Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 11-02-2011) 14-04-2011, n. 15230 Appello

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Propone ricorso per cassazione, con due distinti atti di impugnazione, L.M.R. avverso l’ordinanza del Tribunale del riesame di Bari, adito in qualità di giudice dell’appello ex art. 310 c.p.p., con la quale è stata confermata l’ordinanza del Gip di Bari in data 15 ottobre 2010: tale ultimo provvedimento aveva disposto la misura degli arresti domiciliari in aggravamento rispetto alla misura del divieto di avvicinamento di cui all’art. 282 ter c.p.p.. Alla L. era stata in un primo tempo, e cioè nel maggio 2010, applicata la misura del divieto di avvicinamento, sopra menzionata, in relazione alla contestazione provvisoria del reato di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) in danno dell’ex marito E.M..

Successivamente, il Gip accoglieva la richiesta del PM di sostituzione della misura con quella degli arresti domiciliari, essendosi evidenziate più gravi esigenze cautelari.

In particolare il Gip riteneva acquisiti indizi del fatto che la donna aveva continuato a compiere atti vessatori nei confronti dell’ex coniuge, mandandogli messaggi offensivi col telefono cellulare di un collega e diffondendo documenti contenenti accuse calunniose che riguardavano il presunto traffico di sostanze stupefacenti ad opera della intera famiglia E..

Deduce:

ricorsi avv. Malcangi e Giarratana:

1) il vizio di motivazione e la violazione di legge ( art. 299 c.p.p., comma 4).

Il Tribunale della libertà aveva posto a fondamento della decisione di aggravamento della misura una serie di comportamenti oggetto di denunzie a carico della ricorrente, risalenti ad epoca (dal 14 luglio al 3 agosto) immediatamente successiva a quella della applicazione della misura del divieto di avvicinamento ai luoghi frequenti dalla persona offesa, posta in esecuzione nel maggio 2010.

Ebbene, ad avviso dei difensori, il Tribunale avrebbe dovuto considerare, come richiesto inutilmente nei motivi di appello, che quei comportamenti erano comunque cessati dopo che il PM aveva richiesto (il 19 agosto 2010) la sostituzione della misura in atto con altra più grave.

Inoltre, nell’atto di appello i difensori avevano posto in luce elementi favorevoli alla indagata (incensuratezza, svolgimento di attività lavorativa quale funzionario della Regione Puglia, cure mediche che garantivano il contenimento dei comportamenti impulsivi):

elementi che, essendo, al pari del primo, sopravvenuti alla richiesta del PM, avrebbero meritato una specifica valutazione e quantomeno avrebbero potuto giustificare la adozione di una misura meno afflittiva di quella sollecitata.

Ad avviso della difesa, si era dunque in presenza di una motivazione del tutto carente sul punto oltre che resa in violazione di legge, essendo stata ancorata a parametri (la congruità o la proporzionalità della misura) resi operativi con un indebito "automatismo" rispetto a presunti comportamenti illeciti della ricorrente che invece avrebbero dovuto essere approfonditamente valutati prima di essere considerati prova di violazione delle prescrizioni imposte.

Era cioè mancata una adeguata valutazione sulle ragioni per le quali i comportamenti della ricorrente, oggetto di denunzie a suo carico, avrebbero potuto (o meno) integrare i presupposti per l’aggravamento della misura cautelare in atto, dovendosi, in tale prospettiva, considerarli unitamente agli elementi favorevoli allegati dalla difesa, posto che il giudizio sull’aggravamento delle esigenze cautelari deve essere "attuale" (Cass. n. 7674 del 2002; n. 200 del 1997; Sez. un. n. 18339 del 2004; n. 40404 del 2008 etc.).

E gli elementi favorevoli dedotti dalla difesa erano rappresentati essenzialmente dal certificato medico della ASL di (OMISSIS) del (OMISSIS), prodotto in udienza, attestante che la ricorrente si era sottoposta a cure mediche che davano una garanzia di contenimento dei suoi comportamenti impulsivi.

Peraltro il Tribunale, pur dando atto di tale passaggio, non ne aveva tratto le necessarie conseguenze in punto di adeguatezza della misura sollecitata dal PM;

2) il vizio di motivazione e la violazione di legge ( art. 275 c.p.p., commi 2 e 2 bis) per avere il Tribunale escluso la prevedibilità della concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena, senza considerare correttamente il tenore del predetto certificato medico e di tutti gli altri elementi favorevoli sopra menzionati;

3) il vizio di motivazione quanto alla declaratoria di inammissibilità della richiesta di autorizzazione alla attività lavorativa.

La giurisprudenza della Cassazione darebbe ragione della perfetta legittimità della richiesta rivolta al Tribunale del riesame (Cass. Sent. n. 35338 del 2003: sez. un n. 24 del 1996).

La difesa critica inoltre la decisione anche nel suo aspetto sostanziale, essendo stata, la richiesta di autorizzazione al lavoro, ritenuta non accoglibile senza la adeguata valorizzazione degli elementi posti in luce dai difensori sulla positiva personalità della ricorrente e soprattutto sulla sua assoluta necessità di svolgere attività lavorativa per far fronte alle indispensabili esigenze di vita.

Il difensore ha dichiarato in udienza di rinunciare al terzo motivo di ricorso per sopravvenuta carenza di interesse.

Il ricorso è infondato e deve essere respinto.

