Cass. pen., Sez. I, Sentenza 27 Luglio 2010, n. 29376 Omicidio Si difende ma poi uccide l’aggressore: non è preterintenzionale ma volontario

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

Svolgimento del processo

1. – Con sentenza in data 19 ottobre 2009, depositata in cancelleria il 30 novembre 2009, la Corte di Assise di Appello di Catania, in parziale riforma della sentenza 10 ottobre 2008 della Corte di Assise di Siracusa, ritenute le già applicate attenuanti generiche ex art. 62 bis c.p. prevalenti sulle contestate aggravanti di cui all’art. 577 comma primo n. 4 c.p.p. e sulla recidiva specifica infraquinquennale, riduceva la pena inflitta ad A. A., imputato del reato di omicidio volontario e di porto senza giustificato motivo di un coltello, ad anni diciassette di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile.
1.1. – Secondo la ricostruzione del fatto operata nella sentenza gravata A. A., nel corso di un alterco con R. G., scoppiato all’interno di un autobus, ne cagionava la morte attingendolo all’emitorace sinistro con un coltello della lunghezza di cm. 19 di cui cm. 10 di lama.
1.2. – Il giudice di merito richiamava, onde pervenire alla formulazione del giudizio di responsabilità, il dato probatorio consistito dalle dichiarazioni dei testimoni escussi, dalle dichiarazioni dello stesso imputato e dagli accertamenti tecnici disposti, in specie la perizia autoptica e quella medico-psichiatrica sulla capacità di intendere e di volere dell’A..
2. – Avverso tale decisione, tramite il proprio difensore avv. F. G., ha interposto tempestivo ricorso per cassazione A. A. chiedendone l’annullamento per i seguenti profili:
– la Corte territoriale aveva errato nel non qualificare il fatto di omicidio volontario come omicidio preterintenzionale così come sussumibile dalla testimonianza B. da cui risultava che l’A. era stato fatto oggetto non solo di insulti e derisione, ma anche di una violenta aggressione fisica da parte della vittima sicché doveva ritenersi che il colpo inferto dal ricorrente, ancorché esiziale, fosse stato vibrato per mera difesa e non per volontà di uccidere. Se l’A. avesse voluto effettivamente uccidere il G. non lo avrebbe fatto uscire dall’autobus, ma avrebbe continuato a infierire su di lui. Inoltre l’A. era meritevole del riconoscimento dello stato di semi infermità attese le conclusioni della perizia Bruno, di cui è stata chiesta la rinnovazione, e la contraddittorietà sul punto della motivazione della sentenza della Corte territoriale.

