Cons. Stato Sez. IV, Sent., 12-04-2011, n. 2272 Procedimento e provvedimento disciplinari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con il presente gravame il ricorrente, già capitano in ausiliaria della Guardia di Finanza, chiede l’annullamento della sentenza del Tar Campania con cui:

– è stato in parte respinto, ed in parte dichiarato inammissibile il suo ricorso n. 73304/1998 diretto verso l’autoannullamento in autotutela degli atti relativi all’inchiesta formale disciplinare disposta nei suoi confronti;

– è stato respinto il ricorso n. 11828/1998 diretto avverso il provvedimento di rimozione, con perdita del grado, ivi compresi tutti gli atti prodromici al procedimento concluso.

L’appello è affidato a tre motivi, articolati in più profili di gravame riguardante l’errore in giudicando per violazione dell’articolo 9 della L. n. 19/1990; eccesso di potere per l’erroneità sui presupposti ed inesistenza dei presupposti, illogicità manifesta; violazione degli articoli 444 e 445 del c.p.p..

Si è costituita in giudizio l’amministrazione appellata che, con la propria memoria, ha chiesto il rigetto dell’appello.

Chiamata all’udienza pubblica, uditi i patrocinatori delle parti, la causa è stata ritenuta in decisione.

L’appello è infondato.

– 1.Par.. Per ragioni di economia espositiva devono essere esaminati congiuntamente, per la loro intima connessione, il primo ed il terzo motivo di appello.

– 1.1. Con il primo motivo, che reitera l’analogo mezzo introdotto, e disatteso, in primo grado, si lamenta che il TAR avrebbe totalmente ignorato le disposizioni di cui all’articolo 9 L. n. 19/90.

Come sarebbe stato affermato anche dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 415/1991 e dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 16/1997, i termini e le cadenze temporali, di natura perentoria, per la definizione del procedimento disciplinare avrebbero dovuto essere individuati nei 180 giorni dalla data in cui l’amministrazione avuto notizia della sentenza revocabile di condanna per l’inizio del procedimento disciplinare, mentre nei successivi 90 giorni avrebbe invece dovuto essere pronunciata la destituzione dall’impiego.

Nel caso di specie l’apertura dell’inchiesta sarebbe avvenuta ben oltre termini entro i quali il procedimento avrebbe dovuto iniziare. Al riguardo:

) il Comando Generale alla Guardia di Finanza sarebbe venuto a conoscenza dell’emanazione del provvedimento dal Tribunale di Napoli in data 15 luglio 1996 e della successiva sentenza della Suprema Corte di Cassazione in data 12 luglio 1997;

) la prima inchiesta (annullata in autotutela) sarebbe dovuta terminare il 13 marzo 1998, dal momento che le contestazioni degli addebiti erano stati notificati il 13 dicembre 1997;

) il Comando Generale avrebbe illegittimamente riaperto l’inchiesta violando la circolare n. 1/1993 dello stesso Comando;

) immotivatamente poi si sarebbe affidata l’inchiesta ad un altro ufficiale inquirente, come sarebbe emerso da un appunto di un funzionario dell’ufficio legislativo per il Capo di Gabinetto, che però a dire dell’appellante sarebbe stato "… svilito… da un appunto a mano in alto a sinistra con firma illeggibile".

Per l’appellante, anche a voler concordare con l’affermazione del primo giudice per cui si sarebbe dovuto far applicazione dell’articolo 120 del Testo Unico n. 3/1957 (in base al quale il procedimento si estingue quando sono decorsi 90 giorni dall’ultimo atto senza ulteriori sviluppi) l’inchiesta si sarebbe comunque conclusa oltre i termini previsti, perché tale norma lascia immutato il termine di 180 giorni decorrenti dalla conoscenza della sentenza irrevocabile. Il nuovo addebito all’odierno appellante sarebbe stato mosso il 12 maggio 1998, e quindi ben oltre i 180 giorni richiesti per l’inizio del procedimento disciplinare.

In violazione del disposto dell’articolo 74 della legge 10 aprile 1954 n. 113 (per cui "…l’inchiesta formale è il complesso degli atti diretti all’accertamento dell’infrazione disciplinare per il quale l’ufficiale può essere passibile di una delle sanzioni di cui all’articolo 73…"), inspiegabilmente il Collegio di primo grado ha invece ritenuto che i 180 giorni dovessero essere calcolati a partire dal 13 dicembre 1997, cioè dall’atto di avvio ed ha erroneamente affermato che questo sarebbe sopravvissuto all’annullamento della prima inchiesta.

