T.A.R. Lazio Roma Sez. III quater, Sent., 13-04-2011, n. 3222 inps

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con atto notificato in data 9 aprile 2009 e depositato il successivo 21 aprile parte ricorrente ha impugnato gli atti in epigrafe indicati e ne ha chiesto l’annullamento.

I ricorrenti espongono, in fatto, che l’organizzazione dell’Avvocatura dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.) sin dalla sua istituzione è stata concepita in rapporto alle specifiche esigenze di difesa in giudizio dell’Ente, in assoluta autonomia rispetto alla struttura amministrativa, e strutturata ed articolata in funzione della distribuzione dei vari uffici giudiziari. Con il tempo, però, detta autonomia è andata diminuendo perché l’Istituto ha imposto agli avvocati un vincolo di subordinazione ai Direttori regionali e provinciali ed ha disposto il trasferimento di parte della loro attività ad avvocati esterni la cui scelta è stata demandata alla Direzione generale sulla base di criteri altamente aleatori, con grave danno anche di carattere economico sia per essi ricorrenti che per l’Istituto.

2. Avverso i predetti provvedimenti parte ricorrente è insorta deducendo:

A) Sulle determinazioni nn. 36 del 23 ottobre 2008 e 140 del 28 dicembre 2008, nonché sulla circolare n. 37 del 4 marzo 2009.

a) Violazione e falsa applicazione artt. 25 L. n. 70 del 1975, 19 D.P.R. n. 346 del 1983 e 1372 c.d. in relazione all’art. 72 c.c.n.l. del personale, con qualifica dirigenziale e relative specifiche tipologie professionali, dipendente dalle Amministrazioni pubbliche nel Comparto del personale degli Enti pubblici non economici sottoscritto il 16 ottobre 1996 e agli artt. 78 e 83 c.c.n.l. per il quadriennio normativo 20022005 e per il biennio economico 20022003 relativo all’area VI della dirigenza e degli artt. 3 e 12 R.D.L. n. 1578 del 1933 – Eccesso di potere per illogicità ed ingiustizia grave e manifesta.

Con la determinazione n. 36 del 23 ottobre 2008 è stato modificato l’assetto organizzativo dell’Istituto e sono state riassegnate le funzioni ed i compiti del Coordinamento generale legale. L’Amministrazione ha illegittimamente eliminato l’autonomia con cui il coordinamento generale legale operava e negato agli Uffici legali la qualità di uffici indipendenti per quanto attiene alla dotazione organica, all’autoorganizzazione e al funzionamento.

Con la successiva determinazione n. 140 del 29 dicembre 2008 la gestione commissariale dell’I.N.P.S. ha apportato importanti modifiche al Regolamento di organizzazione. Gli avvocati sono stati illegittimamente posti in posizione di subordinazione rispetto alla Dirigenza regionale e provinciale, svilendo il ruolo fondamentale dei professionisti coordinatori legali e ledendone l’autonomia di cui sono per legge dotati.

B) Sulle determinazioni nn. 18 del 16 ottobre 2008 e 4 del 19 gennaio 2009 e sulla circolare n. 25 del 20 febbraio 2009.

Partendo da un errato calcolo sulla quantità delle pratiche giudiziarie da smaltire, la determinazione ha apportato in maniera illogica e contraddittoria modifiche nell’organizzazione dell’Avvocatura, per poi affidare a professionisti esterni la domiciliazione e l’assistenza in giudizio dell’Istituto. La conseguenza di tale scelta è stata un’ulteriore lesione dell’indipendenza professionale dei ricorrenti anche nella scelta dei propri sostituti ed una consistente diminuzione dei loro compensi, aggiuntivi al trattamento stipendiale di gran lunga superiore ad esso.

b) Violazione e falsa applicazione artt. 3, 9 e 10 R.D.L. n. 1578 del 1933 – Eccesso di potere per illogicità grave ed ingiustizia manifesta.

Contrariamente a quanto disposto dalla determinazione n. 4 del 2009, spetta all’avvocato che cura la pratica stabilire da chi farsi sostituire nell’esercizio della propria attività nonché il professionista presso il quale domiciliarsi. E’ dunque illegittimo che la scelta del domiciliatario e del legale presente in udienza debba essere fatta dal Direttore generale, in accordo con il Coordinatore generale legale.

c) Violazione e falsa applicazione dell’art. 10 D.L. n. 2093 del 2005 – Violazione e falsa applicazione art. 2 D.P.R. n. 346 del 1983 – Eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità ed ingiustizia grave a manifesta.

L’Istituto ha assunto come dato di riferimento da cui partire per giustificare l’adozione delle decisioni contestate il flusso annuale dei giudizi, ma lo ha quantificato in modo errato.

d) Violazione dei principi di trasparenza e di economicità dell’azione amministrativa di cui all’art. 1, comma 1, L. n. 241 del 1990 – Valutazione art. 69, comma 16, L. n. 388 del 2000 – Difetto assoluto di motivazione – Eccesso di potere per contraddittorietà, illogicità e ingiustizia manifesta – Eccesso di potere per sviamento.

I criteri utilizzati per affidare gli incarichi ad avvocati esterni non solo sono poco chiari, ma sono anche antieconomici.

3. Con un primo atto di motivi aggiunti, notificato il 21 settembre 2009 e depositato il successivo 14 ottobre 2010, parte ricorrente impugna le note I.N.P.S. con le quali il Coordinatore generale dell’Avvocatura, in esecuzione ed adempimento degli atti e provvedimenti già impugnati con l’atto introduttivo del giudizio, ha provveduto ad impartire istruzioni alle Avvocature periferiche in ordine all’affidamento degli incarichi di domiciliazione esterna e sostituzione processuale a professionisti estranei all’Amministrazione, individuando gli stessi con riferimento ad elenchi del pari trasmessi alle strutture legali periferiche interessate; le liste degli Avvocati domiciliatari presso i Tribunali; la circolare I.N.P.S. n. 93 del 20 luglio 2009, con la quale l’Ente ha dettato norme interne in tema di controversie in materia di invalidità civile (art. 20 D.L. n. 78 del 2009); la circolare I.N.P.S. n. 102 del 12 giugno 2009, con la quale l’Ente, in applicazione della determinazione commissariale n. 140 del 2008, ha delineato le nuove linee organizzative delle strutture territoriali di produzione ed i relativi modelli funzionali anche con specifico riferimento alla funzione legale; la circolare I.N.P.S. n. 103 del 18 agosto 2009, con la quale l’Ente ha dettato norme interne in tema di concentrazione delle funzioni di gestione delle risorse strumentali, istruzioni operative e disposizioni organizzative; la circolare I.N.P.S. n. 106 del 9 settembre 2009, con la quale l’Ente, sempre in attuazione della determinazione commissariale n. 140/08 e ad integrazione ed esecuzione di quanto prefigurato nella precedente circolare n. 102 del 12 giugno 2009, ha individuato "nuove modalità operative dell’area legale"; nonché i documenti allegati alle citate circolari.

Gli impugnati provvedimenti sono, ad avviso dei ricorrenti, illegittimi non solo perché ledono l’autonomia che caratterizza la professione forense ma anche per carenza di potere in capo all’Avvocato Coordinatore generale e agli altri Avvocati Coordinatori Regionali e Provinciali.

4. Con un secondo atto di motivi aggiunti, notificato il 19 febbraio 2010 e depositato il successivo 26 febbraio, parte ricorrente impugna le determinazioni del Commissario Straordinario dell’I.N.P.S. nn. 5 del 21 gennaio 2009; 23 del 2 marzo 2009; 44 del 23 marzo 2009; 46 del 26 marzo 2009; 47 del 31 marzo 2009; 48 del 1° aprile 2009; 54 del 3 aprile 2009; 61 del 30 aprile 2009; 76 dell’8 maggio 2009; 77 del 15 maggio 2009; 88 e 89 dell’1 giugno 2009; 114 del 25 giugno 2009; 115 e 116 del 7 luglio 2009; 122 del 13 luglio 2009; 124 del 21 luglio 2009; 130 del 22 luglio 2009; 141 del 28 dicembre 2008; 146 del 6 agosto 2009; 184 e 185 del 15 ottobre 2009; 199 del 30 ottobre 2009; 202 e 203 del 3 novembre 2009; 228 del 26 novembre 2009, tutte conosciute a seguito della produzione documentale dell’I.N.P.S. in dichiarata ottemperanza all’ordinanza n 289 del 2009 della Sezione III quater del T.A.R. Lazio e recanti affidamento di incarichi a legali esterni all’Ente; i provvedimenti attuativi delle predette determinazioni; le note con le quali il Coordinatore Generale dell’Avvocatura dell’I.N.P.S., in esecuzione ed adempimento degli atti e provvedimenti già impugnati con il ricorso introduttivo e con il primo atto di motivi aggiunti, aveva provveduto ad impartire istruzioni alle Avvocature periferiche in ordine all’affidamento degli incarichi di domiciliazione esterna e sostituzione processuale a professionisti estranei all’Amministrazione; le liste degli Avvocati domiciliatari.

Gli impugnati provvedimenti sono, ad avviso dei ricorrenti, illegittimi, tra l’altro, perché l’I.N.P.S. avrebbe potuto avvalersi del più economico strumento delle cd. sinergie tra enti previdenziali, come previsto dalla legge, anziché rivolgersi al libero foro.

5. Con un terzo atto di motivi aggiunti, notificato il 16 aprile 2010 e depositato il successivo 28 aprile, parte ricorrente impugna la determinazione del Commissario Straordinario dell’I.N.P.S. n. 220 del 25 novembre 2009, recante "misure finalizzate al riassetto organizzativofunzionale dell’Avvocatura dell’Istituto", resa nota il 18 febbraio 2010, la circolare applicativa I.N.P.S. n. 34 del 2010 ed "eventuali" provvedimenti attuativi degli stessi adottati dai Direttori regionali.

6. Con un quarto atto di motivi aggiunti, notificato il 16 aprile 2010 e depositato il successivo 28 aprile, la ricorrente F.V.M.C. impugna a titolo individuale la determinazione del Commissario Straordinario dell’I.N.P.S. n. 220 del 25 novembre 2009, recante "misure finalizzate al riassetto organizzativofunzionale dell’Avvocatura dell’Istituto", resa nota il 18 febbraio 2010, ivi comprese la Relazione e la tabella (tra cui quelle recanti nuova dotazione organica dell’Avvocatura interna) a tale determinazione allegate; la circolare n. 24 dell’8 marzo 2010, recante norme interne in tema di riassetto organizzativofunzionale dell’Avvocatura dell’istituto e i documenti allegati a tale circolare, "ove a valore provvedimentale autonomo"; i provvedimenti attuativi della predetta determinazione e della circolare.

La sig.ra Collerone presta servizio presso l’Avvocatura periferica di Bergamo dove, con i provvedimenti gravati ed in violazione degli artt. 1, 2, 6, 7, 33 e 57 D.L.vo n. 165 del 2001, uno dei due posti di avvocato è stato soppresso. Tali provvedimenti sono stati assunti senza per nulla considerare l’esigenza di salvaguardia dell’efficienza dell’azione amministrativa all’Ufficio di Bergamo.

7. Con un quinto atto di motivi aggiunti, notificato il 21 ottobre 2010 e depositato il successivo 5 novembre, parte ricorrente impugna le determinazioni del Presidente dell’I.N.P.S. nn. 254 e 255 del 22 dicembre 2009; 43 del 19 febbraio 2010; 185 del 15 ottobre 2009; 44 del 19 febbraio 2010; 87 del 12 aprile 2010; 9 del 4 giugno 2010, aventi ad oggetto "conferimenti di incarichi professionali ad avvocati del libero foro" e le corrispondenti proposte del Direttore Generale; la determinazione del Presidente dell’I.N.P.S. n. 89 del 9 agosto 2010, avente ad oggetto "adeguamento della disciplina degli onorari per la corresponsione degli avvocati dell’I.N.P.S.; il provvedimento del Direttore Generale pubblicato con messaggio I.N.P.S. Hermes n. 020933 del 9 agosto 2010; il provvedimento del Direttore Generale dell’I.N.P.S. pubblicato con messaggio I.N.P.S. Hermes 23104 del 13 settembre 2010; il provvedimento del Direttore Generale dell’I.N.P.S. pubblicato con messaggio I.N.P.S. Hermes n. 24667 del 1 ottobre 2010; l’avviso per la formazione di liste triennali di avvocati domiciliatari e/o sostituti di udienza; le liste triennali di avvocati domiciliatari e/o sostituti di udienza.

Tali provvedimenti sono illegittimi perché ledono, sotto diversi profili, lo stato giuridico ed economico degli avvocati del’I.N.P.S..

