Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 18-02-2011) 13-04-2011, n. 15112

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

A) La sentenza impugnata.

1. P.N., P.F., A.V., P.L., P.G. e P.M.G., nonchè PA.Lu. e F.F., ricorrono avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli che ha integralmente confermato nei confronti del primo e parzialmente confermato nei confronti degli altri sette la sentenza di condanna emessa il 28.6.2006 dal Tribunale di Napoli per una serie di fatti – separatamente o congiuntamente a ciascuno attribuiti – considerati integranti:

– quanto ad un primo gruppo di contestazioni rivolte ai primi sei ricorrenti – i delitti di trasferimento fraudolento di valori, impiego di denaro o beni di provenienza delittuosa, favoreggiamento personale, commessi dal 2002 al 2004 e per lo più aggravati dalla finalità di favorire un’associazione camorristica;

– quanto ad un secondo gruppo di contestazioni riferite agli ultimi due ricorrenti – i delitti di associazione per delinquere, ricettazione ed estorsione aggravata, rivelazione di segreti d’ufficio e corruzione.

Le interposizioni fittizie e i reati collegati contestati ai primi sei ricorrenti.

2. Il primo gruppo di contestazioni, come detto riferito a P. N., P.F., A.V., P.L., P.G., e P.M.G., fa perno sulla figura di P.N., ritenuto uno dei capi, avendo assunto nel 2001 il ruolo di reggente, del clan camorristico detto dei "Longobardi" e che con sentenza 15.3.2005 del Giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Napoli, definitiva il 17.12.2007, era stato condannato per il delitto di cui all’art. 416-bis c.p., comma 2, nonchè per numerose connesse estorsioni, commesse in epoca che andava dal 1999 al 2002. P.N. era rimasto latitante nell’ambito di tale procedimento dal 22 aprile al 23 ottobre 2003. P.F. è suo padre; L., G. e P.M.G. sono suoi fratelli; A.V. è la sua convivente.

Le imputazioni sono scaturite da intercettazioni all’origine attivate per la ricerca del latitante P.N. ed hanno ad oggetto condotte di interposizione fittizia o vario titolo finalizzate ad assicurare a N. il godimento e la messa a frutto dei proventi delle sue attività illecite, impiegati, stando alla prospettazione accusatoria accolta nelle sentenze di merito, nella realizzazione di immobili situati nel Comune di Quarto, alla via (OMISSIS) (capi A, A1 e U), alla via (OMISSIS) (capi B, B1, C e C29) e nel Comune di Marano, alla via (OMISSIS) (capo D).

Più in particolare, i primi sei ricorrenti sono stati ritenuti responsabili:

– P.N. e suo padre, P.F., dei reati di trasferimento fraudolento di valori ( D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 12-quinquies, conv. in L. 7 agosto 1992, n. 356), contestati al capo A) in relazione a fatti commessi nell’anno 2002 fittiziamente attribuendo P.N. ai genitori la titolarità di un immobile composto di 4 appartamenti sito in (OMISSIS) e realizzato in assenza di concessione; e ai capi B) e C) in relazione a fatti accertati il (OMISSIS) e commessi fittiziamente attribuendo P.N. al padre F. la titolarità di immobili siti in (OMISSIS), anch’essi realizzati in assenza di concessione;

– P.F. dei reati di impiego di denaro o beni di provenienza delittuosa ( art. 648-ter cod. pen.), contestati al capo A1) per fatti commessi nel (OMISSIS) e ai capi B1) e C1) per fatti e accertati il (OMISSIS), relativi all’impiego di denaro provento dei delitti commessi dal figlio N. nella realizzazione degli immobili indicati ai capi A), B) e C) e alla successiva locazione di tali immobili, con conseguente ulteriore profitto;

– P.N. e la convivente, A.V., del reato di trasferimento fraudolento di valori ( D.L. n. 306 del 1992, art. 12- quinquies), contestato al capo D), relativi alla fittizia attribuzione alla seconda, ad opera del primo, di immobili siti in (OMISSIS), di spalle al civico (OMISSIS), con accessori e pertinenze, fatti accertati il (OMISSIS);

– P.N. del reato di trasferimento fraudolento di valori ( D.L. n. 306 del 1992, n. 306, art. 12-quinquies), contestato al capo V), relativo alla fittizia attribuzione al padre F. della titolarità di due autovetture Mercedes, fatti accertati il 18.7.2003;

– P.M.G., P.L. e P.G. del reato di favoreggiamento reale (capo U), riferito al prodotto e al profitto dei reati ai capi A) e A1), commesso il giorno (OMISSIS) presentando al Comune di Quarto domanda di concessione in sanatoria per le unità immobiliari site al piano terra e ai piani secondo e terzo di via (OMISSIS).

Sono stati condannati – ritenuta per P.N. e F. la recidiva reiterata e specifica e per tutti l’aggravante del fine di agevolare il clan camorristico "Longobardi" ( D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7, conv. in L. 12 luglio 1991, n. 203); riconosciute altresì le circostanze attenuanti generiche a P.F., A.V., P.L., P.G. e P. M.G.-:

– P.N. alla pena di cinque anni di reclusione;

– P.F. alla pena di 3 anni, 4 mesi e 10 giorni di reclusione 4.850 Euro di multa;

– A.V. alla pena, sospesa, di 1 anno, 6 mesi e 10 giorni di reclusione;

– L., G. e P.M.G. alla pena, sospesa, di 1 anno, 5 mesi e 10 giorni di reclusione ciascuno.

Le ragioni delle condanne dei primi sei ricorrenti 2.1. Secondo i giudici di merito, le condotte materiali integranti le fattispecie ai capi A, B) e C) consistevano nella edificazione, ad opera di P.N., di manufatti su suoli di proprietà o nella disponibilità altrui; era stata in tal modo realizzata la formale attribuzione ad altri, ovverosia ai titolari dei suoli, dei beni realizzati e dei valori ad essi connessi.

I capi B, C (immobili di via (OMISSIS)) e D (immobili di via (OMISSIS)) si riferivano ad edificazioni su suoli di proprietà di P.F. e di A.V.. Il capo A (immobile di via (OMISSIS)) alla edificazione su suolo su cui esisteva un diritto reale della madre di P.N. ( S., livellaria) e che era comunque riconducibile anche a P. F..

P.F. aveva inoltre posto in essere condotte che manifestavano il suo interessamento, sotto direttive del figlio, nell’attività di edificazione e aveva poi di fatto gestito l’attività considerata di "reimpiego" attraverso la locazione di parte degli immobili (anche per l’immobile di via (OMISSIS), al capo A).

2.2. In punto di fatto si osservava (si inverte per ragioni logiche l’ordine espositivo) che gli immobili non potevano essere stati realizzati dai familiari di P.N. con il denaro proveniente dai loro redditi leciti, attesa l’evidente sproporzione tra questi, che apparivano appena capaci di garantire la sopravvivenza, e il valore, o comunque il costo, delle edificazioni.

Ferdinando, il padre, era andato in pensione nel 1996 con liquidazione di L. 40.397.045, l’ultimo stipendio era stato di L. 2.538.951, aveva ricevuto nel 1997 un assegno d’invalidità di L. 1.614.215, nel 2002 aveva dichiarato un reddito di 14.566 Euro; la madre di N., S., nel 2002 aveva dichiarato un reddito di 6.681 Euro e il reddito annuo medio dei quattro anni precedenti ammontava a circa 11.000 Euro circa: il marito di M.G., C.A., guadagnava, secondo la busta paga del 2002, 1,200 – 1.400 Euro al mese; il marito di Lu., Ca.An., aveva dichiarato per gli anni 2000, 2001, 2002, rispettivamente L. 3.514.000, 707.000, 4.215.000; P.G. guadagnava negli anni ’94 – ’95, come operaio qualificato, 600 – 800.000 L. al mese, nel settembre dell’anno 1998 aveva ricevuto al netto 1.4380.810 lire;

dalle indagini di P.g. risultava che la famiglia P. viveva in affitto in una casa colonica nella periferia di (OMISSIS), nella quale venivano tenuti animali da cortile, era composta da dieci persone, disoccupati o lavoratori saltuari dell’edilizia, la madre era bracciante agricola, nella masseria veniva utilizzato un forno per la panificazione abusiva.

Non bastavano a colmare il divario i 40 milioni di liquidazione di F. (perchè del 1996), i 25 milioni concessi in mutuo a C. nel 2000 (perchè di molto precedente e poca cosa a fronte dell’impegno complessivo di spesa), i 55.000 Euro concessi in mutuo nel 2003 a F., N. e S., movimentati sul conto di F., (costituenti anch’essi importo minimo a fronte della spesa, al più indicativo di un modesto contributo della famiglia a N. in vista della possibilità di un comodato gratuito di parte dell’immobile).

A., dal suo canto, aveva dichiarato che faceva soltanto la baby sitter.

2.3. Neppure P.N. poteva d’altra parte accampare redditi leciti sufficienti (aveva lavorato fino al 1994 con un reddito medio annuo dai sei ai dodici milioni di lire, dichiarandone solo cinque nel 1994, non aveva svolto alcun lavoro lecito dal 1995 al 2000, negli anni 2001 – 2002 aveva percepito ventisei – ventisette milioni all’anno). Già a partire dal 1995 risultava invece inserito nel clan Longobardi, nel quale nel 2001 aveva assunto ruolo di vertice (la prima denunzia nei suoi confronti, archiviata, era del marzo 1996; la teste Sc.Pa., convivente del L., aveva dichiarato che gli appartenenti al clan vivevano con le loro famiglie del provento delle estorsioni). Era stato condannato per associazione mafiosa ed estorsioni che andavano dal 1999 al 2002; era stato indicato da un commerciante come "personaggio di rilievo" anche nelle estorsioni al mercato ittico di Pozzuoli; era rimasto latitante (con ovvi costi e connesse possibilità economiche) da aprile a ottobre 2003. 2.4. Più nel dettaglio si evidenziava, quanto agli immobili indicati nei vari capi: 2.4.1. il capo A) aveva riguardo ad un fabbricato di quattro piani finito di costruire nella primavera del 2003;

– la riferibilità del denaro impiegato a P.N., e al provento della sua attività delittuosa, emergeva dalla evidente insufficienza dei redditi leciti suoi e dei componenti il suo nucleo familiare; il valore stimato dell’immobile ammontava a circa 750.000 Euro; la difesa aveva sostenuto che il valore economico s’aggirava attorno ai 590.000 Euro, e che il costo di costruzione era però stimabile in 350.000 Euro; anche ad ammettere tali valori, i redditi leciti dei familiari apparivano però inadeguati;

– la prova che il manufatto era stato realizzato ed era effettivamente di proprietà di N. si traeva altresì dalle dichiarazioni degli operai M. e c., gli unici due lavoratori autonomi e in posizione di indipendenza rispetto alla famiglia P. e perciò pienamente attendibili (erano stati assunti personalmente da N., a seguire i lavori e a dare le direttive era N., N. aveva di persona pagato loro parte dei compensi); dalle dichiarazioni di un teste della difesa, tale ca.an. ( N. aveva acquistato da lui materia edili nel 2003 e aveva pagato con cambiali onorate); dall’accertata emissione da parte di N. di quattordici del diciotto effetti cambiari (quattro apparivano emessi da F.);

2.4.2. i capi B) e C) si riferivano a due corpi di fabbrica costruiti senza concessione in via (OMISSIS): il primo (capo B) consisteva di due piani finiti di costruire nel 1996 (come dimostravano il verbale di sequestro in data 9.6.1996, e i successivi sequestri, seguiti ad altrettante denunzie per violazioni di sigilli, in data 5.8.1996, 14.8.1996, 19.8.1996, 12.12.1996; non poteva invece fare presumere che la costruzione fosse stata ultima in data antecedente l’istanza di condono presentata nel 1995, giacchè evidentemente precedente, more solito, l’ultimazione dei lavori); il secondo corpo di fabbrica (capo C) consisteva di tre piani, in cui i primi due piani risultano costruiti contestualmente all’immobile sub B), il secondo piano mansarda risulta invece costruito nel luglio 2003;

