Corte Costituzionale, Sentenza n. 273, tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento delle direttive CEE in materia

Aggiornamento offerto dal dott. Domenico Cirasole

Gazzetta Ufficiale – 1ª Serie Speciale – Corte Costituzionale n. 30 del 28-7-2010

Sentenza

nel giudizio di legittimita’ costituzionale dell’art. 23, comma 4,
del decreto legislativo 11 maggio 1999 n. 152 (Disposizioni sulla
tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva
91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e
della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque
dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti
agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del
decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela
delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4,
della legge 24 aprile 1998, n. 128), che sostituisce l’art. 17 del
regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle
disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), promosso dal
Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, con
ordinanza del 3 marzo 2009, iscritta al n. 328 del registro ordinanze
2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, 1ª
serie speciale, dell’anno 2010.
Visti gli atti di costituzione di R.A. ed altri, di C.M. e P.V.,
nonche’ l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei
ministri;
Udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore
Gaetano Silvestri;
Uditi gli avvocati Tullio Padovani, Eriberto Rosso, Anna Francini
per S.G. ed altri, Giuseppe Giuffre’ e Giandomenico Falcon per R.A.,
Gemma Bearzotti per C.M., Paolo Dell’Anno per P.V. e l’avvocato dello
Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza depositata il 3 marzo 2009, il Tribunale di
Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, ha sollevato, in
riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimita’
costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11
maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque
dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE
concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della
direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque
dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti
agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del
decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela
delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4,
della legge 24 aprile 1998, n. 128), nella parte in cui, sostituendo
l’art. 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico
delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici),
sanziona come mero illecito amministrativo le condotte di derivazione
o utilizzazione di acqua pubblica in assenza di provvedimento di
autorizzazione o concessione dell’autorita’ competente.
1.1. – Il rimettente riferisce che il procedimento a quo riguarda
soggetti, gia’ responsabili di cantieri approntati per la
realizzazione della tratta ferroviaria ad alta velocita’ tra Firenze
e Bologna, ai quali si contesta l’indebito impossessamento di acque
pubbliche utilizzate nel corso dei lavori. In particolare, agli
imputati e’ contestato il delitto di furto aggravato, perpetrato «con
piu’ azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in concorso
tra loro, ciascuno nelle rispettive qualita’ ricoperte nell’arco
temporale indicato, al fine di trarne un ingiusto profitto
(consistito nell’impiego gratuito di acqua pubblica a servizio delle
proprie attivita’ di cantiere con particolare riferimento all’impiego
di acqua negli impianti di betonaggio e al lavaggio dei mezzi
meccanici e in generale all’impiego di acque chiare nelle attivita’
di cantiere)».
Il rimettente riferisce ancora che l’acqua oggetto di furto, per
un quantitativo stimato in non meno di cinque milioni di metri cubi,
sarebbe stata in parte prelevata dalle falde sotterranee intercettate
durante i lavori di scavo nelle gallerie, in parte estratta mediante
perforazione di pozzi, e in parte prelevata dai corsi d’acqua
limitrofi ai cantieri, il tutto in assenza delle prescritte
autorizzazioni e concessioni del Genio Civile della Provincia di
Firenze. Sempre in ipotesi accusatoria, le condotte contestate
sarebbero state poste in essere nel periodo dal 1997 al 2005 (con
l’esclusione del 2001, anno in cui era stata chiesta la concessione).
Il pubblico ministero – secondo quanto segnala il rimettente –
ritiene ininfluente, in punto di qualificazione penalistica delle
condotte, la disposizione contenuta nell’art. 23, comma 4, del d.lgs.
n. 152 del 1999, che sanziona come illecito amministrativo la
condotta di «derivazione o utilizzo» di acque pubbliche in assenza di
autorizzazione o concessione, perche’ diverso sarebbe il bene
giuridico tutelato penalmente, attraverso la fattispecie del furto
aggravato, rispetto a quello presidiato dalla sanzione
amministrativa: nel primo caso il patrimonio dello Stato, nel secondo
la regolamentazione del prelievo delle acque e la tutela della
salubrita’ di queste. Di conseguenza, la stessa condotta, ove
accertata, darebbe luogo alla violazione sia del precetto penale sia
di quello amministrativo, con applicazione concomitante delle due
norme indicate.
In senso contrario, prosegue il giudice a quo, le difese degli
imputati hanno sostenuto la tesi della specialita’ della norma che
prevede l’illecito amministrativo, rispetto alla previsione del
delitto di furto, con conseguente irrilevanza penale della condotta
di prelievo di acque sotterranee o superficiali per fini industriali,
a norma dell’art. 9 della legge 24 novembre 1989, n. 681 (Modifiche
al sistema penale).
1.2. – Il rimettente considera pregiudiziale, nel contesto
descritto, una verifica della asserita prevalenza della norma che
sanziona in via amministrativa il prelievo abusivo di acqua su quella
penale contestata, «atteso che qualunque verifica in fatto della
imputazione deve presupporre necessariamente la giurisdizione del
giudice penale».
Lo stesso rimettente procede quindi a richiamare per grandi linee
l’evoluzione della disciplina delle acque, osservando come, ancor
prima della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di
risorse idriche), gia’ l’art. 1 del r.d. n. 1775 del 1933 avesse
attribuito alle acque classificate di «pubblico generale interesse»
il carattere della demanialita’. Le acque prive di rilevanza
pubblica, e non inserite espressamente negli elenchi previsti dalla
legge, erano rimaste oggetto delle disposizioni del codice civile.
Con la legge n. 36 del 1994, emanata in una fase storica in cui era
ormai diffusa l’attenzione alla tutela delle risorse idriche, il
legislatore nazionale ha proceduto a ridefinire l’intera disciplina
delle acque pubbliche, in una prospettiva di vero e proprio
rovesciamento dei principi sottesi alla regolamentazione del prelievo
e dell’utilizzo dell’acqua. Per effetto della cosiddetta legge Galli,
si e’ passati da un regime ordinario di carattere privatistico, che
richiedeva una specifica classificazione da parte della pubblica
amministrazione per qualificare un’acqua come di pubblico interesse,
ad un regime «rigidamente pubblico in ordine alla proprieta’ della
risorsa idrica», nel quale tutte le acque, superficiali e
sotterranee, sono pubbliche, rimanendo nella discrezionalita’ della
pubblica amministrazione soltanto il potere di disciplinare
diversamente le modalita’ di utilizzo delle acque, a seconda dei
soggetti e delle finalita’.
Successivamente, e’ entrato in vigore il d.lgs. n. 152 del 1999,
di recepimento di numerose direttive comunitarie, il quale ha dettato
norme a tutela delle acque dall’inquinamento, ed e’ intervenuto anche
sul testo unico approvato con il r.d. n. 1775 del 1933, in
particolare sostituendo l’art. 17 di quest’ultimo con il comma 4
dell’art. 23 del citato d.lgs. La previsione richiamata ha stabilito
il divieto di derivare o utilizzare acqua pubblica senza un
provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorita’ competente,
comminando al contravventore, «fatti salvi ogni altro adempimento o
comminatoria previsti dalle leggi vigenti», una sanzione
amministrativa pecuniaria, oltre alla cessazione dell’utenza abusiva
e al pagamento dei canoni non corrisposti.
A partire quindi dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 152 del
1999, si e’ posto il problema di individuare la norma sanzionatoria
applicabile in relazione a condotte di impossessamento di acque
pubbliche analoghe a quelle descritte nel capo di imputazione.