Al contrario, l’integrale venir meno della prima inchiesta sarebbe dimostrato dal fatto che:

– mentre la prima contestazione recava l’invito a prendere visione presso l’ufficiale inquirente in Milano, la seconda contestazione dell’addebito recava l’indirizzo del nuovo soggetto inquirente in Torino;

– l’appellante aveva dovuto svolgere nuovamente tutta l’attività difensiva.

In conseguenza il termine dei 180 giorni, decorrenti dal 12 luglio 1997, era abbondantemente scaduto il 12 maggio 1998.

– 1.2. Con il terzo motivo si lamenta la violazione degli artt. 444 e 445 c.p.p. assumendo che erroneamente il Tar Campania aveva omesso di considerare che il capitano G., non poteva essere destituito, non sussistendo, nella specie, una vera e propria sentenza penale di condanna ma solo un patteggiamento della pena. La giurisprudenza avrebbe escluso il rilievo della detta sentenza di patteggiamento, in quanto mancante di un effettivo accertamento dei fatti (cfr. Consiglio di Stato, sezione VI 2 aprile 1998 n. 428; idem 28 aprile 1998 n. 574).

Il Tar si sarebbe erroneamente fondato sulla equiparazione tra la sentenza di patteggiamento e sentenze di condanna, che fu introdotto successivamente con le modifiche di cui agli articoli 1 e 2 della legge n. 97 del 27 marzo 2001, che però era entrata in vigore il 6.4.2001 ai sensi dell’articolo 10 della stessa; e quindi successivamente alla sentenza di patteggiamento del ricorrente.

In ogni caso poi la Corte Costituzionale aveva sancito l’illegittimità della retroattività della legge medesima (cfr. sentenze n. 349 del 27 maggio 2002).

– 1.3. L’assunto va complessivamente respinto.

– 1.3.1. La ricostruzione giuridica e temporale della vicenda operata dal TAR appare infatti coerente e del tutto legittima.

In primo luogo, si deve rilevare che, nel caso di specie, sono del tutto inconferenti o comunque giuridicamente irrilevanti:

– i diversi richiami giurisprudenziali, alcuni astrattamente condivisibili, ma tutti comunque estranei alla peculiare fattispecie in esame;

– i riferimenti alla circolare n. 1/1993, che ricordava un assunto pacifico quello per cui i termini dei 90 gg. sono perentori;

– l’appunto dell’ufficio al Capo dell’Ufficio Legislativo, sul quale (evidentemente alla luce dei successivi sviluppi) il Capo dell’Ufficio Legislativo aveva appuntato, in dissenso, le proprie indicazioni;

– la diversità delle sedi ove erano depositati gli atti, dato che tale circostanzaesclusivamente finalizzata a garantire la difesa dell’interessatonon poteva operare alcuna modificazione giuridica della fattispecie, e non faceva certo venir meno la tempestività e la validità del primo atto di contestazione.

– 1.3.2. Nel merito specifico del contendere, si deve puntualizzare che, in linea astratta, ha ragione il ricorrente che, nella formulazione anteriore alla modifica apportata dalla l. n. 97 del 2001 (quest’ultima non applicabile "ratione temporis", ed a seguito della declaratoria di incostituzionalità ad opera della sentenza n. 394 del 2002 della Corte cost.), la sentenza pronunciata a norma dell’art. 444 c.p.p. non aveva automatica efficacia nei giudizi civili o amministrativi.

Tuttavia, si deve comunque rilevare che, per l’applicazione della pena su richiesta delle parti, di cui agli art. 444 e 445 c.p.p., non si prescindeva e non si prescinde dall’accertamento della responsabilità penale dell’imputato, in quanto il giudice, nonostante la richiesta concorde delle parti, non può emettere la pronuncia di patteggiamento se ritiene ricorrano le condizioni per il proscioglimento; perché il fatto non sussiste; perché l’imputato non lo ha commesso; ovvero perché il fatto non costituisce reato.

Quindi, se è vero che, ai fini del giudizio disciplinare, il "patteggiamento" non è da solo sufficiente per affermare la responsabilità dell’incolpato, è anche vero che, anche sotto la previgente formulazione della norma, ben si poteva fare riferimento alla condanna patteggiata, per ritenere accertati, in sede disciplinare, i fatti emersi in sede di procedimento penale, i quali appaiano fondatamente ascrivibili al dipendente, in base ad un ragionevole apprezzamento delle altre risultanze del procedimento.

Pertanto come esattamente ricordato dal TAR, sulla scia dell’Adunanza Plenaria, nel caso in cui la sentenza penale di condanna consegua alla richiesta delle parti (cd. patteggiamento), non è applicabile il termine di 90 giorni posto dell’art. 9 comma 2 l. 7 febbraio 1990 n. 19 per la conclusione del procedimento penale, ma la disciplina generale prevista dal t.u. 10 gennaio 1957 n. 3 (cfr. Consiglio Stato A. Plen., 26 giugno 2000, n. 159 che ha superato le precedenti pronunce ricordate dalla ricorrente).