– la prova che i manufatti erano stati realizzati ed erano effettivamente di proprietà di N. si traeva, per l’immobile al capo B) e per i primi due piani di quello al capo C), dalla scrittura privata in data 20.12.1996 (sequestrata nel corso di una perquisizione, nella quale i fratelli di N. riconoscevano che i due corpi di fabbrica costruiti in via (OMISSIS) erano stati realizzati "a cura e spese" di N. e si impegnavano a trasferirgli la proprietà all’esito del condono);

– per l’ultimo piano dell’immobile al capo C), dalle dichiarazioni degli operai M. e c.; dalle conversazioni intercettate (conv. n. 146 del luglio 2003, da cui risulta che N. gestiva "di fatto" il denaro da versare agli operai);

– la provenienza del denaro impiegato dai redditi illeciti di P.N. si traeva inoltre, per l’edificazione del 2003 dall’evidente insufficienza dei redditi leciti del nucleo familiare e dello stesso N., di cui si è detto;

2.4.3. il capo D) si riferiva all’appartamento sito nell’immobile di via (OMISSIS) e alla vicina villa, costruita certamente dopo il 12 maggio 2003 (come dimostravano i rilievi aerei);

– la prova che i manufatti erano stati realizzati ed erano effettivamente di proprietà di N. si traeva dalle dichiarazioni degli operai M. e c.; in parte dalle stesse dichiarazioni dell’ A. (aveva ammesso che P. N. si "interessava" ai lavori quando lei era assente e pagava gli operai, aveva sostenuto di essere stata lei a commissionare i lavori pur non essendo stata in grado di indicare nè il nome della ditta costruttrice nè quello degli operai e artigiani intervenuti, appariva all’evidenza del tutto incompetente, il suo lavoro consisteva nel fare la baby sitter, asseritamente ricavandone 500 Euro a settimana);

– la villa era stata valutata d’altronde 500.000 Euro e notevoli apparivano i costi di ristrutturazione dell’appartamento appartamento; la riferibilità a P.N. del denaro impiegato risultava confermato dall’evidente impossibilità per l’ A. di sostenere un tale impegno economico, nessun’altro reddito, oltre quello di baby sitter da lei affermato, risultando dai documenti in atti.

2.5. L’effettiva appartenenza degli immobili a P.N., intesa quale situazione di disponibilità e signoria, e il concorso doloso nei reati d’interposizione fittizia del padre F. erano dimostrati quindi:

– dal ruolo direttivo avuto da N. durante la realizzazione degli immobili, emergente dalle intercettazioni, con riscontro nei sopralluoghi effettuati, dalle quali risultava che anche dopo l’ultimazione delle opere, le attività di gestione degli immobili erano riferibili a N., benchè fossero "formalizzate" da F., sempre però su direttive del figlio (si cita tribunale l’altro la telefonata n. 139 del 11.7.2003); che F. in particolare era sul cantiere durante la latitanza del figlio e riferiva a lui dei lavori, facendo da tramite nel pagamento degli operai (cita la conversazione, ma qui sembra fuori luogo) e aveva quindi gestito per conto del figlio le locazioni degli immobili; dal fatto che la villa (capo D) serviva da abitazione per N. e l’appartamento (dotato di sistemi di controllo e sicurezza) per le sue esigenze di latitante.

– dalla circostanza che le condotte erano state poste in essere in epoche (anche per gli immobili finiti nel 1996) in cui N. non poteva non sapere di essere indagato e del pericolo che correvano i suoi averi, ed avevano l’evidente scopo di favorire il reimpiego di proventi illeciti anche mediante la dazione in locazione, attuata da F., dei manufatti realizzati;

– dalla consapevole attività di mistificazione della reale appartenenza dei beni posta in essere, prima dopo e durante la latitanza, dimostrativa del dolo specifico di sottrazione di detti beni alle misure di prevenzione; lo confermava la stessa posizione assunta nelle difese personali nel procedimento in esame;

– dall’attività espletata (materialmente dal padre, ma su direttive e per conto del figlio, come dimostravano le intercettazioni) per far fruttare i beni locandoli, che confermava il dolo specifico nell’intestazione fittizia e dimostrativa altresì la condivisione del fine di reinvestimento di beni realizzati con proventi illeciti.

2.6. In tale contesto, i delitti di reimpiego attribuiti a P. F. era dimostrati dalle condotte:

– di locazione degli immobili di via (OMISSIS) (capo A1), dimostrate dalle dichiarazioni degli inquilini G. (aveva stipulato con F. e a lui pagava i canoni), N. (pagava a F.), Cr., oltre che del maresciallo C. (gli inquilini pagavano a F.);

– di locazione degli immobili di via (OMISSIS) (capi B e C), dimostrate dalle dichiarazioni degli inquilini E. (relative ad immobile sub B, aveva stipulato con F. e pagava a quello), Cr. (relative sino a settembre 2004 all’immobile sub C e successivamente a via (OMISSIS), aveva sempre pagato a F.), e del maresciallo C. (l’immobile di via (OMISSIS) era su fondo di F. e gli inquilini pagavano a lui);

– di presentazione delle domande di "condono", che erano funzionali a consentire la vendita e la circolazione dei beni;

Le conversazioni intercettate confermavano quindi (telefonata 11.7.2009) che F. gestiva le locazioni per conto di N.; come pure lo confermava la circostanza che dopo l’inizio delle indagini taluni contratti di locazione erano stati ceduti o rinnovati a nome di altri figli.

2.8. Quanto al capo U) l’insieme delle circostanze acquisite e l’accertata consapevolezza della reale appartenenza dei beni a Nicola, dimostrava che i fratelli P., presentando in data 8.4.2004 a loro nome domande di condono per gli immobili di Via (OMISSIS), avevano evidentemente inteso aiutare F. e N. a sottrarsi alle incriminazioni già elevate a loro carico e ad assicurarsi il prodotto o profitto dei beni oggetto di contestazione ai capi A1) e A1).

2.9. Risultava infine inequivocabilmente dimostrata l’intestazione fittizia a P.F. delle due vetture indicate al capo V), oggetto di contestazione suppletiva. La materiale riconducibilità delle auto a N. risultava sostanzialmente ammessa dalla difesa, che sosteneva soltanto che non v’era finalità non elusiva delle misure di prevenzione o di riciclaggio, ma l’intenzione di risparmiare sui premi assicurativi.

I reati contestati agli ultimi due ricorrenti 3. Il secondo gruppo di contestazioni è riferito soltanto (nell’ambito della vicenda processuale separata definita con la sentenza impugnata) a P.L., fratello di N., e a F.F..

Occorre fin d’ora premettere (la circostanza assumendo rilievo ai fini di taluni motivi che attengono all’unitarietà del processo) che PA.Lu. era stato all’origine inquisito anche per fatti in diverso modo legati alla posizione del fratello N.; rinviato a giudizio anche per le ipotesi di interposizione fittizia e reimpiego di beni (quale concorrente nei fatti contestati ai capi C e C1), aggravati a norma del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, è stato tuttavia assolto in primo grado da dette imputazioni.

P.L. è stato ritenuto invece responsabile, in primo e secondo grado:

– dell’organizzazione di un’associazione per delinquere ( art. 416 c.p., comma 1) cui partecipavano i coimputati D.M.G. e C.G., carabiniere, separatamente giudicati e condannati, dedita a furti e ricettazioni di autovetture e successive estorsioni ai danni dei derubati, e di alcuni reati fine, in relazione a condotte tenute fino al 21.11.2003 (capo T);

– di concorso (con il Carabiniere e associato Co.i) nel reato di rivelazione di segreti d’ufficio ( art. 326 cod. pen.), commesso da P.L. mentre era agli arresti domiciliari e "almeno" dal 28.7.2003 al 13.9.2003, istigando il Co. a rivelargli modi e tempi dei controlli che dovevano essere effettuati nei suoi confronti e posizione delle pattuglie operanti nella zona, onde agevolarne l’elusione (capo E);

– dei reati di ricettazione e di estorsione aggravata consumata e tentata ( art. 648 c.p. e art. 61 c.p., n. 2 e art. 629, commi 1 e 2, in relazione all’art. 628 c.p., comma 3, n. 1), relativi ad una Fiat Punto rubata a persona non identificata, fatti accertati il 4 e 5 settembre 2003 (capo I e K, assorbito quest’ultimo in I, ipotesi di ricettazione e di tentata estorsione); ad una Fiat 600 rubata a V.F. (capo P, ricettazione e tentata estorsione); ad una Citroen rubata a D.C.S., fatti accertati il (OMISSIS) (capo S, ricettazione ed estorsione);

– del reato di ricettazione ( art. 648 cod. pen.) in relazione alla ricezione di una Smart grigia d’illecita provenienza, accertata il 18.10.2003 (capo M).

E’ stato condannato alla pena complessiva di 7 anni, 3 mesi e 15 giorni di reclusione e 1.750 Euro di multa.

F.F. Carabiniere presso il Nucleo radiomobile della Compagnia di Pozzuoli, risultato in contatto telefonico con Co. ma considerato estraneo all’associazione, è stato ritenuto responsabile esclusivamente del reato di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio ( art. 319 cod. pen.), realizzato accettando la sollecitazione ad omettere di elevare contravvenzione e di procedere a sequestro del motociclo condotto da D.M.G., che guidava sprovvisto di patente di guida, e quindi ricevendo come compenso un prosciutto, fatto commesso il 12 agosto 2003 (capo H).

E’ stato condannato, riconosciute le circostanze attenuanti generiche e quella del fatto di particolare tenuità di cui all’art. 323-bis cod. pen., alla pena di 10 mesi e 20 giorni di reclusione.

Le ragioni della condanna di P.L..

3.1. In fatto, e per quanto interessa ai fini del ricorso (che non investe tutte le contestazioni) la sentenza impugnata ricordava che nel corso delle intercettazioni volte alla cattura del latitante P.N. era emerso un collegamento tra il carabiniere G. e i fratelli P., in specie L., all’epoca agli arresti domiciliari, che esulava da compiti d’istituto. Dalle conversazione intercettate emergeva che Co. forniva a Pa.Lu. informazioni su i propri turni di servizio, così consentendo a quello e ai suoi complici di organizzare una quotidiana attività criminale. Perlomeno in due occasioni risultava che era stato lo stesso P. a "chiedere" al Co. le informazioni (nella prima domandava se il Carabiniere aveva in programma qualcosa che lo riguardava, ricevendo in risposta che non c’era nulla, e, al limite, di chiamare più tardi; nella seconda chiedeva se "questi", da intendere gli agenti di pattuglia, stavano ancora là, ricevendo in risposta che il servizio sarebbe durato sino alle 10,30).

3.2. La commissione della tentata estorsione al capo I), relativa alla "restituzione" di una Fiat Punto rubata, era dimostrata dalle conversazioni intercettate intercorse tra P. e D.M. e tra P. e Co. ( P. aveva dapprima chiesto a D. M. se aveva "comperato" una Punto e, avuta risposta positiva, concordava con lui il "prezzo" da chiedere al proprietario; quindi, tramite il Co., P.L. aveva organizzato il falso ritrovamento dell’auto); nonchè dalle dichiarazioni del carabiniere D. – estraneo alla macchinazione – presente con il Ce. al momento del simulato ritrovamento dell’auto (due persone, una era D.M., avevano richiamato la loro attenzione su di un’auto rubata, che era stato proprio il Ce. a redigere il verbale, poi mai ritrovato, di tale "ritrovamento"). La circostanza che il pagamento del prezzo ad opera del proprietario non risultava provato giustificava la configurazione alla stregua di tentativo.