8. Si è costituito in giudizio l’Istituto Nazionale Previdenza Sociale (I.N.P.S.), che ha sostenuto l’infondatezza, nel merito, del ricorso.

9. Si sono costituiti in giudizio, con atti di intervento ad adiuvandum, i sig.ri P.A., M.L., K.L.N. e A.T., senza peraltro svolgere alcuna attività difensiva.

10. Si è costituita in giudizio, con atto di intervento ad adiuvandum, l’Associazione Legali I.N.A.I.L., che ha sostenuto la fondatezza del ricorso.

11. Con memorie depositate alla vigilia dell’udienza di discussione le parti costituite hanno ribadito le rispettive tesi difensive.

12. Con atti depositati, rispettivamente, l’1 aprile 2010, il 27 maggio 2010 e il 12 novembre 2010, i sig.ri G.D.R., I.P. e A.R. hanno rinunciato al ricorso.

13. All’udienza del 5 aprile 2011 la causa è stata trattenuta per la decisione.
Motivi della decisione

1. In via preliminare il Collegio rileva che gli avv.ti G.D.R., I.P. e A.R., con atti rispettivamente depositati in data 1 aprile 2010, 27 maggio 2010 e 12 novembre 2010, hanno formalmente dichiarato di rinunciare al ricorso.

Il Collegio ne prende atto e dichiara nei loro riguardi l’estinzione del giudizio con integrale compensazione delle spese e degli onorari del giudizio.

2. Sempre in via preliminare il Collegio dichiara l’inammissibilità degli interventi ad adiuvandum svolti dai sig.ri K.L.N., P.A., M.L. e A.T. con distinti atti, ma tutti notificati e depositati nella stessa data (rispettivamente 5 e 20 maggio 2010). I soggetti in questione non hanno infatti avuto cura di qualificarsi, di specificare a quale titolo intervengono nel giudizio, quale è il loro personale interesse di fatto indirettamente leso dai provvedimenti impugnati dai ricorrenti e il vantaggio che, di riflesso, ritrarrebbero dall’annullamento giurisdizionale degli stessi, e non hanno espletato alcuna difesa a supporto delle tesi svolte dai ricorrenti principali, pur essendosi formalmente riservati di produrre "ulteriori scritti difensivi in vista della discussione del merito", ma si sono limitati a chiedere l’accoglimento del ricorso. La declaratoria di inammissibilità dell’intervento costituisce quindi corretta e coerente applicazione del principio giurisprudenziale consolidato (Cons. Stato, sez. V, 23 novembre 2010 n. 8145; sez. VI, 3 aprile 2009 n. 2092; Tar Bari, sez. II, 17 dicembre 2010 n. 4242), per il quale nel processo amministrativo legittimato a proporre intervento ad adiuvandum è il soggetto che specifichi e documenti di avere un proprio interesse, di fatto, a sostenere le ragioni addotte dal ricorrente principale in quanto titolare di una posizione giuridica che, pur non legittimante ad agire in via principale, è collegata o dipendente da quella del ricorrente principale, con la conseguenza che dalla sentenza emessa dal giudice, in sede di definizione del contenzioso attivato da quest’ultimo, potrebbe per lui derivare un effetto favorevole o sfavorevole. Alla declaratoria di inammissibilità dell’intervento segue, ai sensi dell’art. 26, comma 1, c.p.a., la condanna dei soggetti che l’hanno proposto alle spese e agli onorari del giudizio, che saranno liquidati in dispositivo.

3. Venendo all’esame delle censure dedotte (condivise dall’I.N.A.I.L. con il proprio intervento ad adiuvandum) – sulla base dell’enorme documentazione versata in giudizio ed ampiamente sufficiente alla loro definizione – il Collegio ritiene di poter esaminare congiuntamente sia il ricorso introduttivo che i motivi aggiunti, atteso che questi ultimi ripropongono in larga misura fatti già esposti, questioni di diritto già sollevate e censure già dedotte con il primo, pur avendo ad oggetto i diversi provvedimenti succedutisi a breve intervallo di tempo e sovente meramente conseguenziali a provvedimenti presupposti già gravati.

Il risultato di questa scelta difensiva è un cartaceo che fra ricorsi, motivi aggiunti e memorie è di circa 300 pagine, conseguenti alla ricorrente esposizione di motivi e argomentazioni ripetitivi che avrebbero potuto essere condensati in un limite ragionevole di pagine, in osservanza dell’onere di sinteticità imposto al difensore sia dal giudice comunitario (Corte giust. CE 15 ottobre 2004 e 31 gennaio 2009) che dal giudice nazionale (Cons. Stato, sez. VI, 23 giugno 2010 n. 4016, per il quale nella stesura di un ricorso la ricostruzione dei fatti deve essere chiara, ma sommaria, ossia sintetica, perché i fatti rilevano nei limiti in cui rientrano nella materia del contendere, e non vanno quindi ripetuti, come nella specie, nei motivi aggiunti).

Si tratta di esigenza da tempo affermata dalla giurisprudenza con richiamo alle considerazioni già svolte nel lontano 1990 dall’Adunanza generale del Consiglio di Stato (8 febbraio 1990 n. 16) i cui principi sono stati poi codificati nell’art. 3, comma 2, c.p.a. che, seppure ratione temporis non applicabile, non ha certamente contenuto innovativo perché espressione di regole che, sul piano deontologico, presiedono a corretti rapporti fra giudice e avvocato.

4. La copiosa difesa dei ricorrenti ha peraltro costretto il Collegio alla stesura di una sentenza certamente non sintetica, resasi necessaria per rispondere alle numerose censure dedotte con l’atto introduttivo e con i cinque atti di motivi aggiunti.

5. L’atto introduttivo del giudizio è stato notificato il 9 aprile 2009 ed ha per oggetto determinazioni commissariali e circolari risalenti nel tempo (determinazioni del commissario nn. 18 del 16 ottobre 2008, 36 del 23 ottobre 2008, 140 del 29 dicembre 2008, 4 del 19 gennaio 2009; circolari I.N.P.S. nn. 25 del 20 febbraio 2009, 36 del 4 marzo 2009). Tranne che per le due circolari il ricorso risulta proposto oltre il termine decadenziale e dovrebbe di conseguenza e d’ufficio essere dichiarato irricevibile, tanto più che i ricorrenti non indicano la data in cui ne avrebbero avuto conoscenza, ma si limitano ad apporre, a fianco di ciascuno di essi, l’inciso ("non pubblicata").

Il che è giustificazione del tutto insufficiente a supportare la mancata osservanza del termine decadenziale atteso che è principio giurisprudenziale consolidato, e certamente non ignoto ai ricorrenti in ragione dell’attività da essi svolta, che il termine per la proposizione del gravame decorre, in mancanza di notificazione o pubblicazione dell’atto ingiustamente lesivo, dal momento in cui l’interessato ne ha avuto conoscenza, ed è abbastanza inverosimile che in un ambiente estremamente ristretto, quale è quello degli uffici legali centrali, regionali e provinciali dell’I.N.P.S., non si sia avuta immediata conoscenza di provvedimenti che direttamente riguardavano la posizione giuridica ed economica degli addetti agli stessi uffici e, quindi, dei ricorrenti, tenuto anche conto del contributo che il Coordinatore legale generale ha offerto al procedimento di riorganizzazione di detti uffici (si considerino a questo proposito e a titolo solo esemplificative le note dello stesso dell’11 giugno 2009) e dei tentativi non riusciti di trovare un accordo con l’Amministrazione.

In ogni caso il Collegio ritiene di non dover prendere posizione su questa questione di rito, essendo il ricorso palesemente infondato nel merito sotto tutti i profili.

6. La tesi ripetutamente svolta dai ricorrenti, anche nella via dei motivi aggiunti, è che i provvedimenti di riorganizzazione degli uffici, nella parte riguardante gli uffici legali, hanno avuto l’effetto di "destrutturare" gli stessi, di "svuotare" il lavoro e di porli in una inammissibile posizione di subordinazione rispetto ai direttori regionali e provinciali delle strutture nelle quali essi operano, con conseguente compromissione dell’autonomia decisoria e organizzatoria che deve essere riconosciuta all’avvocato in ragione della responsabilità che egli assume nell’esercizio dell’attività professionale.

Data l’impostazione, che i ricorrenti hanno dato alla contestazione delle determinazioni del commissario, alcune precisazioni preliminari s’impongono.

7. Le impugnate determinazioni costituiscono la doverosa applicazione, da parte del commissario, delle prescrizioni dettate dalla L. 6 agosto 2008 n. 133, che ha imposto a tutte le Amministrazioni, e non solo a quelle statali, di adottare entro il 30 novembre 2008 provvedimenti di riorganizzazione delle strutture dipendenti secondo criteri di efficienza, razionalità ed economicità, anche al fine di contenere in limiti ragionevoli le spese di funzionamento, ed ha altresì previsto la soppressione dell’ente pubblico che, entro il suddetto termine, non avesse ottemperato all’ordine di riordino. Detta legge ha quindi imposto un obbligo generale di riorganizzazione che non prevede eccezioni né è limitato a singoli e specifici settori operativi, ma che ragionevolmente deve intendersi riferito in via prioritaria alle strutture interne del singolo ente pubblico per le quali l’intervento del commissario risultava particolarmente necessario ed urgente. Fra queste indubbiamente rientrano gli uffici legali.

E’ incontestabile, anche perché risultante dalla vastissima documentazione versata in atti (oltre 1000 pagine), la situazione di eccezionale criticità di detti uffici, conseguente ad un arretrato di enorme dimensione, nonostante il suo carattere seriale, come ripetutamente riconosciuto dagli stessi ricorrenti, ad un contenzioso in progressivo aumento, ad una soccombenza dell’Istituto in sede contenziosa quantificata in una percentuale inaccettabile e dequalificante per l’intera Avvocatura, ad un’attività di consulenza legale solo marginale (probabilmente trascurata dagli avvocati anche perché non destinataria di compensi aggiuntivi al pari di quella contenziosa) e che invece, se svolta sistematicamente dagli uffici legali su ogni singolo ricorso pervenuto alla sede di appartenenza, al fine di verificare la convenienza per l’Istituto di resistere o non, avrebbe indubbiamente agito come misura deflativa del contenzioso.

Data la premessa la conseguenza è duplice: in primo luogo la riorganizzazione degli uffici legali era obbligatoria, atteso il loro stato di comprovata insufficiente funzionalità; in secondo luogo, quand’anche le determinazioni commissariali presentassero qualcuno dei vizi di legittimità denunciati, in ragione del modus procedendi seguito nella loro adozione, sì da comportarne l’annullamento giurisdizionale, l’I.N.P.S. sarebbe ex lege n. 133 del 2008 obbligata a riadottarli emendati dai vizi riscontrati dal giudice, con conseguente irrealizzabilità della pretesa dei ricorrenti di ritornare al pregresso assetto organizzatorio.

8. Una seconda precisazione va fatta con riferimento allo status giuridico dei legali dell’I.N.P.S. e, quindi, dei ricorrenti. Si tratta di soggetti che, pur essendo in possesso del titolo che li abilita all’esercizio della libera professione, hanno ritenuto conveniente non affrontare i rischi che, specie sotto il profilo economico, questa comporta ed hanno optato, sulla base di una personale scelta di vita e di un calcolo di convenienza, per la sicurezza garantita, sotto profili diversi, da un lavoro svolto alle dipendenze di un solo datore di lavoro.

Si tratta quindi di lavoratori subordinati che, al pari di ogni altro pubblico dipendente, percepiscono uno stipendio mensile; hanno diritto alle ferie retribuite; sono legittimati ad assentarsi dal lavoro, conservando il diritto alla retribuzione, in casi particolari; ove abbiano contratto un’invalidità permanente per causa di servizio percepiscono l’equo indennizzo e/o la pensione privilegiata; a seguito del collocamento a riposo per limiti di età o per dimissioni volontarie hanno diritto alla pensione ordinaria e al trattamento di fine servizio. Benefici, questi, di cui non godono i lavoratori autonomi e quindi gli avvocati liberi professionisti, ai quali i ricorrenti tendono ad equipararsi.