In conclusione, se con il "patteggiamento" non si verificava la compiutezza della raccolta degli elementi di prova, che è tipica del rito ordinario, ciò non escludeva che l’amministrazione, al fine di valutare i fatti in sede disciplinare, non potesse o dovesse effettuare autonomi accertamenti (cfr. in tal senso per casi comunque precedenti la L. n.97: Consiglio Stato, sez. V, 25 gennaio 2002, n. 413; Consiglio Stato, sez. V, 25 gennaio 2002, n. 413).

Perciò, sono le particolari connotazioni di sommarietà del procedimento penale di cui all’art. 444 c.p.c. che rendono necessaria una compiuta ed autonoma valutazione della fattispecie, e quindi implicano l’esigenza di un termine c.d. "dinamico".

In caso di procedimento disciplinare conseguente a sentenza penale di patteggiamento, l’amministrazione è vincolata al rispetto:

– per l’inizio del procedimento, dei 180 giorni decorrenti dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna di cui all’art. 9, l. 7 febbraio 1990 n. 19;

– per la sua conclusione – in relazione alle ricordate esigenze di valutazione della fattispecie – dei termini di cui all’art. 120 comma 1, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3.

Pertanto erroneamente il ricorrente afferma che al procedimento di cui all’impugnato in primo grado D.M. del 9 settembre 1998, dovesse essere applicato il termine perentorio dei 90 giorni prescritti dal cit. art. 9, L. n. 19/1991.

– 1.3.3. Ciò premesso, nel caso di specie ha ragione il giudice di prime cure quando ricorda che l’autoannullamento della prima inchiesta concerneva esclusivamente vizi dell’attività accertativa e non la contestazione degli addebiti.

Dato che, in linea generale, le motivazione dell’autoautotutela ne circoscrivono strettamente l’ambito oggettivo, è conseguentemente evidente che, quando non vi è alcun riferimento a profili di illegittimità dell’atto di iniziativa procedimentale, il medesimo resta del tutto estraneo all’annullamento, e quindi è pienamente valido ed efficace.

Qui l’autoannullamento della prima istruttoria era motivato con riferimento a vizi concernenti esclusivamente le relative conclusioni e quindi non poteva che concernere solo queste ultime.

Per questo il richiamo operato dal ricorrente alla nozione di "inchiesta disciplinare", di cui all’art. 74 della L. n.113 del 10 aprile 1954, appare del tutto inconferente.

La seconda comunicazione del 12 maggio 1998 infatti non aveva un carattere novativo della fattispecie, e quindi dei relativi termini, ma costituiva una comunicazione dovuta, al fine esclusivo dell’esercizio del diritto di difesa.

In definitiva, il termine dei 90 giorni decorreva dalla scadenza dei 180 giorni (previsti per l’avvio del procedimento disciplinare) computati a partire dalla prima contestazione degli addebiti del 13.12.1997.

Pertanto esattamente si è affermato che l’Amministrazione, avendo avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna il 12 luglio 1997, ha ritualmente iniziato il procedimento disciplinare oggetto del presente gravame il 13.12.1997, cioè nel termine dei 180 giorni decorrenti dal 13.17.1997 (e che sarebbero scaduti l’8.1.1998).

– 1.3.4. Il procedimento è stato poi anche ritualmente concluso, dato che l’Amministrazione ha più volte interrotto il termine dei 90 gg. di cui all’art. 120 del cit. T.U. n. 3/1957.

Esattamente la gravata sentenza individua come validi atti di procedura interruttivi del termine: — il primo rapporto finale in data 4 febbraio 1998 del primo ufficiale inquirente della originaria inchiesta in data 4 febbraio 1998; — la trasmissione al Comando Generale il 6 aprile 1998; — il relativo annullamento del 28. 4.1998; — le ulteriori contestazioni disciplinari in data 12 maggio 1998; – il rapporto finale della rinnovata inchiesta, del 9 luglio 1998; – il deferimento alla Commissione di Disciplina del 21 luglio 1998; – la proposta della Commissione di Disciplina di rimozione del 20 agosto 1998; – la trasmissione di quest’ultima dal Comando Generale al Ministro del 29 agosto 1998; – ed infine, il decreto del Ministro delle Finanze di rimozione di perdita del grado il 9 settembre 1998.

Nel caso concreto il TAR ha legittimamente concluso che il procedimento aveva rispettato comunque i termini dinamici di cui all’art. 120 comma 1, d.P.R. 10 gennaio 1957 n. 3.

– 1.3.5. In conclusione il primo ed il terzo motivo sono infondati e vanno respinti.

