Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 01-03-2011) 18-04-2011, n. 15571 Casistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

he ha concluso chiedendo che il ricorso sia rigettato.
Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 22 dicembre 2009, la Corte di appello di Trieste confermava la sentenza del Tribunale di Udine che aveva dichiarato M.V. responsabile dei reati a lui ascritti e che, riconosciute le attenuanti generiche ed unificati i fatti nel vincolo della continuazione, lo aveva condannato alla pena di anni uno e mesi 10 di reclusione, con i benefici di legge.

L’imputato era chiamato a rispondere del reato di falsità materiale continuata in atto pubblico commessa dal privato ( art. 81 c.p., comma 2, artt. 476 e 482 c.p.), per aver contraffatto venticinque modelli F24, attestanti falsamente l’avvenuto versamento di imposte dovute all’erario presso l’Istituto di credito Banca di Credito Cooperativo della Bassa Friulana, Filiale di (OMISSIS) (capo 1); del reato di falsità ideologica in atto pubblico commessa dal privato ( art. 483 c.p.), per aver falsamente dichiarato nella auto-certificazione presentata alla Agenzia delle Entrate di Udine fatti non corrispondenti al vero, ovvero che i pagamenti relativi ai modelli F24 erano stati effettivamente eseguiti alle date precisate presso gli uffici della suddetta banca (capo 2); del reato di calunnia, per avere, con atto di querela presentata ai Carabinieri, incolpato, sapendolo innocente, il legale rappresentante della suddetta banca o altro personale dell’istituto di credito non indicato, ma facilmente identificabile, riferendo, contrariamente al vero, di aver regolarmente provveduto presso la detta banca ai pagamenti delle imposte, documentati dai modelli F24 contraffatti (capo 3).

Era emerso durante un controllo fiscale il mancato versamento da parte del M. delle imposte per i redditi dichiarati. Costui, alle richieste di chiarimento dell’Agenzia delle Entrate, aveva documentato il pagamento – a suo dire effettuato in contanti presso la propria banca – con l’esibizione dei modelli F24 attestanti il versamento presso l’istituto di credito e con un’auto-certificazione.

A seguito degli accertamenti con esito negativo compiuti dall’amministrazione presso la suddetta banca, il M. presentava una querela con la quale denunciava l’appropriazione indebita delle somme da lui regolarmente versate.

I giudici di merito ritenevano provata la penale responsabilità dell’imputato in ordine a tutti i reati a lui ascritti, sulla base degli accertamenti tecnici e peritali condotti sui modelli F24, che risultavano timbrati con impronte non in uso all’istituto di credito e firmati con sigle non corrispondenti a nessuno dei suoi dipendenti.

Inoltre, la maggior parte dei modelli F24 in sequestro era risultato essere l’esemplare trattenuto dalla banca concessionaria, anzichè – come di norma – quello rilasciato al cliente-contribuente. Dalle indagini contabili effettuate presso la stessa banca non era risultato inoltre alcun versamento nelle date e per gli importi riportati sui modelli F24 in questione.

La Corte di merito aveva ritenuto priva di fondatezza la tesi difensiva volta a sostenere che il denaro fosse stato effettivamente consegnato dal M. alla banca e poi distratto dal cassiere.

Evidenziava a tal fine che l’impronta impressa sui modelli F24 in questione non solo non era risultata in uso alla banca, ma conteneva anomalie ("Banca di credito") tali da risultar evidente la contraffazione dei timbri. Era stato inoltre accertato che la banca non accettava pagamenti "fiduciari per contanti" – come prospettato dal M., che era risultato tra l’altro avere non infrequenti problemi di liquidità tanto da essere considerato cliente non affidabile in termini di solvibilità; e che tutti i versamenti, accettati dalla banca concessionaria per gli anni 1999-2003 ed effettuati a mezzo di conto corrente, erano stati regolarmente riscontrati dall’Agenzia delle entrate. Considerato che nessun caso analogo o assimilabile era stato rilevato dalla banca, ai giudici di merito era apparsa del tutto inverosimile la tesi sostenuta dalla difesa, che implicava che uno o più cassieri della banca avessero "taroccato" i timbri della banca, appropriandosi solo e soltanto dei denari del M., intascandosi tra l’altro i minori importi di plurimi versamenti effettuati da costui nella stessa giornata, anzichè, minimizzando i rischi, i pochi versamenti di maggior importo.