Ciò che li distingue dagli altri dipendenti della medesima Amministrazione non è la "specificità" dell’attività da essi svolta al servizio della stessa, che è connotato di ogni attività lavorativa (portiere dello stabile, usciere, ragioniere, geometra, addetto alla compilazione del bilancio preventivo e del conto consuntivo dell’Ente, ecc., sono tutti dediti ad una attività specifica), ma il fatto che quella da essi svolta è condizionata al possesso di un particolare titolo abilitativo, richiesto anche per tutti gli altri dipendenti professionisti (medici, ingegneri, attuari, ecc.). Il possesso dell’abilitazione all’esercizio della professione forense impone all’avvocato pubblico dipendente l’osservanza degli stessi obblighi deontologici dell’avvocato libero professionista di cui risponde al Consiglio dell’Ordine, ai quali si aggiungono quelli ai quali è tenuto nei confronti dell’Amministrazione di appartenenza e che derivano dal rapporto di lavoro subordinato che lo lega a quest’ultima. Agli obblighi fanno riscontro l’autonomia e l’indipendenza di giudizio di cui gode nella fase precontenziosa e contenziosa nell’impostazione da dare alla difesa degli interessi del suo datore di lavoro e sotto questo profilo la sua posizione non è dissimile da quella del libero professionista: quest’ultimo può rifiutare o rinunciare all’incarico se non è riuscito a convincere il cliente dell’inutilità del ricorso al giudice in presenza di una situazione di fatto e/o di diritto che non lascia alcuna speranza sull’esito favorevole del contenzioso e, soprattutto, se la richiesta del cliente gli impone l’inosservanza dei principi di deontologia professionale; l’avvocato pubblico dipendente, che ha un solo stabile cliente nella persona del suo datore di lavoro, può chiedere allo stesso di essere esonerato dall’incarico se riesce a dimostrare che il risultato che da lui pretende l’Amministrazione urta contro principi deontologici, ma non anche se questa gli chiede di resistere al ricorso di un soggetto terzo pur essendo stata preventivamente avvertita che si tratta operazione suicida.

In questo senso depone anche una corretta lettura dell’art. 78, comma 8, c.c.n.l. 20022205, il quale segnala la necessità che l’autonomia da riconoscere al legale "sul piano tecnicoprofessionale" (e solo su questo) si armonizzi con "le logiche che governano l’attività dell’ente e con le dinamiche organizzative che lo sottendono" e si raccordi "ai diversi livelli della struttura organizzativa per l’individuazione di obiettivi e priorità…per la migliore tutela dell’interesse pubblico".

9. Una volta stabilito che l’autonomia e l’indipendenza dei dipendenti con qualifica di avvocati hanno per ambito operativo solo l’attività di consulenza e il governo della fase precontenziosa e contenziosa e che per il resto assume rilevanza la loro qualità di lavoratori dipendenti, non è assecondabile la pretesa ad essere equiparati sul piano organizzativo all’avvocato del libero foro che organizza come crede e a suo rischio lo studio nel quale esercita la professione, stabilisce il personale di cui ha bisogno per l’attività di segreteria, sceglie i propri diretti collaboratori e all’occorrenza li associa.

Ma anche sul piano tecnico professionale è palese la differenza fra l’avvocato libero professionista e l’avvocato dipendente. Il primo è iscritto nell’albo generale, che gli consente di accettare l’incarico da qualsiasi soggetto; il secondo è iscritto in un elenco speciale, che l’autorizza ad espletare l’attività forense solo su mandato e nell’interesse del suo unico cliente, il datore di lavoro che a questo titolo lo stipendia, con conseguente inibizione all’esercizio della stessa non solo in favore di soggetti terzi, ma anche a tutela di un interesse personale, per il quale è tenuto a servirsi del patrocinio di un avvocato del libero foro.

Di qui la mancanza di supporto logico e giuridico alla tesi dei ricorrenti secondo cui l’autonomia e l’indipendenza di giudizio ad essi riconosciuta richiede, come corollario obbligato, la necessità di considerare i relativi uffici unità operative del tutto autonome sul piano organizzativo e funzionale, con la conseguenza che spetterebbe agli avvocati quantificarne la dotazione organica (in quanto "propri uffici indipendenti"), la scelta del personale di segreteria, nonché il governo dello stesso, senza peraltro sopportarne il relativo costo.

Per quanto attiene al rifiuto dei ricorrenti di considerarsi, sempre sotto il profilo organizzatorio e funzionale, alle dipendenze del direttore regionale o provinciale preposto alla struttura nella quale è inserito l’ufficio legale, è sufficiente osservare che il direttore è responsabile del funzionamento della struttura in tutte le sue componenti, in primis quelle (amministrative) che svolgono la funzione istituzionale che il legislatore ha affidato all’I.N.P.S., il quale in essa trova la sua ragion d’essere, che è per intero affidata agli uffici amministrativi, incaricati di adottare i relativi provvedimenti con le connesse responsabilità sul piano quantitativo e qualitativo. La responsabilità, sotto il profilo funzionale ed organizzativo, del soggetto posto al vertice della struttura provinciale o regionale è globale, nel senso che si estende a tutti gli uffici che di essa fanno parte e, quindi, necessariamente, anche agli uffici legali, in quanto chiamati a svolgere una funzione complementare e di supporto, sul piano della consulenza e della tutela giudiziaria, all’attività degli uffici amministrativi. Attività legale da esercitare a difesa di quella istituzionale e insostituibile svolta da questi ultimi, ma alla quale l’Istituto potrebbe provvedere, e probabilmente con minore spesa, facendo ricorso agli avvocati del libero foro, ai quali non è tenuto corrispondere, oltre all’onorario professionale (percepito anche dai legali dipendenti), lo stipendio e gli accessori (pensione, trattamento di fine servizio, ecc.).

Non sono in grado di condurre a diversa conclusione le argomentazioni svolte dai ricorrenti a difesa della loro pretesa ad una completa autonomia rispetto agli amministrativi ed all’organo di vertice, appartenente al ruolo degli amministrativi.

Inconferente è il richiamo all’art. 19 D.L.vo 25 giugno 1983 n. 346, nella parte in cui prevede che "l’attività legale è espletata presso l’ufficio legale", il che è ovvio, atteso che ogni attività lavorativa specifica postula sul piano organizzativo la creazione di un apposito ufficio (ufficio del personale, ufficio incaricato della riscossione di contributi, ufficio al quale è affidata la liquidazione delle pensioni, ufficio medicolegale, ufficio ragioneria, ecc.).

La circostanza che il coordinamento dell’ufficio legale sia riservato ad un dipendente appartenente al ruolo degli avvocati non è elemento che possa comprovare la totale indipendenza del suddetto ufficio dall’organo amministrativo di vertice. Coordinamento è infatti concetto giuridico diverso da direzione e comporta che il relativo incarico, finalizzato innanzi tutto ad una razionale distribuzione dei compiti fra i componenti dell’ufficio, deve essere affidato ad uno di essi. Rilevante, in senso contrario alla tesi dei ricorrenti, è che la scelta del Coordinatore, per tutti gli uffici per i quali è prevista la presenza di tale figura professionale, non è riservata alla categoria interessata, ma rientra nella competenza esclusiva dell’ente datore di lavoro al quale spetta individuare, nell’ambito di detta categoria e a mezzo degli organi competenti, il soggetto in possesso di attitudini e qualità tali da assicurare non solo una "razionale distribuzione dei compiti fra i professionisti", ma anche la "necessaria uniformità di indirizzo nell’esercizio dell’attività professionale" e sempre nel rispetto delle "linee programmatiche e gestionali" dell’ente datore di lavoro, come prescritto dall’art. 78 cit. c.c.n.l. 20022005.

Ulteriore riprova che gli avvocati interni sono soggetti, sotto il profilo funzionale ed organizzativo, all’organo di vertice della struttura nella quale operano, nella loro qualità di lavoratori subordinati, è nel succitato c.c.n.l., che ne prevede l’inquadramento in un’area contrattuale comune con la dirigenza, impone ad essi l’obbligo di garantire al datore di lavoro "correttezza nel quotidiano operare", richiedente una conseguente attività di controllo che, per ragioni logiche, non può essere affidata ad un appartenente alla medesima categoria e allo stesso ufficio, anche con incarico di Coordinatore.

D’altro canto gli stessi ricorrenti riconoscono (pag. 25 dell’atto introduttivo del giudizio) che da sempre i regolamenti di organizzazione dell’I.N.P.S. hanno attribuito alla Direzione generale (e, quindi, agli organi a mezzo dei quali essa opera) il "compito di definire gli interventi necessari all’esercizio delle attività professionali legali e di verificarne l’andamento e i risultati", seppure dopo aver consultato i coordinatori legali, il che è regola di buona amministrazione per ogni organo di vertice di struttura provinciale e regionale, che non risulta essere stata soppressa dagli impugnati provvedimenti.

10. E’ palesemente infondata l’affermazione secondo cui i provvedimenti impugnati avrebbero "addirittura conferito il potere di svolgere la professione legale" ai direttori regionali e provinciali, mettendo a rischio il diritto dell’avvocato "all’iscrizione nello speciale elenco annesso all’albo", la quale richiede che "gli addetti esercitino con libertà ed autonomia le loro funzioni di competenza". Non esiste, infatti, nei provvedimenti impugnati una sola prescrizione nella quale possa, ragionevolmente e responsabilmente, individuarsi un trasferimento di competenze tecnico professionali dagli avvocati ai direttori delle strutture nelle quali essi operano ovvero una limitazione alla loro autonomia nell’impostare la difesa dell’Ente di appartenenza "secondo coscienza e conoscenza", né i ricorrenti sono stati in grado di individuarla specificamente.

Di ancora minore spessore è la tesi – sempre proposta a difesa della completa autonomia dell’ufficio legale dal direttore regionale e provinciale, ma riproposta anche nei motivi aggiunti volti a contestare la regolamentazione data dagli atti con essi impugnati all’utilizzo di avvocati esterni – secondo cui tale completa autonomia dei legali rispetto all’organo amministrativo preposto alla direzione della struttura e il loro diritto di "dotarsi di propri uffici indipendenti" discenderebbe dal conferimento ad essi di una "procura generale o speciale" alla difesa dell’Istituto che seguirebbe, come conseguenza automatica, all’atto di nomina del singolo avvocato assunto a conclusione della prescritta procedura concorsuale. Osserva il Collegio a questo riguardo che i ricorrenti trascurano il fatto che lo jus postulandi postula l’avvenuto rilascio di una procura alle liti riferita alla singola vicenda contenziosa, come prescrivono le norme sul rito, di comune conoscenza, e ribadito, ove ce ne fosse necessità, dall’art. 15 L. 23 marzo 1975 n. 70 che, sia pure con riferimento alle problematiche relative alla responsabilità professionale dei legali degli enti pubblici, fa puntuale riferimento ai "singoli mandati specifici".

Trascurano di valutare, nel proporre un argomento (errato) a supporto della tesi della completa autonomia e indipendenza degli uffici legali, il danno che a ciascuno di essi deriverebbe ove dal giudicante fosse riscontrata l’effettiva esistenza di una procura generale coattivamente imposta per il solo fatto dell’assunzione in ruolo e la connessa responsabilità che ciascuno di essi assumerebbe per qualsiasi vicenda contenziosa in cui fosse coinvolta l’Amministrazione di appartenenza, con conseguente obbligo di esercitare lo jus postulandi anche per casi ignoti.

E’ proprio per evitare questo pericolo che il legislatore (cit. art. 15 L. n. 70 del 1975) si è preoccupato di chiarire che la responsabilità dell’avvocato dipendente di ente pubblico incontra il limite del "mandato specifico" da lui ricevuto.

Ma, a parte queste ovvie considerazioni, sfugge il nesso logico e causale che i ricorrenti ritengono di poter stabilire fra il mandato alla lite, non importa se generale o speciale, e l’indipendenza degli uffici legali sotto il profilo organizzatorio e funzionale.

11. Un esame a parte merita l’affermazione dei ricorrenti secondo cui l’inserimento dell’ufficio legale fra quelli sottoposti alla direzione dell’organo amministrativo di vertice della struttura esporrebbe gli avvocati ad una responsabilità personale aggravata per fatti addebitabili a terzi (nella specie i direttori regionali e provinciali).

L’affermazione richiede la precisa individuazione della responsabilità in cui incorre il legale e il correlato regime sanzionatorio.

Comune a tutti i dipendenti professionisti degli enti pubblici è che la responsabilità professionale è limitata a fatti e ad accadimenti verificatisi nell’esercizio dell’attività alla quale sono abilitati e ad essi personalmente addebitabili. Il regime sanzionatorio è invece, di fatto, diversificato in ragione del diverso illecito contestato e delle conseguenze che da esso l’ordinamento fa derivare.

Il medico, che ha errato nel formulare una diagnosi, nell’eseguire un intervento chirurgico o nel prescrivere al paziente una determinata terapia, è considerato autore di un reato per il quale è soggetto a processo penale, con immediata sospensione dal servizio e, nel caso di condanna, alla perdita della libertà personale e al licenziamento in tronco. Risponde inoltre personalmente del danno arrecato al paziente, che è tenuto a risarcire. Eguale trattamento è riservato al dipendente ingegnere, che abbia errato nell’eseguire una progettazione o nella direzione dei lavori, da cui sia derivato un danno per soggetti terzi o per altri dipendenti della stessa Amministrazione.