Il giudice a quo segnala come, dopo qualche iniziale incertezza,
la giurisprudenza di legittimita’ si sia consolidata su posizioni di
«sostanziale abrogazione della rilevanza penale della condotta
descritta», affermando da ultimo (Corte di cassazione, sentenza n.
25548 del 2007) che la previsione contenuta nell’art. 23, comma 4,
del d.lgs. n. 152 del 1999 costituisce norma speciale rispetto a
quella generale di cui all’art. 624 del codice penale, in quanto
presenta due elementi specializzanti: l’oggetto dell’impossessamento
(l’acqua pubblica) ed il dolo specifico (la finalita’ industriale).
Il rimettente richiama anche un precedente di segno contrario
(Corte di cassazione, sentenza n. 37237 del 2001), che aveva ritenuto
sussistente un concorso reale e non apparente tra le norme, la’ dove
la previsione amministrativa sarebbe volta a tutelare la salubrita’
delle acque e quella codicistica il bene nel suo valore patrimoniale.
Il Tribunale tuttavia, in assonanza con la giurisprudenza piu’
recente, ritiene che la verifica del rapporto di specialita’ debba
fondarsi su una comparazione strutturale tra le fattispecie piu’ che
sulla loro funzione protettiva, ed aggiunge, richiamando ancora la
sentenza n. 25548 del 2007 della Corte di cassazione, che «anche il
d.lgs. n. 152 del 1999, art. 23 tutela la proprieta’ delle acque, sia
pure sotto un peculiare profilo». In particolare, la disposizione che
configura l’illecito amministrativo presidierebbe gli interessi
patrimoniali dell’Erario in quanto stabilisce che il contravventore
deve corrispondere, in ogni caso, i canoni evasi, i quali
rappresentano il corrispettivo del bene ai sensi degli artt. 13 e 18
della legge n. 36 del 1994. Inoltre, nel caso oggetto del
procedimento principale, la condotta di impossessamento dell’acqua
sotterranea e superficiale sarebbe stata posta in essere con
specifica finalita’ industriale, con la conseguenza che, in base al
criterio di specialita’ previsto dall’art. 9 della legge n. 681 del
1989, dovrebbe trovare applicazione la sola sanzione amministrativa.
Tutto cio’ premesso, il rimettente ritiene che la disposizione
che configura l’illecito amministrativo sia costituzionalmente
illegittima, per violazione del canone della ragionevolezza e del
principio di uguaglianza.
1.3. – Con riguardo alla rilevanza della questione, il Tribunale
precisa, innanzitutto, che fino alla pubblicazione del d.lgs. n. 258
del 2000, di integrazione e correzione del d.lgs. n. 152 del 1999, le
condotte di impossessamento di acque pubbliche per fini di vantaggio
patrimoniale erano punite a titolo di furto. Pertanto, per i fatti
antecedenti posti ad oggetto del procedimento a quo, in ipotesi di
declaratoria di illegittimita’ costituzionale della norma che ha
configurato l’illecito amministrativo, potrebbe nuovamente trovare
applicazione la fattispecie incriminatrice, non ostandovi il
principio sancito dall’art. 2 cod. pen., a sua volta attuativo
dell’art. 25 Cost.
Dopo aver richiamato ampiamente la sentenza n. 394 del 2006 della
Corte costituzionale sul tema del sindacato di costituzionalita’ con
effetti in malam partem, il giudice a quo afferma che la norma
censurata sarebbe sussumibile nella categoria delle «norme di
favore», in quanto avrebbe operato una «depenalizzazione "di favore"
in relazione a determinati soggetti, con carattere di
irragionevolezza con riferimento alla gerarchia dei beni giuridici
tutelati dall’ordinamento».
1.4. – Con riguardo alla non manifesta infondatezza della
questione, il giudice a quo nuovamente si riporta alla sentenza n.
394 del 2006, nella parte in cui si afferma che «un sindacato sul
merito delle scelte legislative e’ possibile solo ove esse trasmodino
nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio». Cio’ che
ricorrerebbe nel caso odierno, in quanto il regime sanzionatorio
introdotto nel 1999 per le condotte di derivazione e utilizzo abusivi
di acque pubbliche a fini industriali, sarebbe viziato «da
irragionevolezza e grave contraddizione con alcune norme di rango
costituzionale».
In particolare, l’introduzione di una norma di depenalizzazione
dell’impossessamento abusivo, a fini di lucro, di un bene giuridico
di cui si e’ riconosciuto il valore fondamentale per la
collettivita’, risulta, secondo il rimettente, «manifestamente privo
di razionalita’ e di armonia con il sistema di tutela dato», ancor
piu’ se si pone mente al fatto che in precedenza, cioe’ fino all’anno
2000, le stesse condotte erano sanzionate penalmente.
L’irrazionalita’ della scelta legislativa sarebbe ancor piu’
palese considerando che continua ad essere penalmente sanzionata la
sottrazione di beni patrimoniali i quali, nella scala di valori,
risultano di importanza di gran lunga inferiore alla risorsa idrica.
Sussisterebbero dunque, secondo il Tribunale di Firenze, profili
di illegittimita’ costituzionale della norma censurata, la’ dove essa
«non soltanto introduce una disparita’ di trattamento sanzionatorio
di condotte identiche relative allo stesso bene giuridico, ancorche’
poste in essere in momenti diversi, senza che emerga ragione a
fondamento, ma introduce una disparita’ di trattamento sanzionatorio
fra beni di diverso valore sociale, apprestando tutela diminuita
proprio a quel bene che, con la medesima legge, si intende tutelare
piu’ incisivamente».
Inoltre, l’illegittimita’ della norma censurata emergerebbe anche
in relazione al diverso trattamento riservato ad «altre condotte di
impossessamento relative al medesimo bene giuridico, e da ritenersi
ancora sanzionate dalla norma incriminatrice generale di cui all’art.
624 cod. pen.».
A tale proposito il rimettente richiama nuovamente la
giurisprudenza della Corte di cassazione, e in particolare la gia’
citata sentenza n. 25548 del 2007, per dissentire dalla affermazione
ivi contenuta, secondo la quale le due norme – artt. 624 cod. pen. e
23, comma 4, d.lgs. n. 152 del 1999 – regolano la stessa materia,
vale a dire l’impossessamento di un bene altrui per trarne vantaggio.
Cio’ sarebbe vero solo con riferimento alle condotte che, al pari di
quelle contestate nel procedimento principale, consistano in
«derivazione o utilizzo», locuzioni che, peraltro, configurerebbero
soltanto alcuni possibili modi di impossessamento dell’acqua. Vi
sarebbero dunque «casi di impossessamento che non vengono realizzati
attraverso una derivazione, o che non sono finalizzati all’utilizzo
industriale del bene, ma che sono comunque caratterizzati da fine di
lucro, i quali necessariamente sfuggono alla previsione della norma
amministrativa, e ricadono […] sotto l’impero della fattispecie
penale, questa volta essa stessa speciale rispetto alla norma
amministrativa».
A titolo esemplificativo, il Tribunale cita il caso di un
soggetto il quale procedesse alla trivellazione di un pozzo di acque
sotterranee, ritenendole di pregio, al fine di farne commercio,
«anche eventualmente mediante la pura e semplice cessione a terzi. In
tal caso l’impossessamento non si realizzerebbe mediante derivazione,
ne’ avrebbe come finalita’ un utilizzo dell’acqua pubblica a fini
industriali (utilizzo che presuppone nella quasi totalita’ dei casi
il rilascio del bene stesso dopo il suo utilizzo), e quindi
necessariamente sarebbe la norma penale a dispiegare i propri
effetti».