3.3. La ricettazione al capo M) emergeva dal tenore delle conversazioni intercettate tra D’. e P.L. (il primo si informava su di una auto indicata per colore e luogo di sottrazione; il secondo confermava di averne la disponibilità e chiedeva d’essere pagato come al solito); dalle dichiarazioni del D’. (aveva contattato il P. su richiesta di un amico al quale era stata rubata una Smart per cercare di ottenerla indietro pagando qualcosa); irrilevante era, ai fini del reato contestato, la circostanza che poi la consegna non si fosse realizzata perchè nel frattempo i complici di P.L. s’erano disfatti dell’auto.

3.4. L’estorsione al capo S), relativa alla "restituzione" (ritrovamento su commissione) di una Citroen Picasso, emergeva dalle dichiarazioni D.C. (cui l’auto era stata rubata, che aveva parlato del furto e del guardiano del parco C.; dalle telefonate intercorse tra C. e P.L. (il primo chiedeva al secondo se era stata "comperata" una Citroen Picasso dove abitava lui, e riceveva da questo risposta positiva e la disponibilità ad andare "da vicino").

Le ragioni della condanna del F..

3.5. Il reato al capo H) era emerso dall’ascolto delle conversazioni intercettate su utenza telefonica di Co.Gi.. Era certo (la circostanza non era contestata dall’imputato e dal suo difensore) che il F., brigadiere dei Carabinieri in servizio al Nudo radiomobile, aveva sorpreso D.M. alla guida di un motociclo e che, pur sapendo che lo stesso non era abilitato alla guida, non gli aveva contestato la violazione e non aveva sequestrato il mezzo.

Dalle conversazioni intercettate emergeva che Co. si era accordato con il F., facendogli capire che il D.M. era ben disposto ("è uno che ci riceve"); Co. aveva quindi chiesto al D.M. di portare qualcosa al F. (dicendogli che quello, F., lo aveva mandato via perchè lui gli aveva detto che il ragazzo, ovverosia D.M., non si tirava indietro nel dare; il F., era uno che "masticava" tutto; doveva perciò prendergli qualcosa, una coscia di prosciutto, così se lo faceva amico); aveva poi preannunciato al F. la regalia (gli avrebbero portato una coscia di prosciutto) anche se quello aveva risposto che veramente a lui serviva altro (un coker); aveva quindi avvisato P.L. di avere provveduto (quella cosa l’aveva fatta recapitare, di avvisare G., ovverosia D.M.).

B) I ricorsi.

I primi sei ricorrenti.

4. P.N., P.F., A.V., P.L., P.G., P.M.G. ricorrono con unico atto a mezzo del difensore avvocato Antonio Abet.

4.1. Con il primo motivo denunziano violazione della legge sostanziale (recte, processuale) in relazione agli artt. 268 e 271 cod. proc. pen.; erronea applicazione e interpretazione dell’art. 295 cod. proc. pen.; motivazione carente ed apparente in relazione a tali aspetti. Reiterando censure già prospettate, denunziano l’inutilizzabilità delle intercettazioni osservando che alla Corte d’appello era stata posta la questione che le intercettazioni erano state disposte (in particolare con i decreti 1541/03, 1542/03 e 1550/03) con finalità esclusiva di ricerca del latitante; attesa la finalità "non probatoria" il Pubblico ministero aveva autorizzato quindi l’esecuzione dell’attività di captazione venisse presso il Comando dei Carabinieri, senza fare alcun riferimento alla insufficienza o inidoneità degli impianti presso la Procura.

La Corte d’appello aveva erroneamente ritenuto utilizzabili le conversazioni così captate richiamando una sentenza di legittimità (Sez. 2 n. 215 del 4.12.2006), risolvendo il tema del mancato rispetto del disposto dell’art. 268 c.p.p., comma 3, mediante la non condivisibile osservazione che l’art. 295 richiede che solo "ove possibile" si applichino le disposizioni dell’art. 268 cod. proc. pen. (sul punto, in contrasto con la decisione citata dalla Corte d’appello il ricorso richiama Sez. 1, n. 1812 del 22.1.2007). Per altro, anche ad ammettere il significato di deroga attribuito all’inciso "ove possibile", ciò non poteva comportare nè che il decreto autorizzativo non dovesse dare conto delle ragioni dell’impossibilità di rispettare le prescrizioni dell’art. 268 cod. proc. pen., nè che in caso di mancato rispetto le intercettazioni potessero comunque essere utilizzate a fini probatori.

4.2. Con il secondo motivo denunziano violazione della legge sostanziale (recte, processuale) in relazione agli artt. 270 e 295 cod. proc. pen. nonchè vizi della motivazione sul punto. La sentenza impugnata aveva erroneamente ritenuto non applicabile nel diverso procedimento in esame il limite istituito dall’art. 270 cod. proc. pen., comma 1 ai fini dell’utilizzabilità delle intercettazioni effettuate per la ricerca del latitante, illogicamente e arbitrariamente ritenendo che nel caso in esame non poteva ritenersi la diversità di procedimenti, bensì la esistenza di un procedimento sostanzialmente unico. Le intercettazioni invece neppure erano state disposte nell’ambito del procedimento in cui P.N. era latitante, giacchè le autorizzazioni non erano state date dal giudice che aveva emesso la misura, ma da Giudici di volta in volta diversi e non era in ogni caso evocabile la giurisprudenza che faceva riferimento all’utilizzabilità per indagini connesse al reato per cui le intercettazioni erano state disposte, perchè nel caso in esame le intercettazioni erano state disposte soltanto per cercare un latitante. Infine notizie di reato e fatti storici, per il cui accertamento le intercettazioni erano state utilizzate, concernevano la edificazione di immobili e la loro titolarità e non la partecipazione all’associazione camorristica del P., erano perciò sicuramente differenti da quelli afferenti la latitanza di P.N.. Si sarebbe dovuto di conseguenza fare applicazione dell’art. 270 cod. proc. pen., che impediva la utilizzazione delle intercettazione per reati per i quali non è obbligatorio l’arresto in flagranza.

4.3. Con il terzo motivo denunziano violazione della legge sostanziale in relazione al concorso tra il reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies e il reato di cui all’art. 648-ter cod. pen.; illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine alla configurabilità del reato di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies.

Deducono in particolare che i titolari dei suoli non avevano "bisogno" di alcuna fittizia attribuzione per acquisire la titolarità degli immobili su di essi costruiti e che era illogico ritenere che vi era stata un’attribuzione a favore di F. quando titolare del diritto di superficie (in relazione all’immobile al capo A) era la moglie e lo stesso non vantava alcun diritto sul suolo. Era illogica inoltre l’affermazione che la gestione delle locazioni rappresentava la manifestazione dell’interposizione fittizia se essa costituiva, nell’impostazione dell’accusa, contemporaneamente la condotta di cui all’art. 648-ter cod. pen.:

tale argomentazione costituiva violazione del principio della necessaria autonomia delle due fattispecie.

4.4. Con il quarto motivo denunziano violazione della legge sostanziale in relazione alla sussistenza del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies contestato al capo A); carenza, contraddittorietà e illogicità della motivazione sul punto.

Si afferma che in relazione alla riconducibilità a P.N. dei lavori di edificazione al capo A) vi era stata un’errata valutazione delle prove; le intercettazioni erano successive alla realizzazione di quei manufatti e non potevano avere per detto capo alcun valore; v’era stata un’erronea commistione interpretativa del significato delle intercettazioni, che dimostrava la superficialità con cui era stato esaminato il compendio probatorio; arbitrariamente si erano riferiti a P.N. lavori differenti solo perchè commissionati da membri della stessa famiglia. Si erano inoltre svalutati ingiustificatamente: la diretta e prevalente partecipazione alla realizzazione delle opere degli stessi componenti il nucleo familiare tutti operai nel settore edile; le allegazioni circa la necessità di locare immediatamente parte degli immobili per rientrare dalle spese di costruzione; la deduzione che era F. a incassare materialmente i canoni perchè coabitava nello stabile; l’esistenza di un reale e concreto interesse dei membri della famiglia alla realizzazione degli immobili; la circostanza che P.F. abitava con la moglie nell’edificio, cosa che escludeva la sua veste di mero prestanome. Si era fatto riferimento alle dichiarazioni dei testi Ca. e M. travisandone i contenuti. Si era erroneamente richiamata a riprova della reale sua titolarità dei beni l’intercettazione n. 139 del 11.7.2003, che poteva riferirsi al solo immobile di cui al capo C), e nel corso della quale dimostrava in realtà di non avere capacità nè potere gestionale.

4.5. Con il quinto motivo denunziano violazione della legge processuale e sostanziale in relazione alla sussistenza del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies con riguardo alle condotte al capo C); vizi della motivazione sul punto.

Affermano che la sentenza impugnata contraddittoriamente sosteneva l’interposizione fittizia in relazione all’immobile al capo C) mediante il ricorso a canoni civilistici e imputava a N. l’interposizione fittizia perchè aveva costruito dichiaratamente e documentalmente a sue spese, apertamente attribuendosi la paternità dell’immobile – come emergeva dall’istanza di condono effettuata a proprio nome – su suolo della famiglia.

L’immobile era concretamente abitato da N. e mai nessuno dei coimputati l’aveva rivendicato. Non poteva considerarsi irrilevante l’istanza di sanatoria presentata da P.L. nè la circostanza che la mansarda fosse destinata da N. alla figlia T., nei cui confronti il padre intendeva porre in atto una liberalità. 4.6. Con il sesto motivo denunziano violazione della legge sostanziale in relazione alla configurabilità del dolo specifico del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies con riguardo alle condotte dell’interponente.

Arbitrariamente i giudici di merito avevano anticipato la "fondata presunzione" dell’intenzione di sottrarsi ad una procedura che poteva esitare nel sequestro o nella confisca al momento, addirittura, della commissione dei reati presupposti. Richiedendosi, al contrario, almeno la consapevolezza della attivazione di una procedura in tal senso: consapevolezza che N. non avrebbe potuto certamente avere prima della emissione, nell’aprile 2003, della misura cautelare nei suoi confronti.

4.7. Con il settimo motivo denunziano violazione della legge sostanziale in relazione alla configurabilità del dolo specifico del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies con riguardo alle condotte dei soggetti interposti, nonchè vizi della motivazione sul punto.

Il rilievo che P.F. era presente sul cantiere non dimostrava che il Padre riferisse dei lavori al figlio. Apodittica era l’attribuzione all’ A. del ruolo di concorrente, sulla base della considerazione che la stessa non poteva ignorare le ragioni del comportamento del compagno. Non era spiegato perchè F. avrebbe dovuto conoscere lo stato di latitanza del figlio e perchè avrebbe dovuto condividerne le intenzioni elusive ai fini delle misure di prevenzione.

4.8. Con l’ottavo motivo denunziano violazione della legge sostanziale, vizi della motivazione, apparenza della stesa in ordine alla valutazione della prova della condotta del reato di cui all’art. 648-ter cod. pen. e in merito all’accertamento del dolo specifico di tale reato in capo a P.F..

La circostanza che F. avesse presentato a suo nome la domanda di condono e che si fosse occupato della locazione per l’immobile di via (OMISSIS) nonchè dei due immobili di via (OMISSIS) non poteva costituire ad un tempo attività di reimpiego e prova del dolo specifico. Non era vero che F. avesse personalmente locato tutti gli appartamenti sol perchè ne riscuoteva materialmente il canone. Non risultava affatto che "gestisse" le locazioni. La Corte d’appello non aveva valutato che i contratti di locazione, esibiti dalla difesa, risultavano stipulati dai congiunti del ricorrente.

L’affermazione che la domanda di condono era idonea a "ripulire" l’impiego del denaro di provenienza illecita era arbitraria, perchè la domanda non poteva in ogni caso far perdere le tracce della provenienza delittuosa del bene e perchè nulla dimostrava che fosse stata presentata con la consapevolezza di F. di fungere da longa manus del figlio, anzichè per mera opportunità e circostanze contingenti, indicate e non vagliate.