La responsabilità del legale è invece sostanzialmente limitata alla violazione degli obblighi previsti dal codice deontologico (infedeltà nella difesa del cliente, abusi commessi nella trattazione della causa e finalizzati a guadagni illeciti, ecc.). Nessuna responsabilità personale e patrimoniale è invece imputabile all’avvocato in conseguenza dell’esito sfavorevole, per il suo datore di lavoro, della causa a lui affidata, per temerarietà della stessa o per non aver utilizzato, non importa se per impreparazione o negligenza, gli strumenti giuridici che gli avrebbero assicurato un risultato diverso. Una responsabilità, ma rilevante sotto il profilo disciplinare, sarebbe ipotizzabile nel caso in cui (esemplificando), per trascuratezza o negligenza, avesse fatto scadere i termini per la costituzione in giudizio o per il deposito di memorie e documenti; non avesse tempestivamente impugnato la sentenza di primo di grado, lasciandola passare in giudicato; non avesse fatto una ragionevole scelta dei documenti da produrre in giudizio e non si fosse opposto al deposito nel corso del giudizio di nuovi documenti da parte del ricorrente che avrebbero comportato una mutatio del thema decidendum sottoposto al giudice con l’atto introduttivo del giudizio; non avesse tempestivamente e motivatamente sconsigliato gli uffici amministrativi ad insistere nella difesa giudiziale di un provvedimento palesemente illegittimo, ecc..

Non risulta dall’esame della giurisprudenza riportata nelle banche dati che il legale, colpevole di dette infrazioni, sia mai stato denunciato dall’Ente di appartenenza al Consiglio dell’ordine, sottoposto a procedimento disciplinare per queste specifiche imputazioni, condannato a risarcire l’Amministrazione per i danni economici e morali subiti in conseguenza di un patrocinio svolto in palese violazione dei doveri incombenti sul pubblico dipendente o di quelli deontologici, quanto meno mediante sottrazione delle spese di giudizio, inutilmente sostenute dal suo datore di lavoro, dalla somma complessiva liquidabile a titolo di onorari professionali o addirittura licenziato per scarso rendimento o incapacità professionale.

Il massimo che gli può capitale è di essere messo da parte per incapacità professionale.

Il richiamo dei ricorrenti alla responsabilità personale dell’avvocato è quindi fuori luogo e finalizzato al riconoscimento di un ruolo preminente ed insostituibile nell’ambito dell’organico della struttura pubblica, che invece non gli spetta.

12. Segue da quanto finora esposto un duplice ordine di conseguenze: nessuna limitazione e di alcun genere all’esercizio dell’attività professionale in sede consultiva, precontenziosa e contenziosa è stata apportata dai provvedimenti impugnati; è del tutto legittimo che con la determinazione commissariale 23 dicembre 2008 n. 140, e in esecuzione dell’obbligo legislativo di riorganizzazione delle strutture interne, la posizione degli uffici legali sia stata oggetto di revisione ed equiparata sotto il profilo della direzione e del coordinamento a quella degli altri uffici operanti all’interno della medesima struttura, regionale e provinciale, e la responsabilità e il controllo del loro funzionamento, con i connessi poteri d’intervento, siano stati attribuiti, senza esclusione, all’organo amministrativo di vertice della struttura stessa.

Di qui l’incongruo richiamo da parte dei ricorrenti (terzo motivo aggiunto) alla subita lesione "di diritti, interessi ed aspettative", nella quale essi individuano un vizio degli impugnati provvedimenti di riorganizzazione degli uffici legali per aver "azzerato completamente l’autonomia organizzativa del ruolo legale", che invero nessuna norma legislativa, regolamentare o pattizia ha mai ad essi formalmente riconosciuto, anche in passato, e di cui hanno probabilmente goduto in via di fatto a causa della responsabile inerzia degli organi di vertice dell’Ente, con le conseguenze (enorme arretrato; percentuale altissima di soccombenza in sede contenziosa; spese di funzionamento anomale sia in assoluto che con riferimento ai risultati ottenuti), che il commissario si è trovato a fronteggiare, assumendo determinazioni non solo legittime, ma doverose.

In effetti, se si considerano nel loro complesso la qualità delle censure dedotte e la loro pertinenza rispetto al thema decidendum, la conclusione che si ricava è che il vero obiettivo perseguito dai ricorrenti, dietro lo schermo della difesa dell’indipendenza dell’avvocato nell’esercizio della sua attività professionale, è ottenere dal giudice il riconoscimento di quella totale autonomia e indipendenza degli uffici legali da ogni organo dell’Ente di appartenenza, quale che sia il livello occupato nella scala gerarchica, che il commissario ha ad essi legittimamente negato, e che li spinge fino al punto di configurare detti uffici come amministrazioni autonome seppur collegate all’Ente e dotate di propri poteri organizzativi e funzionali del cui esercizio dar conto solo al Presidente.

Quello che si coltiva (oltre agli interessi economici di cui si dirà in seguito) è in sostanza il prestigio della categoria e dei relativi uffici, che si pretende siano collocati su un gradino superiore a tutti gli altri, rivendicando a tal fine poteri del tutto estranei all’esercizio dell’attività forense ed in questo modo trascurando che il prestigio dell’avvocato, al pari di ogni professionista, è legato alla qualità della prestazione che è in grado di garantire al cliente (che nella specie è in discussione) e che l’avvocato, consapevole della delicatezza della sua funzione e dell’attenzione che essa richiede, normalmente tende, nei limiti del possibile, a delegare ad altri la soluzione dei problemi di carattere organizzativo e funzionale e a riservare il suo tempo allo studio della causa e al continuo aggiornamento delle sue conoscenze giurisprudenziali e dottrinarie.

13. Altre questioni proposte nell’atto introduttivo del giudizio e ampiamente riprese nei motivi aggiunti sono quelle che riguardano le nuove regole dettate sia per il ricorso, da parte dell’Amministrazione, ai c.d. avvocati esterni, da essa da tempo utilizzati con funzioni limitate alla domiciliazione e alla presenza in udienza, sia per l’affidamento dell’intera causa ad avvocati esterni nei casi in cui è configurabile un possibile conflitto di interessi ovvero una presumibile inidoneità degli avvocati interni ad affrontare questioni di elevato livello ed estranee alla loro maturata esperienza nella materia pensionistica e contributiva.

Si tratta di questioni che conviene esaminare separatamente perché danno luogo a problematiche e a conseguenze diverse.

14. Per quanto riguarda gli avvocati c.d. domiciliatari gli atti impugnati con il ricorso principale sono le determinazioni commissariali nn. 18 del 16 ottobre 2008 e 4 del 19 gennaio 2009, nonché la circolare n. 25 del 20 febbraio 2009. Altri provvedimenti riguardanti la medesima materia sono stati impugnati nei motivi aggiunti e le censure con essi dedotte, ove sostanzialmente ripropositive di quelle innanzi indicate, sono esaminate congiuntamente ad esse, riservando una specifica valutazione a quelle che hanno un obiettivo carattere di novità.

Il danno ingiusto che i ricorrenti assumono di subire per effetto di detti atti è "un’ulteriore lesione dell’indipendenza professionale", atteso che ad essi è stata sottratta la possibilità di scegliere liberamente l’avvocato chiamato a sostituirli nelle due attività di cui si è detto, e una riduzione dei compensi professionali, che quantificano mediamente nel 60% del loro trattamento economico complessivo, quindi di gran lunga superiore allo stipendio e alle voci aggiuntive. Detta riduzione consegue al fatto che, in sede di redazione della parcella relativa a ciascuna causa trattata, essi non possono più inserire fra le specifiche voci di diritti ed onorari i compensi spettanti per domiciliazione e presenza in giudizio, che in misura fissa, ma drasticamente ridotta (Euro 250 per causa trattata nei limiti innanzi indicati e con riferimento ad un numero massimo annuo predeterminato di incarichi al fine di evitare posizioni di monopolio), vengono ora corrisposti al sostituto.

I ricorrenti sostengono l’illegittimità delle determinazioni impugnate perché: in violazione di precise disposizioni di legge sottraggono al procuratore il potere di nomina del sostituto; fondano la dichiarata necessità di provvedere ad un supporto professionale esterno in ragione del flusso annuale dei giudizi, "quantificato in modo palesemente errato" perché comprensivo anche del contenzioso in materia di invalidità civile, che invece, sia pure limitatamente ai giudizi di primo grado, è affidato a funzionari amministrativi dopo la frequenza di specifici corsi di formazione; non sono state precedute da un’indagine sulle cause del contenzioso esistente che, se svolta, avrebbe evidenziato le responsabilità degli uffici amministrativi per i ritardi nella liquidazione delle pensioni e la concentrazione in tre regioni (Lazio, Campania e Puglia) e nella misura del 68% del contenzioso giacente senza che siano stati apprestate dall’Amministrazione misure atte a fronteggiare questo anomalo fenomeno; prevedono un aumento irragionevole delle pratiche da affidare agli avvocati domiciliatari, passato da 30.000 a 4050.000; giustificano l’utilizzo di questi con le carenze dell’organico dell’Avvocatura, ma trascurano il fatto che esse sono dovute ai tagli disposti con la determinazione commissariale del 2008; dispongono la soppressione degli uffici legali con un solo avvocato, che determinerà la nomina di ulteriori domiciliatari; non stabiliscono criteri trasparenti nella loro scelta; danno vita ad un’operazione antieconomica atteso che con la somma annua stanziata per pagare i domiciliatari si potrebbero assumere 128 avvocati stabili.

15. Alcune precisazioni appaiono necessarie, anche se ripropongono principi già richiamati nelle pagine che precedono, ma che i ricorrenti continuano ad ignorare o a contestare negli scritti difensivi successivi all’atto introduttivo del giudizio.

Innanzi tutto l’interesse alla salvaguardia all’autonomia dell’avvocato dipendente nell’esercizio dell’attività difensiva e l’interesse alla conservazione del trattamento economico in atto definiscono l’ambito oltre il quale il quale il soggetto in questione non è legittimato a contestare i provvedimenti organizzatori adottati dall’Amministrazione di appartenenza sulla base di scelte solo ad essa riservate ex art. 97 Cost., più di recente riconfermate dagli artt. 2 e 5 T.U. 30 marzo 2001 n. 165 e, quindi, insindacabili.

L’autonomia di cui gode l’avvocato dipendente nell’esercizio dell’attività professionale trova un limite – comune al difensore del libero foro – nelle prescrizioni che gli detta il cliente, che al suo patrocinio fa ricorso per la tutela di un interesse che assume essere stato leso da un terzo. La libertà riconosciuta al difensore, pubblico o privato che sia, è nella valutazione della legittimità della pretesa del cliente, id est nella verifica che la stessa non sia in contrasto con regole deontologiche o con principi fondamentali dell’ordinamento.

16. Il ricorso ad avvocati esterni trova piena giustificazione innanzi tutto nella necessità di assicurare la presenza dell’Istituto nei giudizi che si svolgono in aree geografiche nelle quali esso non dispone di strutture e connessi uffici legali e nella convenienza di non coinvolgere in defatiganti e dispendiose trasferte (il costo orario dell’avvocato interno è il doppio di quello esterno) il primo, lasciandogli invece la possibilità di utilizzare tempo e spazio per definire questioni di maggiore interesse per il datore di lavoro e più qualificanti per un avvocato di quanto possa essere (s’intende sul piano professionale e non economico, obiettivo di fondo al cui raggiungimento è sostanzialmente finalizzata la contestazione dei ricorrenti) la mera domiciliazione e la presenza in udienza per chiedere al giudice adito che il ricorso sia assunto in decisione o per dichiarare la cessazione della materia del contendere. Sulla necessità di mettere gli avvocati interni in condizione di poter "concentrare la loro attenzione" sull’esame della causa, sulla strategia da seguire per confutare le tesi avversarie e sulla redazione degli scritti difensivi, esonerandoli da compiti solo formali (seppur lucrosi), è esplicito il Direttore generale nella nota indirizzata il 29 gennaio 2009 al Commissario. Nella stessa direzione di valorizzazione della professionalità dell’avvocato interno si muove il Coadiutore generale legale nelle sue note dell’11 giugno 2009, depositate in atti.