Pertanto, la norma censurata avrebbe anche introdotto una
ingiustificata disparita’ di trattamento sanzionatorio tra condotte
di identico disvalore, relative allo stesso bene, «ancorche’ poste in
essere con motivazioni differenti».
1.5. – Il Tribunale di Firenze argomenta ulteriormente sul
profilo della rilevanza della questione, con specifico riguardo al
fenomeno della successione delle leggi, osservando come, nella
perdurante vigenza della norma censurata, una parte delle condotte in
contestazione – quelle successive alla depenalizzazione –
risulterebbe priva di rilevanza penale, mentre l’altra parte,
costituita dalle condotte precedenti, risulterebbe non piu’ punibile
ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen.
In caso di accoglimento della questione, si verificherebbe «la
nuova espansione della norma incriminatrice penale», quantomeno per i
fatti pregressi, al momento non ancora prescritti. Trattandosi
infatti di condotte antecedenti all’entrata in vigore della norma di
favore, non verrebbe in rilievo il principio di irretroattivita’
della norma penale, bensi’ il diverso principio della retroattivita’
della norma penale piu’ mite, che, peraltro, nella specie non
potrebbe spiegare alcun effetto.
In proposito, e’ ancora richiamata la sentenza n. 394 del 2006
della Corte costituzionale, nella parte in cui si trova affermato che
«e’ giocoforza ritenere che il principio di retroattivita’ della
norma penale piu’ favorevole in tanto e’ destinato a trovare
applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per se’,
costituzionalmente legittima».
Le stesse conclusioni sarebbero applicabili, sempre secondo il
rimettente, alla ipotesi della declaratoria di illegittimita’ di una
norma a carattere amministrativo con effetti di depenalizzazione.
2. – Con atto depositato il 16 febbraio 2010, e’ intervenuto in
giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e
difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la
questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o, comunque,
infondata.
La difesa dello Stato osserva come il giudice a quo – il quale
dichiara di aderire all’orientamento della Corte di cassazione
secondo cui l’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999 e’ norma speciale
rispetto all’art. 624 cod. pen. -, non abbia assolto all’onere di
verificare se sia possibile dare un’interpretazione
costituzionalmente orientata alla norma in esame.
Sarebbe questo, a parere dell’Avvocatura generale, il percorso da
seguire nel caso di specie, posto che il citato art. 23, nel
sanzionare in via amministrativa le condotte di derivazione e
utilizzo abusivi di acque pubbliche, intende assicurare la
realizzazione degli obiettivi indicati dall’art. 144 del d.lgs. n.
152 del 2006, come sarebbe dimostrato dalla previsione della
possibilita’ di presentare domanda di concessione in sanatoria, ai
sensi dell’art. 96, comma 6, del medesimo decreto.
Differente, invece, risulterebbe l’ambito di applicazione del
delitto di furto, sicche’ tra le due previsioni non ricorrerebbe un
rapporto di specialita’, come affermato dal rimettente, bensi’ un
concorso formale di reati, disciplinato dall’art. 81 cod. pen.
Tale opzione ermeneutica, secondo la difesa dello Stato,
consentirebbe di fugare i dubbi di legittimita’ costituzionale
sollevati dal rimettente.
3. – Con comparsa depositata l’11 febbraio 2010, si e’ costituito
in giudizio M.C., imputato nel procedimento principale, concludendo
per la manifesta infondatezza della questione.
La difesa dell’imputato richiama l’ordinanza di rimessione nella
parte in cui il giudice a quo effettua la comparazione tra l’art. 23
del d.lgs. n. 152 del 1999, che punisce la violazione del divieto di
derivazione o utilizzo di acqua pubblica con la sanzione
amministrativa, e l’art. 624 cod. pen., dando atto che, secondo la
giurisprudenza di legittimita’ consolidata, la condotta di
impossessamento abusivo di acque pubbliche non riveste (piu’)
rilevanza penale (Corte di cassazione, sentenza n. 25548 del 2007).
Cio’ posto, si osserva come il rimettente, che pure dichiara di
aderire a tale orientamento giurisprudenziale, abbia sollevato
questione di legittimita’ costituzionale ritenendo la previsione
richiamata in contrasto con l’art. 3 Cost., sicche’ la violazione del
principio di uguaglianza deriverebbe proprio dall’elemento
specializzante della «finalita’ industriale».
In realta’, prosegue la stessa difesa, il rimettente avrebbe
omesso di analizzare le ragioni su cui si fonda la scelta di non
sanzionare penalmente la condotta descritta nell’art. 23, comma 4,
del d.lgs. n. 152 del 1999, avendo focalizzato la sua attenzione
sulla presunta contraddittorieta’ tra il sistema delineato dal d.lgs.
n. 152 del 1999, di tutela rafforzata del bene giuridico costituito
dalle acque pubbliche, e la introduzione, in quello stesso sistema,
di una norma che ne depenalizza «l’impossessamento illecito a fini di
lucro».
La parte privata segnala inoltre come, nel percorso logico del
giudice a quo, il fine industriale venga equiparato al fine di lucro,
cio’ che appare quanto meno riduttivo se si considera che il primo, a
differenza del secondo, presuppone un’organizzazione di lavoro e
trascende l’interesse del singolo.
Sarebbe poi evidente che, mentre nella fattispecie che punisce il
delitto di furto l’interesse primario e’ rappresentato dalla tutela
della proprieta’ privata, in quella delineata dall’art. 23 del d.lgs.
n. 152 del 1999 oggetto di tutela e’ la riserva idrica, all’interno
di un regime concessorio, con sanzioni pecuniarie sicuramente elevate
se raffrontate al costo dell’acqua.
Il differente disvalore sociale delle condotte indicate,
giustificherebbe quindi il diverso sistema sanzionatorio.
Del resto, nel bilanciamento tra interessi parimenti meritevoli
di tutela, non di rado il legislatore ha privilegiato l’attivita’
industriale e commerciale a scapito delle esigenze ambientali, come
avviene per l’inquinamento acustico delle zone limitrofe agli
aeroporti e per l’inquinamento atmosferico prodotto dai mezzi di
trasporto urbani. Si tratta di scelte sicuramente discutibili sul
piano politico, ma non prive di ragionevolezza, sicche’ la questione
sarebbe manifestamente infondata.
4. – Con atto depositato il 15 febbraio 2010, si sono costituiti
in giudizio R.A., S.C., G.G., Z.F., L.M., M.N., F.G., C.U., O.C.,
M.P.P. e M.C., tutti imputati nel procedimento a quo, nonche’ il
Consorzio C.A.V.E.T. Alta Velocita’ Emilia-Toscana, in persona del
legale rappresentante pro tempore, in qualita’ di responsabile civile
e civilmente obbligato per la pena pecuniaria.
La difesa delle parti indicate svolge alcune considerazioni sul
ragionamento prospettato dal giudice a quo a fondamento della
questione, concludendo per l’inammissibilita’ o, comunque,
l’infondatezza della stessa.
