Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 03-02-2011) 15-04-2011, n. 15445 abuso di ufficio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

D.M.C.A.R. era chiamato a rispondere, innanzi al Tribunale di Rimini, dei seguenti reati:

a) ai sensi dell’art. 368 c.p. perchè, con esposto datato 9.1.02 inviato alla direttrice della direzione provinciale del lavoro di Rimini ed inoltrato anche per conoscenza al direttore della direzione regionale del lavoro di Bologna, ovvero diretto ad organi che hanno l’obbligo di riferire all’A.G., pur sapendola innocente, incolpava D.S. di aver commesso a suo danno il reato di cui all’art. 323 c.p. abusando dell’ufficio di direttrice della detta direzione provinciale del lavoro. b) ai sensi dell’art. 595 c.p., commi 1 e 2, perchè offendeva la reputazione di D.S. inviando alla direzione generale del Ministero del lavoro ed alla direzione regionale del lavoro di Bologna una missiva datata 23.1.02, con la quale asseriva di essere costretto a rassegnare le proprie dimissioni dall’impiego di capo servizio ispezione del lavoro "a seguito delle continue, molteplici e gravi vessazioni e persecuzioni costituenti mobbing" subite dalla D. nella sua veste di direttrice della direzione provinciale del lavoro di Rimini; con l’aggravante dell’attribuzione di un fatto determinato.

Con sentenza del 24 novembre 2006, il Tribunale dichiarava il D. M. colpevole dei delitti ascrittigli e, concesse le attenuanti generiche con valutazione di equivalenza alla contestata aggravante quanto al capo b), ritenuto il vincolo della continuazione fra i reati, lo condannava alla pena ritenuta di giustizia, nonchè al risarcimento dei danni in favore della costituita parte civile, da liquidarsi in separata sede, oltre consequenziali statuizioni e concessione di provvisionale immediatamente esecutiva nella misura di Euro 5.000.

Pronunciando sul gravame proposto dall’imputato, la Corte di Appello di Bologna, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale riforma della sentenza impugnata, assolveva il D.M. dal reato di calunnia con formula perchè il fatto non costituisce reato e, per l’effetto, riduceva la pena a lui afflitta nella misura di mesi 9 di reclusione; riduceva altresì la concessa provvisionale nell’importo di Euro 4.000.

Avverso la sentenza anzidetta, il difensore ha proposto ricorso per cassazione affidato alle ragioni di censura indicate in parte motiva.
Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo d’impugnazione, parte ricorrente eccepisce nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. c), per mancanza od illogicità o contraddittorietà di motivazione in ordine all’affermata responsabilità per il reato di diffamazione; ed ancora nullità della stessa sentenza, ai sensi dello stesso art. 606, lett. b) per erronea applicazione degli artt. 595 e 51 c.p.. Si duole, al riguardo, che nella fattispecie in esame i giudici di appello abbiano ravvisato gli estremi della diffamazione e negato l’applicazione dell’esimente del diritto di critica, affermando erroneamente che tale diritto fosse riconoscibile solo in tema di reati di diffamazione commessi a mezzo stampa, attenendo ad una sfera di interessi di natura pubblicistica relativi alla divulgazione delle notizie ed al commento delle stesse, trattandosi di interessi connessi al diritto/dovere dell’informazione. A suo dire, sarebbe poi contraddittoria l’assoluzione dal reato di calunnia e la condanna per la diffamazione, nonostante i due fatti fossero accomunati dallo stessi intendimento dell’istante, di dolersi delle pretese vessazioni subite dalla sua dirigente.

Il secondo motivo eccepisce nullità della sentenza ai sensi dell’art. 606, lett. e) per mancanza e illogicità o contraddittorietà di motivazione in punto di condanna dell’imputato alle spese sostenute dalla parte civile; nonchè nullità ai sensi dell’art. 606, lett. b) per erronea applicazione degli artt. 541 e 592 c.p.p., sul rilievo che, accolto parzialmente l’appello con riferimento alla condanna per il delitto di calunnia e, coerentemente ridotto, oltre alla pena, anche l’importo della concessa provvisionale, la Corte di merito avrebbe dovuto, conseguentemente, ridurre anche la somma liquidata a titolo di rifusione delle spese di parte civile.

2. – All’esame della prima censura, dotata peraltro di evidente rilievo pregiudiziale nell’economia del complessivo ricorso, giova premettere una sintetica puntualizzazione in fatto, alla luce di quanto pacificamente accertato nei due gradi di giudizio.

– E’ certo, in primo luogo, che, nel contesto di un radicata conflittualità in ambito lavorativo tra il D.M., dipendente dell’Ufficio del Lavoro di Rimini, con le attribuzioni di capo servizio-ispezione, e la direttrice dello stesso Ufficio, D. S., l’odierno ricorrente aveva posto in essere iniziative di denuncia ai superiori gerarchici, addebitando alla stessa funzionaria determinati abusi ed irregolarità in suo danno, sotto forma di atteggiamenti prevaricatori e vessatori, integranti a suo dire mobbing. – In particolare, aveva inoltrato un esposto, datato 9.1.2002, al direttore provinciale del lavoro di Rimini (dunque, al diretto superiore gerarchico della stessa D.) – trasmettendolo, per conoscenza, alla direzione regionale di Bologna – con il quale imputava alla dirigente irregolarità integranti il reato di abuso d’ufficio di cui all’art. 323 c.p..

– Con successiva missiva del 23.1.2002, dunque dopo pochi giorni dall’inoltro dell’esposto, trasmessa alla direzione generale del Ministero del lavoro ed alla direzione regionale del lavoro di Bologna, aveva comunicato di aver rassegnato le dimissioni dall’impiego a seguito delle continue, molteplici e gravi vessazioni e persecuzioni commesse dalla D. nella sua qualità.