17. Altra causa giustificativa del ricorso ad avvocati esterni, di spessore superiore alla prima sul piano dell’efficienza, è l’enorme contenzioso "giacente" (pari a 822.955 cause all’inizio dell’anno 2010), che con le nuove acquisizioni nel corso dello stesso anno (caratterizzate da una crescita del 6%) dovrebbe portare ad un volume complessivo di giacenze pari a 1.187.071 giudizi, con la conseguenza che l’affidamento della sua definizione alle risorse umane costituite dai 335 dipendenti legali in servizio comporterebbe l’assegnazione a ciascuno di essi della gestione di oltre 22 cause al giorno.

Il rapporto fra contenzioso introitato e definito, con conseguente riflesso sui carichi di lavoro e sull’impegno professionale richiesto ai singoli legali interni, risulta con palmare evidenza dalla tabella allegata all’impugnata determinazione commissariale n. 4 del 19 gennaio 2009 (pag. 4) e impostata sulla base di coefficienti diversificati in ragione della diversa complessità dei procedimenti giudiziari. Per il contenzioso in materia pensionistica il rapporto fra introitato e definito è di 1 e 0,1; per quello in materia contributiva di 3,3 e 0,33; per la previdenza agricola di 2,5 e 0,25; per altro contenzioso di 2,5 e 0,25.

Si tratta di dati risultanti da documenti ufficiali, che i ricorrenti contestano non solo con mere affermazioni non sorrette da alcuna obiettiva e pertinente prova contraria ma ai quali oppongono, nei diversi scritti difensivi, la loro autonoma capacità a fronteggiare completamente, senza aiuti esterni – ma, ragionevolmente, deve ritenersi solo d’ora in poi – una situazione che la difesa dell’Istituto nelle sue pregevoli memorie definisce "disastrosa" (pag. 22 della memoria integrativa depositata il 26 novembre 2010).

Osserva il Collegio che è davvero un terreno minato quello che i ricorrenti hanno deciso di percorrere a difesa delle loro pretese, mediante una scelta strategica fondata sulla completa autonomia funzionale degli uffici legali, non bisognosa di supporti esterni che, oltre a porsi in palese contraddizione con l’accusa rivolta all’Amministrazione di non aver adeguatamente provveduto alla revisione in melius dell’organico (ma la contraddittorietà delle argomentazioni è una caratteristica dell’intero impianto difensivoaccusatorio dei ricorrenti), si traduce in un implicito auto riconoscimento di corresponsabilità personali relativamente all’arretrato, tenuto conto anche del loro apporto al suo quantificarsi, come risulta dai dati ufficiali che di seguito sono richiamati.

18. Ed infatti, altra causa che ha indotto l’Amministrazione ad intervenire ricorrendo alla collaborazione di soggetti in possesso dello stesso titolo abilitativo dei legali interni, ma assegnando ad essi compiti limitati e assolutamente marginali rispetto a quelli riservati a questi ultimi, è l’analisi dell’elevatissima percentuale di soccombenza nelle cause nelle quali l’Istituto è rappresentato in giudizio dai suoi legali interni (circa il 45% a livello nazionale e con punte superiori al 51% per il Lazio), nonché dei motivi che hanno concorso alla genesi di un fenomeno di proporzioni difficilmente giustificabili (il tasso di soccombenza per mancata costituzione in giudizio, la tardiva costituzione in giudizio, il mancato rispetto dei termini processuali, con responsabilità personali facilmente individuabili, è superiore al 25%, con punte fino al 22,1% per la tardiva costituzione), con un costo per onorari da corrispondere ai legali di controparte pari solo nel 2009 a Euro 267.105.772,00 e con un evidente danno all’immagine (su quest’ultimo punto è sufficiente il richiamo alla Circolare n. 25 del 22 febbraio 2009).

Di qui la necessità per l’Amministrazione di una scelta che l’entità del fenomeno della soccombenza giudiziale rendeva obbligatoria, idonea quanto meno a contenere in limiti ragionevoli la responsabilità degli interni, e quindi anche nel loro personale interesse, e cioè assicurare ad essi il supporto di giovani avvocati del libero foro con compiti di domiciliazione e di presenza in udienza, con un compenso a titolo di onorario professionale pari a Euro 250 per singola causa, da valutare con riferimento anche ai prefissati limiti numerici massimi degli incarichi a ciascuno attribuibili, e con un costo complessivo annuo (Euro 9.000.000,00, oltre IVA e CPA), da rapportare – anche sul piano della convenienza economica, che l’Amministrazione era doverosamente tenuta a valutare – al costo degli onorari da corrispondere non solo ai legali della parte in causa vittoriosa (Euro 267.105.772,00), ma anche agli avvocati interni in aggiunta al trattamento stipendiale e supplementi aggiuntivi.

Si tratta di costi enormi, del tutto sproporzionati rispetto alla qualità del servizio reso e che, alla fine, ricadono sulla collettività.

Sulla legittimità del ricorso ad avvocati esterni, con compiti limitati alla domiciliazione e alla presenza in udienza, quale "misura alternativa all’abbandono di una parte del contenzioso", concorda anche l’Avvocato generale dello Stato nella nota del 20 marzo 2009 con la quale, rispondendo alla richiesta del Presidente dell’I.N.P.S. di poter assegnare all’Avvocatura erariale la difesa in giudizio dell’Istituto, rappresenta l’impossibilità di accettare il mandato in ragione del carico di lavoro (contenzioso e consulenza) incombente sui suoi uffici.

19. Ciò premesso, palesemente infondata in punto di fatto è l’affermazione secondo cui i nuovi provvedimenti priverebbero l’avvocato interno del suo diritto a scegliere liberamente e nominare il legale da utilizzare come collaboratore, con un frazionamento della causa a lui affidata esiziale per il suo esito, tenuto conto dei criteri non definiti con i quali avverrà la selezione degli avvocati domiciliatari.

E’ infatti agevole opporre che la selezione dei professionisti esterni in possesso dei requisiti prefissati e potenzialmente interessati all’incarico è ampiamente pubblicizzata; la formazione dei relativi elenchi a livello provinciale è rimessa ai Consigli dell’Ordine territorialmente competenti; la verifica del possesso dei titoli richiesti da parte dei soggetti in essi ricompresi è affidata al Coordinatore legale generale, cioè all’organo di vertice dell’Avvocatura, il quale provvede alla compilazione degli elenchi a livello regionale e provinciale; nell’ambito di questi elenchi il legale, al quale è stata affidata la singola causa, sceglie il soggetto da nominare, logicamente d’intesa con il coordinatore legale, cioè con il collega al quale è affidato l’incarico di procedere alla distribuzione del carico di lavoro fra i componenti l’ufficio legale e che conseguentemente è anche responsabile del rispetto della regola di rotazione fra i soggetti potenzialmente destinatari dell’incarico. L’avvocato interno, una volta ricevuto il mandato, diventa il dominus della causa affidatagli, giacchè spetta a lui definire la strategia da seguire, procedere alla redazione degli scritti difensivi, dare istruzioni ai collaboratori domiciliatari, i quali lavorano sotto la sua direzione in quanto obbligati ad eseguirne le disposizioni ricevute e a dargli i chiarimenti richiesti. La sua autonomia sul piano tecnicoprofessionale è quindi piena e indiscutibile.

Inoltre, e l’osservazione è da sola sufficiente a confutare la censura in esame, egli non è affatto obbligato a nominare un sostituto esterno, trattandosi di uno dei tanti strumenti che l’Amministrazione mette a sua disposizione per alleggerire il lavoro dell’avvocato suo dipendente e consentire a questi di migliorare la qualità del servizio, esonerandolo da adempimenti solo formali. Si tratta quindi di una scelta a lui riservata e da esercitare compatibilmente, e responsabilmente, con il carico di lavoro già assegnatogli. Questo è quanto risulta con assoluta chiarezza da una corretta e completa lettura dell’impugnata deliberazione presidenziale n. 89 del 2010, per la quale l’avvocato, al quale è stato affidato lo ius postulandi, è libero di provvedere alla gestione della causa affidatagli "anche" nella sua interezza, ove lo ritenga necessario in ragione della particolare importanza e delicatezza della materia del contendere.

20. Di ancora minore spessore sono le altre censure dedotte avverso gli atti impugnati. Ed invero:

contrariamente a quanto sostengono i ricorrenti, risulta dalla documentazione in atti che i provvedimenti impugnati sono stati preceduti da un’ampia istruttoria, che ha consentito di raccogliere dati obiettivi e incontrovertibili, e da un’attenta analisi delle cause delle disfunzioni degli uffici legali e dell’enorme loro arretrato, con implicita individuazione dei soggetti che, con comportamenti non adeguati alla funzione ad essi assegnata, hanno quanto meno concorso alla sua formazione;

l’inclusione degli avvocati del libero foro negli elenchi dai quali gli Uffici legali devono attingere per la nomina del domiciliatario avviene sulla base di criteri rigorosi (all.to 1 alla determinazione commissariale n. 4 del 19 gennaio 2009, recante "Disciplina per l’utilizzo di avvocati domiciliatari"), che non solo prevedono specifiche cause escludenti (patrocinio in giudizi in corso contro l’Istituto, rifiuto a sottoscrivere la clausola di non concorrenza per due anni dalla cessazione del rapporto di collaborazione con lo stesso), ma anche requisiti positivi, quali il documentato possesso delle competenze necessarie per trattare il contenzioso in materia pensionistica e contributiva nel quale è coinvolto l’I.N.P.S.. In ogni caso è quanto meno singolare che siano i ricorrenti avvocati interni a denunciare mancanza o insufficienza di criteri selettivi e, quindi, a sottolineare la necessità di obiettività e trasparenza nelle nomine quando una delle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione ad intervenire, regolamentando l’utilizzo dei domiciliatari, sono gli abusi ricorrenti nel regime precedente nel quale, in mancanza di criteri predefiniti, l’individuazione del sostituto da nominare era rimessa alla libera scelta dell’avvocato interno titolare della causa, cui seguiva l’affidamento di incarichi sempre alla stessa persona evidentemente legata da rapporti particolari con il dominus della causa;

l’aumento delle pratiche da assegnare agli avvocati domiciliatari, con eventuale incarico di presenza in udienza (da 30.000 a 4050.000), trova piena giustificazione nei dati istruttori di cui si è detto e nel responsabile intento di ricondurre in termini ragionevoli l’arretrato, con connessa riduzione dei relativi costi;

i tagli nell’organico dei legali, ove effettivamente intervenuti (in effetti nei suoi scritti difensivi l’Amministrazione resistente afferma e documenta che sono in servizio 335 legali e che i tagli sono stati evitati con il consenso degli organi di controllo), non sarebbero frutto di una libera scelta dell’Amministrazione con intenti punitivi per una categoria con un costo di funzionamento elevato e con rendimento quantitativo e qualitativo non corrispondente, ma di un preciso obbligo di legge per tutte le Amministrazioni pubbliche;

la contestazione sul piano della convenienza economica all’utilizzo di avvocati domiciliatari, sul rilievo che la spesa complessiva sostenuta per compensarli sarebbe sufficiente all’assunzione in pianta stabile di 128 avvocati, è inammissibile perché indebitamente invasiva di spazi riservati alla esclusiva competenza sul piano organizzatorio dell’Amministrazione e non pertinente rispetto all’interesse economico degli avvocati "attualmente in servizio" alla conservazione del trattamento economico privilegiato di cui godono. Comunque, in punto di fatto, non considera che con detta somma si acquisisce la collaborazione di avvocati esterni in misura tre volte superiore a quella indicata dai ricorrenti. Aggiungasi, solo per moralizzare la vicenda, che in linea di principio è inaccettabile la pretesa dei ricorrenti di collocarsi sul piano professionale e culturale su un gradino superiore a quello degli avvocati appartenenti al libero foro.

21. Si è già detto (prg. 14) della serrata contestazione da parte dei ricorrenti degli atti oggetto di gravame nella parte in cui dispongono la soppressione degli uffici legali con un unico avvocato, operazione che, a loro avviso, sotto lo schermo di esigenze organizzative e di risparmio della spesa, perseguirebbe illegittimamente e irragionevolmente l’obiettivo di riservare sempre più ampi spazi all’utilizzo degli avvocati esterni, di minor costo e nominati sulla base di criteri asseritamene selettivi, ma che in effetti lasciano ampio spazio alla libertà di scelta dell’Amministrazione.

Su quest’ultimo aspetto il Collegio si è già pronunciato. Per quanto invece riguarda l’operazione in generale essa trova giustificazione in elementari regole economiche ed organizzative, per le quali è irragionevole mantenere in vita una struttura alle cui funzioni può adeguatamente provvedere una struttura (regionale) di più ampie dimensioni e adeguatamente organizzata, assorbendo il relativo personale anche amministrativo e con conseguente risparmio di spesa per locazione dei locali, servizi, utenze, ecc..

