Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 13-01-2011) 13-04-2011, n. 14973 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Con ordinanza dell’8.5.2010 il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bari disponeva la custodia cautelare in carcere di G.M. indagato per violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, artt. 74 e 73.

Avverso tale provvedimento l’indagato proponeva istanza di riesame.

Il Tribunale di Bari con ordinanza 31.5.2010 rigettava il ricorso.

Sosteneva il Tribunale l’esistenza dei gravi indizi di colpevolezza a carico dell’indagato sulla scorta dei seguenti elementi:

intercettazioni telefoniche con contestuali servizi sul territorio che hanno portato a perquisizioni e sequestri di ingenti partite di stupefacenti e all’arresto di alcuni correi; atti di procedimenti collegati. Le risultanze investigative consentivano di acclarare l’esistenza di una associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti in agro foggiano e garganico, capeggiata da F. V., coadiuvato nell’attività direttiva dal fratello R. e da T.P..

Costoro, per coordinare l’attività di spaccio al minuto, demandata ad un nutrito gruppo di spacciatori (in buona parte partecipi del sodalizio), o di vendita ad altri trafficanti, quali R.C. e G.M., anche loro organici al gruppo, che si occupavano dello smercio su altre piazze, si avvalevano di propri fiduciari, fra i quali vi era D.S.P..

Il D.S. si occupava personalmente, dimostrando anche una certa autonomia gestionale, dell’organizzazione di cessioni di ingenti quantitativi di marijuana in favore dei grossi acquirenti foggiani identificati in R.C. e GI.Ma..

In particolare richiamava la conversazione intercettata il 14.4.2008 (progr. N. 1181) dalla quale emergeva la continuità di rapporti fra D.S., G. e R. e la consapevolezza da parte degli acquirenti, in contatto anche con i vertici, di essere parte di un gruppo organizzato del quale condividevano le finalità.

Aggiungeva il Tribunale che le sussistenti esigenze cautelari potevano essere tutelate solo con la detenzione carceraria.

Ricorre per Cassazione il difensore dell’indagato deducendo:

1. violazione dell’art. 606 c.p.p. in relazione all’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c) e art. 275 c.p.p..

Lamenta il ricorrente che il Tribunale con motivazione apodittica è incorso in errori in judicando e in procedendo.

Sottolinea l’insussistenza delle esigenze cautelari considerato il tempo trascorso dalla cessazione della condotta, ben tre anni, e l’insussistenza del pericolo di fuga.

2. violazione dell’art. 606 c.p.p. in relazione all’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. c), art. 192 c.p. e art. 275 c.p.p..

Lamenta il ricorrente che l’ordinanza è solo formalmente e apparentemente ben strutturata ed adeguatamente motivata.

In realtà si è limitata ad acquisire in maniera acritica le singole fonti di prova.

3. violazione dell’art. 606 c.p.p. in relazione all’art. 292 c.p.p., comma 2, lett. e), art. 192 c.p. e art. 275 c.p.p.. Lamenta il ricorrente l’assenza di motivazione di entrambe le ordinanze con riguardo alla contestata associazione considerato anche la limitatezza temporale dei fatti ascritti all’indagato.

4. violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1), lett. B) e C).

Lamenta il ricorrente che l’indagato è stato ritenuto responsabile di reati commessi dopo il suo arresto.

Il primo motivo di ricorso è inammissibile perchè generico con riguardo all’eccepito vizio della motivazione.

Manca infatti di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione.

Ed è manifestamente infondato con riguardo al rilievo in ordine alle esigenze cautelari.

Il Tribunale con motivazione specifica, coerente e scevra da vizi logici ha dato conto della sussistenza delle esigenze cautelari individuate nel pericolo di reiterazione dei reati.

Anche il secondo motivo è inammissibile.

Il ricorrente lamenta che l’ordinanza gravata, al pari di quella emessa dal GIP, è solo apparentemente ben strutturata e congruamente motivata in realtà si è limitata a riportare in maniera acritica le fonti di prova.

Rileva il Collegio che il motivo è inammissibile in quanto generico.

L’art. 606 c.p.p. elenca una serie tassativa di motivi di ricorso.

Il ricorrente deve quindi prospettare una specifica doglianza in ordine alle argomentazioni poste a fondamento della decisione impugnata.

L’atto di ricorso deve essere autosufficiente, nel senso che deve contenere la precisa prospettazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto da sottoporre a verifica (v. per tutte Cass. 19 dicembre 2006, n. 21858).

E’ quindi inammissibile il ricorso per cassazione quando, come nel caso in esame, gli argomenti esposti siano assolutamente generici, non individuando le ragioni in fatto o in diritto per cui il provvedimento impugnato sarebbe censurabile e, pertanto, impedendo l’esercizio del controllo di legittimità sulla stessa.

Il terzo motivo è infondato perchè generico e versato in fatto.

Il ricorrente non solo ha reiterato una doglianze già esposta in sede di riesame e debitamente disattesa dal Tribunale, senza fornire alcuna specifica censura nei confronti del provvedimento impugnato che richiama numerosi elementi di indagine a suo carico per affermare la sua partecipazione all’organizzazione in argomento, ma non ha nemmeno sostenuto il proprio assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del procedimento che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare. Le argomentazioni esposte nei motivi in esame si risolvono in generiche censure in punto di fatto che non possono trovare ingresso in questa sede di legittimità a fronte di una ordinanza impugnata congruamente e coerentemente motivata con riguardo al grave quadro indiziario a carico del prevenuto.

Anche la quarta doglianza è manifestamente infondata perchè versata in fatto e comunque generica. Il ricorrente non solo non ha mosso specifiche censure alle argomentazioni fattuali e logico-giuridiche sviluppate nell’ordinanza, ma non ha nemmeno sostenuto il suo assunto con richiamo ad atti specifici e ben individuati del processo che il giudice di merito avrebbe omesso di valutare. Il ricorso è pertanto inammissibile.

Ai sensi dell’art. 616 c.p.p., con il provvedimento che dichiara inammissibile il ricorso, la parte privata che lo ha proposto deve essere condannata al pagamento delle spese del procedimento, nonchè – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al pagamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro mille, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

Poichè dalla presente decisione non consegue la rimessione in libertà del ricorrente, deve disporsi – ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter – che copia della stessa sia trasmessa al direttore dell’istituto penitenziario in cui l’indagato trovasi ristretto perchè provveda a quanto stabilito dal citato art. 94, disp. att. c.p.p., comma 1 bis.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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