4.9. Con il nono motivo denunziano violazione della legge sostanziale per erronea applicazione dell’art. 379 cod. pen. anche in relazione all’applicazione dell’art. 384 cod. pen., nonchè vizi della motivazione anche in relazione alla configurabilità del dolo in capo ai ricorrenti e in risposta alle censure difensive.

L’affermazione secondo cui la presentazione della richiesta di condono da dei fratelli di N. (in data 8.4.2004) successivamente all’inizio delle indagini ne comportava la qualificazione a titolo di favoreggiamento reale, era in contrasto con l’affermazione che, invece, la presentazione di domanda di condono da parte di F., pure datata 8.4.2004, costituiva "l’essenza" della condotta di interposizione fittizia integrando la situazione di apparenza.

Non era vero, si ripete, che l’interesse dei congiunti per la costruzione di via (OMISSIS) fosse apparente, giacchè, al contrario, alla stessa avevano personalmente contribuito, sia lavorando materialmente sia indebitandosi per pagare gli altri lavoranti e i materiali ed avevano reale interesse a sanare le contravvenzioni edilizie già contestate e far accatastare a proprio nome gli immobili a loro destinati, la rinunzia a vantare diritti sull’immobile di via (OMISSIS) dimostrando che i fratelli s’erano spartiti i terreni di provenienza paterna e materna.

In ogni caso, la causa di non punibilità in relazione al reato di favoreggiamento personale contestato in concorso con il favoreggiamento reale e dal quale erano stati, ai sensi dell’art. 384 cod. pen. appunto assolti, doveva estendersi al diverso evento rappresentato dalla presentazione dell’istanza di condono (si cita Sez. 1 sent. n. 3503/1991).

4.10. Con il decimo motivo denunziano violazione di legge, in relazione agli artt. 522 e 517 cod. proc. pen., con riferimento al capo V), nonchè vizi di motivazione in ordine alla sussistenza del reato ivi contestato.

Affermano che erroneamente era stata respinta l’eccezione di nullità ex art. 522 cod. proc. pen. relativa alla contestazione del rato al capo V) effettuata a mente dell’art. 517 cod. proc. pen., ma tardiva perchè avvenuta nella fase conclusiva del dibattimento e comunque illegittima perchè concernente fatto già desumibile dagli atti d’indagine. Non solo l’indirizzo affermato nelle pronunzie evocate dalla difesa (Sentenze Apicella del 2000 e Picchioni del 1998) non poteva affatto dirsi superate essendo stato raffermato ad esempio da Sez. 6 n. 10125 del 2005 e da Sez. 2 n. 6588 del 2004, ma non si era correttamente valutato che la contestazione era nel caso in esame irrituale anche perchè formulata al termine dell’istruzione dibattimentale, dopo avere sentito i testimoni e quando era già iniziato l’esame degli imputati. Tanto aveva in concreto privato l’imputato della possibilità di articolare le sue difese, ricercare testi a discarico, chiedere riti alternativi (proprio la sentenza n. 333 del 2009 della Corte costituzionale dimostrava che nel caso in esame la contestazione di reato concorrente a fine dibattimento violava i diritti difensivi e dimostrava che era più corretta l’interpretazione privilegiata dalla difesa, considerato altresì che soltanto nel 2009 era stato riconosciuto all’imputato il diritto di chiedere, in siffatta situazione, il giudizio abbreviato).

Nel merito, poi, la motivazione con cui si sosteneva che l’intestazione della vettura al padre non poteva altro fine che quello elusivo contestato era carente e illogica, perchè escludeva aprioristicamente la plausibilità della giustificazione difensiva, relativa alla necessità di risparmiare sul premio assicurativo.

4.11. Con l’undicesimo motivo denunziano violazione della legge sostanziale in relazione al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e motivazione carente, apparente ed illogica in relazione alla configurabilità dell’aggravante.

I giudici del merito non avevano in alcun modo spiegato in che modo le condotte contestate, che non si riferivano al reinvestimento di profitti in attività associative o funzionali alla realizzazione di ulteriori attività criminali ma consistevano al più in attività finalizzate alla conservazione e alla tutela del patrimonio personale di P.N., avrebbero in concreto prodotto il risultato predicato, di agevolazione e rafforzamento del sodalizio mafioso.

S’era obliterata la giurisprudenza di legittimità che costantemente ribadisce che occorre distinguere tra aiuto prestato – come nel caso in esame – al singolo, anche se personaggio di vertice, e aiuto all’associazione (si cita Sez. 6, n. 19300 del 2008, Caliendo).

4.12. Con il dodicesimo motivo denunziano violazione di legge per erronea applicazione del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies;

carenza della motivazione in ordine alla sussistenza dei presupposti legittimanti la confisca in relazione ai singoli cespiti.

La sentenza impugnata aveva omesso di valutare dettagliatamente i singoli cespiti e, in relazione a ciascuno, la situazione di signoria di P.N..

L’accertamento di una effettiva disponibilità in capo a costui mancava completamente, come già detto nei precedenti motivi, per il manufatto al capo A).

Analoghe lacune affliggevano la motivazione in relazione alla costruzione di via (OMISSIS) e in particolare alla porzione d’immobile al capo C). La costruzione era stata realizzata alla fine degli anni ’80 a cure e spese di N., era stata abitata sin dal 1990 dalla sua famiglia ed era stata assegnata in sede di separazione, nel 2000, alla sua ex-moglie. Al momento della realizzazione non era in alcun modo ipotizzabile, dunque, quella provenienza illecita del denaro impiegato che poteva giustificare il provvedimento ablativo D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12-sexies (anche il reato associativo risultava contestato a P.N. per periodo compreso tra il 1999 e il 2002). Erroneamente la sentenza impugnata aveva affermato che la costruzione doveva farsi risalire al 1996. Occorreva fare applicazione dei principi affermati da sez. 6, n. 1574 del 2007, Nettuno, secondo cui occorre comunque individuare un quid che consenta di collegare il bene aggredito all’attività illecita, mentre nel caso in esame, pur facendosi regredire la partecipazione del P. al clan dei Longobardi al 1995, la edificazione del manufatto si poneva comunque al di fuori di tale area temporale. La difesa aveva prodotto inoltre documentazione che attestava l’attività lavorativa lecita e costante prestata dal P. dal 1987 al 1994 e denunziato la realizzazione, con proprio personale e materiale lavoro, del manufatto in questione.

5. P.N. e A.V. ricorrono altresì con atto a firma dell’avvocato Rosario Marsico, che con motivo formalmente unico denunzia violazione di legge (in particolare dell’art. 311 cod. proc. pen. e D.L. n. 306 del 1992, artt. 12-quinquies e 12-sexies) nonchè manifesta illogicità e carenza della motivazione in relazione alla condanna e alla confisca.

Affermano che era errata e smentita dai fatti la tesi che l’ A., che pure era titolare di suo autonomo reddito, gestiva beni a lei fittiziamente intestati dal convivente, così agevolando la consorteria mafiosa di cui quello faceva parte. Le deduzioni difensive e gli elementi allegati dimostravano invece che non sussistevano gli elementi della fittizietà dell’intestazione, della disponibilità uti dominius dei beni, del dolo, necessari per integrare la fattispecie incriminatrice e per disporre la confisca.

La sentenza impugnata mancava di qualsivoglia riferimento alla documentazione prodotta e difettava di un esame critico. L’argomento ritenuto decisivo, rappresentato dall’esistenza di redditi incompatibili o quasi con le iniziative intraprese, si basava sul reddito formalmente dichiarato ritenuto sproporzionato rispetto al valore dei beni e sulle le dichiarazioni degli operai, pure tra loro contraddittorie; ma tali elementi erano insufficienti, la sproporzione dovendo essere verificata rispetto ai redditi leciti, a prescindere che fossero dichiarati o meno. E nel concreto la difesa aveva dimostrato per ogni singolo bene che vi era proporzione tra i redditi effettivamente percepiti e che il bene aveva provenienza lecita, con riguardo sia al titolo d’acquisto sia ai pagamenti effettuati in relazione ad esso. L’affermazione che la villa era destinata ad abitazione del P. e l’appartamento adiacente ad accoglierlo da latitante non giustificava affatto che i beni non fossero riconducibili all’ A..

Gli altri due ricorrenti ( P.L.).

6. P.L. ha proposto ricorso a mezzo del difensore avvocato Domenico De Rosa e chiede l’annullamento della sentenza impugnata.

6.1. Con il primo motivo denunzia erronea applicazione dell’art. 326 cod. pen. (capo E). I giudici di merito eluso il problema del concorso del privato nel reato proprio; pur riconoscendo la necessità di una condotta attiva riconducibile al paradigma della determinazione o dell’istigazione rivolta al Pubblico ufficiale, erroneamente avevano ritenuto che fosse integrata dal mero informarsi o chiedere del ricorrente. Tale comportamento non era connotato da quel quid pluris richiesto per la punizione dell’estraneo a titolo di concorso nel reato di rivelazione di segreti. A torto la sentenza impugnata aveva quindi ironizzato sulla non necessità della prospettazione di un vantaggio idoneo a determinare o ad istigare, sostenendo che in un caso siffatto si sarebbe realizzata la corruzione.

7.2. Con il secondo motivo denunzia violazione della legge sostanziale e vizi di motivazione in ordine al reato di tentata estorsione contestato al capo I). Mancavano condotte idonee a configurare la estorsione tentata: il ricorrente aveva solo espresso una semplice intenzione di chiedere denaro in cambio della restituzione della vettura. La qualificazione come tentativo del reato al capo P), relativo a una telefonata con la quale la richiesta era stata avanzata al proprietario dell’auto rubata, si poneva in contraddizione con l’analoga qualificazione di una condotta che non s’era estrinsecata in alcuna richiesta.

6.3. Con il terzo motivo denunzia erronea applicazione della legga penale, omessa motivazione in ordine al reato di ricettazione contestato al capo M); la circostanza che il ricorrente avesse manifestato la disponibilità di una autovettura Smart non era sufficiente a far ritenere che si trattava di un’auto rubata;

6.4. Con il quarto motivo denunzia omessa motivazione in ordine ai reati contestati al capo S). La difesa aveva rappresentato pur brevemente la esattezza della soluzione del Tribunale del riesame, il quale aveva annullato l’ordinanza cautelare rilevando che nessun elemento indicava un ruolo del ricorrente nei fatti in esame, considerata altresì l’assenza di dichiarazioni auto ed etero accusatorie del C.. La sentenza impugnata non considerava tale prospettazione e aveva attribuito tali fatti al ricorrente sol perchè aveva commesso gli altri.

( F.F.).

7. F.F. ha proposto ricorso a mezzo del difensore avvocato Enrico Tuccillo.

7.1. Con il primo motivo denunzia violazione della legge processuale, e in particolare degli artt. 270 e 526 cod. proc. pen., reiterando l’eccezione di inutilizzabilità delle intercettazioni in relazione a reati che non erano in alcun modo connessi o collegati, "sotto il profilo oggettivo, probatorio o finalistico", con quelli per i quali erano state disposte. La diversità del procedimento doveva infatti essere apprezzata dal punto di vista sostanziale e non meramente formale (cita Cass. 19.1.2004, Amato; sez. 6 n. 17635 del 2010; sez. 6 n. 4007 del 11.3.1999). L’episodio di corruzione ascritto al F., emerso nell’ambito di indagini per reati affatto diversi e non collegati in alcun modo ad esso, era stato mantenuto nell’ambito di un procedimento unitario per una scelta discrezionale del Pubblico ministero che non bastava a rendere utilizzabili, per quel reato, le intercettazioni disposte per la cattura del latitante Pa.