In effetti i ricorrenti, che prima avevano indicato come causa giustificativa dell’enorme arretrato pendente anche l’incapacità e la colpevole inerzia dell’Amministrazione nel procedere ad una più ragionevole "dislocazione degli avvocati sul territorio nazionale", distribuendoli fra le varie sedi in proporzione alle diverse esigenze operative e funzionali di ciascun Ufficio legale, nel contestare la disposta soppressione di quelli con un solo avvocato rivendicano – con una radicale inversione di rotta e al pari della ricorrente a titolo individuale Collerone (quarto motivo aggiunto) – il diritto del legale alla stabilità nella sede assegnatagli. La tesi degli avvocati – che hanno proposto ricorso collettivo e della collega che, per ragioni personali, ha ritenuto più conveniente agire a titolo individuale, pur dichiarando di condividere le tesi dei primi, che ha sostanzialmente fatto suoi, affidandosi al patrocinio degli stessi legali con l’aggiunta di un terzo – è che i contestati provvedimenti di riorganizzazione degli uffici legali lederebbero la legittima aspettativa dei vincitori del concorso per l’accesso ai ruoli degli avvocati dell’I.N.P.S. a considerare stabile la sede che è stata loro assegnata e nella quale hanno trasferito la famiglia, comprato casa, contratto mutuo, ecc..

Si tratta di tesi che contrasta con palese evidenza con regole elementari del pubblico impiego, ma che conferma ancora una volta l’assunto dei ricorrenti di considerarsi categoria privilegiata rispetto agli altri dipendenti dell’Istituto, di cui invece condividono la qualità di lavoratori subordinati, lo status e gli obblighi, compreso quello di raggiungere la sede che l’Amministrazione datrice di lavoro di volta in volta ritenga, per esigenze di carattere organizzativo e funzionale il cui apprezzamento è solo ad essa rimesso, di assegnare a ciascuno di essi, sia pure nel rispetto dei principi di par condicio, di trasparenza, di imparzialità e nella dovuta considerazione di particolari problemi di carattere personale e familiare, ove compatibili con le sue prioritarie esigenze operative.

Aggiungasi che l’avvocato trasferito, per l’intervenuta soppressione dell’ufficio nel quale operava, continua a svolgere nella nuova sede le funzioni originarie, sicchè nessuna lesione subisce sul piano professionale.

Per quanto riguarda la ricorrente Collerone, che agisce a titolo individuale, al fine del decidere è irrilevante la circostanza sulla quale fonda la specificità della sua posizione, e cioè che era già stata trasferita d’ufficio dalla sede di Catanzaro a quella di Bergamo. Detto trasferimento era avvenuto, come ella stessa riconosce, perché soprannumeraria e, quindi, del tutto legittimamente. Inoltre non risulta che nei suoi confronti sia già stato adottato un nuovo provvedimento di trasferimento, che allo stato ella solo paventa. Se e quando dovesse intervenire, se avrà legittime ragioni per opporsi, potrà farle valere innanzi al giudice ordinario, non avendo il giudice amministrativo giurisdizione nelle controversie aventi ad oggetto questioni afferenti al rapporto di lavoro in atto. Di conseguenza, per questa parte, il suo ricorso proposto nella via dei motivi aggiunti è inammissibile.

22. Con i secondi motivi aggiunti, notificati il 19 febbraio 2010 e depositati il successivo 26 febbraio, i ricorrenti contestano la legittimità di determinazioni commissariali e di note del Coordinatore generale legale nella parte in cui prevedono la possibilità di affidare ad avvocati esterni l’intera trattazione della causa in due casi, e cioè in presenza di un potenziale conflitto di interessi, specie se il ricorso riguarda dirigenti apicali, e di un contenzioso che per la specificità della materia del contendere e la sua rilevanza sotto il profilo strategico ed economico richiede nel patrocinatore conoscenze specifiche ed esperienze maturate che non si possono ragionevolmente pretendere dagli avvocati interni in quanto estranee al loro bagaglio culturale e professionale, maturato nella trattazione di cause in materia pensionistica e contributiva.

La contestazione è proposta sotto un duplice profilo: innanzi tutto il riferimento negli atti in questione alle maggiori garanzie che l’affidamento dell’intera causa ad un avvocato esterno offrirebbe sotto il profilo dell’efficacia operativa, del risultato finale e della segretezza e riservatezza nella trattazione della causa, tenuto conto della portata strategica ed economica della questione, è "lesiva dell’onore e del prestigio degli avvocati interni"; in secondo luogo il costo complessivo derivante per l’Istituto dall’utilizzo di avvocati esterni, tenuto conto degli onorari prefissati.

Il primo motivo di doglianza non è affatto condivisibile tenuto conto che essere in possesso di una determinata specializzazione, e non di altra necessaria per la trattazione di un determinato contenzioso, non comporta una deminutio della professionalità e dell’onorabilità dell’avvocato in possesso della prima e non della seconda, ma risponde ad una scelta ragionevole del cliente nel momento cui affida ad un legale il compito di difenderlo. Esemplificando, non risulta dalla casistica giurisprudenziale relativa al contenzioso in materia di contratti pubblici che un giuslaburista, penalista, tributarista, matrimonialista, ecc., che si fosse proposto come patrocinatore alla stazione appaltante, abbia impugnato il provvedimento con il quale quest’ultima ha conferito il mandato ad un avvocato di provata, specifica esperienza nella specifica materia. Al contrario, regole di deontologia professionale comportano l’obbligo per l’avvocato di rinunciare al mandato che il cliente gli offre se lo stesso implica conoscenze specifiche estranee al suo bagaglio professionale. E non è affatto offensivo ritenere che, a parte singoli casi che non incidono sulla ragionevolezza della regola, un avvocato dell’I.N.P.S., di comprovata, indiscussa e specifica esperienza nelle materie (pensioni ordinarie e privilegiate e relativa copertura finanziaria, invalidità civile, ecc.), da lui quotidianamente trattate, non sia in grado di assicurare un eguale contributo nella trattazione di materie diverse. Per quanto riguarda la segretezza che l’esterno garantisce si tratta di riserva ragionevole, considerato lo spirito di colleganza che lodevolmente caratterizza i rapporti fra dipendenti della stessa Amministrazione.

In ordine al costo complessivo dell’operazione che l’Amministrazione sarebbe chiamata a sostenere per il pagamento degli onorari ai professionisti esterni, al quale i ricorrenti dedicano ampio spazio nei loro scritti, si tratta di questione sulla quale essi non sono legittimati a interferire sia perché riservata alla valutazione discrezionale degli organi di vertice dell’I.N.P.S., edotti dei problemi organizzativi che devono affrontare e soli responsabili delle misure adottate, sia perché gli stessi non hanno, nel caso in esame, alcuna incidenza sull’autonomia e indipendenza nella trattazione delle singole cause ad essi affidate, rivendicate nell’atto introduttivo del giudizio e nei motivi aggiunti. In ogni caso negli impugnati provvedimenti l’opzione per l’avvocato esterno è limitata a casi singoli e predeterminati, niente affatto rituali, ed ha un costo infinitamente inferiore a quello enorme che l’Amministrazione sistematicamente sopporta per il pagamento degli onorari ai suoi legali interni, con i risultati di cui si è ampiamente detto.

22. Assolutamente privi di pregio sono i terzi motivi aggiunti notificati il 16 aprile 2010, depositati il successivo 28 aprile e intesi a contestare la legittimità della determinazione del Commissario straordinario n. 220 del 25 novembre 2009, recante "misure finalizzate al riassetto organizzativofunzionale dell’Avvocatura dell’Istituto", e della circolare n. 34 dell’8 marzo 2010, recante norme interne in tema di "riassetto organizzativofunzionale dell’Avvocatura dell’Istituto", ma per essa solo "ove a valore provvedimentale autonomo".

Si chiede cioè al Collegio di sostituirsi ai ricorrenti in una verifica sulla possibile lesività della circolare che, secondo noti principi processuali, rientra nell’onere probatorio del ricorrente, al quale spetta dimostrare l’ingiusta e "attuale" lesività del singolo atto che impugna, chiedendone al giudice l’annullamento sulla base di detto presupposto.

Di qui l’inammissibilità dei suindicati motivi in quanto proposti avverso detta circolare.

23. Per quanto invece riguarda le doglianze proposte avverso la determinazione commissariale, le stesse sono in massima parte meramente ripropositive di argomentazioni già svolte nei precedenti scritti difensivi e disattese nelle pagine che precedono; contraddittorie rispetto ad affermazioni già espresse; inammissibili perché invasive di spazi riservati all’Amministrazione; non pertinenti alla materia del contendere.

E’ ripetitivo il richiamo alla "piena autonomia tecnica, professionale e organizzativa" da riconoscere agli Uffici legali (pag. 19); al dispendioso e inutile ricorso ad avvocati esterni (pagg. 24, 29 e 30), con conseguente "compromissione dell’autonomia professionale dell’avvocato dipendente dall’Istituto, tale da porre addirittura a rischio il suo diritto all’iscrizione nell’elenco speciale" (pag. 24); alla sproporzione fra il numero degli avvocati domiciliatari (332) e i 335 avvocati interni (pag. 35); alla soppressione degli uffici legali con un solo avvocato (pag. 35); al vincolo di subordinazione degli avvocati interni ai direttori regionali e provinciali (pag. 37); alla libertà di nomina del domiciliatario, formalmente riconosciuta all’avvocato interno titolare della causa, ma compromessa per il fatto che le nomine sono "imposte" dall’Amministrazione (pag. 29); al deficit d’istruttoria e all’illogicità e contraddittorietà dei criteri di valutazione del carico di lavoro degli avvocati interni (pag. 44); alle misure effettivamente idonee al contenimento del contenzioso e all’eliminazione dell’arretrato, a fronte di quelle inutili e dispendiose disposte dall’Amministrazione (pagg. 5053), trattandosi di questioni già definite dal Collegio.

E’ contraddittoria la posizione assunta con riguardo al contenzioso in materia di invalidità civile, dapprima richiamato a riprova dell’inutilità del ricorso agli avvocati domiciliatari perché affidato e definito dai funzionari amministrativi appositamente preparati al nuovo compito con corsi di formazione già espletati, con conseguente, massiccia riduzione del carico di lavoro degli avvocati interni, ed ora utilizzato, con una disinvolta inversione di rotta, a riprova dell’inadeguatezza delle misure predisposte dall’Amministrazione per fronteggiare l’arretrato e le nuove acquisizioni (obiettivi che i ricorrenti affermavano di essere in grado di raggiungere da soli, "ancorché ad organico ridotto", senza bisogno di aiuti esterni), atteso che il loro carico di lavoro non è affatto diminuito "perché non vi sono funzionari disponibili a svolgere detta attività" (pag. 22).

Sono inammissibili le censure dedotte avverso l’incompleto deposito documentale atteso che spetta al giudice valutare se i documenti che ha autoritativamente acquisito sono sufficienti alla definizione del gravame, tenuto anche conto dell’uso che i ricorrenti hanno fatto di quelli iussu iudicis versati da controparte.

Sono inammissibili perché invasive di spazi riservati all’Amministrazione le censure dedotte avverso: la riduzione del personale amministrativo addetto agli Uffici legali; l’omessa indizione del concorso pubblico per l’assunzione di nuovi avvocati interni, dedotta fra l’altro sotto il profilo che il blocco delle assunzioni di nuovo personale da parte delle Amministrazioni pubbliche, legislativamente imposto, è suscettibile di deroghe, ma trascurando il fatto che l’I.N.P.S. ha già fruito di una deroga all’obbligo di procedere a tagli del personale.

Non è pertinente alla materia del contendere – che il Collegio ha già limitato alle questioni direttamente afferenti all’indipendenza da riconoscere all’avvocato, libero professionista o lavoratore subordinato, nella trattazione in sede precontenziosa e contenziosa, della singola causa che gli è stata affidata – l’asserita violazione da parte dell’Amministrazione della normativa antitrust che, come è noto a qualsiasi operatore del diritto, ha per oggetto tutt’altra materia. D’altro canto, se detta normativa fosse applicabile anche al caso in esame, le conseguenze negative ricadrebbero sui ricorrenti che agiscono in regime di oligopolio in materia pensionistica relativa al settore del lavoro privato e si oppongono all’ingresso sul mercato degli avvocati del libero foro, temendone la concorrenza e la conseguente riduzione degli onorari professionali.

Anche sotto questo profilo riesce veramente difficile al Collegio comprendere la strategia difensiva scelta dai ricorrenti a difesa delle loro ragioni.

