod. proc. pen. a persona diversa dall’interessato, ma che non dichiara il rapporto intercorrente con il medesimo, con quella affrontata dalla Corte di Cassazione relativa a quella del mancato ritiro o del rifiuto di ricevere, trattasi di situazioni completamente diverse.

Quanto agli altri motivi già esposti si ribadisce la censura relativamente alla ritenuta condotta attiva rispetto a quella sostanzialmente contestata di natura omissiva ed al ragionamento logico-giuridco posto a base della motivazione sul punto. Da ultimo, sempre con riferimento alla già denunciata illogicità e contraddittorietà della motivazione per la mancata applicazione del principio dell’affidamento si ribadisce l’argomentazione già svolta integrandola con un richiamo a quelle svolte in riferimento agli altri motivi.

RICORSO R..

Il ricorrente R. denuncia:

con un secondo motivo (il primo è quello già esposto con riferimento ad eccezioni procedurali) si denuncia vizio di motivazione.

Con riferimento all’unico caso per il quale è stata ritenuta la penale responsabilità del R. si evidenzia la contraddittorietà della motivazione sia intrinsecamente, rispetto alle motivazioni con cui la stessa Corte ha assolto l’imputato da altri casi di lesioni e sulla base della stessa fonte di prova, sia estrinsecamente per la diversa valutazione che viene data ai contenuti delle perizie del Collegio "(OMISSIS)" e del Collegio "(OMISSIS)".

Il caso del paziente Cu. è uno di quelli in cui le conclusioni a cui giungono i due collegi peritali non sono concordi: ebbene, mentre nelle altre ipotesi di rilevata discordanza tra gli assunti conclusivi dei due collegi peritali, la Corte distrettuale ha ritenuto di dover assolvere il ricorrente, in relazione al caso del Cu. ha diversamente disposto prendendo in considerazione le sole conclusioni della perizia M. ed altri ed omettendo ogni considerazione su quanto affermato dall’altro collegio peritale.

Ma tale fonte si autoqualifica incompleta e suscettibile di rivalutazioni (Nelle conclusioni della perizia M. ed altri si legge: Si precisa che di questo soggetto (il Cu.) non è disponibile documentazione, ma ci riferiamo esclusivamente alla precedente perizia non conclusa: le considerazioni sono pertanto forzatamente incomplete e pertanto c’è possibilità di rivalutazione….All’esito della valutazione bioingegneristica e dell’esame dei dati storico-clinici effettuati nel corso di questa perizia è possibile affermare che il malfunzionamento della protesi valvolare aortica TRI 27 impiantata il 19.01.2001 sia stato, con elevata probabilità, determinato dalle caratteristiche della stessa e che l’intervento di sostituzione era necessario anche nell’ottica di un’azione profilattica") e incorre in numerose contraddizioni, senza pervenire ad un giudizio di ragionevole certezza. Inoltre, la Corte ritiene di non dover valutare i contenuti della perizia C. ed altri ed omette di considerare le definite certezze che si sono raggiunte in dibattimento in merito alla possibilità di malpratica chirurgica in fase di intervento. La perizia C. evidenzia ex post, vale a dire all’esito dell’espianto della protesi, un difetto riguardante la presenza di un’incrinatura del perno con persistenza di alette in sede, ma afferma anche che tale difetto non forniva alcun tipo di disfunzione concreta e che non era rilevabile prima della rimozione della valvola, che è stata fatta solo a scopo profilattico.

La perizia però, rileva il ricorrente, non specifica quale possa essere la causa di tale difetto e come esso abbia inciso sulla necessità dell’intervento di sostituzione valvolare. Anzi segnala come tale difetto fosse irrilevante rispetto all’intervento di sostituzione, in quanto non comportava nessun tipo di malfunzionamento.

Aggiunge che, con riferimento alla possibilità di malpratica chirurgica, è necessario considerare le testimonianze – del tutto tralasciate dalla Corte di Appello – assunte in primo grado rese dai cardiochirurghi dell’Ospedale Le Molinette, in merito al modus operandi in caso di intervento di sostituzione valvolare, caratterizzato dall’abitudine di utilizzare strumenti estranei al Kit fornito con la valvola – quali pinze di Kelly, cateteri di suzione e addirittura le mani – per facilitarne l’impianto. Non si comprende come – di fronte a dichiarazioni di tenore inequivocabile da soggetti la cui attendibilità non può dubitarsi, dato che sono giunti a "confessare" atti professionalmente impropri posti in essere da loro stessi – la Corte abbia potuto ritenere che "In ordine ad una pretesa malpratica chirurgica presso le (OMISSIS) non vi è in causa alcun indizio".

Si riporta sul punto anche la testimonianza di un cardiochirurgo spagnolo, J.B., non analizzata dalla Corte, secondo cui, per un caso analogo accaduto in Spagna, le indagini esperite dal produttore nell’immediatezza avevano dato come esito l’accertamento di una malpratica chirurgica, riconosciuta dallo stesso cardiochirurgo che aveva impiantato il dispositivo. Quanto poi al passo motivo della sentenza secondo cui "una malpratica chirurgica diffusa, laddove esistente, avrebbe dovuto interessare, con percentuali grosso modo analoghe, anche dispositivi della medesima categoria prodotti da altri fabbricanti" il ricorrente precisa che agli atti del processo vi è certezza in ordine alla peculiarità delle valvole TRI riguardo all’espresso divieto – contenuto nel relativo libretto di istruzioni – di maneggiare i dispositivi valvolari con strumenti diversi da quelli del Kit in dotazione alle valvole stesse.

Con un terzo motivo si denuncia altro vizio di motivazione con riferimento alla omessa considerazione della sussistenza di una delega di funzioni conferite all’ing. T. L.F..

Secondo la Corte torinese la responsabilità (In numerosi passi della pronuncia impugnata, la Corte ritiene che le valvole TRI fossero caratterizzate da difetti strutturali che ne inficiavano la corretta funzionalità e che la presenza di tali vizi fosse ascrivibile alla responsabilità dell’ing. R., in quanto non "può trovare applicazione nella fattispecie, a favore degli imputati "fabbricanti" delle protesi, il principio di affidamento nel corretto comportamento di altri soggetti secondo il quale ciascuno … risponde per le conseguenze della propria condotta, nell’ambito delle proprie conoscenze e specializzazioni, e non risponde invece della violazione delle regole cautelare da parte di altri partecipi della medesima attività, nel senso che l’agente deve poter confidare nel rispetto delle regole da parte di queste persone. .. il malfunzionamento delle protesi TT e gli inconvenienti che più frequentemente sì verificavano nelle stesse … dipendevano … semmai da cattive modalità di fabbricazione … e si è visto come della fabbricazione", e delle attività prodromiche e collaterali, si occupassero tutti e tre i prevenuti, J.D.S., C. e R., con una prevalenza di quest’ultimo, ma concerto, da un punto di vista formale, senza un concreto apporto causale dei due brasiliani" del R. sarebbe apoditticamente determinata dal mero fatto di essere il cd. "fabbricante" e la Corte non ritiene neppure di dover valutare il sistema qualità vigente all’epoca dei fatti all’interno della TRI TECHNOLOGIES e l’eventuale presenza di soggetti deputati al controllo dello stesso. Nel corso del processo si è rilevato come i pretesi difetti strutturali delle valvole TRI fossero conseguenza di un’erronea valutazione – da parte dei periti e dei consulenti del PM – dei dati di progetto, che indicavano anche le modalità di assemblaggio dei singoli componenti di ciascuna valvola, nonchè i valori di tolleranza che in tale assemblaggio dovevano essere rispettati.