L. o, a fini probatori, in relazione al reato di cui all’art. 378 cod. pen. aggravato ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

D’altro canto le telefonate tra il D.M. e il Co. concernevano una contravvenzione al codice della strada, che se poteva essere utilizzata come prova del reato associativo per i due, in nessun modo poteva essere adoperata invece nei confronti del F. per il reato a lui contestato.

7.2. Con il secondo motivo lamenta vizi di motivazione in relazione alla sussistenza del reato. Mancavano prove materiali della consumazione, non essendo dimostrato il conseguimento del pretium sceleris ad opera del ricorrente, e sarebbe stata necessaria perciò una prova incontrovertibile, nella specie assente, della volontà di accettare la promessa o l’utilità. La conversazione in cui il Co. diceva di aver fatto recapitare "quella cosa" non si prestava ad interpretazioni univoche su oggetto e destinatario, oltre che su causale dell’eventuale consegna. Illogicamente la Corte d’appello aveva tratto la prova dell’accettazione della promessa (di una coscia di prosciutto) da una conversazione nel corso della quale il F. appariva interessato a tutt’altro (un cane da far accoppiare con il suo) e aveva opposto un netto rifiuto.
Motivi della decisione

A) I motivi che concernono le intercettazioni 1. Per buona parte dei fatti oggetto di contestazione la sentenza impugnata giustifica la condanna dei ricorrenti richiamando anche le conversazioni intercettate.

Occorre dunque esaminare preliminarmente i motivi con i quali si denunzia l’inutilizzabilità delle intercettazioni.

L’utilizzabilità in procedimento "diverso". 2. Il ricorso proposto dall’avvocato Abet nell’interesse di P. N., P.F., A.V., P.L., P.G., P.M.G., e il ricorso proposto dall’avvocato Tuccillo nell’interesse di F.F., denunziano, rispettivamente al secondo e al primo motivo, violazione dell’art. 270 cod. proc. pen. assumendo che le intercettazioni erano state disposte in altro procedimento e non erano utilizzabili in questo. Le censure, contestando in radice la "acquisibilità" del compendio probatorio ricavato dalle intercettazioni, sono preliminari. Sono tuttavia infondate.

2.1. Secondo giurisprudenza consolidata (cfr. tra moltissime e da ultimo Sez. 6 n. 11472 del 2/12/2009, dep. 2010, Paviglianiti), la diversità del procedimento rilevante ai sensi dell’art. 270 c.p.p., comma 1, deve avere carattere sostanziale e non può dipendere da dati meramente formali, quali un’autonomia solo apparente o l’avvenuta separazione, per ragioni organizzative o legate al diverso progredire delle indagine, ovvero veicolate da scelte difensive, dei procedimenti o dei processi. La nozione di diversità non può perciò portare ad escludere la utilizzabilità delle intercettazioni in procedimenti concernenti indagini strettamente connesse e collegate, sotto il profilo oggettivo, probatorio e finalistico, al reato in ordine al quale il mezzo di ricerca della prova è stato disposto.

2.2. Ora, stando a quanto emerge dagli atti, le prime intercettazioni di cui si discute vennero attivate nell’ambito del processo per associazione di stampo mafioso per la ricerca di P.N., che s’era reso latitante. Emersi indizi di condotte di favoreggiamento aggravato in suo favore, vennero attivate (decreto 1666/03 del 26.7.2003, R.g. 33296/R/03) autonome intercettazioni per dette ipotesi delittuose, con decreti che esplicitamente intendevano "novare" le intercettazioni disposte sulle utenze: (OMISSIS) intestata a Pa.Lu. (già intercettata con decreto 1349/03 in data 11.6.2003, Rg. 308210/45/03); (OMISSIS) intestata a Pa.Lu. (già intercettata con decreto 7.7.2003, R. 308210/43/03); (OMISSIS) intestata a P.N. (già intercettata con decreto 1550/03 in data 8.7.2003, Rg. 308210/45/03).

Da codeste intercettazioni per favoreggiamento aggravato ai sensi del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 sono scaturite quindi:

– da un lato le contestazioni di interposizione fittizia e reimpiego di denari di provenienza illecita rivolte ai familiari di P. N., ivi compreso L., assolto tuttavia in primo grado da detti reati;

– dall’altro, mediante l’allargamento delle intercettazioni alle utenze contattate da P.L., sia le contestazioni di rivelazione di segreti d’ufficio a carico di questo e del Co.

– Carabiniere in servizio presso la Stazione d Pozzuoli delegato alla ricerca del latitante N. e a sua volta indagato anche per "attività illecite a favore dei fratelli P.", ovverosia per favoreggiamento aggravato D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 in favore di P.N. e per altre ipotesi di favoreggiamento a favore di Lu. – sia le contestazioni di associazione per delinquere finalizzata ad attività estorsive, che vedeva coindagato lo stesso Co., e di estorsioni a carico di Pa.Lu. e di altri soggetti separatamente giudicati e condannati.

L’intreccio investigativo rende evidente la unitarietà delle indagini e dello sviluppo processuale in relazione ai fatti via via emersi, tutti di gravità tale da consentire la prosecuzione e l’incremento dell’attività captativa.

A tale proposito va anzi subito detto che davvero nessun rilievo può assumere la circostanza che le autorizzazioni alle intercettazioni o le convalide siano state rilasciate da diversi giudici per le indagini preliminari. L’art. 328 cod. proc. pen. prevede che nella fase delle indagini il giudice provvede sulle singole richieste delle parti. Il sistema recepito dal codice di procedura del 1988 ha in tal modo abbandonato la figura di un giudice "istruttore" che segua o curi l’intero procedimento nella fase preprocessuale, e affida invece al G.i.p. una competenza ad acta, che prescinde completamente da un rapporto d’immedesimazione del singolo giudice persona fisica con una determinata, unitaria, attività d’indagine.

La situazione è anzi tale, nella vicenda processuale in esame, che le condotte di ausilio prestate a favore di P.N. e contestate a titolo di intestazione fittizia e reipimiego, risultano in realtà costituire la evoluzione, in termini di qualificazione giuridica e di precisazione delle fattispecie concrete, di quelle stesse originarie ipotesi di favoreggiamento del latitante P. N. che, intimamente collegate alla sua ricerca, avevano dato il via alle captazioni.

La connessione e il collegamento probatorio tra le indagini a carico di N. e quelle che hanno coinvolto P.L. balza d’altro canto agli occhi solo che si considerino: da un lato il capo F), stralciato, con il quale si contestava al Co. di avere informato P.L. che erano in corso ricerche del fratello N.; dall’altro le imputazioni di intestazione fittizia e reimpiego ai capi C) e C1) che vedevano coinvolto anche Pa.

L., assolto in primo grado.

Come pure appare palese la connessione e il collegamento probatorio tra la contestazione di corruzione susseguente elevata a carico del F., del Co. e del D.M. (separatamente giudicati gli ultimi due) e la contestazione di associazione per delinquere comune cui, secondo l’ipotesi accusatoria, avrebbero partecipato il Co. e il D.M. assieme a P.L., al quale, per ricordare uno degli aspetti valorizzati nella sentenza impugnata, significativamente (ai fini della prova dell’associazione) Co. rendeva conto anche della vicenda corruttiva interessante il F..

Quanto è poi accaduto, per stralci, riti differenziati, assoluzioni, non può ex post valere ad escludere lo stretto legame esistente tra le varie piste investigative seguite e tra i diversi reati emersi nell’ambito di un procedimento da intendersi dunque, per tali ragioni, come sostanzialmente unitario ai fini dell’utilizzazione dell’attività captativa ai sensi dell’art. 270 cod. proc. pen..

L’utilizzabilità delle intercettazioni disposte per la cattura del latitante.

3. Sono invece fondate le censure sviluppate nel primo motivo del ricorso proposto dall’avvocato Abet nell’interesse di P. N., P.F., A.V., P.L., P.G., P.M.G., concernenti l’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate a seguito di alcuni decreti disposti ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen., per violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3.

Il ricorso è sul punto specifico allorchè fa riferimento ai decreti 1541/03 del 7.7.2003, 1542/03 del 7.7.2003 e 1550/03 in data 8.7.2003 (tutti Rg. 308210/45/03) con cui veniva disposta, al fine della ricerca del latitante P.N., l’intercettazione delle utenze di N. e familiari (è evidente invece l’assenza di specificità della espressione "etc." che segue l’indicazione di detti decreti).

La doglianza trova riscontro negli atti, dai quali risulta che, effettivamente, nella motivazione dei provvedimenti autorizzativi enumerati si dava atto che le attività di captazione avevano il fine esclusivo della ricerca del latitante, non finalità probatorie. Il Pubblico ministero aveva disposto quindi, giustificandola con la finalità "non probatoria" delle intercettazioni, l’effettuazione dell’attività di captazione mediante gli impianti esistenti presso il Comando dei Carabinieri. Nessun riferimento è contenuto nei decreti autorizzativi o nei decreti esecutivi alla insufficienza o inidoneità degli impianti presso la Procura. Ciò nonostante le conversazioni cosi intercettate sono state ritenute utilizzabili a fini probatori.

La Corte d’appello, cui l’eccezione era stata proposta, non ha difatti espressamente negato la rilevanza delle conversazioni captate a seguito di quei decreti, ma ha sostenuto che trattandosi di intercettazioni disposte per la cattura del latitante non trovavano applicazione l’art. 271 cod. proc. pen..

3.1. L’orientamento seguito dalla Corte d’appello non può essere accolto.

Occorre anzitutto premettere che la giurisprudenza di questa Corte che, ammettendo l’utilizzazione anche a fini probatori delle intercettazioni disposte ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen., sembrerebbe prevalentemente affermare che i divieti di utilizzazione posti dall’art. 271 cod. proc. pen. non riguardano tuttavia tali intercettazioni, si riferisce in realtà per lo più (la massimazione non sempre è puntuale) all’osservanza delle disposizioni dell’art. 267 cod. proc. pen. (cfr. Sez. 6, n. 44522 del 15/10/2009, Gargiulo, relativa alla gravità indiziaria; Sez. 2, n. 39380 del 07/10/2010, Preiti, relativa al divieto posto dall’art. 203 e richiamato dal comma 1-bis, art. 267), ovvero alla non necessità di autonoma motivazione sull’urgenza (Sez. 1, n. 298 del 19/11/2009, Della Corte;

Sez. 2, Sentenza n. 39285 del 27/04/2009, Sergi; Sez. 2, n. 215 del 4.12.2006, Figliuzzi; Sez. 5, n. 15322 del 05/12/2007, Abbadessa).

Tali letture trovano tuttavia giustificazione diretta nella peculiarità delle ragioni che sostengono le intercettazioni per la ricerca del latitante, nelle quali la gravità indiziaria in relazione a un fatto reato è già insita (ex art. 273 cod. proc. pen.) nella condizione di latitante e l’urgenza è (analogamente, in relazione ai pericula richiesti dall’art. 274 cod. proc. pen.) implicata dalle esigenze di cattura di persona attinta da misura cautelare. Vi è insomma, per le intercettazioni disposte ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen., una sorta di "congenita" non necessità di ulteriore motivazione con riguardo all’esistenza di gravi indizi di reato o delle ragioni di urgenza.

Soltanto, a quanto consta, Sez. 1, n. 24178 del 07/06/2007, Cavaliere, ritiene invece inapplicabile il divieto di utilizzazione posto dall’art. 271 anche quando il ricorso ad impianti esterni non è giustificato dalla insufficienza o inidoneità degli impianti della Procura, diversamente da quanto vorrebbe invece il disposto dell’art. 268 c.p.p., comma 3. 3.2. L’arresto, tuttavia, non soltanto è in contrasto con quanto affermato esplicitamente da Sez. 1, n. 1812 del 22/12/2006, Dell’Aversano, e da Sez. 4, n. 25511 del 09/05/2007, Figliomeni, e, implicitamente da Sez. 1, Sentenza n. 5471 del 15/12/2005, Calabrò, e da Sez. 2, n. 215 del 04/12/2006, Figliuzzi, già citata (che giustificano il rigetto delle eccezioni difensive positivamente argomentando sul rispetto dell’obbligo di motivazione in punto di inidoneità o insufficienza degli impianti); ma è in ogni caso da ritenere superato in base ai principi da ultimo ribaditi, fra molte, da S.U. n. 13426 del 25/03/2010, Cagnazzo.