24. Infondate nel merito sono invece le altre poche censure, che rappresentano il novum dei terzi motivi aggiunti.

Infondata in punto di fatto, perché conseguente ad una non corretta lettura della determinazione commissariale impugnata e del suo stretto legame con quelle precedenti, è l’affermazione dell’intervenuto mutamento di rotta da parte dell’Amministrazione nella sua attività volta alla riorganizzazione degli Uffici legali, motivata nell’impugnata determinazione commissariale non più con la necessità di un risparmio di spese, ma con l’esigenza di mettere in condizione i suddetti uffici di fronteggiare l’aumento del contenzioso derivante dalle innovazioni legislative sul piano della tutela giurisdizionale, con conseguente implicita rinuncia alle prescrizioni che perseguivano il primo obiettivo.

Si tratta di conclusione quanto meno azzardata giacchè le due motivazioni, anziché contraddirsi, concorrono a dare un quadro completo e d’insieme delle ragioni che hanno indotto l’Amministrazione ad intervenire con misure di carattere organizzatorio per ottenere dagli Uffici legali un rendimento quantitativo e qualitativo adeguato ai compiti istituzionali ad essi affidati e giustificativo del costo complessivo che essi comportano per l’Istituto e, quindi, per la collettività, e che renda ancora più ingiustificabili gli infortuni professionali nel quale sono ripetutamente incorsi, con i conseguenti riflessi sull’esito del contenzioso.

La doglianza intesa a contestare il rinvio della nuova regolamentazione avente ad oggetto "l’adeguamento" degli onorari professionali (pagg. 5354) è – allo stato ed in quanto riferita alla determinazione commissariale impugnata – inammissibile nella parte in cui si afferma che si tratta di materia non regolabile unilateralmente dal datore di lavoro, ma affidata alla contrattazione collettiva. Ed infatti – come già chiarito dal Collegio con riferimento alle condizioni per la proposizione dell’azione giudiziaria – l’affidamento al Collegio della soluzione del problema presuppone che la nuova disciplina sia stata adottata ed impugnata dal soggetto che assume di essere da essa illegittimamente danneggiato, situazione questa che, al momento della notificazione e del deposito dei terzi motivi aggiunti, non sussisteva.

Per quanto invece attiene alla contestazione del solo rinvio, indipendentemente quindi dalla sede competente a verificare la sussistenza dei presupposti per l’adeguamento, ritiene il Collegio che i ricorrenti, al momento in cui notificavano i terzi motivi aggiunti, non avevano di che dolersene, atteso che l’adeguamento è strumento giuridico dinamico a doppia valenza, incrementativa e riduttiva, e comunque sempre collegata sia al rendimento reso dall’interessato sul piano quantitativo e qualitativo, sia alle disponibilità finanziarie del soggetto chiamato a sostenere la maggiore spesa ove il parametro di riferimento conducesse ad un risultato vantaggioso per il primo. Nella situazione attuale, di obiettiva e documentata disfunzione degli Uffici legali, per le ragioni più volte richiamate e con responsabilità obiettivamente imputabili anche ai suoi componenti, sembra davvero avventurosa la speranza di un aumento dell’importo degli onorari, essendo più realistica l’evenienza di una riduzione dello stesso ed interesse dei ricorrenti ad attendere che le nuove misure organizzatorie previste dall’impugnata determinazione commissariale diano i loro frutti.

25. Per quanto riguarda la doglianza relativa alla riduzione dei posti di coordinamento (pagg. 41 e 43), che ad avviso dei ricorrenti sarebbe lesiva di diritti soggettivi e aspettative "di onorabilità, progressione in carriera e retribuzione", con conseguenti "frustrazioni" per i legali ai quali l’incarico è stato revocato, la censura sarebbe ammissibile se si trattasse di provvedimento adottato nei confronti di un determinato soggetto per ragioni a lui imputabili e sicuramente legittimato a difendersi in sede giudiziaria a fronte delle contestazioni a lui personalmente mosse. Ma nel caso in esame si tratta di una misura adottata dall’Amministrazione sulla base di una valutazione, ad essa sola riservata, sull’inutilità di mantenere in vita strutture ritenute non più necessarie nell’ambito del progetto riformatorio da realizzare e che comporta l’impossibilità di continuare a qualificare "Coordinatore" un soggetto che non ha più nulla da coordinare.

E’ quindi ultroneo il richiamo: alla "onorabilità", che attiene alle qualità personali di ogni soggetto e che è richiamata a sproposito nel caso di soppressione di una struttura operativa; a "diritti soggettivi" alla conservazione dell’incarico, che sono inesistenti e, comunque, anche ove fossero configurabili, sarebbero recessivi rispetto alle ragioni di pubblico interesse che inducono l’Amministrazione ad eliminare un ufficio che a suo giudizio non è più necessario né utile alle funzioni che essa svolge e di conseguenza non giustifica più il costo economico che comporta; alle "aspettative" che, per loro natura, non sono tutelabili in sede giudiziaria, soprattutto se riferite ad un incarico temporaneo, revocabile in ogni momento, che non determina progressione in carriera atteso che, sul piano gerarchico, la posizione del coordinatore è eguale a quella dei colleghi operanti nello stesso ufficio.

Sul piano umano le richiamate "frustrazioni" sono comprensibili, ma sul piano giuridico del tutto irrilevanti, atteso che da esse non può farsi discendere l’illegittimità del provvedimento amministrativo che le ha provocate, se adottato nel rispetto delle regole.

26. Per quanto riguarda il tetto massimo annuo degli affari legali assegnabili a ciascun avvocato interno l’impugnata determinazione commissariale lo ha fissato in 750, ma fermo restando che entro detta soglia devono essere compresi almeno 400 "pervenuti", cioè assegnati a ciascun avvocato secondo modalità attualmente in essere.

Al tempo stesso ha utilizzato detti standards come "ulteriori criteri" per l’affidamento degli incarichi ai domiciliatari e agli avvocati che svolgono la sola sostituzione in udienza, e ha fissato le condizioni al cui verificarsi gli incarichi possono essere disposti, e cioè: a) "un carico medio di contenzioso" per ciascun avvocato, eccedente le due soglie innanzi indicate ovvero b) l’affidamento della causa ad uffici giudiziari, inclusi quelli del giudice di pace, in località nelle quali non esistono Uffici legali dell’Istituto ovvero ancora c) sempre e comunque in tutte le ipotesi di "necessità e di verificata impossibilità" per l’avvocato interno, titolare della causa, di presenziare alle udienze.

Inoltre ha fissato in 250 affari legali la soglia massima di incarichi conferibili a ciascun domiciliatario e in 75 il numero massimo di giornate/udienza assegnabili in un anno al medesimo avvocato per le attività di "sola sostituzione in udienza".

Ha confermato che la "valutazione tecnica" in ordine alla necessità di ricorrere all’avvocato domiciliatario ovvero all’avvocato incaricato della sola attività di sostituzione in udienza e alla conseguente nomina spetta al legale interno al quale è stato rilasciato il mandato alla lite, che deve procedere d’intesa con il Coadiutore legale dell’Ufficio legale nel quale opera e nel rispetto non solo della legge professionale ma anche delle prescrizioni di ordine generale impartite dall’Amministrazione per quanto attiene alla selezione e comunque attingendo dagli elenchi da essa predisposti.

27. Tale essendo la situazione in fatto, la censura con la quale si denuncia "l’iniqua" imposizione di un tetto alla "produttività" dei legali dell’Amministrazione, in quanto prescrizione adottata in violazione della legge professionale e del codice deontologico, non solo è priva di qualsiasi pregio, ma anche temeraria. Ed invero:

l’iniquità è giudizio di valore rilevante sul piano morale o della c.d. giustizia sostanziale, e quindi non sostitutiva del giudizio sulla legittimità del provvedimento (id est sulla conformità dello stesso a regole di diritto), che il giudice amministrativo è chiamato ad esprimere, e neppure utile alla difesa dei ricorrenti, perché indizio della mancanza di argomentazioni idonee a contestare sul suddetto piano le prescrizioni adottate dall’Amministrazione;

la produttività professionale degli Uffici legali, asseritamene lesa dall’imposizione del tetto, è allo stato misurabile dal Collegio con riferimento sul piano quantitativo alle enormi proporzioni dell’arretrato giacente e, su quello qualitativo, alla elevatissima percentuale di soccombenza, la cui responsabilità i ricorrenti ingenerosamente attribuiscono agli uffici amministrativi per non aver agito sul piano dell’autotutela, ma nella quale un ruolo determinante hanno avuto errori e/o negligenze sul piano processuale, che l’Amministrazione nei suoi scritti ha evidenziato e quantificato sia nel totale che con riferimento a singole categorie.

E’ davvero difficile per il Collegio seguire i ricorrenti nella strategia scelta a difesa delle loro ragioni e sulla sua capacità di condurre ad un risultato per essi vantaggioso. Ed invero, quando si è trattato di ostacolare il ricorso a professionisti del libero foro (perché riduttivo dei loro onorari professionali) e di dimostrare la loro capacità a fronteggiare per intero il contenzioso, sia giacente che di nuova acquisizione, senza bisogno di aiuti esterni, essi hanno ripetutamente affermato nei loro scritti difensivi che i dati quantitativi relativi a detto contenzioso – assunti dall’Amministrazione a supporto della decisione di regolarizzare il ricorso ad avvocati domiciliatari ed incaricati di assicurare la presenza dell’Istituto nelle udienze – erano da considerarsi inattendibili atteso che: gran parte di detto contenzioso riguarda l’invalidità civile, affidato a funzionari amministrativi che, a conclusione di appositi corsi di formazione, sono assolutamente in grado di svolgere questo nuovo compito (circostanza, questa, ora decisamente negata, con implicita conferma dell’esattezza e dell’attualità dei dati quantitativi dichiarati dall’Amministrazione); il contenzioso rientrante nella loro residua competenza è sostanzialmente rituale, avendo quasi sempre ad oggetto la stessa domanda, e quindi non pone grossi problemi nella conduzione della causa. Il che è esattissimo perché effettivamente il giudice ordinario, chiamato a definire cause aventi ad oggetto l’accertamento dell’invalidità permanente e la condanna dell’Amministrazione al connesso trattamento economico, si affida alle conclusioni del consulente tecnico da lui nominato e le recepisce in sentenza, sicchè lo spazio riservato all’avvocato è del tutto marginale. Per quanto riguarda le pensioni ordinarie la difesa dell’avvocato si basa sui dati conoscitivi che gli forniscono gli uffici amministrativi e su principi dettati dalla giurisprudenza e da tempo consolidati, che costituiscono il binario obbligato per l’impostazione della causa e, quindi, il parametro di riferimento per verificare la convenienza o non a resistere al contenzioso attivato dal terzo.

Dopo di che – in presenza di un contenzioso di ridotto livello qualitativo, che non presenta i problemi propri di quello afferente a settori nei quali nuove regole dettate dal legislatore si succedono a brevissima distanza di tempo e che propongono sempre nuove problematiche sul piano sia del rito che del merito, anche per i periodici interventi del legislatore e del giudice comunitario (si pensi agli appalti pubblici, alla sanità pubblica, ecc.), con conseguente massimo impegno sul piano professionale per gli avvocati che difendono le parti in causa – è per il Collegio davvero difficile comprendere come, in presenza di un contenzioso e di una soccombenza di enormi proporzioni, si possa responsabilmente difendere la produttività professionale degli avvocati interni e ragionevolmente contestare le prescrizioni commissariali che, riducendo gli affari legali affidabili a ciascun avvocato, hanno inteso quanto meno salvaguardare la qualità del prodotto da essi dovuto.

E’ anche improprio il richiamo al codice deontologico alle cui prescrizioni indubbiamente soggiacciono gli avvocati sia del libero foro che quelli che operano, nella qualità di impiegati, al servizio di un solo cliente. Ma il riferimento ad esso come parametro sul quale fondare l’asserita illegittimità del "tetto", è del tutto fuori luogo atteso che per ogni legale, pubblico o privato che sia, il numero degli affari da curare è affidato alla libera scelta del cliente.

28. I quarti motivi aggiunti, proposti a titolo individuale dall’avv. Collerone, notificati in data 16 aprile 2010 e depositati il successivo 28 aprile, hanno ad oggetto gli stessi atti (determinazione commissariale n. 220 del 25 novembre 2009; Circolare n. 34 dell’8 marzo 2010) gravati dai ricorrenti originari con i terzi motivi aggiunti (prgg. nn. 2227) e – con esclusione della parte che riguarda la specifica posizione fatta valere dalla Collerone, e già definita (prg. 21) – deducono le stesse doglianze, sorrette dalle medesime argomentazioni, con integrazioni di poco momento e comunque ininfluenti al fine del decidere sulle questioni di fondo già sollevate dai ricorrenti collettivi. Le conclusioni assunte dal Collegio con riferimento ai terzi motivi aggiunti devono quindi ritenersi estese in parte qua anche ai quarti motivi aggiunti, essendo identica la materia del contendere e comune la strategia difensiva adottata dagli interessati.