4.1. – Si osserva in primo luogo, sotto il profilo della
rilevanza, che il rimettente si sarebbe limitato ad affrontare le
ricadute dell’eventuale pronuncia di accoglimento in rapporto al
fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, regolato
dall’art. 2 cod. pen., mentre in realta’, come sollecitato dalla
stessa difesa, il giudice a quo avrebbe dovuto prioritariamente
stabilire se, stante il disposto dell’art. 48 del r.d. n. 1775 del
1933, nel caso di specie possano trovare applicazione la norma
censurata ovvero quella che punisce il furto, invocata in alternativa
dal medesimo giudice.
Il richiamato art. 48, terzo comma, stabilisce che «quando il
regime di un corso d’acqua o di un bacino di acqua pubblica sia
modificato permanentemente per esecuzione da parte dello Stato di
opere rese necessarie da ragioni di pubblico interesse, l’utente,
oltre all’eventuale riduzione o cessazione del canone, ha diritto ad
una indennita’, qualora non gli sia possibile senza spese eccessive
di adattare la derivazione al corso di acqua modificato».
Se infatti, incontestabilmente, l’esecuzione del tracciato
ferroviario per l’alta velocita’ tra Firenze e Bologna e’
qualificabile alla stregua di un’opera di pubblica utilita’ eseguita
dallo Stato, esiste il presupposto per l’applicazione dell’art. 48,
terzo comma, con la conseguenza che sarebbe esclusa in radice
l’antigiuridicita’ delle condotte, venendo cosi’ a mancare la
rilevanza della questione.
4.2. – Nel merito, la difesa osserva come rientri nella piena ed
insindacabile discrezionalita’ del legislatore, con il solo limite
della ragionevolezza delle opzioni assunte, l’individuazione delle
condotte punibili, nonche’ la scelta e la quantificazione delle
relative sanzioni.
Nel caso in esame, pur essendo innegabile che l’acqua pubblica
costituisca un oggetto di tutela di primario valore, cio’ che assume
importanza nel sistema normativo «non e’ tanto la materiale fisicita’
del bene, quanto la concreta disponibilita’ dello stesso». Posto
dunque che la capacita’ di disporre delle acque pubbliche non e’
libera ma amministrata, la scelta di qualificare come illecito
amministrativo il prelievo abusivo delle predette acque sembra
tutt’altro che irrazionale, risultando il naturale completamento di
una disciplina di base amministrativa, e dimostrandosi consona alla
peculiare forma aggressiva in esame.
Piu’ specificamente, mentre il delitto di furto tipizza
un’aggressione ad un potere altrui (che non e’ proprio, o anche,
dell’agente), la fattispecie di prelievo abusivo di acque pubbliche
tipizza «una aggressione ad un potere che e’ di tutti, ma che e’ tale
in forza di una programmata e controllata parcellizzazione ad opera
di un soggetto-filtro la cui volonta’, in definitiva, e’ la prima e
piu’ importante ad essere frodata».
Non risulterebbe sussistente neppure la disparita’ di trattamento
sanzionatorio tra il prelievo abusivo di acque pubbliche finalizzato
al mero commercio della risorsa idrica, in assunto del rimettente
punito come illecito penale, e il medesimo prelievo diretto ad uso
industriale, punito come illecito amministrativo. Il ragionamento del
giudice a quo sarebbe sul punto viziato dalla mancata considerazione
del rilievo che riveste, nella fattispecie sanzionata in via
amministrativa, il dolo specifico, che, pur non essendo un elemento
materiale del fatto, nondimeno costituisce elemento della fattispecie
e concorre alla tipizzazione della stessa.
L’elemento del dolo specifico, sottolinea la difesa, «determina
una indubbia specificazione dell’illecito, contribuendo all’emersione
di una peculiarita’ che poi si riflette sull’intera struttura di
quello, rendendola un unicum e, conseguentemente, meritevole di un
proprio non estensibile giudizio disvaloriale».
La differente struttura delle fattispecie di prelievo abusivo di
acque pubbliche finalizzato al commercio delle stesse, e di prelievo
abusivo finalizzato all’uso industriale, esige, contrariamente a
quanto sostenuto dal rimettente, un trattamento differenziato, in
ossequio al principio sancito dall’art. 3, secondo comma, Cost.
5. – Con atto depositato il 15 febbraio 2010 si e’ costituito in
giudizio P.V., pure imputato nel procedimento a quo, per sostenere la
manifesta infondatezza della questione sollevata dal Tribunale di
Firenze.
5.1. – La difesa della parte procede innanzitutto al riepilogo
del quadro normativo di riferimento, per evidenziare come il solo
sintetico esame degli interventi legislativi succedutisi nella
regolamentazione della materia in esame sarebbe sufficiente a
smentire le argomentazioni poste dal rimettente a fondamento
dell’incidente di legittimita’ costituzionale.
E’ vero infatti che l’art. 17 del r.d. n. 1775 del 1933, come
novellato dal d.lgs. n. 152 del 1999, regola la medesima fattispecie
contemplata dalla previsione del furto di cosa pubblica, e che
pertanto, secondo la giurisprudenza consolidata, trova applicazione
il disposto dell’art. 9, comma 2, della legge n. 689 del 1981, con
conseguente prevalenza della disciplina amministrativa.
La condotta contemplata dalle due fattispecie e’ perfettamente
coincidente e consiste nell’impossessamento mediante sottrazione del
bene al legittimo detentore, mentre risulta «irrilevante l’altro
elemento strutturale che caratterizza il reato ex art. 624, il dolo
specifico – finalita’ di profitto – dal momento che l’illecito
amministrativo e’ circoscritto alla sola condotta del prelievo
volontario ed al correlato utilizzo della risorsa idrica senza
concessione e senza pagamento del canone».
5.2. – La difesa dell’imputato procede quindi all’esame delle
censure prospettate dal rimettente, secondo il quale la
discrezionalita’ del legislatore, nell’individuazione delle condotte
connotate da disvalore sociale e nella scelta delle sanzioni
applicabili, sarebbe stata male esercitata.
La stessa difesa richiama sul punto la giurisprudenza
costituzionale secondo cui la discrezionalita’ legislativa incontra
il limite dell’arbitrarieta’, o manifesta irragionevolezza
dell’opzione adottata (sentenze n. 206 del 2003 e n. 287 del 2000),
vizi entrambi ravvisabili quando «la sperequazione normativa tra
fattispecie omogenee assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi
considerare protetta da alcuna ragionevole giustificazione» (sentenza
n. 394 del 2006).
Nella specie, tuttavia, non emergerebbero indizi in tal senso:
lungi dall’aver semplicemente depenalizzato la fattispecie del
prelievo abusivo di acque pubbliche, l’intervento legislativo attuato
con il d.lgs. n. 152 del 1999 «ha disciplinato in modo organico,
innovativo e globale» la materia delle utenze idriche, introducendo
uno speciale regime amministrativo di consenso.
Nemmeno sarebbe ravvisabile un contrasto con altre norme di rango
costituzionale, peraltro non indicate dal rimettente, giacche’ la
disciplina in esame risulterebbe perfettamente coerente con il piu’
ampio disegno governativo di gestione delle risorse idriche, sotto il
profilo sia quantitativo sia qualitativo, che assoggetta a permessi
tanto il prelievo quanto lo scarico di acque dopo l’utilizzo.
A proposito poi della distinzione tra «fruizione» e tutela delle
risorse ambientali, la difesa richiama ancora la giurisprudenza
costituzionale (sentenza n. 105 del 2008), con riguardo
all’affermazione secondo cui l’emersione del problema ambientale
avrebbe spinto il legislatore ad intervenire per la tutela della
risorsa idrica mediante specifica e organica disciplina, superando
cosi’ l’impostazione del testo unico del 1933, limitata alla
regolamentazione del solo profilo della fruizione (sentenza n. 1 del
2010).