Si sottolinea che – nel caso dovesse rilevarsi l’esistenza di imprecisioni o errori che possano aver portato ad un malfunzionamento dei dispositivi valvolari TRI – tali errori non possono che essere imputati alla fase della lavorazione degli stessi. Non si vede, quindi, come tale malfunzionamento debba essere addebitato al R., posto che tutta la fase della materiale realizzazione delle valvole non faceva capo ad una sua responsabilità. Il controllo di qualità delle valvole era stato affidato ad un ingegnere, di provata competenza nella specifica materia. Costui era l’ng. T.L. F., dotato di specifiche competenze, aveva svolto il suo ruolo.

La corte d’Appello esprime l’addebito di responsabilità a carico del ricorrente per i pretesi deficit nel processo produttivo, omettendo di valutare gli elementi di prova da cui emerge che all’interno della TRI T., sulla specifica materia della qualità della produzione era intervenuta una delega di funzioni, a mezzo della quale tutti i compiti relativi alla supervisione ed al controllo della correttezza del processo produttivo erano attribuiti al F..
Motivi della decisione

I ricorsi devono essere rigettati.

QUESTIONI PROCEDURALI. Il primo motivo posto a base dei ricorsi dello J. e del C. è infondato.

Più in particolare, i ricorrenti hanno confutato la decisione, sul punto, dei giudici di merito rilevando che l’art. 169 c.p.p., comma 1, è rubricato "notificazioni all’imputato all’estero" e disciplina la notifica del primo atto del processo ad uno straniero che non risiede in Italia e che non conosce la lingua italiana, e che, quindi, potrebbe trovarsi in serie difficoltà nell’individuare la lingua stessa nella quale l’atto è scritto e nel reperire qualcuno che glielo possa tradurre (E’ richiamata: Cass., 18.12.1992, Hrustic, in Cass. pen., 1994, p. 1886).

La stessa norma prevede che qualora il destinatario, nel termine di trenta giorni dalla ricezione, non effettui la dichiarazione o l’elezione di domicilio, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore.

L’ipotesi così disciplinata è concettualmente assai diversa dalla situazione in cui la spedizione abbia avuto esito negativo, perchè il destinatario è risultato sconosciuto. La mancata ricezione della raccomandata prevista dell’art. 169 cod. proc. pen. è, infatti, parificarle alla situazione prevista dell’art. 157 c.p.p., comma 5, quando cioè, risulti o appaia probabile che l’imputato non ne abbia avuto conoscenza dell’atto notificato.

Di conseguenza, l’Autorità procedente, di fronte all’impossibilità di avvisare l’imputato all’estero ai sensi dell’art. 169 cod. proc. pen., deve disporre nuove ricerche dell’imputato nei luoghi indicati dell’art. 159 c.p.p. ai fini della declaratoria di irreperibilità attraverso decreto di irreperibilità (in questo senso, v. Cass., sez. 5^ pen., 20.4.2005, n. 33658).

A fortiori, deve escludersi la legittimità della consegna al difensore nell’ipotesi in cui difetti la prova circa la ricezione della raccomandata da parte del destinatario.

In via alternativa, l’Autorità procedente avrebbe potuto disporre la notifica dell’avviso di cui all’art. 169 c.p.p., comma 1, secondo le modalità previste dal Trattato 17 ottobre 1989 fra la Repubblica Italiana e la Repubblica Federativa del Brasile per l’assistenza giudiziaria in materia di diritto penale, ratificato con L. 7 gennaio 1992, n. 41.

Secondo quanto previsto dall’art. 1 del Trattato, l’assistenza comprende la notificazione degli atti giudiziari e, a norma dell’art. 10, comma 2, "la parte richiesta da la prova dell’avvenuta notificazione inviando una ricevuta datata e firmata dal destinatario o una ricevuta delle modalità e della data della notificazione nonchè delle generalità e della qualità della persona che lo ha ricevuto".

Pertanto, sia il ricorso alla procedura di notificazione prevista dall’art. 169 c.p.p., comma 1, sia la modalità di notificazione prevista dal Trattato fra l’Italia ed il Brasile impone la necessaria indicazione sull’avviso di ricevimento della qualità delle persone che hanno ricevuto l’atto, qualora siano persone diverse dal destinatario.

La mancata osservanza di tale procedura comporta la nullità della notifica dell’avviso ex art. 169 cod. proc. pen., e degli atti conseguenti.

Trattasi di nullità di ordine generale, dal momento che incide sui diritti di intervento, assistenza e rappresentanza dell’imputato di cui all’art. 178 c.p.p., lett. c).

Rilevano i ricorrenti che, ricostruita in questi termini la corretta interpretazione della disposizione di cui all’art. 169 cod. proc. pen., deve concludersi per l’erroneità in diritto, per non corretta interpretazione delle norme processuali, della motivazione addotta dalla Corte di Appello alla censura della difesa, atteso che non si pone questione circa la normativa in materia di notifiche a mezzo del servizio postale in Brasile.

Nel caso di specie, risulta per tabulas che gli avvisi non siano stati consegnati ai destinatari C. e J. e, pertanto, non vi è prova che i medesimi abbiano ricevuto all’estero la raccomandata ex art. 169 cod. proc. pen..

La circostanza valorizzata dai Giudici di secondo grado, secondo cui i due avvisi di ricevimento sarebbero stati sottoscritti "secondo le norme brasiliane" a nulla rileva nell’ambito della procedura di notificazione all’imputato residente all’estero prevista dal codice di procedura penale italiano.

Secondo la disposizione codicistica, la modalità di notificazione prevista dall’art. 169 c.p.p., comma 1, è da ritenersi efficacemente compiuta soltanto se vi è prova che il destinatario abbia ricevuto la raccomandata.

In difetto, l’Autorità procedente dovrà procedere alla notificazione attraverso le altre modalità previste dalla legge.

Ulteriore profilo di censura viene svolta con riguardo all’assunto secondo cui, ad avviso dei Giudici di secondo grado, "la raccomandata ex art. 169 e p.p. non è stata ricevuta dagli imputati personalmente, ma da interposta persona (verosimilmente da un dipendente e, comunque, da un addetto)" (v. pag. 168 della sentenza impugnata).

La circostanza in oggetto, per i ricorrenti, è priva di alcun riscontro ed è il frutto di una deduzione indimostrata; la verosimiglianza richiamata dalla Corte di Appello per poter sostenere la ricezione da parte dei destinatari dell’atto notificato attiene ad un criterio di accertamento non legale e, soprattutto in questo caso, in cui non vi è prova circa la qualità dei coloro che hanno sottoscritto l’avviso di ricevimento e di un loro rapporto con gli imputati che li legittimasse al ritiro dell’atto, non può essere tenuta in considerazione se non per dimostrare l’esito negativo della procedura di notificazione.

Viene altresì censurata quella parte della motivazione laddove la Corte, ritenendo corretto il ragionamento del Tribunale, rileva che, comunque, gli imputati avevano avuto conoscenza del procedimento attraverso gli articoli di giornali pubblicati in Brasile e, quindi, non era necessario far ricorso alla procedura di cui all’art. 169 cod. proc. pen..

Si rileva che le disposizioni relative alla notifica all’imputato all’estero non si applicano nel caso in cui l’imputato abbia in precedenza avuto notizia del procedimento penale instaurato nei suoi confronti ed abbia eletto domicilio. E non è questo il caso: anche a voler ritenere che vi fosse da parte degli imputati una informale conoscenza del procedimento, i medesimi non hanno mai formalmente eletto domicilio in Italia.

Il Collegio ritiene che le argomentazioni teste esposte non sono condivisibili per un’interpretazione inesatta della norma di riferimento in quanto collegata alla disciplina delle notificazioni degli atti giudiziari.