Motivi della decisione

3. – Il ricorso è destituito di fondamento e va rigettato.
3.1. – Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che il criterio distintivo tra l’omicidio volontario e l’omicidio preterintenzionale deve essere individuato nella diversità dell’elemento psicologico che, nel secondo reato, consiste nella volontarietà delle percosse e delle lesioni alle quali consegue la morte dell’aggredito come evento non voluto neppure nella forma eventuale ed indiretta della previsione e dell’accettazione del rischio della morte del soggetto passivo (Cass., Sez. 1, 20 novembre 1995, Flore; Cass., Sez. 1, 25 novembre 1994, P.M. in proc. Piscopo; Cass., Sez. 1, 3 marzo 1994, Mannarino; Cass., Sez. 1, 14 dicembre 1992, Di Grande ed altri). In altri termini, il tratto saliente e peculiare del delitto ex art. 584 c.p. risiede nel fatto che l’elemento psicologico consiste nell’avere voluto l’evento minore (percosse o lesioni) e non anche l’evento più grave (morte), che, pur non essendo voluto, rappresenta il risultato dello sviluppo causale insito nell’azione lesiva dell’altrui incolumità personale, conformemente all’espressa definizione contenuta nell’art. 43, comma primo c.p. secondo cui il delitto è preterintenzionale, o oltre la intenzione, quando dall’azione od omissione deriva un evento dannoso o pericoloso più grave di quello voluto dall’agente.
Anche se riemerge talora in alcune pronunce l’antica teoria che configura la preterintenzione come dolo misto a colpa (cfr. Cass., Sez. 5, 11 dicembre 1992, P.M. in proc. Bonalda), la recente giurisprudenza di questa Corte è largamente prevalente nel senso che la struttura dell’omicidio preterintenzionale è connotata da una condotta dolosa, avente ad oggetto il compimento di atti diretti a percuotere o a ferire, e da un evento più grave non voluto (ossia la morte del soggetto passivo), legato eziologicamente, in progressione causale, all’azione lesiva dell’incolumità personale (Cass., Sez. 1, 16 giugno 1998, Gavagnin) mentre nell’omicidio volontario la volontà dell’agente è costituita dall’animus necandi, ossia dal dolo intenzionale, nelle gradazioni del dolo diretto o eventuale, il cui accertamento è rimesso alla valutazione rigorosa di elementi oggettivi, desunti dalle concrete modalità della condotta: il tipo e la micidialità dell’arma, la reiterazione e la direzione dei colpi, la distanza tra aggressore e vittima, la parte vitale del corpo presa di mira e quella concretamente attinta (Sez. 1, 21 giugno 2001, sent. n. 25239, Milic, rv. 219433). L’analisi ricostruttiva della situazione fattuale è stata condotta dalla Corte di secondo grado in sostanziale consonanza con i principi testé esposti, di talché si sottrae a censure l’operazione di qualificazione giuridica del fatto col nomen iuris dell’omicidio preterintenzionale. Nella sentenza impugnata è stata correttamente ricondotta l’azione dell’A. nella figura nell’omicidio volontario stante la consapevole volontà di procurare ad altri, con la propria condotta, non un’alterazione anatomica o funzionale classificabile come malattia nel corpo o nella mente (lesione personale), bensì quella di sopprimere l’altrui vita. La sentenza gravata è stata rispettosa di questi principi avendo vagliato, con motivazione ineccepibile sia dal punto di vista logico che giuridico, la sussistenza dell’elemento soggettivo del delitto di omicidio volontario. L’A. ha per vero usato un’arma ‘potenzialmente letale’ per lunghezza e affilatezza dell’arma e ha scelto un distretto corporeo per infliggere la coltellata, di per sé sede di organi vitali, con dolo diretto o quantomeno eventuale.
3.2. – L’assunto difensivo che inferisce dallo stato di sopraffazione dell’A. la volontà di meramente ferire il proprio aggressore non è dirimente posto che l’azione difensiva non esclude di per sé una volontà dell’aggredito di soverchiare il proprio aggressore. In altre parole ben può volersi uccidere difendendosi. La sollecitazione difensiva sul punto è meramente rivalutativa del fatto e in particolare della testimonianza della B. e mira ad accreditare una versione diversa da quella argomentata e logica del giudice di merito.
3.3. – Del tutto congetturale è anche l’assunto secondo cui se l’A. avesse voluto effettivamente uccidere il G. non lo avrebbe fatto uscire dall’autobus, ma avrebbe continuato a infierire su di lui. Possono essere infatti diverse le motivazioni che possono aver indotto l’imputato a non proseguire nella sua attività lesiva (e nessuna di esse può avere a che fare con la sua volontà di solo ledere), una delle quali ben può essere quella, implicitamente considerata dal giudice di merito, di aver ritenuto che la propria azione, per le modalità espletative adoperate e lo strumento utilizzato, fosse stata di per sé sufficiente a rendere definitivamente inoffensivo il proprio avversario, con raggiungimento conseguente della consapevolezza di averlo eliminato. È ben vero che il fendente nella fattispecie non era stato tale da abbattere d’un sol colpo la vittima (Cass., Sez. 1, 7 dicembre 1987, n. 5274, rv. 178273, Pesenti) ma è anche certo che l’agente era stato in grado di rendersi fin da subito conto della esizialità del colpo inferto, tale, in altri termini, da non lasciare scampo alla propria vittima, così come poi accaduto. Occorre inoltre considerare che la volontà omicida può ritenersi presente ai fini integrativi del reato quando espressa nel segmento di condotta che realizza già di per sé la fattispecie incriminatrice; non deve per vero necessariamente essere presa in considerazione la reiterazione dell’azione delittuosa al fine di valutare se il segmento iniziale della condotta sia di per sé idoneo e inequivoco a cagionare l’altrui morte quando autonomamente sono compresenti tutti gli elementi costitutivi del delitto, reiterazione che comunque resta giuridicamente apprezzabile anche sotto il profilo dell’intensità del dolo espresso. Né può ritenersi che la volontà preterintenzionale possa dedursi, così come fa il ricorrente, dalla pregiudicata condizione mentale del soggetto, posto che un eventuale deficit intellettivo non incide sulla direzione del dolo, ma sulla consapevolezza del fatto.