– E’ pure certo che la seconda missiva, rappresentando le rassegnate dimissioni, era determinata dalla presa d’atto che il precedente esposto non aveva avuto alcun riscontro; e che, per i fatti denunciati, il D.M. aveva avviato una causa civile per il risarcimento dei danni subiti a cagione della condotta vessatoria della dirigente.

Questi dunque i fatti, che hanno comportato, quanto all’esposto, l’imputazione di calunnia e, quanto alla missiva, l’accusa di diffamazione. E per tali reati il D.M. è stato tratto a giudizio.

Alla condanna in primo grado, per entrambe le imputazioni, ha fatto seguito, in appello, l’assoluzione per il reato di calunnia, con formula perchè il fatto non costituisce reato, per difetto dell’elemento psicologico, essendosi ritenuto che l’imputato non avesse consapevolezza dell’innocenza della persona offesa, ma nutrisse, invece, ragionevole convincimento della sua colpevolezza in ordine all’abuso denunciato. La responsabilità in merito alla diffamazione è stata, invece, confermata, sul rilievo che l’addebito di pluralità di condotte vessatorie alla dirigente avesse carattere lesivo, traducendosi in gratuito attacco alla persona, nell’ambito di iniziative che nulla hanno a che vedere con il ricorso ai propri superiori o comunque ai mezzi giurisdizionali di tutela previsti in ambito giuslavoristico, alfine di ottenere ragione a fronte di decisioni non condivise.

2.1 – Tanto premesso, si osserva che la doglianza di parte ricorrente è fondata e merita, pertanto, accoglimento.

E’ innegabile, in primo luogo, che le due iniziative di denuncia, intraprese dall’imputato (l’esposto e la missiva) non fossero disarticolate ed autonome, ma rappresentassero piuttosto momenti distinti di identica condotta reattiva a quanto il dipendente viveva come sistema di prevaricazione nei suoi confronti. L’unitarietà della vicenda, del resto, era stata già colta dal primo giudice il quale, pur pervenendo a pronuncia di colpevolezza, aveva riconosciuto il vincolo della continuazione tra i due reati, ritenendoli evidente manifestazione di identico disegno criminoso.

Sennonchè, nessuna preordinazione delittuosa era dato ravvisare nella fattispecie, così come incontestatamente ricostruita dai giudici di merito. Ed invero, sul piano meramente formale – prescindendo per un attimo dai profili sostanziali e contenutistici delle istanze – l’interessamento dei superiori gerarchici, piuttosto che l’immediato ricorso all’Autorità Giudiziaria competente, in sede penale o civile, costituiva espressione di apprezzabile senso di appartenenza e di rispetto istituzionale, non riuscendo ad intendersi a chi altri, se non ai superiori gerarchici della dirigente – a torto od a ragione accusata di atteggiamenti scorretti e vessatori – debba rivolgersi il dipendente, che non voglia – anche per comprensibili ragioni prudenziali di opportunità strategica – non investire direttamente gli organi giurisdizionali per ottenere ragione secondo le stesse osservazioni del giudice di appello.

Ecco allora che il pacifico nesso di collegamento tra le due iniziative rivela, in tutta evidenza, la macroscopica illogicità che inficia la struttura argomentativa della sentenza impugnata, nella parte in cui, ritenendo di dover assolvere l’imputato dal reato di calunnia, lo ha invece condannato per il delitto di diffamazione. Ed infatti, proprio la sostanziale identità del contenuto delle denunce (condotta scorretta e prevaricatrice della dirigente) rendeva illogico il riconoscimento nell’un caso della ragionevole consapevolezza della responsabilità della dirigente, donde la mancanza del profilo psicologico del reato contestato, e nell’altro caso, escludere ogni atteggiamento di buona fede in funzione di quel ragionevole errore che sarebbe valso in chiave quanto meno di putatività. Il tutto, nonostante che i due fatti, per la sostanziale identità del contesto di base, erano certamente accomunati da medesimo elemento psicologico in termini di dolo generico (cfr. per analoga fattispecie, Cass. sez. 5, 5.11.2004, n. 49021, rv. 231283).

Di talchè, riconosciuta la non colpevolezza in ordine al reato di calunnia, non avrebbe potuto negarsi, nel caso di specie, l’esimente del diritto di critica, quanto meno in forma putativa, evitando il grossolano errore giuridico consistente nel ritenere operante tale causa di giustificazione solo con riferimento ai fatti di reato consistenti nella diffamazione a mezzo stampa. Tale ultima considerazione, non solo trascura di considerare che la norma di cui all’art. 51 c.p. è disposizione di carattere generale, ma soprattutto che il diritto di critica è peculiare espressione del diritto costituzionale della libertà di manifestazione del pensiero, consacrata dall’art. 21 Cost..

Ed allora, anche a seguire – per dovere di rispetto del fatto così come accertato – l’apprezzamento di merito secondo cui una lettera contenente vivaci accuse di comportamento mobizzante a carico di un dirigente possa assumere oggettiva attitudine offensiva, occorre porsi il quesito se il reato, astrattamente configurabile, non sia di fatto scriminato dall’esimente in questione, ove sussistano in concreto i relativi presupposti. Ebbene, non risulta che sul piano della continenza o della verità, in chiave almeno putativa, l’esercizio del diritto di critica nel caso di specie abbia debordato dai limiti ad esso immanenti. Donde, la sicura operatività nel caso di specie dell’efficacia scriminante del relativo diritto.

Di tanto occorre prendere, ora, atto e provvedere all’annullamento della sentenza impugnata, con formula liberatoria corrispondente.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perchè il fatto non costituisce reato.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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