Ad una lettura, meno superficiale, della norma emerge che il titolo dell’art. 169 cod. proc. pen. "Notificazioni dell’imputato all’estero" non attiene alla modalità specifica delle notificazioni di atti giudiziari all’imputato (sarebbe più corretto parlare di indagato, atteso che la disciplina contenuta nella norma de qua riguarda la fase iniziale del procedimento penale) che si trovi all’estero, bensì, nella prospettiva delle future notificazioni degli atti giudiziari da eseguirsi esclusivamente nel territorio dello Stato, fissa le modalità per portare a conoscenza dell’imputato l’inizio a suo carico di un procedimento penale, con l’indicazione dei dati significativi (autorità che procede, il titolo del reato e il luogo in cui è stato commesso) e con l’invito a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato, onde consentirgli di esercitare adeguatamente il diritto di difesa. Le notificazioni degli atti giudiziari, verranno poi effettuate nel territorio dello Stato, presso il domicilio eletto in Italia, se indicato nei trenta giorni, o, in mancanza, presso il difensore (di fiducia o di ufficio) secondo la disciplina prevista dagli artt. 148 e segg. cod. proc. pen. relativa, appunto, alla "notificazione degli atti".

Dunque, la modalità scelta dal legislatore di attivare il meccanismo delle notificazioni degli atti giudiziari all’imputato che si trovi all’estero è quello della raccomandata con avviso di ricevimento. Si fa, cioè, ricorso ad una modalità di comunicazione, vale a dire quella attraverso il servizio postale attivata autonomamente dall’Ufficio del P.M. procedente e non attraverso l’Ufficiale giudiziario ai sensi dell’art. 170 cod. proc. pen., che regola, invece, le notificazioni di atti giudiziari a mezzo posta, modalità, questa, di notificazione sussidiaria rispetto a quella ordinaria della notifica diretta a mezzo Ufficiale giudiziario.

Un dato normativo è certo: la notificazione degli atti giudiziari è attività esclusiva dell’Ufficiale giudiziario ( art. 148 c.p.p., comma 1) che può compierla direttamente, osservando le modalità stabilite dagli artt. 148 e segg. cod. proc. pen. o, a mezzo posta, con le modalità previste dall’art. 170 cod. proc. pen. "nei modi stabiliti dalla relative norme speciali", e, quindi, con l’osservanza della specifica disciplina prevista dalla L. n. 890 del 1982.

Ciò non può non avere rilievo in chiave applicativa al caso che è oggetto dell’esame del Collegio.

La raccomandata inviata all’estero, ai sensi dell’art. 169 cod. proc. pen., comma 1, direttamente dall’Autorità Giudiziaria procedente segue modalità di spedizione, così come pure formalità attestanti l’avvenuto ricevimento, che non sono quelle della "notifica degli atti a mezzo posta".

Non trova, dunque, applicazione, in mancanza di uno specifico richiamo della norma codicistica all’art. 170 cod. proc. pen., la disciplina prevista dalla L. n. 890 del 1982, art. 7 con riferimento alla necessità che "…quando la consegna sia effettuata a persona diversa dal destinatario, la firma deve essere eseguita, su entrambi i documenti summenzionati, dalla specificazione della qualità rivestita dal consegnatario…..".

E, pertanto, non è conferente nè il richiamo alla giurisprudenza di questa Corte a S.U., di cui alla sentenza 22.05.1998 – Marzaioli -, nè a quella della Corte Costituzionale, di cui alla sentenza del 13.05. 1991 n. 211, in quanto entrambe afferiscono alla "notificazione di atti giudiziari", a mezzo posta e, quindi, tramite l’ufficiale giudiziario. Ebbene, è giuridicamente corretta l’affermazione della Corte d’Appello torinese sul punto: " … l’art. 169 cod. proc. pen. prevede che il giudice o il pubblico ministero invii alla persona nei cui confronti si procede "raccomandata con avviso di ricevimento" e ciò è stato fatto nel caso in esame e in atti vi sono i due avvisi di ricevimento, sottoscritti, evidentemente secondo le norme brasiliane e non quelle italiane, da chi materialmente li ha ricevuti". Ed inoltre: "non conferenti sono quindi le osservazioni degli appellanti in merito alle modalità delle notificazioni, che sono altra cosa rispetto all’invio per posta, esattamente ammesso "soltanto nelle ipotesi stabilite da singole disposizioni di legge ed in presenza delle specifiche situazioni intesse indicate", vale a dire questa, come statuito dalla Suprema Corte". D’altronde, già il GUP, con ordinanza del 25.10.2005, aveva osservato che le norme italiane "non possono evidentemente trovare applicazione per l’ufficiale postale di stato estero, in assenza di convenzioni internazionali regolataci della materia", e, poi, il Tribunale, con ordinanza dibattimentale del 7.07.2009, aveva rilevato che è sufficiente "il recapito di un avviso con lettera raccomandata da eseguire con modalità proprie del servizio postale del paese estero interessato".

La Difesa degli imputati in riferimento a tali argomentazioni ha opposto la vigenza della L. 7 gennaio 1992, n. 41 con cui è stato ratificato il trattato fra la Repubblica Italiana e la Repubblica Federativa del Brasile per l’assistenza giudiziaria in materia penale stipulato a Roma il 17.10.1989 (V. parte narrativa a pag. 6).

Anche tale richiamo non è attinente.

Invero, il trattato regola tra i due paesi l’assistenza giudiziaria in materia penale (l’oggetto è delineato all’art. 1 della legge di ratifica) e, questa, per la sua operatività, deve essere attivata a mezzo di una formale richiesta o domanda, ai sensi dell’art. 4 della legge di ratifica, ( L. n. 41 del 1992, art. 4 – 1. Le Parti inviano le comunicazioni e la documentazione previste dal presente Trattato per il tramite delle rispettive autorità centrali. 2. Ai fini del presente Trattato, l’autorità centrale per la Repubblica Italiana e il Ministero della Giustizia e, perla Repubblica Federativa del Brasile, il Ministero da rustica". 3 E’ ammessa anche la trasmissione per via diplomatica, e con uno specifico contenuto ( L. n. 41 del 1992, art. 7 – 1. La domanda di assistenza giudiziaria deve contenere le seguenti indicazioni: a. l’Autorità Giudiziaria che procede e le generalità della persona nei cui confronti si procede, nonchè l’oggetto e la natura del procedimento e le norme penali applicabili al caso; b. l’oggetto ed il motivo della domanda; c. ogni altra indicazione utile per l’esecuzione degli atti richiesti, ed in particolare l’identità e, se possibile,il recapito della persona nei cui confronti gli atti devono essere eseguiti. 2. La domanda, se ha ad oggetto la ricerca e l’acquisizione di prove, deve inoltre contenere una sommaria esposizione dei fatti oggetto di indagine, nonchè quando si tratti di interrogatorio o confronto, l’indicazione delle domande da porre), ed anche per la notificazione atti, regolata dalla L. n. 41 del 1992, art. 10, che al comma 2 stabilisce quali siano le condizioni richieste per la prova dell’avvenuta comunicazione (norma specificamente richiamata relativamente all’eccezione de qua dalla Difesa), è sempre richiesta la domanda formale di assistenza ( L. n. 41 del 1992, art. 10, comma 1 – La domanda che ha ad oggetto la notificazione di atti deve essere trasmessa non meno di novanta giorni prima della scadenza del termine utile per la notificazione stessa……).