Prendendo le mosse dalle decisioni della Corte costituzionale (sentenza n. 34 del 1973, ordinanze n. 304 del 2000, n. 259 del 2001, 209 del 2004 e n. 443 del 2004), le Sezioni unite ricordano che la previsione che privilegia, ai fini della effettuazione delle operazioni di intercettazione, la utilizzazione degli impianti esistenti presso la procura della Repubblica è comunque da ricondurre alla sfera delle garanzie di "legalità" che l’ordinamento deve approntare secondo il dettato dell’art. 15 Cost., sicchè una lettura forzosamente riduttiva del complesso delle garanzie volte a circoscrivere l’uso di impianti esterni si risolverebbe in una arbitraria interpretazione sostanzialmente "abrogativa" della scelta legislativa che da forma processuale al precetto costituzionale. In questi termini, l’inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni effettuate al di fuori delle garanzie di legalità prescritte dall’art. 268 c.p.p., comma 3, deve ritenersi dunque direttamente discendente dal fatto che si tratta di prove acquisite in violazione di divieti stabiliti da disposizioni di legge attuative di una norma costituzionale (tanto già segnalava, d’altro canto, C. cost. n. 34 del 1973, cui seguiva l’introduzione dell’art. 226- quinquies nel codice di rito del 1930); sicchè la disposizione dell’art. 271 che prevede, per tale ipotesi, la sanzione d’inutilizzabilità finisce "per atteggiarsi alla stregua di una species rispetto al genus" (S.U. citate) più ampio, costituito dalla disposizione dell’art. 191 cod. proc. pen..

Va perciò ribadito il principio che anche per le intercettazioni disposte per la ricerca del latitante valgono le cause di inutilizzabilità a fini probatori previste dall’art. 271 cod. proc. pen. allorchè, come nel caso previsto dall’art. 268 c.p.p., comma 3, le stesse siano riconducibili alla violazione di divieti stabiliti dalla legge in attuazione delle garanzie dell’art. 15 Cost. e costituiscono, come detto, mera specificazione del precetto più generale posto dall’art. 191 cod. proc. pen..

Non possono, per conseguenza, ritenersi utilizzabili a fini probatori le conversazioni acquisite a seguito delle intercettazioni disposte con i decreti nn. 1541/03, 1542/03, 1550/03, eseguite presso impianti delle forze di polizia in assenza di qualsivoglia giustificazione, nei decreti autorizzativi e nei successivi decreti esecutivi, in ordine alla indisponibilità o insufficienza degli impianti della Procura.

Le conseguenze dell’inutilizzabilità sul piano probatorio 4. Le conversazioni intercettate nel periodo di latitanza di P. N. sono state, più o meno largamente, utilizzate dalla Corte d’appello per sostenere l’affermazione di responsabilità dei ricorrenti P.N. e P.F. in ordine ai reati loro ascritti ai capi A), Al), C), C1), e reggono indirettamente anche il favoreggiamento reale al capo U), che è contestato a P.G., L. e M.G. alla stregua di condotta finalizzata ad assicurare a N. e F. il profitto dei reati ai capi A) e A1) (di modo che, cadendo tali reati, cadrebbe anche il favoreggiamento reale).

In verità, in relazione alla materiale utilizzazione del denaro illecitamente accumulato da P.N. per la realizzazione dei manufatti cui si riferiscono tali capi, la sentenza impugnata argomenta prevalentemente sulla base alla patente sproporzione dei redditi leciti dell’intero nucleo familiare, e richiama inoltre, sul punto, le dichiarazioni testimoniali. Tuttavia, sovente indistintamente, pare poi ancorare la dimostrazione della perdurante "signoria" di N. sui beni, della mancanza di autonomia gestionale di F., dell’elemento soggettivo dei reati contestati, al tenore delle conversazioni intercettate, in specie a quelle intercorse tra padre e figlio e alle raccomandazioni o indicazioni in esse data da N. al padre. Nè l’impianto motivazionale pone in risalto, o lascia arguire, gli elementi probatori ritenuti fondamentali e quelli considerati di mero contorno.

Deve riconoscersi, per altro verso, che agli atti risultano acquisiti altri decreti autorizzativi ed esecutivi, d’intercettazioni, che non presentano i vizi denunziati: vuoi perchè (come si è evidenziato al punto 2.2.) ben presto le intercettazioni disposte per la ricerca del latitante furono "novate" in intercettazioni a fini probatori; vuoi perchè anche talune intercettazioni disposte per la ricerca del latitante risultano in concreto realizzate in forza di disposizione esecutiva che adeguatamente giustificava il ricorso agli impianti esterni con l’impossibilità di attendere che quelli della Procura si liberassero (decreto 1349/03).

La sentenza neppure offre però indicazioni che consentano di ricollegare le singole conversazioni richiamate a fini di prova ai diversi decreti autorizzativi e, quindi, di escludere che si tratti di conversazioni inutilizzabili, perchè intercettate nel corso di quelle specifiche operazioni captative che per, quanto prima detto, devono ritenersi effettuate in violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3.

Mentre la circostanza che sia il Tribunale sia la Corte d’appello abbiano respinto le eccezioni difensive piuttosto che dichiarale irrilevanti lascerebbe presupporre che i giudici di merito non consideravano prive di significato le conversazioni captate con le intercettazioni denunziate.

Questa Corte non è dunque in grado di enucleare l’apporto probatorio delle conversazioni che devono considerarsi non utilizzabili e apprezzare la resistenza degli elementi validamente acquisiti. Non resta perciò che disporre l’annullamento in ordine ai reati ai capi A), A1), C), C1), e U), e rinviare ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli il nuovo esame del materiale probatorio, escluse le intercettazioni eseguite in violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3.

Quanto chiarito in ordine alla specificità dei decreti viziati esclude che dell’eccezione prospettata nell’interesse dei primi sei ricorrenti possano giovarsi per effetto estensivo gli altri, che non hanno dedotto di essere interessati dalle conversazioni ritenute inutilizzabili a fini probatori nè per altro verso risulta che lo siano.

B) Le ulteriori censure sviluppate nell’interesse di P. N., P.F., A.V., P.L., P.G., P.M.G..

I capi B) e B1).

5. Nessun concreto rilievo assumono invece le intercettazioni in relazione ai reati contestati a P.N. e a P. F. ai capi B) e B1), che sono riferiti a un edificio di due piani finito di costruire, secondo la sentenza impugnata, nel 1996 (vedi in fatto al punto 2.4.2), e per il quale la prova della reale appartenenza a P.N. è fondamentalmente basata sulle scritture private sottoscritta dai suoi fratelli, nella quale costoro davano atto che il manufatto era stato realizzato "a cura e spese" di N. e gliene riconoscevano la proprietà.

In relazione a detti capi il ricorso neppure svolge, in realtà, censure specifiche. Anche ad esso potrebbero tuttavia apparire riferite le considerazioni secondo cui sarebbe contraddicono avere arguito l’intestazione fittizia in base alla documentazione attestante la proprietà di P.N., ricorrendo così a canoni squisitamente civilistici, dichiarati non applicabili alla fattispecie.

La censura è però infondata, perchè la documentazione cui si richiama la sentenza impugnata consiste in scritture private, non in documenti idonei a conferire valore formale ed esterno al riconoscimento della situazione reale. Situazione reale che, concernendo beni immobili che abbisognano, per il loro trasferimento e l’attribuzione di proprietà, di atti pubblici registrati, nonostante dette scritture restava per l’appunto difforme da quella apparente.

Basterà aggiungere quindi che la plausibile ricostruzione delle vicende giudiziarie di P.N., la sua ritenuta appartenenza a far data dagli anni 1995-1996 al clan Longobardi e l’attività a lui attribuita nel settore delle estorsioni, l’assenza di attività lavorativa e di redditi legittimi adeguati, la gestione degli affitti ad opera del padre F. e le domande di sanatoria presentate sempre a firma altrui, la deposizione dell’inquilino, la documentazione acquisita attestante la reale appartenenza dell’immobile, logicamente sono stati ritenuti elementi di prova complessivamente univoci e capaci di conferire certezza all’ipotesi accusatoria che i manufatti erano stati costruiti con il provento di delitti e che l’apparente loro intestazione ai familiari serviva da un lato a sottrarli ad eventuali misure di prevenzione, dall’altro a favorire l’impiego a fini speculativi dei capitali illeciti; impiego a sua volta dimostrato dalla locazione di parte dell’edificio a tale E.G., con la produzione così, per essa locazione, di ulteriori frutti provenienti dall’investimento immobiliare del denaro illecitamente accumulato.

Nè può accedersi alla tesi difensiva secondo cui non sarebbe corretta l’attribuzione di significato alla redazione di domande di sanatoria o condono edilizi, al fine di dimostrare la commissione dei reati contestati. Trattandosi di manufatti costruiti senza concessione, corretta è l’osservazione che solo il "condono" degli abusi poteva consentire la stipulazione in regime legale di contratti con effetti obbligatori, o eventualmente reali, aventi ad oggetto detti immobili, consolidando in tal modo il progetto speculativo.

E neppure ha fondamento la doglianza di violazione del divieto di bis in idem, sull’assunto che gli stessi fatti sarebbero stati ritenuti integranti sia l’ipotesi di intestazione fittizia sia l’ipotesi di impiego di denaro di provenienza illecita. Le fattispecie di cui al D.L. n. 306 del 1992, art. 12-quinquies e art. 648-ter cod. pen., sono e restano strutturalmente diverse e si riferiscano nel caso in esame a condotte anche temporalmente diverse; le condotte mediante le quali è realizzata la seconda fattispecie entrano tuttavia necessariamente, secondo lo stesso schema normativo, nel paradigma finalistico della prima (che richiede il fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione ovvero di agevolare la commissione di delitti tra i quali è compreso quello di cui all’art. 648-ter), ed hanno perciò ineludibile rilievo a fini probatori.

Nel contesto evidenziato, del tutto plausibilmente è stato quindi ritenuto sussistente anche l’elemento soggettivo per entrambi i reati. La tesi difensiva che F. potesse avere agito ignaro della provenienza dei denari del figlio, del pericolo di misure di prevenzione, senza avere l’intenzione di fornire un contributo al reimpiego di proventi illeciti, non soltanto è meramente ipotetica, ma congruamente è stata stimata in contrasto con la manifesta assenza di fonti lecite di guadagno da parte di N.; la mancanza di reali ragioni che giustificassero il proporsi da parte padre nella veste, insussistente, di dominus dei beni del figlio; l’illuminante atteggiamento mantenuto dal padre finanche durante la latitanza, che davvero non si comprende come potesse non essergli nota, del figlio.

Priva di fondamento, oltre che relativa ad aspetto non decisivo, è infine la tesi secondo cui il dolo intenzionale richiesto dall’art. 12-quinquies richiederebbe almeno la consapevolezza dell’attivazione di una procedura di prevenzione, da escludere prima dell’aprile 2003 (ovverosia prima dell’emissione della misura cautelare nei confronti di N.). Lo scopo di eludere provvedimenti ablativi di prevenzione non richiede che sia pendente alcun procedimento, ma solo che se ne tema l’insorgenza. Per altro, con riferimento ai reati ai capi B) e B2), l’elemento soggettivo è stato adeguatamente individuato anche, come detto, nella finalità di agevolare la commissione del delitto di cui all’art. 648-ter cod. pen., e tanto basterebbe comunque ad integrare l’elemento soggettivo del reato di trasferimento fraudolento di valori.