Risulterebbe del resto opinabile l’idea di fondo che sorregge il
percorso motivazionale seguito dal giudice a quo, secondo cui per
assicurare tutela puntuale ed efficace l’ordinamento non puo’ fare a
meno della sanzione penale detentiva; al contrario, la sanzione
amministrativa, specie se consistente, puo’ rappresentare un efficace
deterrente per enti e imprese.
In una prospettiva piu’ ampia, prosegue la difesa, la scelta
legislativa di trasformare la risorsa idrica in un bene
esclusivamente pubblico si giustifica, come avviene per altri beni
del demanio, con la necessita’ di regolarne l’uso (con misure di
programmata gestione) in modo da consentirne la fruizione diffusa,
risultando altresi’ rilevante la diversita’ ontologica della risorsa
idrica, come bene pubblico, rispetto agli altri beni protetti
dall’art. 624 cod. pen.
La stessa difesa passa quindi ad esaminare la denunciata
disparita’ di trattamento sanzionatorio tra la condotta di prelievo
non autorizzato di acque, sanzionata in via amministrativa, e
l’impossessamento di altri beni, perseguito a titolo di furto, e cio’
perfino in casi di particolari forme di impossessamento del medesimo
bene costituito dall’acqua pubblica.
Dopo aver segnalato la genericita’ ed indeterminatezza
dell’assunto, si osserva che, per un verso, i beni protetti dalla
norma penale non rivestono minore significato valoriale rispetto alla
risorsa idrica, come agevolmente desumibile da un pur sintetico esame
delle circostanze aggravanti menzionate dall’art. 625 cod. pen. (la
tutela riguarda, infatti, non solo l’oggetto dell’impossessamento, ma
anche le modalita’ con le quali si realizza tale effetto), e, per
altro verso, che la denunciata disparita’ di trattamento
sanzionatorio delle possibili diverse condotte di impossessamento
dell’acqua e’ frutto di un ragionamento privo di fondamento.
Premessa la condivisibile distinzione tra la condotta di
impossessamento e quella di utilizzazione (in rapporto di
presupposizione), la difesa dell’imputato rileva come la condotta
delineata dalla norma oggetto di censura non distingua tra
derivazione e utilizzazione, ne’ ponga un limite finalistico
all’utilizzazione dell’acqua, posto che l’unico limite esistente,
costituito dall’uso domestico, opera in senso inverso, esentando
l’utente dall’obbligo di ottenere la previa concessione.
In realta’, a parere della stessa difesa, l’illecito
amministrativo deve ritenersi integrato per il solo fatto che
l’utente abusivo si e’ sottratto non solo al potere di controllo
dell’amministrazione concedente, ma anche alla corresponsione del
canone per l’uso dell’acqua, con la conseguenza che tutti gli altri
usi, ad eccezione di quello domestico, risulterebbero ugualmente
sanzionabili ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999.
La questione di legittimita’ costituzionale sarebbe dunque
inammissibile perche’ sollevata su una erronea interpretazione della
normativa censurata.
6. – In prossimita’ dell’udienza pubblica, la difesa di S.C.,
G.G., Z.F., L.M., M.N., F.G., C.U., O.C., M.P.P., M.C., e del
Consorzio C.A.V.E.T. Alta Velocita’ Emilia-Toscana, ha depositato
memoria illustrativa nella quale sono riesaminati i profili di
censura prospettati dal rimettente.
6.1. – In via preliminare, la difesa delle parti suddette reputa
le questioni inammissibili in quanto la prevalenza della norma che
sanziona in via amministrativa le condotte in esame, affermata dalla
giurisprudenza della Corte di cassazione e condivisa dal rimettente,
costituisce espressione di una scelta politico-criminale riservata al
legislatore, non manifestamente irragionevole ne’ lesiva del
principio di uguaglianza.
Il rimettente, prosegue la difesa, vorrebbe che la norma che
configura l’illecito amministrativo fosse dichiarata illegittima allo
scopo di consentire la «riespansione» della norma penale, in tal modo
richiedendo un intervento con esiti in malam partem, ma la Corte ha
gia’ piu’ volte dichiarato inammissibili questioni con le quali
venivano richiesti interventi di contrasto alle scelte
depenalizzatrici compiute dal legislatore ordinario.
Ne’ varrebbero in senso contrario gli argomenti con i quali la
stessa Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la normativa «di
favore» in materia di reati elettorali (sentenza n. 394 del 2006):
nella citata pronuncia si trova affermato che, per potersi
qualificare una norma come «di favore», deve trattarsi di norma di
privilegio in senso proprio, la quale sottrae una certa classe di
soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma
maggiormente comprensiva, e si trovi in rapporto di compresenza con
quest’ultima.
La norma censurata dall’odierno rimettente, viceversa, non
presenterebbe i caratteri indicati, trattandosi di previsione che al
piu’, secondo la teorizzazione contenuta nella stessa sentenza n. 394
del 2006, «delimita l’area di intervento di una norma
incriminatrice», con la quale si esprime una valutazione legislativa
in termini di meritevolezza ovvero di "bisogno di pena", cui la Corte
non potrebbe sovrapporre una diversa strategia di criminalizzazione.
6.2. – Un ulteriore profilo di inammissibilita’ delle questioni
sarebbe collegato alla applicabilita’, alle condotte contestate,
della disposizione contenuta all’art. 48, terzo comma, del r.d. n.
1775 del 1933.
L’argomento, sul quale il rimettente non avrebbe preso posizione
nonostante le sollecitazioni provenienti dalle parti, e’ gia’ stato
esposto nella memoria di costituzione e sintetizzato al paragrafo
4.1.
6.3. – La difesa assume inoltre che la norma che sanziona il
delitto di furto non potrebbe comunque trovare applicazione nel caso
in esame, stante la natura dell’opera eseguita. L’applicazione del
richiamato art. 48, pure se non intesa come limite al divieto di
derivazione senza provvedimento concessorio, determinerebbe una
"disponibilita’ materiale" in capo al soggetto esecutore dell’opera
pubblica, qualificabile come detenzione, tale da escludere a priori
la configurabilita’ del furto. Tutt’al piu’ si potrebbe ipotizzare
l’applicabilita’ delle diverse fattispecie dell’appropriazione
indebita, sanzionata dall’art. 646 cod. pen., ovvero della deviazione
di acque e modificazione dello stato dei luoghi, punita dall’art. 632
cod. pen., dovendosi peraltro considerare, quanto alla prima
fattispecie, che mancherebbe comunque la querela, e, riguardo alla
seconda fattispecie, che essa ricorre solo in presenza della «totale
sottrazione dell’acque dalla sua naturale destinazione, in modo
permanente o anche solo saltuario» (e’ richiamata la sentenza della
Corte di cassazione n. 48057 del 2009).
Risulterebbe pertanto erronea la individuazione della norma
penale che verrebbe a «riespandere» il proprio campo di applicazione,
ove la previsione dell’illecito amministrativo fosse dichiarata
illegittima costituzionalmente.
6.4. – Nel merito, la stessa difesa evidenzia l’infondatezza
della questione.
Richiamati i profili di censura prospettati dal rimettente, si
osserva che oggetto di tutela della norma censurata non e’ la risorsa
in se’, quanto la funzione amministrativa che garantisce il
contemperamento di diversi interessi. Non vi sarebbe dunque una
"intangibilita’" assoluta della risorsa idrica, e l’intero sistema
dei «servizi idrici», per quanto fondato sul riconoscimento delle
acque come risorsa da proteggere, e’ finalizzato a disciplinare «non
l’acqua ma gli usi della stessa».
L’articolato modello organizzativo presuppone che la capacita’ di
disporre delle acque pubbliche non e’ libera ma, appunto,
amministrata e dunque controllata. In tal senso, la tutela del
profilo quantitativo delle risorse idriche risulta piu’ appropriata
di quella penale, che puo’ invece risultare tecnicamente necessaria
nell’ambito della tutela qualitativa, ove occorre evitare il
deterioramento potenzialmente irreversibile della risorsa e della
salute, quali effetti dell’inquinamento.
La difesa richiama la Circolare della Presidenza del Consiglio
dei Ministri dedicata ai «Criteri orientativi per la scelta tra
sanzioni penali e sanzioni amministrative» (Circ. P.C.M. 19.12.1983),
nella quale sono indicati i principi di proporzionalita’ e
sussidiarieta’ ai quali deve ispirarsi il legislatore, tanto piu’ nei
casi in cui oggetto di tutela sia una funzione amministrativa di
gestione.
Quanto alla censura di disparita’ di trattamento di condotte
diverse, egualmente aggressive del medesimo bene giuridico, la stessa
sarebbe manifestamente infondata per due ordini di ragioni.
In primo luogo, il rimettente muoverebbe da un erroneo
presupposto, vale a dire che il legislatore avrebbe distinto tra le
diverse motivazioni che sorreggono la condotta vietata, mentre in
realta’ la distinzione esiste tra "ambiti oggettivi di attivita’": da
un lato le attivita’ strumentali all’uso domestico, per le quali non
e’ necessaria autorizzazione, e dall’altro le attivita’ non
strumentali a tale uso. Tra queste ultime nessuna distinzione puo’
essere fatta: sono tutte vietate, a prescindere dal fine di lucro, se
consistono in derivazione o utilizzazione di acqua in assenza di
provvedimento autorizzativo dell’autorita’ competente.
E del resto, come correttamente posto in evidenza dalla
giurisprudenza della Corte di cassazione, la sanzione amministrativa
tutela anch’essa gli interessi patrimoniali dello Stato, con la
conseguenza che la norma censurata e la fattispecie che punisce il
furto si trovano sicuramente in rapporto di specialita’.
In conclusione, si richiama l’attenzione sulla diversita’
intercorrente tra la situazione oggetto del procedimento principale,
di realizzazione di un’opera di interesse pubblico, e altri casi di
uso della risorsa idrica a fini di lucro al di fuori di tale
contesto. L’eventuale differente trattamento sanzionatorio non
sarebbe irragionevole.
7. – In data 15 giugno 2010 ha depositato memoria R.A., imputato
nel procedimento a quo, gia’ costituito nel giudizio incidentale.
La difesa dell’imputato richiama i termini della questione e
quindi argomenta sui possibili profili di inammissibilita’.
7.1. – In primo luogo, si assume l’erronea individuazione della
norma oggetto, in quanto l’esclusione della sanzione penale non
sarebbe conseguenza diretta della disposizione che ha introdotto
l’illecito amministrativo, ma discenderebbe dall’applicazione delle
regole che disciplinano il concorso apparente di norme, e in
particolare dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981, che il
rimettente non ha censurato.
Sarebbe inoltre incompleta la motivazione in punto di rilevanza
della questione, in quanto lo stesso rimettente da’ per scontato che
qualora non vi fosse la sanzione amministrativa, troverebbe
applicazione la disposizione che punisce il furto.
E’ quindi richiamato l’art. 48 del r.d. n. 1775 del 1933, a
sostegno della mancanza di antigiuridicita’ delle condotte
contestate, con argomenti sostanzialmente coincidenti con quelli gia’
sintetizzati al paragrafo 4.1, cui si rinvia.
7.2. – Nel merito, le questioni risulterebbero infondate.
Con riferimento alla lamentata disparita’ di trattamento tra
condotte realizzate prima o dopo l’entrata in vigore della norma di
depenalizzazione, la difesa osserva come, a prescindere dalla
circostanza che l’effetto depenalizzante opererebbe anche per le
condotte antecedenti, la censura risulti oltremodo singolare, in
quanto tutte le disposizioni che intervengono a modificare
disposizioni precedenti introducono necessariamente una "disparita’
di trattamento" tra condotte identiche, ne’ il legislatore ha l’onere
di far emergere ragioni a fondamento delle proprie scelte.
Quanto alla prospettata irragionevolezza della scelta legislativa
di tutelare le risorse idriche in modo meno pregnante rispetto ad
altri beni, di importanza sicuramente inferiore, la difesa sottolinea
la differenza esistente tra la condotta di spossessamento del
legittimo proprietario, al quale venga sottratta la cosa mobile, al
fine di trarne profitto, e la condotta di derivazione e utilizzazione
dell’acqua in assenza di provvedimento concessorio o autorizzatorio:
in tale secondo caso non vi e’ alterazione della destinazione del
bene, costituendo al contrario l’uso industriale uno degli usi
consentiti dell’acqua.
Nella specie, verrebbe in rilievo la necessita’ che l’uso
dell’acqua sia regolato attraverso specifici provvedimenti
amministrativi, come confermato anche dalla previsione della
possibile continuazione provvisoria del prelievo in presenza di
particolari ragioni di interesse pubblico generale, purche’
l’utilizzazione non risulti in palese contrasto con i diritti di
terzi e con il buon regime delle acque.
Con riguardo, infine, alla prospettata ulteriore disparita’ di
trattamento che il rimettente individua nel mantenimento della
incriminazione di altre condotte, di aggressione al medesimo bene, la
difesa rileva che, nell’ipotesi esemplificativamente riportata
nell’ordinanza di rimessione, quella cioe’ del soggetto che si
appropri di acqua di pregio per imbottigliarla e venderla, saremmo di
fronte ad un uso non consentito della risorsa, e dunque ad un
comportamento che non potrebbe essere autorizzato.
Peraltro, e conclusivamente, ove mai esistessero altri
comportamenti, di disvalore pari a quello delle condotte in esame,
che fossero sanzionati penalmente, cio’ dovrebbe comportare
l’illegittimita’ costituzionale della perdurante incriminazione, non
gia’ della previsione dell’illecito amministrativo, come invece
pretenderebbe il rimettente.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Pontassieve,
ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione
di legittimita’ costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto
legislativo 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle
acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE
concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della
direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque
dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti
agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del
decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela
delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4,
della legge 24 aprile 1998, n. 128), nella parte in cui, sostituendo
l’art. 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico
delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici),
sanziona come mero illecito amministrativo le condotte di derivazione
o utilizzazione di acqua pubblica in assenza di provvedimento di
autorizzazione o concessione dell’autorita’ competente.
La norma e’ oggetto di censura in radice, per l’irragionevolezza
che avrebbe contrassegnato la scelta legislativa di «depenalizzare»
condotte in precedenza perseguite a titolo di furto, a fronte della
finalita’, dichiarata nell’art. 1 del d.lgs. n. 152 del 1999, di
rafforzare la tutela della risorsa idrica.
Ulteriori censure sono prospettate sotto il profilo della
ingiustificata disparita’ di trattamento, derivante sia dal raffronto
con la tutela apprestata ad altri beni, di valore sicuramente
inferiore all’acqua, la cui indebita appropriazione e’ presidiata
dalla sanzione penale, sia dal raffronto tra le stesse condotte di
impossessamento abusivo dell’acqua, a seconda che siano state poste
in essere prima o dopo l’entrata in vigore della norma in esame,
ovvero che risultino sorrette o non dalla «finalita’ industriale».
Con riferimento a quest’ultimo profilo, l’illegittimita’
costituzionale e’ costruita dal rimettente secondo lo schema della
«norma di favore», sul presupposto che la sanzione amministrativa
trovi applicazione nei confronti di un’unica categoria di soggetti,
cioe’ di coloro i quali si impossessano abusivamente di acqua
pubblica per fini industriali.
2. – Preliminarmente deve essere disattesa la prospettazione
dell’Avvocatura dello Stato, che sostiene l’inammissibilita’ della
questione, per non avere il rimettente esplorato la possibilita’ di
dare della norma censurata un’interpretazione costituzionalmente
orientata, fondata sulla coesistenza tra sanzione amministrativa e
sanzione penale. In particolare non opererebbe, nel caso di specie,
il principio sancito all’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689
(Modifiche al sistema penale).
Detto principio e’ infatti applicabile, secondo la consolidata
giurisprudenza di legittimita’, all’ipotesi dell’impossessamento
abusivo di acqua pubblica in forza del necessario riferimento alla
struttura delle fattispecie, piuttosto che al bene protetto, per
l’identificazione del rapporto di specialita’ tra norma
amministrativa e norma penale, con la conseguenza che l’art. 23 del
d.lgs. n. 152 del 1999 deve prevalere sull’art. 624 cod. pen. (ex
plurimis, Corte di cassazione, sentenze n. 21008 del 2010; n. 25548
del 2007; n. 186 del 2006; n. 39977 del 2005; n. 26877 del 2004).
D’altra parte, la coesistenza della sanzione penale e di quella
amministrativa non sarebbe necessariamente il frutto di una
interpretazione costituzionalmente orientata. L’effetto di
depenalizzazione, scaturente dall’applicazione del principio di
specialita’, e’ stato voluto dal legislatore, che ben conosceva il
sistema normativo nel quale la nuova disposizione andava ad
inserirsi. La valutazione sulle questioni si riduce, dunque, in
questa prospettiva, alla verifica della non manifesta
irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore con
l’introduzione della norma censurata.
3. – Le questioni sono inammissibili per ragioni diverse, di
seguito specificate.
3.1. – Il rimettente censura come irragionevole la scelta del
legislatore di depenalizzare l’impossessamento abusivo di acqua
pubblica, perche’ in contraddizione con il complessivo indirizzo
legislativo degli ultimi decenni, volto a rafforzare la tutela del
bene acqua, preservando la sua fruizione da parte della generalita’
dei cittadini. Tale orientamento di maggior tutela dell’ambiente e
degli interessi della collettivita’ sarebbe in contrasto con
l’attenuazione del rigore punitivo nei confronti dei soggetti che
sottraggono quantitativi piu’ o meno ingenti di acqua all’uso
pubblico, per realizzare profitti diretti, derivanti da eventuali
commercializzazioni dell’acqua abusivamente captata, o indiretti,
derivanti da utilizzazione dell’acqua stessa per finalita’
industriali o comunque produttive, ottenendo la disponibilita’ del
bene senza sostenere alcun costo.
3.2. – Occorre ricordare, con riferimento a tale censura, come
questa Corte abbia costantemente affermato che «il potere di
configurare le ipotesi criminose, determinando la pena per ciascuna
di esse, e di depenalizzare fatti dianzi configurati come reati […]
rientra nella discrezionalita’ legislativa censurabile, in sede di
sindacato di costituzionalita’, solo nel caso in cui sia esercitata
in modo manifestamente irragionevole» (sentenza n. 364 del 2004, ed
in precedenza, ex plurimis, sentenza n. 313 del 1995, ordinanze n.
110 del 2003, n. 144 del 2001, n. 58 del 1999).
A proposito dell’efficacia delle sanzioni penali e di quelle
amministrative, questa Corte ha pure osservato: «La sanzione penale
non e’ l’unico strumento attraverso il quale il legislatore puo’
cercare di perseguire la effettivita’ dell’imposizione di obblighi o
di doveri […]. Vi puo’ essere uno spazio nel quale tali obblighi e
doveri sono operanti, ma non assistiti da sanzione penale, bensi’
accompagnati da controlli e da responsabilita’ solo amministrative o
politico-amministrative. Ed e’ anzi rimesso alla scelta discrezionale
del legislatore, purche’ non manifestamente irragionevole, valutare
quando e in quali limiti debba trovare impiego lo strumento della
sanzione penale, che per sua natura costituisce extrema ratio, da
riservare ai casi in cui non appaiano efficaci altri strumenti per la
tutela di beni ritenuti essenziali» (ordinanza n. 317 del 1996).
4. – In conformita’ ai principi sopra ricordati, nel caso di
specie non si puo’ ritenere che la scelta di depenalizzazione operata
dal legislatore con la norma censurata sia manifestamente
irragionevole.
Deve essere innanzitutto considerato il contesto normativo in cui
si inserisce la disposizione censurata, che attua il disegno del
legislatore di regolare in modo sistematico e programmato
l’utilizzazione collettiva di un bene indispensabile e scarso, come
l’acqua, che comporta la prevalenza delle regole amministrative di
fruizione sul mero aspetto dominicale. L’integrale pubblicizzazione
delle acque superficiali e sotterranee e’ stata strettamente legata
dall’art. 1 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in
materia di risorse idriche) alla salvaguardia di tale risorsa ed alla
sua utilizzazione secondo criteri di solidarieta’. Da questo doppio
principio discende la conseguenza che deve essere la pubblica
amministrazione a disciplinare e programmare l’uso delle acque, allo
scopo di consentire un equilibrato consumo per finalita’ diverse da
quelle domestiche, nel quadro della fondamentale distinzione
contenuta negli artt. 17, comma 1, e 95, primo comma, del r.d. n.
1775 del 1933. Non viene in rilievo la contrapposizione tra lo Stato,
proprietario del bene, ed i privati, ma l’integrazione tra pubblico e
privato, nel quadro della regolazione programmata e controllata
dell’uso dell’acqua, che costituisce bene di tutti e, in quanto tale,
deve essere distribuita secondo criteri razionali ed imparziali
stabiliti da apposite regole amministrative.
La legge non distingue tra i soggetti privati che si impossessano
di acque sotterranee, ma, a norma del citato art. 95, primo comma,
del r.d. n. 1775 del 1933, regola diversamente gli usi domestici,
definiti e delimitati dall’art. 93 del medesimo t.u., e gli usi
diversi, per i quali sono necessarie l’autorizzazione alla ricerca ed
allo scavo e la concessione per l’utilizzo, secondo il piano di
massima allegato alla domanda di autorizzazione.
In questo quadro, spetta alla pubblica amministrazione competente
programmare, regolare e controllare il corretto utilizzo del bene
acqua in un dato territorio, non gia’ in una prospettiva di mera
tutela della proprieta’ demaniale, ma in quella del contemperamento
tra la natura pubblicistica della risorsa e la sua destinazione a
soddisfare i bisogni domestici e produttivi dei consociati. Questi
ultimi hanno titolo ad utilizzare le acque sotterranee, nel rispetto
delle norme amministrative poste a salvaguardia dell’integrita’ della
risorsa, che non puo’ essere indiscriminatamente depauperata da
prelievi che sfuggono ai poteri regolativi della pubblica
amministrazione.
Da quanto appena detto si deduce che la scelta legislativa di
sanzionare solo in via amministrativa eventuali comportamenti
trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque non e’
manifestamente irragionevole, giacche’ deve aversi primariamente
riguardo al rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione
nell’accesso ad un bene che appartiene in principio alla
collettivita’. Tale rapporto viene alterato dalla violazione di norme
che non sono poste soltanto a presidio della proprieta’ pubblica del
bene, collocato in una sfera separata rispetto a quella dei
cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione compatibile con
l’entita’ delle risorse idriche disponibili in un dato territorio e
con la loro equilibrata distribuzione tra coloro che aspirano a farne
uso. Se tutti hanno diritto di accedere all’acqua, l’aspetto
dominicale della tutela si colloca in secondo piano, rispetto alla
primaria esigenza di programmare e vigilare sulle ricerche e sui
prelievi, allo scopo di evitare che impossessamenti incontrollati
possano avvantaggiare indebitamente determinati soggetti a danno di
altri o dell’intera collettivita’.
La sanzione amministrativa prevista dalla norma censurata,
d’altra parte, non e’ irrisoria e priva di efficacia dissuasiva,
giacche’ i trasgressori, previa cessazione delle utenze abusive, sono
tenuti al pagamento di una somma da 3.000 a 30.000 euro, oltre che
dell’intero importo dei canoni non corrisposti. L’intento principale
del legislatore e’ quello di ricondurre nell’alveo della regolarita’
un uso dell’acqua non in linea con la disciplina amministrativa, come
dimostra peraltro la possibilita’ della continuazione provvisoria del
prelievo – prevista dalla stessa norma censurata – «in presenza di
particolari ragioni di interesse pubblico generale, purche’
l’utilizzazione non risulti in palese contrasto con i diritti dei
terzi e con il buon regime delle acque». L’intreccio tra interessi
pubblici e privati, emergente da tale ultima previsione, dimostra che
tutto il sistema e’ finalizzato a mantenere l’equilibrio ambientale,
l’equa utilizzazione delle risorse idriche da parte dei cittadini e
l’effettivita’ dei piani di salvaguardia delle stesse, predisposti
dalle autorita’ competenti.
Altre scelte legislative sarebbero astrattamente possibili, ma
non spetta a questa Corte dare valutazioni di merito, una volta
rilevata la non manifesta irragionevolezza di quella che sta alla
base della norma censurata.
5. – La non manifesta irragionevolezza della scelta legislativa
di depenalizzazione dell’impossessamento abusivo di acqua pubblica a
fini non domestici, rende manifesta l’inconferenza del richiamo del
rimettente alla sentenza n. 394 del 2006 di questa Corte, in tema di
"norme penali di favore". Tale pronuncia si basa sul presupposto
della compresenza nell’ordinamento di una norma penale che contiene
una fattispecie piu’ ampia e di una norma che irragionevolmente
prevede un trattamento piu’ favorevole per specifiche condotte,
altrimenti rientranti nella previsione generale.
Il caso oggetto del presente giudizio riguarda una norma che ha
escluso dalla rilevanza penale comportamenti che astrattamente
avrebbero potuto essere ricondotti alla previsione generale di cui
all’art. 624 del codice penale, secondo una scelta legislativa non
riconducibile al fenomeno delle cosiddette norme penali di favore.
Infatti, come si e’ visto al par. 3, non si riscontra una palese
irragionevolezza nell’orientamento del legislatore a considerare
recessivo il profilo proprietario della tutela delle acque pubbliche
rispetto a quello programmatorio e gestionale, maggiormente consono,
nella valutazione dello stesso legislatore, alla finalita’ di
regolare un corretto uso, da parte dei cittadini, delle risorse
idriche, alle quali comunque hanno titolo ad accedere.
Il riferimento, operato dal rimettente, all’ipotesi di
un’appropriazione dell’acqua pubblica a mero scopo di
commercializzazione – indipendentemente quindi da un uso industriale,
agricolo o comunque produttivo – esula dall’oggetto del giudizio
principale e pertanto non assume rilevanza nell’attuale incidente di
legittimita’ costituzionale.
Essendo mirata in definitiva ad indurre un sindacato sulle scelte
discrezionali sanzionatorie del legislatore, in una situazione non
caratterizzata dalla manifesta irragionevolezza delle relative
opzioni, la questione sollevata dal rimettente risulta inammissibile.
6. – Parimenti inammissibile e’ la questione basata sulla
presunta irragionevolezza della depenalizzazione dell’impossessamento
abusivo di acqua pubblica, in quanto si doterebbe un bene prezioso
per la collettivita’ di una tutela meno intensa rispetto ad altri
beni di minore rilevanza nella scala dei valori costituzionali. Il
rimettente tuttavia non precisa quali sarebbero tali beni e non
indica neppure quali dovrebbero essere i criteri oggettivi per
istituire una simile gerarchia di valori, assunta come punto di
riferimento astratto per motivare l’asserita violazione, sotto questo
profilo, dell’art. 3 Cost. La questione e’ pertanto inammissibile per
carente motivazione sulla non manifesta infondatezza.
7. – Non ha maggior pregio la questione costruita sulla presunta
arbitrarieta’ della depenalizzazione sotto il profilo intertemporale,
giacche’, ad avviso del rimettente, i comportamenti anteriori
all’entrata in vigore della norma depenalizzatrice sarebbero
sottoposti al rigore della norma penale, mentre quelli successivi
sarebbero assoggettati soltanto alla sanzione amministrativa.
L’affermazione del rimettente prova troppo. Difatti, se il
ragionamento potesse avere ingresso nella considerazione del giudice
costituzionale, tutte le norme di depenalizzazione sarebbero
illegittime, giacche’ vi e’ pur sempre un termine temporale della
loro entrata in vigore. A cio’ si deve aggiungere che l’effetto
discriminatorio prospettato dal giudice a quo non potrebbe
verificarsi, in ragione dell’art. 2 cod. pen., del quale non si tiene
alcun conto nell’ordinanza di rimessione. La questione pertanto
difetta palesemente di rilevanza sotto il suddetto profilo ed e’ di
conseguenza inammissibile.
8. – Infine, come gia’ rilevato al par. 4, la legge non distingue
tra utilizzazioni industriali, agricole o di altro tipo, ma soltanto
tra usi domestici e altri usi. Non e’ ipotizzabile pertanto, al
contrario di quanto asserito dal rimettente, una discriminazione tra
gli usi industriali e gli altri usi possibili, che possono essere di
vario genere e sono tutti assoggettabili, in caso di trasgressione
delle norme amministrative, al medesimo regime sanzionatorio. La
questione e’ quindi inammissibile per erronea ricostruzione del
quadro normativo.

Per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE

Dichiara inammissibili le questioni di legittimita’
costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11
maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque
dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE
concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della
direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque
dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti
agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18
agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del
decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela
delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4,
della legge 24 aprile 1998, n. 128), che sostituisce l’art. 17 del
regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle
disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), sollevate,
in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di
Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, con l’ordinanza indicata
in epigrafe.
Cosi’ deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

Il Presidente: Amirante

Il redattore: Silvestri

Il cancelliere: Di Paola

Depositata in cancelleria il 22 luglio 2010.

Il direttore della cancelleria: Di Paola

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

Fonte: http://www.gazzettaufficiale.it/

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