Cass. civ. Sez. II, Sent., 12-07-2011, n. 15301 Obbligazione naturale Ricognizione di debito e promessa di pagamento

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Svolgimento del processo

Con atto di citazione del 30-3-1987 S.S., A. e G., quali eredi di S.M.T., convenivano dinanzi al Tribunale di Alessandria F.S., assumendo che quest’ultimo deteneva senza titolo un immobile caduto nella successione ereditaria della loro dante causa. Essi chiedevano, pertanto, la condanna del convenuto al rilascio del predetto bene ed al risarcimento dei danni.

Nel costituirsi, il F. contestava la fondatezza della domanda, negando di detenere l’immobile in questione. Egli, inoltre, nel dedurre che dal 1970 al 1983 S.M.T. aveva vissuto presso l’abitazione di esso convenuto, il quale, con l’aiuto dei familiari, aveva provveduto al suo mantenimento, chiedeva in via riconvenzionale la condanna degli attori, nella qualità, al pagamento di quanto dovuto per le prestazioni erogate in favore della donna.

Con sentenza del 6-3-2002 il Tribunale adito, in accoglimento della domanda riconvenzionale, condannava gli S. al pagamento in favore del convenuto della somma di Euro 20.000,00, oltre rivalutazione ed interessi, rigettando invece la domanda attorea.

Avverso tale sentenza veniva proposto appello principale dagli eredi S. ed appello incidentale dal F..

Con sentenza depositata il 29-11-2004 la Corte di Appello di Torino rigettava l’appello incidentale; in accoglimento dell’appello principale, rigettava la domanda riconvenzionale proposta dal F., condannando quest’ultimo al pagamento delle spese del grado.

Per la cassazione della predetta sentenza ricorre il F., sulla base di due motivi.

Gli S. resistono con controricorso.
Motivi della decisione

1) Con il primo motivo il ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., art. 277 c.p.c., comma 1, artt. 352 e 359 c.p.c., artt. 1988 e 2697 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione circa punti decisivi della controversia.

Assume che la Corte di Appello non poteva limitarsi a criticare il Tribunale per non aver saputo qualificare giuridicamente la fattispecie dedotta dal convenuto con la domanda riconvenzionale, ma avrebbe dovuto procedere a tale qualificazione, dando atto, sulla base degli elementi probatori acquisiti, dell’esistenza di un contratto a titolo oneroso, in forza del quale il F. si era obbligato, dietro corrispettivo, al mantenimento, alloggio ed altre cure in favore di S.M.T., ad esso non legata da alcun rapporto di parentela o affinità o simile, che potesse giustificare una pattuizione di gratuità di siffatte prestazioni. Fa presente che, secondo quanto accertato dalla Corte di Appello, la S. aveva promesso al F. che l’avrebbe remunerato per quanto faceva per lei; e che tale dichiarazione da un lato esclude resistenza di un patto di gratuità e dall’altro costituisce, ex art. 1988 c.c., riconoscimento da parte della donna del proprio debito verso il F. e promessa di pagamento. Sostiene che a carico della S. gravava un’obbligazione giuridica, come tale trasmessa ai suoi eredi, e non una mera obbligazione naturale; e che, ai sensi dell’art. 2697 c.c., incombeva sugli eredi S., convenuti con la domanda riconvenzionale, l’onere di provare l’avvenuto pagamento di quanto dovuto. Rileva, inoltre, che il giudice del gravame, nell’affermare che il F. non ha fornito un qualche principio di prova in ordine al quantum, non ha tenuto conto della documentazione prodotta dal convenuto, concernente le tariffe applicate dalle case di riposo della zona per il soggiorno delle persone anziane.

Il motivo è infondato.

Nella sentenza impugnata la Corte di Appello non si è limitata a rilevare che il Tribunale aveva dato atto della impossibilità di ricostruire la causa pretendi della domanda riconvenzionale, senza procedere, come avrebbe dovuto, alla qualificazione giuridica della fattispecie dedotta in giudizio e alla verifica della sussistenza dei relativi requisiti di forma e presupposti sostanziali. Essa, al contrario, sia pure in maniera succinta, ha passato in rassegna le varie ipotesi astrattamente configurabili, quali sono state indicate nella sentenza di primo grado, per rimarcare l’insussistenza di un valido titolo giustificativo delle pretese avanzate dal F. nei confronti degli attori e, quindi, l’erroneità della pronuncia adottata dal giudice di prime cure, il quale, pur non avendo preso una chiara posizione su alcuna delle ipotesi considerate, ha ritenuto di liquidare in via equitativa un importo in favore dell’odierno ricorrente.

Nel dare atto, in punto di fatto, che dalle testimonianze raccolte è emerso solo che la S. aveva trascorso un certo periodo in una stanza della casa del F., e aveva promesso di remunerare quest’ultimo per le "attenzioni" che riceveva, la Corte territoriale ha in primo luogo escluso la configurabilità, nella specie, di un’ipotesi di donazione remuneratoria o di negotium mixtum cum donatione, per difetto dei requisiti di forma. Essa ha altresì ritenuto non provata l’esistenza di un contratto a titolo oneroso opponibile agli eredi, stante la mancanza di pagamenti immediati e regolari nel lungo arco di tempo per il quale si è protratto il mantenimento (dal 1970 al 1983); ed ha rilevato che la promessa della S. di remunerare il F. per le attenzioni ricevute non era riconducile ad una obbligazione legale, ma costituiva, al più, una obbligazione naturale, non trasmissibile agli eredi.