Deve preliminarmente osservarsi che ciascuno dei principi in diritto evocati dai difensori nel ricorso, così come enunciati dalla giurisprudenza, è condiviso da questo Collegio e non viene qui in discussione nella astratta precettività e significatività.

Il punto è che di nessuno dei medesimi principi si apprezza la violazione, ad opera del Tribunale del riesame investito, quale giudice dell’appello, del tema dell’aggravamento della misura cautelare riguardante la L..

Il Tribunale ha invero convalidato l’assunto del Gip secondo cui le esigenze cautelari, già apprezzate in sede di applicazione della misura coercitiva ex art. 282 ter c.p.p., dovevano reputarsi aggravate essendo emerso, dopo la esecuzione della misura stessa, che l’indagata continuava a tenere comportamenti minacciosi e molesti in danno della persona offesa e dei familiari, tali da costituire ulteriori reiterazioni del reato in contestazione. Ciò posto, non si vuole qui porre in discussione che il Tribunale, nel vagliare il giudizio del Gip sulla fondatezza della richiesta del PM, dovesse tenere nel debito conto anche elementi favorevoli all’impugnante, prodotti dalla difesa nell’ambito del devolutum, ma si deve sottolineare che una simile valutazione degli elementi nuovi addotti dall’appellante non è mancata da parte del Tribunale stesso, contrariamente a quanto sostenuto dai difensori.

I giudici hanno infatti preso in considerazione in primo luogo i comportamenti della prevenuta, oggetto di denunzie a suo carico, e li hanno valutati nell’esercizio del potere proprio del giudice del merito, la cui decisione, come è noto, se plausibile, logica e non riscontrata affetta da palesi aporie o mancanze, si sottrae al sindacato di questa Corte.

Risponde d’altro canto a logica il ragionamento esposto dal Tribunale secondo cui materia di valutazione non può che essere il comportamento che positivamente si accerta a carico della indagata e non anche il fatto che, a seguito dei detti comportamenti in violazione di legge, non risultino denunzie ulteriori.

In altri termini è razionale e logico sostenere che il giudice valuta il comportamento dell’agente in ragione delle sue manifestazioni apprezzabili oggettivamente e non in ragione di quanto, non risultando positivamente accertato, non potrebbe che costruire oggetto di una presunzione arbitraria. In secondo luogo non può dirsi carente il giudizio del Tribunale sol perchè non ha espressamente considerato tutti gli altri elementi – fatta eccezione per il certificato della ASL del quale si dirà – sottolineati dalla difesa a favore della ricorrente.

Si trattava infatti di elementi tutti preesistenti alla adozione della misura originaria e pertanto già considerati necessariamente all’atto della applicazione del primo divieto ex art. 282 ter c.p.p., sicchè non può dirsi carente la motivazione per effetto della quale le nuove manifestazioni aggressive della L. siano state considerate sul presupposto implicito della esistenza di tutti i connotati soggettivi che la riguardavano (incensuratezza, pregressa attività lavorativa etc.) e che necessariamente sono stati reputati non influenti o comunque non decisivi. In terzo luogo il Tribunale risulta avere preso in considerazione anche la certificazione sanitaria rilasciata dal Centro di salute mentale ed ha reso, sul tema, una motivazione che presenta una evidente plausibilità e che pertanto si sottrae all’ulteriore sindacato della Cassazione.

Il Tribunale ha infatti dato atto che la indagata è risultata affetta da una patologia di tipo paranoideo che, da un lato, rappresenta una probabile chiave di lettura degli eventi al vaglio della accusa e, dall’altro, non è ritenuta del tutto risolta a causa della recente instaurazione della terapia: questa, essendo in corso, non ha prodotto effetti stabilizzati e non da garanzia della cessazione delle condotte aggressive e persecutorie ai danni della persona offesa.

Sul punto la difesa lamenta una illogicità della motivazione ma, sostanzialmente, propone una alternativa lettura della certificazione medica, non consentita dinanzi al giudice della legittimità.

Invero è da escludere che la certificazione sia stata oggetto di un travisamento, peraltro neppure denunciato dai ricorrenti, essendo evidente che il sanitario del centro di salute mentale ha espresso un giudizio di valore (sulla capacità contenitiva dei comportamenti impulsivi ad opera del trattamento farmacologico), in termini probabilistici e tali da essere devoluti al prudente apprezzamento del giudice. E il Tribunale a tale apprezzamento non si è sottratto, rendendo una valutazione del tutto razionale e plausibile allorchè ha argomentato sulla permanenza della possibilità che la prevenuta, essendo in corso la terapia che oltretutto è su base volontaria, non sia del tutto al riparo dalle intemperanze già dimostrate.

Tali considerazioni rendono evidente anche la infondatezza della doglianza sulla asserita mancanza di motivazione riguardo alla possibilità di conseguire il beneficio della sospensione condizionale della pena.

Il giudizio del Tribunale sul punto non difetta di alcuno dei necessari presupposti di fatto ed è del tutto plausibile e coerente con le premesse, laddove si esprime per la non prevedibilità che alla prevenuta sia concesso il detto beneficio, a causa della propensione, già dimostrata, a reiterare condotte della stessa specie di quella per la quale si procede.

Quanto infine al terzo motivo, deve ricordarsi che il difensore, in udienza, vi ha rinunciato, avendo la imputata conseguito, nelle more, la autorizzazione al lavoro.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *