Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 09-03-2011) 18-04-2011, n. 15556 Cognizione del giudice d’appello reformatio in peius

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

B.F. è stato condannato con rito abbreviato dal gup del tribunale di Roma per il delitto di cui all’art. 481 c.p., per avere, quale esercente la professione forense, falsamente attestato che la firma apposta in calce alla procura speciale del 26.4.05 era stata vergata da P.D..

La Corte d’appello, previa rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, riformava le statuizioni civili, limitando il risarcimento al danno morale.

Ricorrono i difensori.

Con un primo ricorso si lamenta la violazione dell’art. 521 c.p.p., poichè a fronte della contestazione originaria, che vedeva il B. autore materiale del falso, lo stesso è stato condannato come concorrente morale.

Si deduce poi il vizio di motivazione circa il movente, poichè la p.l., soccombente in un giudizio, era risultata vittoriosa in altri, grazie al patrocinio dell’imputato.

Si tratterebbe di falso innocuo, poichè alcun danno è stato recato alla P..

Con altro ricorso si deduce la nullità del primo giudizio, poichè malgrado l’elezione di domicilio effettuata presso il difensore avv.ta Greco, la notifica per l’udienza preliminare era stata eseguita ad altro recapito.

Si denuncia pure la violazione dell’art. 597 c.p.p., a causa della modifica del fatto ritenuto in sentenza rispetto a quello contestato;

si deduce il vizio di motivazione quanto al movente.

Le doglianze non possono essere condivise.

Va disattesa l’eccezione di nullità, sia per la sua genericità, non essendo stato indicato l’atto recante l’elezione di domicilio, onde possa verificarsene la validità, sia perchè trattandosi di nullità a regime intermedio (v. S.U. 27.10.04, n. 24, Palumbo), andava dedotta e rilevata nei termini stabiliti dall’art. 180 c.p.p., u.p..

Quanto alla modifica del fatto a seguito della perizia grafologica, va osservato che la disposta rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale non risponde ai canoni dell’ortodossia processuale.

L’obbligo di procedere alla rinnovazione del dibattimento sussiste solo nel caso di prova sopravvenuta o scoperta successivamente alla pronuncia di primo grado: non può, a tal fine, definirsi nuova una prova che tenda solo a dare una diversa prospettazione valutativa del fatto, o che manchi, del requisito della decisività.

Nè può tacersi che la specialità del rito a prova "contratta" induceva la Corte di merito a particolare cautela.

In ogni caso, la corte romana ha tratto le dovute conseguenze dall’esito della perizia disposta. Ed infatti, avendo il grafologo concluso nel senso che le sottoscrizioni " P." e " B." non potevano ricondursi al grafismo delle opposte parti e considerato che l’atto di autentica recante la firma del legale oggi imputato proveniva dal suo studio professionale, la corte stessa ha rettamente stabilito che il B., anzichè autore materiale, vada considerato come istigatore del soggetto (ignoto) autore del falso.

Orbene, pacifico è in giurisprudenza che non sia ravvisabile in un’ipotesi siffatta alcuna violazione del principio di cui all’art. 521 c.p.p., atteso che la modifica in questione (da autore materiale a concorrente morale) non comporta trasformazione essenziale del fatto addebitato, nè può provocare menomazione del diritto di difesa, poichè l’accusa non viene strutturalmente immutata. Il fatto concorsuale ritenuto in sentenza, invero, si pone in rapporto di continenza e non di eterogeneità rispetto a quello contestato.

Basti considerare quanto argomentato dalla Corte di merito al riguardo: "E’ da ritenere che la falsa attestazione di autenticità, pur se non materialmente compilata dall’avv. B., al fine di garantirsi l’impunità, è tuttavia a lui riferibile per esserne stato l’ideatore ed il determinatore, sia nella parte di pertinenza della P. … sia nella parte di certificazione dell’autenticità della firma" della stessa.

Nè vi è stata violazione del principio di cui all’art. 597 c.p.p., dal momento che l’imputazione concorsuale non aggrava la posizione dell’imputato rispetto a quella monosoggettiva originaria.

Va considerato, piuttosto, che all’imputato avrebbe dovuto essere contestato anche il reato di cui all’art. 485 c.p., essendo egli il determinatore anche della falsa firma della cliente.

La falsa sottoscrizione di una procura "ad litem" a la falsa attestazione dell’autenticità di detta sottoscrizione, indatti, comportano, a carico del difensore che se ne sia reso autore, la configurabilità di entrambi i reati ipotizzati dagli artt. 485 e 481 c.p..

Quanto al falso innocui, l’assunto viene enunciato in riferimento alla natura plurioffensiva dei reati di falso, nel presupposto che la P. non abbia subito alcun danno economico.

Ma la plurioffensività non può essere intesa come lesione di un interesse diverso ed ulteriore rispetto alla pubblica fede, necessaria ad integrare l’illecito.

Con pronuncia 25 ottobre 2007, n. 46982, ric. Pasquini, le S.U. di questa Corte hanno deciso che i delitti contro la fede pubblica tutelano direttamente non solo l’interesse pubblico alla genuinità e alla veridicità ideologica di determinati atti, ma anche quello del soggetto privato sulla cui sfera giuridica l’atto sia destinato concretamente a incidere, con la conseguenza che egli, in tal caso, riveste la qualità di p.o. dal reato e, in quanto tale, è legittimato a proporre opposizione alla richiesta di archiviazione (rv. 237855).

Prima di tale decisione giurisprudenza e dottrina ravvisavano come p.o., e dunque titolare del bene giuridico tutelato, la collettività, mediante l’ipostatizzazione di un numero non definibile di consociati. Oggi si riconosce che soggetto passivo può essere anche la singola persona nella cui posizione giuridica l’atto incide, ossia il soggetto di cui venga lesa una specifica situazione probatoria.

I punti di emersione di interessi sottostanti od orbitanti intorno alla fede pubblica sarebbero costituiti dal cd. falso innocui e dalla perseguibilità a querela di alcuni falsi in scrittura privata.

Ma l’individuazione del falso innocuo postula, accanto all’offesa "alla fiducia che la collettività ripone nella genuinità ed autenticità di atti e documenti di rilevanza pubblica, anche una ulteriore e potenziale attitudine lesiva che può concretizzarsi nei confronti di una determinata situazione giuridica".

Con il che da un canto si riconosce che il carattere di plurioffensività è eventuale e non necessario, dall’altro che l’ulteriore interesse offeso è strettamente connesso (e dunque non "altro") con la specifica situazione probatoria di cui un determinato soggetto è titolare.

Non v’è dubbio, poi, che l’art. 493 bis c.p. che contempla la punibilità a querela di numerose ipotesi di falsità materiali commesse da privati, denota l’intento del legislatore di subordinare la punibilità del reato alle posizioni giuridiche soggettive implicate.

E tuttavia non si deve confondere la ratio della incriminazione (che attinge il bene giuridico oggetto di tutela) con la ratio della punibilità, che ne costituisce un posterius.

Non è agevolmente condivisibile, infine, l’esito interpretativo che pare emergere dal percorso argomentativo della citata pronuncia delle Sezioni Unite, ove sembra postulata la sovrapponibilità delle fattispecie di falso in atto pubblico a quelle di falso in scrittura privata. In queste ultime la natura plurioffensiva traspare dal fine di vantaggio o di danno che l’agente si propone e il reato si configura a prescindere dal conseguimento di esso.

Diverso è il caso degli atti pubblici e di quelli posti in essere – come nella specie – da persone esercenti un servizio di pubblica necessità, per la funzione fidefaciente che gli stessi sono chiamati a svolgere.

Nessuna rilevanza ha il movente che ispirò la condotta del B., così come non rileva la mancanza ai danni di natura economia per la p.o.. Mette conto evidenziare, invece, il vulnus recato dall’imputato alla P., che intendeva conferire il mancato alla lite ad altro professionista, ritenendo (a torto o a ragione, non importa) di non essere stata adeguatamente tutelata da ultimo dal prevenuto).

Il ricorso proposto va, pertanto, rigettato, con la condanna del ricorrente alle spese processuali ed a quelle sostenute dalla parte civile, liquidate in complessivi Euro 1.463 per onorari, oltre accessori, come per legge.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonchè di quelle sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in Euro 1.463 per onorari, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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