Con la missiva inviata, autonomamente, così come prescrive il codice di rito, con lettera raccomanda ed avviso di ricevimento, dal P.M. di Torino in Brasile ai due imputati siamo di al di fuori dell’ambito di operatività del Trattato, in quanto non è stata attivata a mezzo di una formale richiesta di assistenza, come da esso prevista. Va osservato, ancora, che il legislatore all’art. 169 cod. proc. pen. non ha fatto uso del termine "avviso", utilizzato diffusamente in altri articoli del codice di rito per portare a conoscenza dell’indagato e/o imputato in genere l’avvenuto deposito di atti giudiziari, la cui conoscenza comporta l’esercizio di diritti e/o di facoltà processuali, ma il termine "raccomandata", con testuale riferimento alle modalità di spedizione di una missiva. E’ indubbio, infatti, che le nullità riguardanti (ad es. per quanto interessa quella prevista dall’art. 171 c.p.p., lett. d) le notifiche si estendono anche gli avvisi, le cui modalità di notificazione, per l’appunto, sono quelle degli atti giudiziari, ma non certamente alle "raccomandate" autonomamente spedite all’estero dall’Autorità Giudiziaria procedente.

Dunque, nel caso concreto, la spedizione delle raccomandate ai sensi dell’art. 169 cod. proc. pen., comma 1 è da ritenersi ritualmente avvenuta, come rituale devono ritenersi i relativi avvisi di ricevimento, essendo state accettate da persone che si trovavano ognuna presso il rispettivo domicilio all’estero degli imputati (per altro da questi nè disconosciuto, nè contestato), e non essendo stata contestata o, comunque, prospettata una diversa modalità di avvenuta ricezione di raccomandate con avviso di ricevimento prevista dalla legge brasiliana.

A chiusura di quanto argomentato va, altresì, rilevata la carenza di interesse ad eccepire la questione di cui trattasi, avendo avuto i ricorrenti conoscenza del procedimento di cui trattasi in data antecedente all’invio delle raccomandate ai sensi dell’art. 169 cod. proc. pen., tanto che, nell’interesse dello J. e del C., venivano depositati nella Cancelleria, rispettivamente in data 29.10.2004 e 3.11.2004, atti di nomina del difensore di fiducia.

Che i dati da inserire nella raccomandata, ai sensi dell’art. 169 c.p.p., comma 1, possano essere portati a conoscenza dell’interessato in altro modo (vale a dire per equipollente) non sussistono dubbi di sorta, in mancanza di particolari formalità previste dal nostro ordinamento, purchè la diversa modalità di comunicazione raggiunga il suo effetto, nel senso che si abbia la prova dell’avvenuta ed effettiva conoscenza di quei dati al destinatario della raccomandata, individuato dall’art. 169 cod. proc. pen..

Negli atti di nomina del difensore di fiducia, cui si è fatto riferimento, emerge che i ricorrenti erano a conoscenza di un procedimento penale iniziato a loro carico presso il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Torino (tale è l’intestazione dell’atto di nomina) e che aveva ad oggetto la commercializzazione in Italia di valvole cardiache prodotte dalla TRI-Technologies, si precisava che tale notizia era stata appresa dalla stampa brasiliana.

Dunque, dei dati indicati dall’art. 169 c.p.p., comma 1, da inserire nella raccomandata da inviare all’imputato all’estero, sembrerebbero mancare la conoscenza del titolo del reato, del luogo e della data di commissione dello stesso.

Nelle loro difese gli imputati hanno sostenuto di non avere mai avuto conoscenza di essi per cui sarebbe stato pregiudicato il loro diritto di difesa.

Ma così non è.

Ed infatti, la Corte torinese ha evidenziato che in atti vi è fotocopia di un articolo di un giornale brasiliano del 27.11.2002 dal titolo "(OMISSIS)" con sottotitolo " (OMISSIS)" che tratta " (OMISSIS)".

La traduzione è superflua.

Dunque, in tale articolo si apprendono gli altri dati mancanti: a) titolo del reato "morte di dodici persone per valvole cardiache sospette (suspeita traducibile in italiano anche "difettose""; b) il luogo ove è stato commesso, Padova e Torino; c) il tempo: nel corso dei due anni precedenti la pubblicazione dell’articolo.

Sono gli stessi imputati, con la dichiarazione contenuta nell’atto di nomina, che riferiscono di essere a conoscenza di tali dati. Come già rilevato, l’atto di nomina del difensore di fiducia è stato effettuato "in relazione alle notizie apprese tramite la stampa di informazione e relative ad un procedimento penale".

Questione procedurale proposta con il primo motivo del ricorso dal R..

Anche tale censura è infondata.

Osserva in proposito la Corte che la disciplina dettata con l’art. 143 cod. proc. pen. consente di affermare che le regole sulla nomina dell’interprete e sulla traduzione degli atti allo straniero alloglotta sono funzionali alla garanzia della corretta comprensione da parte sua di ciò che accade nel processo, sempre che lo straniero partecipi o intenda partecipare attivamente al processo e voglia comprendere ciò che in esso accade in modo da poter valutare personalmente le strategie processuali, immediate o no, che ritiene più opportune intraprendere. Emblematica in proposito è la formula della legge che assicura allo straniero il diritto di farsi assistere da un interprete gratuitamente "al fine di poter comprendere l’accusa contro di lui formulata e di seguire il compimento degli atti cui partecipa". Formula che lascia intendere il diritto alla traduzione dell’atto dello straniero sempre che costui venga in contatto materiale con l’atto processuale che lo riguarda.

Non pare, quindi, infondato il passaggio logico secondo il quale se lo straniero si ponga in una condizione processuale in cui tutti gli atti debbano essere notificati mediante consegna al suo difensore (come nella specie, poichè il R. non ha effettuato elezione di domicilio in Italia, nonostante l’invito in tal senso rivoltogli ai sensi dell’art. 169 c.p.p., comma 1, ma ha proceduto solo alla nomina del difensore di fiducia, le notificazioni sono state eseguite mediante consegna a quest’ultimo), non subisce alcuna lesione concreta dei suoi diritti per effetto della mancanza di tale traduzione – che pertanto non deve essere eseguita – non rimanendo aggredito il vero nucleo della garanzia oggetto della tutela, che deve essere assicurata nei casi di effettività della lesione dell’interesse protetto.

In ipotesi siffatte, possono verificarsi due situazioni. Lo straniero (nel caso difeso di fiducia) può avere perso il contatto con il suo difensore: in tale ipotesi una traduzione dell’atto nella madre lingua dello straniero a mani del difensore non avrebbe un concreto significato funzionale alla difesa personale, e lo straniero difetta di interesse alla traduzione dell’atto: il difensore, indipendentemente dalla traduzione, potrà compiere gli atti difensivi necessari nell’interesse dell’imputato. Lo straniero potrebbe, invece, non avere perso il contatto col difensore (oppure potrebbe averlo perso e poi ricostituito): in tal caso lo straniero potrà valutare le strategie processuali da seguire con il difensore nella lingua che entrambi riterranno più opportuna: il difensore avrà modo di aggiornare il cliente sulla sua situazione processuale e di concordare le condotte da seguire; ma, ancora una volta, si deve ribadire la mancanza di lesione funzionale del diritto dello straniero alloglotta di ottenere una traduzione dell’atto che dovrebbe essere notificato al difensore (Sez. 6, Sentenza n. 28010 del 11/06/2009 Ud. Rv. 244429 Sez. 6, Sentenza n. 7644 del 22/10/2009 Ud. Rv. 246167).

Quanto detto vale per tutti gli atti di cui il difensore ha lamentato la mancata traduzione: sentenza di primo grado, decreto di citazione a giudizio innanzi alla Corte d’Appello, sentenza di secondo grado ed estratto contumaciale della stessa. Nel caso è stato comunque assicurato il diritto del R. al giusto processo, compresa la facoltà di impugnare le sentenze di merito attraverso il difensore.

Per tali argomentazioni non convince, anche, la differenza evidenziata dal ricorrente, rilevante sul piano applicativo, tra lo straniero che elegge domicilio in Italia con quello che non lo elegge (come nel caso che ci occupa) laddove, in tale caso, gli atti vengono notificati ex lege presso il difensore, che in questo caso funge da mero "fermo posta". Il difensore non può mai essere considerato un mero recettore degli atti inviati all’imputato, egli è posto sempre a garanzia del diritto di difesa.

Il motivo di ricorso deve conclusivamente essere rigettato.

ESAME DEI MOTIVI ATTINENTI ALLA CONTESTAZIONE. Con il secondo motivo posto a base del ricorso presentato da J. e C., riproponendo a questa Corte la distinzione tra comportamento omissivo e commissivo, si è criticato, in presenza di una diversità di condotte, qualificabili alcune come passive ed altre come attive, il criterio della prevalenza di una condotta rispetto all’altra, adottato dai giudizi di merito, per qualificare, rectius individuare, con riferimento alla causazione dell’evento, quella rilevante, ritenuta di natura commissiva.

E’ al riguardo solo il caso di aggiungere che la distinzione non deve essere sopravvalutata, dal momento che è ormai pacificamente riconosciuto che i due tipi di comportamento sono in realtà strettamente connessi e per così dire l’uno speculare all’altro, dato che nel violare le regole di comune prudenza il soggetto non è evidentemente inerte ma tiene un comportamento diverso da quello dovuto; peraltro essi sono sottoposti a regole identiche in ordine all’accertamento della responsabilità e la distinzione attiene soltanto alla necessità, in caso di comportamento omissivo, di fare ricorso per verificare la sussistenza del nesso di causalità, ad un giudizio controfattuale meramente ipotetico (dandosi per verificato il comportamento invece omesso), anzichè fondato sui dati della realtà.

A conclusione della sua disamina sul punto, dunque, la Corte d’Appello torinese ha affermato che gli eventi oggetto di causa non dipesero esclusivamente da una condotta omissiva ma da una condotta prevalentemente commissiva, giungendo all’affermazione del principio che, per valutare come debba essere qualificata la condotta contestata nel suo complesso, a fronte di condotte di natura sia commissiva che omissiva, si deve verificare quale delle due abbia la prevalenza sull’altra. Nel caso in esame ai tre imputati, i cc.dd.

"fabbricanti" delle protesi TT è stato addebitato appunto di aver fabbricato (è indubbiamente l’attività principale) le valvole utilizzando dei materiali di scarsa qualità, comportamento preceduto da altra condotta apparentemente omissiva (in ordine agli obblighi ai quali si sarebbero dovuti attenere perchè le protesi rispondessero alle caratteristiche che dovevano avere secondo la Direttiva 93/42/CE) e poi seguita da un’ulteriore condotta (apparentemente) omissiva, consistente nel non aver eseguito i necessari controlli.

L’attività essenziale era stata, però, come ritenuta dalla Corte torinese, quella della ‘fabbricazione ", eseguita malamente.

Affermare che gli imputati non si attivarono perchè le protesi avessero i requisiti previsti dalla Direttiva 93/42 CE in realtà, nella sostanza, significa che a J.D.S. e a C., come a R., si addebita di aver costruito delle protesi valvolari prive dei requisiti necessari per essere commercializzate nella CE. Sempre in sostanza, il fatto che gli imputati "fabbricanti" "non disponevano adeguati controlli", "non analizzavano e non eliminavano" il miglior assemblaggio e la migliore lucidatura degli emidischi, significa che i detti "assemblaggio e lucidatura delle protesi" non erano adeguati, come in realtà si è constatato. Parimenti il non aver analizzato ed eliminato i rischi della formazione di trombi e del rigurgito valvolare causati dalle protesi e il non aver analizzato il cattivo assemblaggio degli emidischi che causava il funzionamento "a scatto ", in sostanza, significa che nelle protesi TT questi inconvenienti si verificavano con facilità, che altrimenti non avrebbe avuto senso contestare ai "fabbricanti " di non essersi attivati per eliminarli, se gli stessi non si verificavano. Sottolinea, poi, la Corte del merito che, in definitiva, l’addebito mosso ai "fabbricanti" è dunque quello di avere commercializzato dei prodotti delicatissimi e destinati all’inserimento nel cuore umano senza garantire il massimo standard di sicurezza tecnicamente raggiungibile. Si tratta dunque di violazione di un divieto. La motivazione della Corte territoriale è condivisibile anche se richiede alcune precisazioni in diritto.

Spesso (e proprio in tema di responsabilità medica vi è stata l’elaborazione teorica della distinzione tra i due tipi di condotta) viene ritenuta omissiva una condotta che tale non è in quanto si confonde tra il reato omissivo e le componenti omissive della colpa:

i casi dell’agente che pone in essere una condotta attiva colposa omettendo di adottare quella diligente non rientrano nella causalità omissiva ma in quella attiva. E’ il caso del medico che adotta (comportamento attivo) una terapia errata e quindi omette di somministrare quella corretta (comportamento passivo). Causalità omissiva sarà dunque solo quella di chi omette la condotta dovuta:

il medico che omette proprio di curare il paziente o che rifiuta di ricoverarlo. Ebbene, alla luce di tale considerazione, esaminando le condotte evidenziate dalla Corte d’Appello, formalmente contestate agli imputati, non possono esservi dubbi sulla natura commissiva della causalità nel caso in esame, ed il criterio della prevalenza, cui si è fatto riferimento, non ha ragione di essere, avendo rilevanza quella condotta che ha determinato il concreto innescarsi della progressione causale che ha prodotto l’evento.

Questa sezione della Corte ha affermato (sentenza n. 26020 del 29.4.2009, Rv. 243931, Cipiccia e altri, richiamata dalla Corte d’Appello) che in tema di reati colposi, quando l’agente non viola un comando, omettendo cioè di attivarsi quando il suo intervento era necessario, bensì trasgredisce ad un divieto, agendo quindi in maniera difforme dal comportamento impostogli dalla regola cautelare, la condotta assume natura commissiva e non omissiva e pertanto, ai fini dell’accertamento della sussistenza del rapporto di causalità fra la stessa e l’evento realizzatosi, il giudizio controfattuale non va compiuto dando per avvenuta la condotta impeditiva e chiedendosi se, posta in essere la stessa, l’evento si sarebbe ugualmente realizzato in termini di elevata credibilità razionale, bensì valutando se l’evento si sarebbe ugualmente verificato anche in assenza della condotta commissiva.

Orbene, il divieto trasgredito è quello di aver commercializzato le protesi valvolari fabbricate senza l’osservanza di quelle regole, imposte dalla legislazione comunitaria, circa il possesso da parte di tali meccanismi delicatissimi di standard di sicurezza, e, quindi, con violazione della norma comunitaria (Direttiva 93/42/CE) che consente la commercializzazione solo di quelle protesi fabbricate secondo le indicazioni dalla stessa richieste.

E’ la commercializzazione che ha reso concreto il rischio per la salute pubblica.

Si è parlato di "progressione causale" essendo evidente che alla commercializzazione delle protesi è seguita la loro adozione da parte dei sanitari de "(OMISSIS)" ed il conseguente impianto nei pazienti e la necessità di sostituirle, in quanto difettose, procurando le lesioni contestate (intervento chirurgico).

Tutta l’attività precedente alla fabbricazione, indicata dalla difesa come omissiva, sebbene significativa nella produzione delle protesi non munite di quei requisiti richiesti dalla normativa CE, cui si è fatto riferimento, non assume rilevanza nella connotazione della condotta, in quanto sarebbe rimasta del tutto indifferente, se le protesi non fossero state commercializzate.

Viene, dunque, meno quella critica difensiva secondo cui il criterio della "prevalenza" fra condotte attive ed omissive abbia introdotto un inaccettabile coefficiente di incertezza nella individuazione e nell’accertamento del rapporto causale nella fattispecie concreta.