– 2.Par.. Con il secondo motivo si lamenta che, contrariamente a quanto ritenuto in primo grado, dall’esame della documentazione sarebbe stato evidente che la rimozione dal grado sarebbe stata pronunciata in mancanza di un qualsivoglia nuovo elemento probatorio rispetto a quanto emerso dalla prima istruttoria, conclusasi in data 24.9.98 con la proposta di archiviazione dell’inchiesta a carico del G.. Per l’appellante, come correttamente ritenuto dalla prima istruttoria:

– il commercialista della società oggetto di verifica, nel corso della quale sarebbe stato commesso il reato, avrebbe ben conosciuto i limiti dei poteri dell’ufficiale e quindi non avrebbe potuto essere intimorito dalla minaccia dei militari di allargare l’indagine ad altre società dell’ingegner Novi.

La verifica infatti sarebbe stata di tipo "centralizzato a sorteggio", sulla base di criteri fissati con apposito decreto; e come tale, non suscettibile di integrazioni o variazioni alla programmazione per cui non vi sarebbero stati elementi sui quali si sarebbe potuta concretizzare la concessiva minaccia di presunte ritorsioni;

– le dichiarazioni del commercialista che avevano portato all’arresto del ricorrente, sarebbero state rese in stato di detenzione per altri fatti penalmente rilevanti, per cui sarebbero state fatte al solo fine di acquistare la libertà;

– mentre il commercialista avrebbe dichiarato che per concludere positivamente la verifica gli sarebbero stati richiesti 10 milioni di lire, il titolare dell’impresa avrebbe esplicitamente fatto riferimento ad una cifra inferiore (cinque o 6 milioni di lire);

– infine mentre il medesimo commercialista aveva dichiarato di aver consegnato il denaro in contante all’ufficiale in un momento di solitudine, il maresciallo che lo accompagnava nella verificazione, aveva dichiarato di non averlo mai visto appartarsi con il commercialista.

In sostanza sarebbero mancati gli elementi necessari del reato di concussione ai sensi dell’articolo 317 c.p., e comunque l’appellante avrebbe ritrattato la confessione resa al P.M. solo al fine di essere rimesso in libertà, a cagione dei gravi motivi di famiglia connessi alla intimazione di sfratto dell’alloggio in Cremona ed all’isolamento sociale della moglie e dei figli conseguente al rilievo nazionale della vicenda. Di qui l’illogicità e la contraddittorietà della decisione fondata sulla base dei medesimi elementi, per i quali in precedenza si era invece concluso per l’archiviazione.

La censura, che mira a scardinare la sostanza del provvedimento, va respinta.

Anche sul punto devono dunque condividersi le conclusioni del primo Giudice, per cui con "… la nuova inchiesta l’Amministrazione non solo ha acquisito nuovi elementi di valutazione tramite anche l’audizione di soggetti non escussi in sede penale (vedasi il rapporto finale presentato dall’ufficiale inquirente della inchiesta rinnovata) ma ha anche: valutato i riflessi negativi ricaduti sulla immagine dell’ amministrazione, la rottura del rapporto di fiducia e la incompatibilità della presenza del ricorrente nella struttura amministrativa".

Trattasi, a ben vedere, di aspetti fattuali e di profili valutativi del tutto ulteriori rispetto alle dichiarazioni a base del patteggiamento, e che emergono chiaramente in esito ad un autonomo accertamento dei fatti e delle connesse responsabilità, che non lasciano dubbi sulla esatta configurazione degli stessi e sulla loro addebitabilità all’appellante.

In altre parole, alla luce degli elementi complessivamente risultanti in atti il giudizio, sul piano della logica e della giustizia sostanziale, l’irrogazione della perdita del grado per rimozione appare nel caso in esame assolutamente legittima in quanto:

– la sanzione appare proporzionata alle gravità delle responsabilità disciplinari concretamente accertate a carico del militare;

– i comportamenti emersi erano assolutamente incompatibili, sul piano dell’onore e del senso morale, con lo "status" di sottufficiale appartenente al Corpo della Guardia di Finanza ed erano altresì tali da compromettere gravemente gli interessi dell’amministrazione.

In definitiva, le conclusioni del T.A.R. ed il presupposto giudizio dell’Amministrazione, posto a base della rimozione, appaiono esenti dalle censure qui dedotte.

Anche il secondo motivo va dunque respinto.

– 3.Par.. In conclusione l’appello è infondato e deve essere respinto.

In conseguenza si deve integralmente confermare la decisione impugnata.

Le spese possono tuttavia essere compensate tra le parti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) definitivamente pronunciando:

– 1. respinge l’appello, come in epigrafe proposto;

– 2. Spese compensate.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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