29. I quinti motivi aggiunti, notificati dai ricorrenti il 22 ottobre 2010 e depositati il successivo 5 novembre, hanno ad oggetto: a) alcune determinazioni erroneamente attribuite dai ricorrenti al Presidente dell’I.N.P.S. (pag. 3), ma che invece sono state adottate dal Commissario per l’affidamento ad avvocati del libero foro dell’incarico di difendere l’Istituto in alcuni processi da questo proposti in appello innanzi al giudice ordinario da dipendenti ed aventi ad oggetto il mancato conferimento dell’incarico di coordinamento o la mancata ammissione alle selezione interna indetta per l’accesso a posizione superiore all’interno della stessa area; b) la determinazione costituente la parte centrale del contenzioso, ma anche in questo caso con erronea individuazione della paternità della stessa, che è del Presidente e non del Commissario (pag. 9) e recante "adeguamento del regolamento sulla disciplina dei compensi professionali degli avvocati dell’I.N.P.S.".

Per le determinazioni indicate sub a) deve essere dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, trattandosi di provvedimenti aventi ad oggetto atti dichiaratamente adottati in applicazione di regole generali prefissate e che comunque attengono al diritto soggettivo dell’Ente ad attribuire mandato alle liti ad un difensore in un contenzioso nel quale è parte essenziale. Su questo punto ha convenuto, nell’udienza pubblica, il difensore dei ricorrenti, che era stato preavvertito, ex art. 73, comma 3, c.p.a., del problema che, in mancanza di eccezione di parte, il Collegio avrebbe affrontato d’ufficio.

Invece per la determinazione presidenziale indicata sub b), la giurisdizione del giudice amministrativo è incontestabile, trattandosi di atto organizzatorio espressione di valutazione discrezionale dell’Autorità emanante, rispetto alla quale la posizione dei ricorrenti è di titolari di un interesse legittimo al corretto esercizio di detto potere, ed è anche immediatamente impugnabile trattandosi di provvedimento che comporta una lesione "attuale" della loro sfera giuidicopatrimoniale.

Una precisazione in punto di fatto peraltro s’impone: non risponde al vero l’affermazione dei ricorrenti secondo cui il rinvio dell’udienza pubblica già fissata per il 14 luglio 2010 era stata chiesta congiuntamente dalle parti in causa al fine di disporre del tempo necessario per una positiva conclusione delle trattative in corso e finalizzate, quindi, ad una composizione stragiudiziale della controversia, trattative interrotte dall’Amministrazione dopo che l’istanza di rinvio era stata accordata e, quindi, "in totale dispregio degli accordi sino ad allora intercorsi" (pag. 6). E’ invece documentato che il rinvio in effetti era stato chiesto e accordato per il dichiarato interesse dei ricorrenti a "prendere visione ed esaminare la documentazione effettuata dall’I.N.P.S. in data 7 luglio 2010, anche al fine di valutare l’opportunità di proporre motivi aggiunti". Non è neppure ravvisabile nei provvedimenti ora impugnati una violazione di "accordi raggiunti inter partes" (pag. 7), in ragione della loro inesistenza. Segue da ciò che la censura dedotta al fine di dimostrare l’illegittimo modus operandi dell’Amministrazione è infondata in punto di fatto.

30. Venendo al merito della causa, nei limiti innanzi indicati, vanno disattese le censure indirizzate avverso l’atto unilaterale ed autoritativo del Presidente, in quanto invasivo di competenze riservate alla contrattazione collettiva, e dedotte con il richiamo a precedenti giurisprudenziali, legislativi e pattizi che, se correttamente interpretati, conducono a conclusioni contrastanti con quelle alle quali sono pervenuti i ricorrenti. Ed invero:

la richiamata sentenza della Corte cost. 6 febbraio 2009 n. 33, utilizzando il termine "retribuzione complessiva" per individuare il trattamento economico corrisposto agli avvocati interni, non ha inteso risolvere un problema definitorio nient’affatto sottoposto al suo esame, ma solo individuare la base entro la quale era legittima la distinzione, agli effetti contributivi, degli onorari professionali dal trattamento stipendiale e, quindi, non contrastante con l’art. 2 Cost. la norma (art. 1, comma 208, L. 23 dicembre 2005 n. 266 – legge finanziaria 2006) nella parte in cui pone a totale carico degli avvocati interni l’onere contributivo relativo ai compensi professionali. Conclusione, questa, che conferma la netta distinzione fra questi e il trattamento stipendiale, e l’affidamento alla contrattazione collettiva solo di quest’ultimo e quindi la necessità di individuare nella nozione di "retribuzione" – nella quale i ricorrenti ricomprendono anche gli onorari onde riservarne la regolamentazione alla contrattazione collettiva – il solo trattamento stipendiale, in tutte le sue componenti, che spetta al dipendente, privato e pubblico, come corrispettivo delle prestazioni lavorative alle quali è contrattualmente obbligato nella qualità di parte di un rapporto di lavoro subordinato e che, di conseguenza, non ha nulla a che vedere con l’onorario, che è il prezzo aggiuntivo da pagare per una prestazione professionale;

non è pertinente il richiamo al succitato art. 1, comma 208, L. n. 266 del 2005, nella parte in cui stabilisce che, nel quantificare la somma complessiva destinata alla corresponsione dei compensi dovuti ai dipendenti professionisti, l’Ente pubblico interessato deve ricomprendere anche gli "oneri riflessi a carico del datore di lavoro", e non solo le somme che recupera dal ricorrente soccombente, condannato dal giudice al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio;

non è neppure pertinente il richiamo all’art. 45, D.L.vo 30 marzo 2001 n. 165, laddove dispone che "il trattamento economico fondamentale e accessorio…è definito dai contratti collettivi", atteso che le norme che esso introduce si riferiscono al "trattamento retributivo" dovuto al pubblico dipendente per l’attività lavorativa svolta al servizio e sulla base delle prescrizioni che contrattualmente il datore di lavoro è autorizzato ad impartigli, e non agli onorari professionali che sono soggetti a regole diverse;

non è vantaggioso per i ricorrenti il richiamo all’art. 97 c.c.n.l. 20022005 il quale, nel definire la "struttura" della "retribuzione" dovuta ai "professionisti interni", ne individua le componenti nello stipendio tabellare, nella retribuzione individuale di anzianità ove acquisita, nell’indennità per incarichi di coordinamento, nella retribuzione di risultato, nelle "indennità" e altre competenze, come previsto da specifiche disposizioni, e in altri emolumenti accessori "previsti dal contratto collettivo nazionale" (quindi, in quanto rientranti nelle competenze di quest’ultimo), con esclusione degli onorari professionali perché dovuti a diverso titolo, con riferimento ad altra funzione e soggetti ad una disciplina autonoma (il codice deontologico, la legge sulle professioni, le determinazioni dell’ente pubblico cliente). Non è in grado di condurre a diversa conclusione il fatto, sul quale i ricorrenti insistono, che nella suddetta "struttura" figura l’indennità per incarichi di coordinamento, trattandosi di emolumento avente chiara natura retribuitiva perché afferente ad un incarico che, al pari di quello direttivo (anche se con diversa natura, funzione e responsabilità), attiene al rapporto d’impiego, come d’altronde già previsto dall’art. 6 c.c.n.l. 8 gennaio 2003 che, nell’affidare alla contrattazione integrativa il compito di determinare la misura di detta indennità, non estende affatto tale regola anche agli onorari professionali;

non è del pari vantaggioso per i ricorrenti il riferimento alla 12^ dichiarazione congiunta allegata al c.c.n.l. 20022005, nella quale le parti, che lo hanno stipulato, dichiarano di concordare sul punto che spetta agli enti pubblici non economici "disciplinare" la corresponsione dei compensi professionali, con espresso richiamo all’art. 6, comma 1, c.c.n.l. 8 gennaio 2003, che analoga regola aveva già fissato ("gli enti che disciplinano la corresponsione dei compensi professionali degli avvocati, dovuti in relazione agli affari trattati e conclusi favorevolmente per l’Amministrazione stessa…");

la determinazione commissariale (atto unilaterale e autoritativo) n. 1384 del 9 dicembre 2003, regolante la "corresponsione dei compensi professionali dei professionisti dell’area legale", mai contestata da questi ultimi, è stata adottata in dichiarata applicazione dei principi fissati dall’art. 33 c.c.n.l. 19882001, che affida al "regolamento" del singolo ente pubblico la fissazione dei criteri di corresponsione dei compensi professionali dovuti agli avvocati interni "in relazione agli affari trattati e conclusisi favorevolmente per l’Amministrazione". Dell’intenzione dell’I.N.P.S. di procedere, nell’occasione, a mezzo di regolamento a disciplinare la materia erano state previamente informate le OO.SS. e non risulta che contro il preannunciato modus procedendi siano state da queste ultime sollevate obiezioni.

D’altro canto che le censure solo ora proposte dai ricorrenti avverso la determinazione presidenziale siano soltanto un espediente difensivo è comprovato con chiara evidenza dal comportamento dagli stessi tenuto nella fase precedente la proposizione del ricorso. Nelle trattative precedenti la formale adozione del provvedimento in fieri, l’obiettivo che essi si ponevamo di ottenere in via transattiva non era il ricorso ad un procedimento diverso da quello adottato dall’Amministrazione, ma una revisione del suo contenuto con l’eliminazione della concorrenza esterna e dei criteri meritocratici ai quali l’Istituto intendeva collegare la misura dei compensi professionali da corrispondere a ciascun legale, in quanto ambedue per essi penalizzanti sul piano economico. D’altro canto è contrario a ragioni di comune buon senso che essi tendessero ad un accordo sul contenuto del regolamento interloquendo con un soggetto al quale – solo ora – negano ogni competenza ad intervenire nella materia de qua e che quindi ritengono non legittimato ad impegnare, in via transattiva, l’Amministrazione.

31. Per quanto riguarda i criteri di determinazione dei compensi professionali le dedotte censure sono del tutto prive di pregio essendo "dovere" dell’Ente pubblico, chiamato a gestire pubblico danaro, dosarli in ragione del carico di lavoro sostenuto dal singolo professionista e del risultato ottenuto e, quindi, della quantità e qualità del prodotto finale da ciascuno ottenuto. Si tratta di misura legittimamente adottata al fine di sollecitare i legali ad un maggiore impegno sul piano professionale, ad una costante attività di consulenza sul singolo affare ad essi assegnato in quanto strumento deflattivo del contenzioso, ad una maggiore diligenza nella trattazione delle cause onde evitare gli infortuni professionali incidenti sul versante della soccombenza, quantificati in assoluto e in percentuale dall’Amministrazione nei suoi scritti difensivi.

Non si tratta quindi di misurare a "chilo" (pag. 49) il lavoro professionale né tanto meno di introdurre "misure disciplinari" e, quindi, "sanzionatorie" (pagg. 2429), anche se le stesse sarebbero giustificate ove la soccombenza nel giudizio dipenda da errori del difensore, che per l’avvocato del libero foro si traducono nella perdita del cliente o nella revoca del mandato, situazione ricorrente nella casistica giurisprudenziale.

32. Il ricorso principale e i motivi aggiunti devono quindi essere respinti, ma per questi ultimi limitatamente alla parte in cui gli stessi non sono stati dichiarati inammissibili.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza, siccome previsto dall’art. 26, comma 1, c.p.a..
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza Quater)

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto; a) dichiara inammissibili gli interventi ad adiuvandum dei signori K.L.N., P.A., M.L. e A.T.; b) dà atto della rinuncia al ricorso dei sig.ri G.D.R., I.P. e A.R.; c) nei confronti degli altri ricorrenti respinge l’atto introduttivo del giudizio e in parte respinge e in parte dichiara inammissibile, nei sensi di cui in motivazione, i motivi aggiunti.

Compensa le spese e gli onorari del giudizio nei confronti dei ricorrenti rinunciatari sig.ri G.D.R., I.P. e A.R. e dell’interventrice ad adiuvandum Associazione avvocati I.N.A.I.L..

Condanna in solido gli interventori ad adiuvandum signori K.L.N., P.A., M.L. e A.T. al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio, che quantifica complessivamente in Euro 1.000,00 (mille/00).

Condanna in solido parte ricorrente al pagamento delle spese e degli onorari del giudizio, che liquida in Euro 15.000,00 (quindicimila/00) a favore dell’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale (I.N.P.S.).

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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