Ma, a ben vedere, per quanto già argomentato, l’avere fabbricato una protesi valvolare in maniera non corrispondente alla normativa comunitaria ed, in particolare, il non aver disposto gli adeguati controlli o il non aver eliminato gli inconvenienti con riferimento all’assemblaggio e alla lucidatura ecc, sono tutte condotte assimilabili all’esempio già apportato del medico che somministra una cura diversa da quella prevista da protocolli ordinariamente accettati dalla comunità scientifica, e, quindi, impropriamente definite omissive.

Tutto ciò evidenziato, è doveroso, però, rilevare, che al di là della precisazione del tipo di causalità, sia il Tribunale che la Corte d’Appello dopo, procedendo alla verifica (sulla base delle consulenze tecniche in atti) sulle caratteristiche obiettive delle protesi valvolari in discussione, hanno, comunque, evidenziato quei profili concretamente idonei ad aumentare il livello di rischio, al di là dell’aspetto ricollegabile alla mancanza dei presupposti formali per l’ottenimento della certificazione CE. L’indagine effettuata evidenzia lo scrupolo di evitare che la violazione di un divieto (quello di non commercializzare protesi cardiache non approvate dalla normativa CE) che avrebbe potuto assumere rilevanza solo formale, avesse indotto a ritenere la responsabilità dei ricorrenti (compreso il R.) ancorchè le patologie riscontrate sui pazienti, che hanno convinto i sanitari alla sostituzione delle protesi TT, avessero potuto avere una ragionevole spiegazione alternativa a quella dei difetti delle protesi stesse.

Correttamente, sul punto, la Corte del merito ha fatto riferimento alla giurisprudenza di legittimità (sez. 4^, sent. n. 19512 del 14.02/15.05.2008, Rv. 200172) affermativa del principio secondo cui, per poter addebitare un evento ad un determinato soggetto, occorre accertare non solo la sussistenza "del nesso causale materiale" tra la condotta (attiva o omissiva) dell’agente e l’evento, ma anche la cosiddetta "causalità della colpa", rispetto alla quale assumono un ruolo fondante la prevedibilità e revitabilità del fatto. In sostanza la causalità si configura non solo quando il comportamento diligente imposto dalla norma a contenuto cautelare violata avrebbe certamente evitato l’evento antigiuridico che la stessa norma mirava a prevenire, ma anche quando una condotta appropriata avrebbe avuto significative probabilità di scongiurare il danno.

Così facendo, nell’affrontare i casi singoli di sostituzione delle protesi TT, i giudici del merito hanno sostanzialmente esplicitato anche un giudizio controfattuale laddove, riprendendo le conclusioni dei periti, hanno affermato che è ragionevole ritenere che l’impianto di valvole diverse non avrebbe determinato gli interventi di sostituzione (ciò è stato sostenuto in riferimento ai casi oggetto della contestazione residua addebitata agli imputati).

Poichè, in ordine a tale ottica di valutazione operata dai giudici di merito, sono state apportate censure circa l’individuazione del nesso causale nei casi " G., Cu." (il caso " S.", poichè vi è sentenza di proscioglimento per la estinzione del reato per prescrizione, sarà trattato separatamente) è necessario affrontarle.

Caso G.: la difesa rileva assenza di prova in ordine alla terapia anticoagulante che minerebbe in radice la ricostruzione dell’iter anticoagulante; addirittura l’assunzione di un’erronea, ipotizzata, terapia anticoagulante può assumere valenza interruttiva del nesso causale ai sensi dell’art. 41 cpv. cod. pen..

In sostanza, non si contestano le irregolarità di malfunzionamento evidenziate dai periti su entrambe le protesi cardiache valvolari, aortica e mitralica, impiantate sulla paziente l’8.02,2002, e sostituite entrambe il 19.01.2005, a seguito di diagnosi di insufficienza tricuspidale severa, ma si argomenta che si è trattato di intervento effettuato per ragione di profilassi, e, pertanto, non necessitato da un malfunzionamento, in assenza di una prova certa circa la terapia anticoagulante che avrebbe dovuto seguire la paziente.

I giudici del merito, evidenziando che i periti, basandosi su di un dato di fatto acquisito e che cioè, all’esito dell’espianto, in entrambe le valvole si palesarono gravi difetti di costruzione, concordano con la conclusione cui essi sono pervenuti in base alla quale la sostituzione fu motivata dal punto di vista clinico solo dalla profilassi (essendo oggettiva la diagnosi di insufficienza tricuspidale severa riscontrata a distanza di qualche anno dall’impianto delle protesi TT), ed è, pertanto, ragionevole ritenere che la presenza di valvole diverse non avrebbe determinato tale intervento.

La Corte ha evidenziato, quanto alla prova della avvenuta terapia anticoagulante, che la paziente in dibattimento aveva riferito di una costante assunzione della terapia nelle dosi prescritte. Sul punto, va riportata la logica considerazione, in ordine al profilo della trombogenità dei dispositivi, del Tribunale che, dando atto che essa rappresenta un dato ineludibile, sia pure di maggiore o minore spessore a seconda delle modalità progettuali e realizzative dei dispositivi, con la conseguente necessità – quale che sia la protesi impiantata – di un’idonea terapia anticoagulante, evidenzia che la eccepita difficoltà di tale terapia dovrebbe omogeneamente distribuirsi in relazione ai postumi d’impianto della generalità delle protesi cardiache meccaniche, anche di provenienza diversa rispetto a quelle incriminate, di tal che non ne esce scalfito il rilievo di dati statistici generali sulla trombogeneità dei dispositivi in oggetto. Del resto, si rileva, una problematica ricollegabile alla irregolarità e/o correttezza della terapia anticoagulante avrebbe dovuto poi ripresentarsi anche con le nuove protesi installate al posto delle TRI Technologies.

Ed, infatti, a chiusura delle condivisibili argomentazioni sul punto di entrambe le sentenze, significativamente i giudici hanno evidenziato che con le nuove protesi il fenomeno trombotico, con riferimento al caso "Gatta", non si era più ripresentato.

Caso Cu.: l’analisi del caso involge anche la trattazione delle censure mosse dal ricorrente R. con il secondo motivo posto a base del suo ricorso (V. parte narrativa pag. 18-19).

Il paziente sottoposto il 17.06.2001 ad intervento di sostituzione di valvola aortica TRI 27 per valvola aortica tricuspide incontinente, il 17 giugno 2003 fu sottoposto ad altro intervento di sostituzione della protesi TRI per riscontro strumentale di deiscenza del supporto protesico.

Tutti e tre i ricorrenti evidenziano la contraddittorietà di risultati cui sono pervenuti i due collegi peritali, i primi (quello nominato dal GUP) sostanzialmente negano il nesso causale, i secondi, pur non potendo disporre della descrizione dell’intervento di rimozione, hanno affermato che "con elevata probabilità l’impianto di una valvola diversa esistente e conosciuta all’epoca dei fatti non avrebbe determinato la necessità di sostituzione in concreto verificatasi".

La Corte d’Appello ha fatto propria la conclusione cui sono pervenuti i periti del secondo collegio: "all’esito della valutazione bioingegneristica e dell’esame dei dati storico-clinici effettuati nel corso di questa perizia è possibile affermare che il malfunzionamento della protesi valvolare aortica TRI 27 sia stato con elevata probabilità, determinato dalle caratteristiche della stessa e che l’intervento di sostituzione era necessario, anche nell’ottica di un’azione profilattica".

Anche per tale caso la Corte nel ritenere condivisibili appieno tali conclusioni ha rimarcato, in una con il Tribunale, la significativa circostanza che l’impianto della nuova protesi meccanica non risultava aver dato luogo, a più di due anni dalla sostituzione, a problematiche assimilabili a quelle che indussero i sanitari a sostituire la protesi TRI 27.

La motivazione resa per entrambi i casi è inattaccabile e non presenta aspetti nè di illogicità nè di contraddittorietà.