2. Avverso la suddetta sentenza propone ricorso per cassazione personalmente l’imputato, con cui denuncia:

– la inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale, in ordine alla configurabilità del reato di cui all’art. 476 c.p., in quanto i modelli F24 non sarebbero qualificabili come atti pubblici, bensì come attestati dell’atto di versamento dell’imposta, aventi la funzione di quietanza di pagamento con effetto liberatorio. Pertanto, la materiale falsificazione del modello F24 verrebbe ad integrare l’ipotesi delittuosa prevista dall’art. 478 c.p., comma 3.

– la inosservanza o l’erronea applicazione della legge penale, in relazione al mancato riconoscimento del concorso formale ex art. 81 c.p. tra i due reati di falso, in quanto entrambi sarebbero stati realizzati mediante un’unica azione, atteso che, nel momento stesso in cui venivano contraffatti i documenti, mediante l’apposizione dei timbri e delle firme false, veniva a realizzarsi anche la fattispecie del falso ideologico, considerato che il contenuto non veritiero del modello si formava e si manifestava di pari passo con la falsità materiale.

– l’erronea applicazione della legge penale, in ordine al reato di calunnia, attesa l’irrilevanza penale della condotta tenuta dal sottoscritto, in quanto con la denuncia non avrebbe individuato nominativamente la persona responsabile e, pertanto, non si sarebbe concretizzato il pericolo che venisse instaurato un processo a carico di qualcuno. In ogni caso, la condotta risulterebbe scriminata ex art. 54 c.p., poichè l’imputato si sarebbe determinato a proporre la denuncia esclusivamente, perchè costretto dalla necessità di non vedersi imputato in un procedimento penale.

– la mancata assunzione di una prova decisiva, in relazione alla richiesta di disporre una perizia calligrafica al fine di stabilire l’attribuibilità delle sigle apposte in calce ai documenti, di cui è stata contestata l’autenticità.

– la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, non essendo chiara ed esauriente nell’esporre in base a quali elementi è stata fondata la colpevolezza dell’imputato.
Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile, in ogni sua articolazione.

2. La questione della qualificazione giuridica degli attestati di versamento, rilasciati al cliente dalle banche delegate per la riscossione delle imposte (i c.d. modelli F24) appare ininfluente, posto che la Corte di merito ha stabilito che la falsità aveva avuto ad oggetto per la maggior parte l’originale che doveva essere in possesso della banca.

In ogni caso, il solo precedente evocato dal ricorrente (Sez. 5, n. 36687 del 13/06/2008, dep. 24/09/2008, Di Pasquale, Rv. 241427), secondo il quale la ricevuta di versamento tributari è un "attestato del contenuto di atti", la cui falsità è punita dall’art. 478 c.p., non vale ad incrinare, nè a scalfire il consolidato e compatto orientamento interpretativo di segno opposto, in base al quale la falsificazione di detti atti integra il reato di falsità materiale in atto pubblico, di cui agli artt. 476 e 482 c.p. (tra le tante, Sez. n. 6401 del 14/03/1990, dep. 03/05/1990, Bordoni, Rv. 184227;

Sez. 5, n. 5584 del 10/11/1999, dep. 12/05/2000, Cerretti, Rv.

216110; Sez. 5, n. 2569 del 24/11/2003, dep. 26/01/2004, Canese, Rv.

227779; Sez. 5, n. 11804 del 22/10/2003, dep. 11/03/2004, Virgulti, Rv. 228740). Si tratta invero di documenti che, rilasciati dalla banca concessionaria, attestano, con efficacia probatoria, la ricezione dell’ordine di pagare l’imposta ed il versamento delle somme da corrispondere al fisco per il tramite dell’istituto bancario.