3.4. – Nessuna contraddizione è poi rinvenibile nella motivazione della sentenza gravata in relazione al diniego della attenuante di cui all’art. 89 c.p. Premesso che per aversi vizio di mente è sufficiente la parziale riduzione anche solo di una delle due funzioni intellettive fondamentali (capacità di intendere e di volere) e che l’unica condizione idonea ad interferire su tale capacità è l’infermità mentale (in una accezione più ampia di quella di malattia, comprendendo infatti sia le vere e proprie malattie mentali che qualsiasi altra manifestazione patologica in grado di interferire sul libero arbitrio), deve osservarsi che il giudice del merito ha correttamente ritenuto che la valutazione espressa nell’accertamento tecnico all’uopo disposto (di per sé esaustivo e completo, ha ritenuto la Corte territoriale) fosse del tutto esplicita nell’aver ritenuto non raggiunto nella fattispecie quel livello di apprezzabilità voluta dalla legge per ritenere applicabile l’attenuante invocata.
Per il tenore stesso del sintagma usato dal legislatore (grandemente scemata), in correlazione con la ratio della norma che correla una minor pena al riconoscimento di una soglia importante e significativa di incapacità del soggetto agente, detto livello non può reputarsi raggiunto – al di là del dato meramente quantitativo stimato dal perito di ufficio nel 40% di infermità sulla totalità della capacità intellettiva – se non in presenza di una compromissione anche qualitativamente preponderante dell’intelletto (condizione non verificatasi nella fattispecie), che si configuri in altre parole un deficit tale che si possa concludere che il soggetto agente abbia conservato solo una minima capacità di rendersi conto del valore dei propri atti, di comprenderne i motivi e di valutarne portata e conseguenze oltre che di liberamente autodeterminarsi, sempre che sia stata raggiunta altresì la dimostrazione probatoria che il reato commesso sia ‘sintomo’ della infermità di mente rilevata. E la sentenza gravata analizza l’accertamento Bruno alla luce di detti principi concludendo in modo esaustivo e coerente per la non ravvisabilità dell’attenuante detta.
3.4.1. – Deve inoltre rilevarsi, in tema di richiesta di rinnovazione dell’istruttoria, nella verifica della consistenza dei rilievi critici mossi dal ricorrente, che la sentenza della Corte territoriale non può essere valutata isolatamente, ma deve essere esaminata in stretta ed essenziale correlazione con la sentenza di primo grado, sviluppandosi entrambe secondo linee logiche e giuridiche pienamente concordanti, di talché – sulla base di un consolidato indirizzo della giurisprudenza di questa Corte – deve ritenersi che la motivazione della prima si saldi con quella della seconda fino a formare un solo complessivo corpo argomentativo e un tutto unico e inscindibile (cfr. Cass., Sez. Un., 4 febbraio 1992, Ballan ed altri e, da ultimo, Sez. 1, 21 marzo 1997, G. ed altri; Sez. 1, 4 aprile 1997, Proietti ed altri).
3.5. – Da respingersi è altresì la censura che attiene alla mancata assunzione di una prova decisiva. Occorre preliminarmente ribadire che la perizia non può affatto rientrare nel concetto di prova decisiva ai sensi e per gli effetti dell’art. 606 comma primo, lett. d) c.p.p., stante il suo carattere, per così dire, ‘neutro’, sottratto alla disponibilità delle parti e sostanzialmente rimesso alla discrezionalità del giudice. L’accertamento tecnico, in altri termini, proprio per tale rilevato carattere (né a favore, né contro l’imputato) è sottratta al potere dispositivo delle parti, che possono attuare il diritto alla prova, laddove lo ritengano, anche attraverso proprie consulenze. La sua assunzione è pertanto rimessa al potere discrezionale del giudice e non è riconducibile al concetto di prova decisiva, con la conseguenza che il relativo diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 comma primo, lett. d) c.p.p., e, in quanto giudizio di fatto, se assistito da adeguata motivazione, è insindacabile in sede di legittimità anche ai sensi dello stesso art. 606 lett. e) cp.p., (v., ex pluribus, Cass., Sez. 4, 3 maggio 2005, Candelora ed altro). In questa prospettiva, la mancata rinnovazione dell’accertamento psichiatrico non può essere dedotta con la censura in esame. Ciò che è deducibile in questa sede è semmai il vizio di motivazione ove il giudice di merito abbia fondato la ricostruzione dei fatti su indimostrate affermazioni o su pareri tecnici legalmente acquisiti al processo ma non valutati criticamente, censura che appare mancante o tutt’al più è generica.
3.5.1. – Il giudice del merito, per contro, ha dato piena contezza, come si è già ribadito, delle ragioni per le quali non ha ritenuto che l’A. si trovasse nelle condizioni anche solo di scemata capacità di intendere e di volere. Ha per questo richiamato le risultanze di cui all’accertamento psichiatrico di ufficio senza che l’imputato sollevasse del resto seri elementi che potessero porre in dubbio le conclusioni peritali. Le argomentazioni difensive si profilano dunque deboli e inconsistenti, finendo con l’ammettere che ciò che una eventuale perizia psichiatrica dovrebbe poter fugare altro non è se non un dubbio interpretativo della sola difesa e che avrebbe potuto essere sciolto, in carenza di una validazione da parte della Autorità giudiziaria procedente alla avanzata richiesta di rinnovazione, anche con una propria consulenza tecnica venuta invece a mancare.
4. – Al rigetto del ricorso consegue di diritto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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