Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 18-03-2011) 14-04-2011, n. 15244

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propongono ricorso per cassazione A.G. e M.A. avverso la sentenza del Tribunale di Firenze – sez. dist. Di Pontassieve – in data 21 giugno 2010 con la quale, ex art. 444 c.p.p., è stata loro applicata la pena concordata, in relazione al reato di tentato furto pluriaggravato e continuato in concorso, commesso nel (OMISSIS).

Deducono entrambi:

la omessa motivazione in ordine alla affermata sussistenza della aggravante ex art. 625 c.p., n. 7.

Tale circostanza avrebbe dovuto, in realtà, essere esclusa poichè oggetto dei tentativi di furto non erano le autovetture che i prevenuti avevano tentato di aprire, ma gli oggetti in esse custoditi, con la conseguenza che, trattandosi di beni non lasciati a bordo per necessità (come gli accessori dell’auto) ma soltanto per comodità, non potevano ritenersi esposti per necessità o per consuetudine alla pubblica fede;

Il M. deduce altresì un errore nel computo della pena, da correggersi ai sensi dell’art. 919 c.p.p., comma 2.

Invero, al computo della pena determinato tenendo conto della attenuante equivalente, della riduzione per il tentativo, dell’aumento per continuazione e per recidiva, doveva alfine sottrarsi quanto previsto per il rito speciale del patteggiamento.

Intendendo tale sottrazione pari a un terzo, per analogia a quanto disposto in relazione al coimputato, la pena finale doveva ritenersi non quella – concordata – di dieci mesi di reclusione, bensì quella di mesi 9.

Il Pg presso questa Corte ha chiesto il rigetto dei ricorsi.

I ricorsi sono inammissibili.

Quanto al primo e comune motivo deve osservarsi che il "patteggiamento" è un rito in virtù del quale imputato e P.M., ritenuta la correttezza della qualificazione giuridica della condotta contestata, si accordano sulla pena che deriva dalla concorrenza delle contestate circostanze, dalla comparazione fra le stesse e dalla entità ritenuta adeguata da entrambe le parti. Da parte sua, il giudice ha il potere-dovere di controllare l’esattezza dei menzionati aspetti giuridici e la congruità della pena richiesta, e di applicarla dopo aver accertato che non emerge, "ictu oculi", una delle cause di non punibilità previste dall’art. 129 c.p.p..

Di conseguenza, una volta ottenuta l’applicazione di una determinata pena ex art. 444 c.p.p., l’imputato può impugnare la sentenza solo per inosservanza dell’art. 129 c.p.p.. Non può, invece, rimettere in discussione profili oggettivi o soggettivi della fattispecie, come, ad esempio, la finalità, da lui perseguita con la condotta incriminata (e le conseguenti implicazioni di carattere giuridico), perchè essi sono tutti coperti dal "patteggiamento" (vedi Rv.

194909). Non può neppure, in virtù del detto accordo, rimettere in discussione, contestandone i presupposti in fatto, la configurabilità delle circostanze aggravanti, atteso che la erronea qualificazione giuridica del fatto deve comunque essere prospettata in ragione di elementi ictu oculi apprezzabili.

Nel caso di specie i ricorrenti tentano di introdurre, attraverso il ricorso, elementi in fatto (sulla direzione della volontà di essi agenti) che non si deducono affatto ictu oculi dalla formulazione del capo di imputazione, nel quale si da atto semplicemente della forzatura delle portiere delle vetture senza altra aggiunta: elementi dunque, che non possono essere sottoposti al vaglio della Cassazione con ricorso avverso sentenza di patteggiamento.

Nel merito, comunque, la tesi dei ricorrenti, quand’anche fosse stata basata su elementi di fatto accertati nel senso da essi prospettato, non avrebbe potuto trovare accoglimento alla stregua dei principi espressi in materia da questa Corte di legittimità.

Si è affermato infatti che per la sussistenza dell’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede, in tema di furto, la necessità dell’esposizione deve essere intesa non in senso assoluto, come impossibilità della custodia da parte del titolare del bene, bensì relativo, cioè in rapporto alle particolari circostanze che possono indurre il soggetto a lasciare le proprie cose incustodite. E’ stato cioè già sostenuto che sussiste l’aggravante in parola, in relazione al furto di danaro ed effetti personali presenti all’interno di una vettura parcheggiata sulla pubblica via. (Sez. 4, Sentenza n. 45488 del 08/07/2008 Ud. (dep. 09/12/2008) Rv. 241988).

Massime precedenti Conformi: N. 11365 del 1987 Rv. 176939, N. 14978 del 2005 Rv. 231876, N. 5113 del 2007 Rv. 238742).

Sul secondo motivo si osserva che la pena in concreto applicata al ricorrente è stata esattamente quella concordata dalle parti.

In materia di patteggiamento, qualora la parte abbia prestato consenso al trattamento sanzionatolo, l’impugnazione della sentenza, che tale accordo abbia recepito, è consentita solo qualora esso si configuri come illegale (tra le molte vedi Rv. 228047; N. 38286 del 2002 Rv. 222959).

Ma nella specie, anche in base a quanto riconosciuto dal ricorrente, non è stata individuata alcuna pena contra legem mentre è il ricorrente a sostenere, senza alcuna possibilità di riscontro obiettivo, che al M. il giudice avrebbe inteso applicare, per il rito, la diminuzione di pena nella sua estensione massima di un terzo.

Una simile conclusione non è supportata da elementi obiettivi e tantomeno dalla legge, che prevede per la diminuente del rito del patteggiamento, la possibilità di calcolarla "fino" a un terzo ( art. 444 c.p.p.) e quindi anche in misura minore, come è accaduto nel caso di specie.

Alla inammissibilità consegue, ex art. 616 c.p.p., la condanna di ciascun ricorrente al versamento, in favore della cassa delle ammende, di una somma che appare equo determinare in Euro 500.
P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento ed a versare alla cassa delle ammende la somma di Euro 500,00.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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