In relazione alla affermazione di responsabilità di P.N. e P.F. per i reati loro rispettivamente contestati ai capi B) e B1), i ricorsi non possono dunque che essere rigettati, salvo quanto si dirà più avanti per l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1992, art. 7.

Il capo D).

6. Considerazioni in parte analoghe vanno fatte per il reato d’attribuzione fittizia contestato al capo D) a P.N. e alla sua convivente A.V..

Che gli immobili potessero effettivamente appartenere alla donna, alla quale erano stati formalmente intestati, è stato del tutto ragionevolmente escluso in base all’assoluta incapacità economica di costei, osservandosi che, anche a prestare fede alle sue asserzioni, la A. svolgeva un lavoro, di baby sitter, che certamente non le consentiva di guadagnare a sufficienza per realizzare gli immobili individuati nel capo d’imputazione (la villa era stata valutata 500.000 Euro e l’appartamento era stato ristrutturato con sofisticate apparecchiature e costi insostenibili per persona che poteva avere solo entrate modeste dal lavoro dichiarato). Cosippure ragionevolmente si è ritenuto che entrambi gli immobili fossero anche di fatto rimasti nella disponibilità di P.N., vuoi per la destinazione "familiare" della villa, vuoi per la realizzazione nell’appartamento di accorgimenti che non avevano altro scopo che nascondere e proteggere il soggiorno del latitante.

Il rapporto di convivenza rende quindi assolutamente verosimile l’osservazione che la donna non poteva non sapere donde provenivano i denari di P.N., che non svolgeva alcun lavoro lecito che potesse costituire fonte adeguata di guadagno, e che l’intestazione a lei dei beni, realizzati quando il convivente era già indagato per associazione di stampo mafioso ed estorsioni ed era latitante (le fotografie aeree dimostravano che la edificazione era stata realizzata dopo il maggio 2003), non poteva che avere lo scopo di tentare di sottrarre i beni ad una possibile confisca.

Anche in relazione alla affermazione di responsabilità di P. N. e A.V. per il reato loro contestato al capo D) e V) i ricorsi non possono perciò che essere rigettati, salvo, pure in questo caso, quanto si dirà per l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1992, art. 7.

Il capo V).

7. Le doglianze sviluppate con riferimento al capo V) si rivolgono soprattutto agli aspetti procedurali.

7.1. Il ricorso reitera la denunzia di violazione degli artt. 517 e 522 cod. proc. pen., sostenendo l’illegittimità della contestazione suppletiva perchè effettuata, oltre che in relazione a fatto già desumibile dagli atti d’indagine, nella fase conclusiva del dibattimento e dunque tardivamente: in guisa tale, perciò, da recare nocumento ai diritti di difesa, essendosi in concreto privato l’imputato della possibilità di articolare le sue difese, ricercare e addurre testi a discarico, nonchè chiedere riti alternativi, dal momento che solo con la sentenza n. 333 del 2009 della Corte costituzionale tale facoltà era stata infine riconosciuta.

Le censure sono per un verso infondate e per l’altro generiche.

7.2. Il problema se possa considerarsi ammissibile la contestazione in giudizio di un fatto diverso o di un reato connesso o di una circostanza aggravante, quando la loro sussistenza era già desumibile dagli elementi raccolti nel corso delle indagini e dell’udienza preliminare, aveva dato luogo, all’entrata in vigore del codice di rito del 1988, a soluzioni contrastanti, che le Sezioni Unite di questa Corte hanno risolto, con la sentenza 11 marzo 1999, Barbagallo, nel senso dell’ammissibilità. Dopo la L. n. 479 del 1999, la giurisprudenza aveva nuovamente registrato alcune oscillazioni (le sentenze Sez. 6, n. 6251 del 22/03/2000, Apicella;

Sez. 6, n. 1431 del 10/12/2001, Porricelli; Sez. 6, n. 10125 del 22/02/2005, Aricò; citate dalla difesa, avevano ritenuto che le modifiche normative imponessero di ritenere superato l’approdo delle Sezioni unite). Successivamente, tuttavia, la giurisprudenza di questa Corte s’è definitivamente consolidata confermando l’orientamento di S.U. Barbagallo (cfr. Sez. 5, n. 32797 del 20/06/2006, Battilana; Sez. 2, Sentenza n. 3192 del 08/01/2009, Caltabiano; Sez. 1, Sentenza n. 24050 del 14/05/2009, Di Girolamo;

Sez. 6, n. 44980 del 22/09/2009, Nasso; Sez. 6, n. 44501 del 29/10/2009, Cardella) e ribadendo, per quanto interessa in questa sede, che la contestazione tardiva, effettuata sulla base di quanto già risultante dagli atti dell’indagine preliminare non lede in alcun modo i diritti di difesa. Difatti, la discovery degli atti su cui la contestazione in tal caso si basa è già stata garantita in vista dell’udienza preliminare e l’imputato può comunque ottenere in dibattimento, se ne fa richiesta, un termine a difesa ampio tanto quello accordatogli per la vocatio in iudicium ( art. 519 cod. proc. pen.). Il diritto alla prova è assicurato da Corte cost. nn. 241 del 1992 e 50 del 1995 (illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 519 cod. proc. pen.). Sulla base di Corte cost. n. 265 del 1994 e, dopo la L. n. 479 del 1999, di C. cost. n. 486 del 2002 (sempre in tema di patteggiamento), nonchè di Corte cost. n. 530 del 1995 (in tema d’oblazione), l’imputato è rimesso nel termine per accedere al patteggiamento o all’oblazione. Già con la sentenza n. 32797 del 2006, citata, si era inoltre osservato che proprio le modifiche recate dalla L. n. 479 del 1999 al giudizio abbreviato consentivano anzi, sulla scorta di quanto affermato da C. cost. n. 236 del 2005 e C. cost. n. 169 del 2003 (precedute da C. cost. n. 54 del 2002) in ordine al fatto che nella sua nuova conformazione detto rito non poteva più ritenersi in radice "incompatibile" con il dibattimento, di ritenere estendibili al giudizio abbreviato – a condizione, ovviamente, che l’imputato ne avesse fatto specifica richiesta – le rationes decidendi delle sentenze della Corte costituzionale in tema di remissione in termini dell’imputato per la richiesta di riti alternativi a seguito di contestazione suppletiva in base ad atti risultanti dalle indagini.

La dichiarazione della "illegittimità costituzionale dell’art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede la facoltà dell’imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato concorrente oggetto di contestazione dibattimentale, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagine al momento di esercizio dell’azione penale", pronunziata da C. cost. n. 333 del 2009, chiude di conseguenza un percorso già annunziato.

Resta fermo dunque che la contestazione cosiddetta "tardiva" non può ritenersi preclusa, perchè serve a riparare errori del Pubblico ministero e ad assicurare razionalità al sistema. Nulla impone di limitarne l’ammissibilità alle fasi prodromiche dell’istruzione dibattimentale. All’imputato è concessa in linea di principio ampia facoltà di esercitare in relazione e a seguito della contestazione tardiva che discende da anomalo comportamento processuale del Pubblico ministero, ogni facoltà difensiva.

7.3. Ciò posto, le doglianze del ricorrente in punto di lesione dei suoi diritti sono, in concreto, del tutto aspecifiche. Non risulta nè è dedotto infatti che in occasione o a seguito della contestazione del reato concorrente abbia articolato richieste o prove non accolte; e neppure risulta o è stato allegato che abbia mai avanzato alcuna richiesta di riti alternativi, o anche solo mostrato uno interesse specifico e concreto in tal senso. Nè può dolersi l’imputato per il fatto che la sentenza della Corte costituzionale è stata pronunziata solo nel 2009. Era invero suo onere, se aveva davvero interesse al rito abbreviato, farne rituale richiesta, eventualmente eccependo l’illegittimità costituzionale del sistema che apparentemente non consentiva che fosse a tale fine rimesso nel termine.

7.4. Quanto all’affermazione di responsabilità per il capo V), il ricorso si limita a riproporre la tesi che una giustificazione alternativa della intestazione a F. delle vetture del figlio avrebbe potuto ravvisarsi nella necessità di risparmiare sul premio assicurativo. La genericità e implausibilità di siffatta tesi è stata tuttavia già correttamente sottolineata dalla Corte d’appello; e nulla aggiunge di concreto il ricorso.

7.5. Anche le censure relative al reato al capo V) non possono in conclusione che essere rigettate, salvo che per l’aggravante.

L’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7. 8. Appaiono fondate invece, come anticipato, le doglianze relative all’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7, ritenuta sussistente sotto il profilo che le intestazioni dei beni ai familiari di P.N. e le condotte favoreggiamento e di reimpiego del denaro di questo, di provenienza illecita, avrebbero avuto la finalità di agevolare altresì l’associazione camorristica clan Longobardi, della quale P.N. era uno dei capi.

La motivazione sul punto della sentenza impugnata si rifà, con assoluta evidenza, ai rilievi della sentenza emessa da questa Corte in fase di riesame che, annullando con rinvio su iniziativa del Pubblico ministero il provvedimento del Tribunale che aveva escluso l’aggravante, aveva osservato:

"Non è da revocare in dubbio che l’aggravante de qua non si applica automaticamente ogni qualvolta venga favorito l’appartenente ad una associazione mafiosa essendo necessario l’accertamento della funzionalità "oggettiva" della condotta all’agevolazione dell’attività posta in essere dal sodalizio criminoso. Tale parametro, … in considerazione dell’enunciato normativo e della sua ratio, comporta che l’indagine da effettuare in concreto sia orientata a verificare se la condotta, per la sua "oggettiva" consistenza e per la specifica ipotesi criminosa integrata, abbia "oggettivamente" e in "concreto" prodotto una agevolazione e un rafforzamento del sodalizio mafioso, nel caso in esame. L’effetto immediato non vi è dubbio che sia stato l’incremento illecito del patrimonio del mafioso; incremento, però, che non è stato considerato nella sua "concreta e oggettiva" dimensione, che avrebbe dovuto comportare la verifica non soltanto relativa al rafforzamento del sodalizio criminoso per l’"oggettivo" effetto di accrescere la solidità economica del "capo", ma anche per i risvolti di carattere processuale orientati "oggettivamente" ad occultare i proventi del sodalizio e, in tal modo, ad arrecare un vulnus per le indagini e le acquisizioni probatorie relative alla sussistenza del delitto associativo".

Tuttavia la sentenza impugnata, non solo non considera il diverso l’impegno probatorio che deve assistere l’affermazione di responsabilità rispetto alla, per quanto grave, consistenza indiziaria sufficiente a giustificare la misura cautelare; ma, soprattutto, omette di procedere a quella specifica verifica sulla concreta e oggettiva portata dell’aiuto che si predicava portato al sodalizio mafioso che la stessa sentenza d’annullamento in sede cautelare gli aveva raccomandato di effettuare.

La giustificazione dell’aggravante riposa al contrario su proposizioni la cui forza dimostrativa è affidata soltanto ad una sorta di auto-evidente postulato secondo il quale il rafforzamento economico del sodale rafforzerebbe eo ipso l’associazione e recherebbe un vulnus alle indagini, la ricchezza e la capacità criminale dell’associazione non potendo prescindere dal risultato di arricchimento dei sodali. La qual cosa, per altro, se pure potesse considerarsi massima di esperienza accreditata, non necessariamente implica l’inverso: e cioè che l’arricchimento di chi fa o ha fatto parte di un’associazione di stampo mafioso ridonda necessariamente a vantaggio dell’associazione.

La Corte d’appello ha in tal modo obliterato il consolidato orientamento di questa Corte, che neppure in tema di criminalità mafiosa ammette il ricorso a scorciatoie probatorie affidate a mere presunzioni. Ha inoltre omesso di considerare adeguatamente le peculiarità del caso concreto, in cui i beni oggetto di attribuzione fittizia e interessati dalle condotte di reimpiego appaiono descritti come destinati a soddisfare prevalentemente esigenze personali di P.N. e sembrano interamente gestiti – stando a quanto fin qui accertato – da soggetti estranei all’associazione.