Tale convincimento, reso all’esito di un accertamento di fatto scuretto da una motivazione logica e non contraddittoria, si sottrae alle censure mosse dal ricorrente, avendo ti giudice di appello dato atto delle ragioni per le quali ha escluso che sulla S. gravasse un vero e proprio obbligo giuridico al pagamento di un corrispettivo in favore del F.; ragioni che sono state sostanzialmente ricondotte alla mancanza di prova di un accordo intercorso tra i due, in forza del quale il F. si era obbligato ad assistere la donna in cambio di una controprestazione. E, in effetti, ove vi fosse stata una simile pattuizione, sarebbe difficilmente spiegabile come mai la S., per un periodo così lungo, nulla abbia mai dato al F., e quest’ultimo nulla abbia mai richiesto alla predetta.

Correttamente, pertanto, la Corte di Appello ha inquadrato la promessa di remunerazione fatta dalla S. al F. nell’ambito delle mere obbligazioni naturali (art. 2034 c.c.), fondate su doveri morali o sociali e prive, a differenza delle obbligazioni giuridiche in senso tecnico, del carattere della coercibilità, non avendo il creditore naturale il potere di agire in giudizio per ottenere l’adempimento dell’obbligo, ma solo i diritto di trattenere la prestazione che sia stata spontaneamente adempiuta dal debitore.

Di qui l’ineccepibile conclusione secondo cui gli eredi della S. non possono ritenersi obbligati a mantenere la promessa fatta dalla loro dante causa. L’obbligazione naturale, infatti, non è trasmissibile per via di successio mortis causa, in quanto, non avendo giuridicità prima e fuori dell’adempimento, non ha carattere patrimoniale nè fa parte del coacervo di diritti ed obblighi nei quali subentra l’erede (Cass. 29-11-1986 n. 7064).

Non sussistono, pertanto, i vizi denunciati dal ricorrente, essendo al contrario evidente che quest’ultimo, nel sostenere che tra le parti fu stipulato un contratto a titolo oneroso, in forza del quale il F. si era obbligato a prestare il mantenimento, alloggio ed altre cure in favore della S. dietro corrispettivo, richiede una valutazione alternativa delle risultanze probatorie, non consentita in sede di legittimità.

Non appare conferente, d’altro canto, il richiamo all’art. 1988 c.c..

Poichè, infatti, la promessa di pagamento, al pari della ricognizione di debito, non costituisce fonte autonoma di obbligazione, ma spiega soltanto effetto confermativo di un preesistente rapporto fondamentale, la stessa non può ritenersi idonea a trasformare in un debito giuridicamente vincolante per il promittente un’obbligazione naturale (v. Cass. 29-11-1986 n. 7064).

Le ulteriori censure mosse dal ricorrente in ordine alla ritenuta mancanza assoluta di prova circa il quantum restano assorbite.

2) Con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 112 c.p.c., art. 277 c.p.c., comma 1 e art. 91 c.p.c., nonchè la insufficiente, illogica e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia.

Deduce che la Corte di Appello ha del tutto omesso di pronunciare sulla richiesta degli appellanti principali di accoglimento della domanda di rilascio d’immobile; e che detta richiesta avrebbe dovuto essere rigettata per mancanza di prova dell’illecita detenzione del bene da parte del F.. Sostiene di avere interesse a rilevare tale omessa pronuncia, ai fini del regolamento della spese di secondo grado, che, in ragione della reciproca soccombenza, avrebbero dovuto essere compensate.

Rileva la Corte che, in applicazione del principio secondo cui presupposto necessario dell’interesse a ricorrere per cassazione è la soccombenza, deve ritenersi inammissibile, per difetto d’interesse, il ricorso con il quale, come nel caso in esame, si deduca il vizio di omessa pronuncia relativamente ad una domanda proposta dalla controparte, in quanto non è configurabile al riguardo una soccombenza del ricorrente, che non può subire alcun concreto pregiudizio da una siffatta carenza di decisione (Cass. 11/10/1996 n. 8905).

Il F., d’altro canto, non ha nemmeno interesse ad impugnare la omessa pronuncia sulla domanda proposta dalle controparti con riferimento al regime delle spese, dal momento che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di regolamento delle spese processuali, la violazione dell’art. 91 c.p.c., si verifica soltanto nel caso in cui le stesse siano poste a carico della parte totalmente vittoriosa (tra le tante v. Cass. 2-7-2007 n. 14964; Cass. 20-10-2006 n. 22541, Cass. 8-9-2005 n. 17953).

Nella specie, in nessun caso l’odierno ricorrente potrebbe essere considerato parte totalmente vittoriosa, essendo il medesimo rimasto soccombente in ordine alla domanda riconvenzionale.

Il motivo in esame, di conseguenza, deve ritenersi inammissibile.

3) Per le ragioni esposte il ricorso deve essere rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese del presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese, che liquida in Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per spese, oltre accessori di legge.

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