E’ bene puntualizzare che le lesioni procurate ai pazienti sono quelle conseguenti all’intervento di espianto delle protesi TT, ciò è sufficiente, per quanto si è esposto in ordine alla natura commissiva della condotta addebitata agli imputati, a determinare il nesso di causalità, essendo rimasto provato che la commercializzazione ha avuto ad oggetto protesi cardiache, non solo non conformi alle prescrizioni imposte dalla normativa CE, ma in concreto malfunzionanti.

Circa, poi, il denunciato vizio di motivazione per l’adesione alle conclusioni di alcuni periti e non di altri, la giurisprudenza costante di questa Corte ammette, in virtù del principio del libero convincimento del giudice e di insussistenza di una prova legale o di una graduazione delle prove la possibilità del giudice di scegliere fra varie tesi, prospettate da differenti periti, di ufficio e consulenti di parte, quella che ritiene condivisibile, purchè dia conto con motivazione accurata ed approfondita delle ragioni del suo dissenso o della scelta operata e dimostri di essersi soffermate sulle tesi che ha ritenuto di disattendere e confuti in modo specifico le deduzioni contrarie delle parti, sicchè, ove una simile valutazione sia stata effettuata in maniera congrua in sede di merito, è inibito al giudice di legittimità di procedere ad una differente valutazione, poichè si è in presenza di un accertamento in fatto come tale insindacabile dalla Corte di Cassazione, se non entro i limiti del vizio motivazionale (Sez. 4, Sentenza n. 45126 del 06/11/2008 Ud. Rv. 241907; Sez. 1, Sentenza n. 24179 del 07/05/2004 Cc. Rv. 228997; Cass. sez. 4^ 20 maggio 1989 n. 7591 rv. 181382).

Orbene, la Corte territoriale, rifacendosi "per relationem" alle argomentazioni svolte dai periti, ivi compresa la parte riguardante i rilievi mossi dai consulenti di parte, ha dato congrua contezza della sua scelta.

Ed ancora, per quanto riguarda le censure diffusamente svolte dal R. in relazione al caso Cu. circa manovre operatorie di rimozione delle protesi che abbiano potuto determinarne la rottura o danni (verosimilmente inesistenti al momento del loro impianto), la motivazione sul punto della sentenza del Tribunale (V. pag. 119 e segg. sentenza Tribunale), fatta propria dalla Corte d’Appello, è particolarmente approfondita anche con la disamina degli elaborati peritali.

L’esame dei motivi riguardanti le contestate posizioni di garanzia, oggetto dei ricorsi di tutti e tre i ricorrenti (Terzo motivo sia del ricorso dello J. e del C. che di quello del R.) possono essere trattati unitariamente in quanto li accomuna la loro inammissibilità trattandosi di motivi non consentiti in sede di legittimità, perchè concernono differenti valutazioni di risultanze processuali ed allegazioni in fatto.

I ricorrenti, per vero, hanno censurato (V. parte narrativa da 13 a 17) il relativo segmento di motivazione (pag. 186 e segg. della sentenza impugnata) rilevandone il vizio di illogicità ed incoerenza con riferimento ai punti:

a) attribuzione agli imputati J. e C., quali soggetti apicali della società Tri Technologies, di compiti gestori concreti anche quanto alla fase di produzione delle valvole cardiache, sulla scorta delle dichiarazioni rese dal coimputato R., il quale ha compiutamente descritto la struttura organizzativa della società dotata di un distribuzione di ruoli e competenze in senso verticale tali da escludere che anche J. e C. dovessero o potessero occuparsi del controllo sulla fabbricazione dei dispositivi medici;

b) circa la valorizzazione in chiave accusatoria delle competenze tecniche astrattamente possedute dai due imputati brasiliani, in contraddizione rispetto all’opposta conclusione adottata con riguardo ai coimputati tedeschi, responsabili a vario titolo all’interno dell’Ente certificatore TUV;

c) circa l’individuazione della posizione di garanzia dei due ricorrenti e della conseguente attribuzione di responsabilità per effetto del parallelo loro impegno nella società Labcor:

d) circa la chiamata di correità proveniente dal coimputato R. priva di riscontri;

e) circa la inapplicabilità del dedotto principio dell’affidamento.

A sua volta il R., contesta (V. parte narrativa a pag. 20) la posizione di garanzia, adducendo il rilascio di una formale delega di funzioni conferite all’ing. T. L.F., e censura, per vizio di motivazione, la sentenza per l’omessa valutazione di tale dato difensivo documentalmente provato.

Ricorda il Collegio che la modificazione intervenuta all’art. 606 c.p.p., lett. e) in seguito alla L. n. 46 del 2006 non comporta la possibilità di effettuare un’indagine sul discorso giustificativo della decisione tale da sovrapporre una propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito e da verificare l’adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sottolineare il suo convincimento, mentre la loro rispondenza alle acquisizioni processuali può, soltanto ora, essere dedotta qualora comporti il cd. travisamento della prova, purchè siano indicate in maniera specifica ed in maniera inequivoca le prove pretese travisate nelle forme di volta in volta adeguate alla natura degli atti in considerazione in modo da rendere possibile la loro lettura senza alcuna necessità di ricerca da parte della Corte e non ne sia effettuata una monca individuazione o un esame particellizzato.

L’illogicità della motivazione, come vizio denunciatile, poi, deve essere di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici. (Cass. sez. 3^ 11 gennaio 1999 n. 215, Forlani, rv.212091, Cass. sez. un. 16 dicembre 1999 n. 24, Spina rv. 214794, Cass. sez. un. 23 giugno 2000 n. 12, Janaki rv. 216260 e Cass. sez. un. 10 dicembre 2003 n. 47289, Petrella rv. 226074 Sez. 4, Sentenza n. 47891 del 28/09/2004 Ud. Rv.

230568; Sez. 5, Ordinanza n. 13648 del 03/04/2006 Cc. Rv. 233381;

Sez. 5, Sentenza n. 16959 del 12/04/2006 Cc. Rv. 233464; Sez. 2, Sentenza n. 19584 del 05/05/2006 Ud. Rv. 233775; Sez. 4, Sentenza n. 2618 del 07/11/2006 Ud. Rv. 235782; Sez. 3, Sentenza n. 12110 del 21/11/2008 Cc. Rv. 243247; Sez. 4, Sentenza n. 3360 del 16/12/2009 Ud. Rv. 246499; Sez. 6, Sentenza n. 4987 del 28/01/2010 Ud. Rv.

246091). A tal riguardo, deve escludersi "un’analisi orientata ad esaminare in modo separato ed atomistico i singoli atti, nonchè i motivi di ricorso su di essi imperniati ed a fornire risposte circoscritte ai diversi atti ed ai motivi ad essi relativi" (cfr.

Cass. sez. 6^ 27 aprile 2006 n. 14624, rv. 233621 e Cass. sez. 2^ 7 giugno 2006 n. 19584 rv. 233775) e la possibilità per il giudice di legittimità di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass. sez. 6^ 1 agosto 2006 n. 27429 rv. 234559, e Cass. sez. 2^ 9 giugno 2006 n. 19850 rv. 234163). L’applicazione degli esposti principi al caso di specie impone la declaratoria di inammissibilità delle censure esposte.

La corte d’Appello ha, invero, indicato con puntualità, chiarezza e completezza tutti gli elementi di fatto e di diritto posti a fondamento della decisione adottata, confutando, in maniera analitica, astrattamente persuasiva e scevra da vizi logici, la diversa valutazione delle risultanze istruttorie posta a base del gravame di merito, non ravvisandosi, per altro lacune motivazionali, avendo dato piena risposta ai punti innanzi indicati.