La motivazione in punto di aggravante è perciò carente sotto un duplice aspetto: pecca d’astrattezza non essendo ancorata a dati concreti che accreditino l’ipotesi accolta; fa ricorso a un giudizio di verisimiglianza omettendo di esaminarne la falsificabilità, ovverosia omettendo di verificare se gli elementi del caso concreto potevano invalidare tale ipotesi.

La sentenza impugnata va dunque annullata con rinvio per nuovo esame anche in relazione all’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1992, art. 7. E l’annullamento va espressamente esteso, fin d’ora, ai reati per i quali vi è stato annullamento in punto di affermazione della responsabilità, attesa l’autonomia dell’aspetto qui esaminato.

Le confische.

9. I motivi svolti in relazione alla confisca degli immobili non possono che seguire invece le sorti dei capi cui i provvedimento ablativi si riferiscono.

Così, le censure riferite alla confisca degli immobili su e mediante i quali si sono in tesi realizzati i reati ai capi A) e C), restano allo stato assorbite dall’annullamento con rinvio disposto per detti capi.

In relazione al capo B) nulla è da dire perchè la confisca non riguarda quell’immobile, oggetto di acquisizione ad opera della Pubblica amministrazione locale, secondo quanto riferiscono le sentenze di merito (si veda in tal senso l’ordinanza di correzione dell’errore materiale, non impugnata, emessa in data 7.12.2006 dal Tribunale).

Sono invece quantomeno infondati i motivi relativi alla confisca, obbligatoria a mente del D.L. n. 306 del 1992, art. 12-sexies, degli immobili descritti ai capi B) e D). Le censure ripetono difatti gli argomenti sviluppati per sostenere che non v’era attribuzione fittizia di proprietà nè sproporzione tra apporti leciti e valore reale degli immobili, dei quali s’è già, trattando dei relativi capi, rilevata la infondatezza, quando non addirittura la genericità. C) Il ricorso nell’interesse di Pa.Lu..

10. I motivi del ricorso proposto nell’interesse di Pa.Lu. non riguardano specificamente tutti i fatti per i quali è stata pronunziata nei suoi confronti condanna, rivolgendosi con un minimo di dettaglio soltanto ai capi E), I), M) e S).

Il concorso nella rivelazione di segreti d’ufficio al capo E).

11. Il primo motivo concerne in particolare la contestazione relativa al reato di cui all’art. 326 cod. pen., contestato al capo E).

Le ragioni della condanna sono state riassunte in fatto al punto 3.1. e all’esito dell’esame delle intercettazioni la Corte d’appello ha adeguatamente evidenziato che dalle esse risultava che perlomeno in due occasioni era stato proprio P.L. a chiedere al carabiniere Co. notizie riservate su i turni di servizio, al fine di organizzare impunemente la sua attività quotidiana e criminale.

Alle contestazioni difensive (identiche a quelle del ricorso) la sentenza impugnata ha quindi già risposto: plausibilmente osservando che dal tenore delle conversazioni riportate appariva evidente che Pa.Lu. aveva sollecitato la rivelazione di segreti d’ufficio; esattamente richiamando i principi enunciati da S.U. n. 420 del 28.11.1981; correttamente evidenziando che non occorreva per l’integrazione della fattispecie alcuna promessa diretta di contropartita o vantaggio per il Pubblico ufficiale.

Il motivo, al limite dell’ammissibilità, è dunque infondato, perchè ripete censure congruamente confutate; svolge considerazioni generiche e di merito sul significato delle conversazioni;

erroneamente si duole dell’osservazione che non occorreva per l’integrazione del rato contestato la prova di contropartite o vantaggi per il P.U., in situazione nella quale appariva per altro evidente il "vantaggio" conseguito dal ricorrente mediante le informazioni ricevute.

Le ricettazioni e le estorsioni agli altri capi denunziati.

12. Parimenti infondati, e al limite dell’ammissibilità, sono gli ulteriori motivi, relativi ad alcune delle estorsioni attribuite al ricorrente.

12.1. In ordine alla ricettazione e alla tentata estorsione al capo I), concernente la "restituzione" di una Fiat Punto rubata, le ragioni della decisione sono state riassunte in fatto al punto 3.2.

Qui può solo aggiungersi che la sentenza impugnata ha adeguatamente fondato l’affermazione di responsabilità non solo sulle conversazioni intercettate, ma anche sulle dichiarazioni del carabiniere D. in ordine al simulato "ritrovamento" dell’auto.

Prudenzialmente, e l’imputato non può certo dolersene, il fatto è stato quindi qualificato alla stregua di tentativo soltanto perchè l’effettivo pagamento ad opera del proprietario non risultava certo.

Mentre il ricorso neppure considera le risposte date ai motivi d’appello, limitandosi a riprodurli.

12.2. La motivazione relativa alla ricettazione capo M), è riassunta in fatto al punto 3.3.

Del tutto plausibile è l’osservazione dei giudici di merito che il tenore della conversazione intercettata tra D’. e Pa.

L. e le stesse dichiarazioni del D’. rendevano evidente che la trattativa aveva ad oggetto un’autovettura rubata, che Pa.Lu. conosceva il fatto e la provenienza dell’auto e s’era intromesso per la sua consegna. Corretta in diritto (e in fatto neppure contestata in ricorso) è quindi l’osservazione secondo cui la circostanza che l’auto avesse poi preso altra via non incideva sulla ricettazione.

12.3. La motivazione relativa ai reati di ricettazione e di estorsione al capo S), è riassunta in fatto al punto 3.3.

La sentenza ricorda che il furto dell’auto, il suo ritrovamento su commissione, il pagamento di un prezzo per la sua restituzione, emergevano dalle dichiarazioni del derubato e dalle conversazioni tra C., nel frattempo condannato in abbreviato per gli stessi fatti, e Pa.Lu.. Alle osservazioni sulle diverse conclusioni raggiunte dal Tribunale del riesame ha adeguatamente risposto osservando che il materiale probatorio raccolto e esaminato nel giudizio di merito non lasciava invece dubbi sul diretto coinvolgimento di Pa.Lu. nei fatti contestati.

Manifestamente infondata è quindi la pretesa di far valere nel giudizio di merito, quasi fosse una sorta di giudicato incidentale, quanto deciso nei procedimenti de liberiate, senza neppure dire se il materiale probatorio esaminato era effettivamente lo stesso.

D) il ricorso nell’interesse di Fe.Fr..

13. Della infondatezza del primo motivo, relativo alla inutilizzabilità delle intercettazioni come prova del reato contestato al Fe. s’è già parlato ai punti 2., 2.1., 2.2.

Qui può solo riassumersi che la sentenza impugnata rileva che la prova del reato contestato al F. emergeva dall’ascolto delle conversazioni intercettate sull’utenza telefonica di Co.

G.. Con specifico riferimento alla posizione del F., deve quindi ripetersi che dagli atti risulta che dall’attività di ricerca del latitante P.N. scaturirono indagini a carico del carabiniere Co.Gi., indagato sia per "attività illecite a favore dei fratelli P." (p. 68 sentenza impugnata) sia, più specificamente (come risulta dai capi imputazione "stralciati", ad ogni buon conto riportati però nell’epigrafe della sentenza impugnata), di rivelazione di segreti d’ufficio e di favoreggiamento aggravati (capi F e G) in favore di P.N., nonchè di altre ipotesi di favoreggiamento a favore di Pa.

L. e altri e di partecipazione all’associazione di P. L..

Di tutta evidenza l’unitarietà delle indagini per l’intima e intrecciata connessione, oltre che – come all’inizio s’è già detto – il collegamento probatorio, tra le ipotesi di reato in base alle quali era stata attivata l’intercettazione delle utenze del Co., che nella forma aggravata contestata già di per sè consentivano l’attività captativa, e le posizioni di P. N. e di Pa.Lu. (a sua volta indagato di reati che pienamente consentivano le intercettazioni) da un lato, dell’attuale ricorrente dall’altro.

Stante l’unicità del procedimento sotto il profilo sostanziale, ben potevano dunque le intercettazioni legittimamente effettuate sull’utenza del Co. essere utilizzate anche a carico del F. come prova del delitto di corruzione da esse emerso, parimenti compreso tra quelli elencati dall’art. 266 cod. proc. pen. (Sez. 6, n. 4942 del 15/01/2004, Kolakowska Bozena). Manifestamente infondata è poi l’osservazione che le conversazioni intercettate riguardavano in ultima analisi una contravvenzione al codice della strada e ciò ne avrebbe impedito in ogni caso l’utilizzazione.

13. Infondato, al limite dell’ammissibilità, è anche il secondo motivo, che attiene alla responsabilità del ricorrente.

Le ragioni poste a fondamento della condanna sono state sintetizzate in fatto al punto 3.5. e riposano sulla interpretazione, esente da vizi, delle conversazioni intercettate.

Del tutto plausibili appaiono in particolare le considerazioni che dalle conversazioni emergeva che il Co. aveva chiesto al F. di chiudere un occhio sull’infrazione, facendogli capire che il D.M. era pronto a sdebitarsi, e aveva quindi sollecitato il D.M. a portare qualcosa al F., dicendogli che era uno disponibile; che la risposta del F. – "preferirei un cane, di razza coker" – lungi dell’apparire come un rifiuto, dimostrava invece la sua condiscendenza all’attività corruttiva; che la conversazione con Pa.Lu. dimostrava che la consegna era avvenuta.

Corretta, attesa tale lettura, la conclusione che – anche ad ammettere che il F. avesse equivocato le prime espressioni del Co., intendendo che il D.M. era un confidente, sebbene il vero significato delle stesse emergesse dalla successiva conversazione tra Co. e il D.M. – sussisteva comunque corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, perlomeno nelle forma susseguente, realizzatasi nell’accettazione implicita, ma evidente, della promessa (del prosciutto) e della regalia stessa.

Mentre le censure sviluppate in ricorso insistono su di una diversa lettura delle conversazioni intercettate, improponibile in sede di legittimità a fronte della coerenza e logicità del doppio conforme apprezzamento dei giudici del merito.

E) Conclusioni.

14. Tirando le fila di quanto sin qui esposto, la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli:

– limitatamente alla rivalutazione delle prove dei reati contestati ai capi A), Al), C), CI) e U), nei confronti di P.N., P.F., P.L., P.G. e P. M.G., in considerazione dell’inutilizzabilità delle conversazioni intercettate a seguito dei decreti nn. 1541/03, 1542/03, 1550/03;

– limitatamente alla sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 nei confronti di detti imputati e di A. V. in relazione a tutti i reati loro contestati attese le carenze della motivazione in ordine alla sussistenza di detta aggravante.

Devono essere rigettati gli ulteriori motivi di ricorso proposti nell’interesse di P.N., P.F., A. V., P.L., P.G. e P.M. G., relativi a capi diversi rispetto a quelli per i quali è stato disposto l’annullamento e da questi non dipendenti.

Devono essere rigettati i ricorsi proposti nell’interesse di Pa.Lu. e F.F..

Le spese di questo grado vanno poste a carico, pro quota, soltanto di Pa.Lu. e F.F., che sono i soli ricorrenti integralmente soccombenti.
P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.N., P.F., A.V., P.L., P. G. e P.M.G. per tutti i capi limitatamente al D.L. n. 152 del 1991, art. 7; nonchè nei confronti degli stessi imputati in relazione ai reati loro rispettivamente contestati ai capi A), A1), C), C1) e U); e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’appello di Napoli.

Rigetta nel resto i ricorsi dei suddetti imputati.

Rigetta i ricorsi di Pa.Lu. e F.F., che condanna la pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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