Non è affatto apodittica l’affermazione secondo cui, come emerso dall’istruttoria dibattimentale gli imputati svolgevano compiti che, per il loro ampio respiro, non potevano prescindere da una visione di insieme delle problematiche anche tecnico/produttive della compagine.

Come non lo è quella successiva secondo cui gli ovvii riflessi sul piano della gestione finanziaria e contabile nonchè sul piano del "marketing" ricollegabili all’attività di fabbricazione dei dispositivi ed a quella prodromica della commercializzazione (si richiama, a mò di esempio, l’attività svolta ad ottenere le certificazioni prescritte dalla normativa vigente), hanno impedito per il Tribunale e per la stessa Corte, per ciò solo, di ritenere qualcuno dei tre imputati in questione estranei alle relative valutazioni e immuni da responsabilità ai riguardo. Si osserva, quale dato emblematico e significativo della consapevolezza di partecipare materialmente all’immissione nel mercato Europeo delle protesi di cui trattasi, che, al fine di condurre lo studio clinico preliminare all’ottenimento delle certificazioni, occorreva, naturalmente, preventivare l’impegno di spesa, approntare le risorse finanziarie, individuare e contattare le strutture sanitarie interessate, a riprova del necessario coinvolgimento dell’intero organigramma dirigenziale e, dunque, non solo di R.T.H., ma pure di J.D.S.R. e di C.I.S. J. nelle relative scelte e nelle attività consequenziali.

La forza conclusiva di tali affermazioni trova fondamento nell’analitica indicazione di elementi di prova la cui valutazione è sorretta da argomentazioni logiche immuni da critiche, ivi compresa quella che attiene all’apprezzamento delle dichiarazioni eteroaccusatorie del R., effettuato con il rigore richiesto dall’art. 192 c.p.p., comma 3.

La Corte si è occupata, sia in fatto che in diritto, anche della inapplicabilità del principio dell’affidamento (V. nota a pie di pag. 20) invocato dagli imputati essendo la motivazione sul punto pienamente condivisibile in quanto aderente al dettato normativo ed alla giurisprudenza di legittimità di questa corte.

In definitiva questi motivi di ricorso appaiono incentrati sulla contestazione dell’apprezzamento delle risultanze processuali compiuta dalla Corte territoriale.

Caso S..

Gli imputati J. e C. hanno impugnato anche la parte della sentenza che ha dichiarato non doversi procedere nei loro confronti in ordine alle lesioni cagionate al paziente S. perchè estinte per prescrizione. Si osserva che, per quel che concerne l’applicabilità dell’art. 129 c.p.p., comma 2, va ricordato che, in forza dei consolidati principi di diritto enunciati da questa Corte, il sindacato di legittimità, appunto ai fini della eventuale applicazione della disposizione appena citata, deve essere circoscritto all’accertamento della ricorrenza delle condizioni per addivenire ad una pronuncia di proscioglimento nel merito con una delle formule prescritte: la conclusione può essere favorevole al giudicabile solo se la prova dell’insussistenza del fatto o dell’estraneità ad esso dell’imputato risulti evidente sulla base degli stessi elementi e delle medesime valutazioni posti a fondamento della sentenza impugnata senza possibilità di nuove indagini ed ulteriori accertamenti che sarebbero incompatibili con il principio secondo cui l’operatività della causa estintiva, determinando il congelamento della situazione processuale esistente nel momento in cui è intervenuta, non può essere ritardata: qualora, dunque, il contenuto complessivo della sentenza non prospetti, nei limiti e con i caratteri richiesti dell’art. 129 c.p.p., l’esistenza di una causa di non punibilità più favorevole all’imputato, deve prevalere l’Esigenza della definizione immediata del processo (in tal senso cfr., ex plurimis, Sez. Unite, n. 35490/2009, Tettamanti).

Nella concreta fattispecie, nella sentenza della Corte distrettuale non sono riscontrabili elementi di giudizio idonei ad integrare la prova evidente dell’innocenza dei ricorrenti, ma sono, anzi, contenute valutazioni di segno diametralmente opposto, logicamente conducenti all’accertamento della responsabilità dei ricorrenti stessi. Non sono pertanto ravvisabili i profili di violazione di legge e vizio motivazionale prospettati nel ricorso, posto che, avuto riguardo al testo della sentenza impugnata, si rileva che la Corte distrettuale ha analizzato, secondo i canoni prescritti, gli aspetti concernenti le problematiche relative alla sussistenza della condotta colposa contestata agli imputati e del nesso causale tra la condotta stessa, quale descritta nell’imputazione, e l’evento, non mancando di esprimere le proprie valutazioni al riguardo con considerazioni che consentono di escludere che possa ritenersi acquisibile la prova evidente dell’innocenza degli imputati.

ESAME DEI MOTIVI RIGUARDANTI LE STATUIZIONI CIVILI. Da ultimo, in ordine ai denunciati vizi della motivazione che sorregge la condanna degli imputati (il motivo riguarda i ricorsi dello J. e del C.) al risarcimento dei danni in favore dell’Azienda Ospedaliera San Giovanni Battista, della Città di Torino, della Regione Piemonte e della associazione Cittadinanza Attiva – Tribunale dei diritti del malato, parimenti se ne rileva l’infondatezza. In sostanza si adduce che la Corte territoriale ha trascurato di prendere in considerazione e di chiarire sotto quale particolare profilo – a fini civilistici – le cause e modalità delle lesioni avrebbero procurato l’evidenziato danno di immagine, nonchè la particolare posizione dei due coimputati brasiliani J. e C. all’interno della società.

Va osservato che la qualificazione della natura del danno cagionato dalla commissione dei reati, in riferimento ai quali è stata accertata la responsabilità degli imputati, riguarda non la statuizione di condanna bensì la costituzione stessa della parte civile, in quanto è al momento in cui si deposita (art. 78 in rif., artt. 420, 484 e 589 cod. proc. pen.) la dichiarazione di costituzione di parte civile che il giudice valuta la sussistenza del diritto della parte civile ad agire, nell’ambito del giudizio penale, per ottenere il risarcimento dei danni. E’ in quella sede che si avanzano le eccezioni ( art. 80 cod. proc. pen.) relative al diritto di un soggetto, persona fisica o ente, di costituirsi parte civile e chiederne, nella carenza di tale diritto, la esclusione.

La condanna generica al risarcimento dei danni contenuta nella sentenza penale non esige e non comporta alcuna indagine in ordine alla concreta esistenza di un danno risarcibile, postulando soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva del fatto dannoso e della esistenza – desumibile anche presuntivamente, con criterio di semplice probabilità – di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, restando impregiudicato l’accertamento riservato al giudice della liquidazione dell’esistenza e dell’entità del danno, senza che ciò comporti alcuna violazione del giudizio formatosi sull’an. Nel caso concreto, l’attitudine pregiudizievole dei fatti addebitati agli imputati è stata – come rilevasi dal complesso delle considerazioni esposte – ben posta in evidenza dalla sentenza impugnata, anche se – come dovevasi – al solo fine di stabilire in astratto l’obbligo del risarcimento (Sez. 4, Sentenza n. 21505 del 23/01/2009 Ud. Rv. 243769; Sez. 6, Sentenza n. 2545 del 21/12/2009 Ud, Rv. 245853).

Vanno pertanto disattesi i motivi di ricorso che riflettono questo punto, che appaiono per il vero piuttosto attinenti al giudizio civile di liquidazione.

Il rigetto dei ricorsi comporta la condanna dei ricorrente al pagamento, ciascuno, delle spese processuali ed in solido alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, in solido, alla rifusione delle spese sostenute dalle parti civili costituite e liquida in favore della Regione Piemonte la somma complessiva di Euro 1.226,25 oltre accessori come per legge, e all’Azienda Ospedaliera – Sanitaria San Giovanni Battista di Torino la somma complessiva di e 2.500, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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