La normativa di settore prevede in particolare che il modello di versamento "F24" è predisposto in tre esemplari: i primi due sono trattenuti dalla banca concessionaria ed il terzo è rilasciato al contribuente. La banca delegata, all’atto del versamento, rilascia al contribuente il terzo esemplare del modello riportante "l’attestazione di avvenuto pagamento" o, in caso di saldo finale uguale a zero, l’attestazione di avvenuta presentazione del modello (cfr. D.Lgs. n. 241 del 1997, artt. 2 e 19; D.M. Finanze del 30 marzo 1998).

Non v’è dubbio, dunque, che si tratti di un atto pubblico di fede privilegiata per ciò che attiene alla provenienza del documento ed ai fatti che il dipendente della banca delegata attesta essere stati da lui compiuti o essere avvenuti in sua presenza (per un’analoga fattispecie, in tema di alterazione del bollettino di versamento in conto corrente postale, tra le tante, Sez. 5, n. 27617 del 26/05/2010, dep. 15/07/2010, Basile, Rv. 248122; Sez. U, n. 8435 del 07/07/1984, dep. 11/10/1984, Baldaccini, Rv. 166043).

2. Inammissibile, perchè manifestamente infondato, è parimenti il secondo motivo, con cui si denuncia il mancato riconoscimento del concorso formale, ex art. 81 c.p., tra i reati di falso di cui ai capi 1) e 2).

La falsità ideologica di cui al capo 2) (presentazione di un’auto- certificazione concernente l’avvenuto pagamento delle imposte) è all’evidenza consistita in un’azione ben diversa da quella relativa alla falsità materiale contestata nel capo 1), di cui si è trattato nel precedente paragrafo.

In ogni caso, la doglianza difensiva appare priva di interesse. Il ricorrente, invocando l’applicazione della disciplina del concorso formale, chiede in definitiva che la pena sia conseguentemente quantificata in base alle "modalità prescritte dall’art. 81 c.p." ed i giudici di merito, ravvisando la continuazione dei reati contestati, hanno appunto quantificato la pena proprio in base a tali modalità. 3. Del tutto privo di fondamento giuridico è il terzo motivo, con cui il ricorrente sostiene, quanto al reato di calunnia, l’irrilevanza penale della condotta.

E’ principio pacifico che l’incolpazione implicita integra il delitto di calunnia allorchè dal suo tenore e dal contesto delle circostanze in cui viene formulata emerga la volontaria attribuzione di un fatto costituente reato a carico di persona che si sa innocente, che sebbene non indicata nella sua precisa individuazione sia peraltro determinabile sulla base degli elementi contenuti nella dichiarazione accusatoria o a questa agevolmente riferibili (Sez. 6, n. 1743 del 30/10/1991, dep. 18/02/1992, Piccin, Rv. 189763; Sez. 6, n. 4068 del 29/01/1999, dep. 30/03/1999, Gioviale, Rv. 214149; Sez. 6, n. 4537 del 09/01/2009, dep. 03/02/2009, Sileoni, Rv. 242819). Nel caso in esame, la falsa incolpazione conteneva in sè gli elementi necessari e sufficienti all’inizio dell’azione penale nei confronti di soggetti agevolmente identificabili.

Nè è invocabile la scriminante dello stato di necessità, che presuppone che il pericolo non sia stato volontariamente causato dall’agente, mentre nella specie la prospettata situazione di pericolo è derivata dalla scelta dell’imputato di compiere i reati di falso ed è quindi riconducibile alla sua stessa condotta illecita.

4. E’ principio consolidato, che questo Collegio condivide, che la perizia, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva. Ne consegue che il relativo provvedimento di diniego non è sanzionabile ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), in quanto giudizio di fatto che, se sorretto da adeguata motivazione, è insindacabile in cassazione.

In relazione alla richiesta di disporre una perizia calligrafica al fine di stabilire l’attribuibilità delle sigle apposte in calce ai documenti, la Corte triestina ha motivato la sua decisione di non rinnovare l’istruzione dibattimentale, sul rilevo della non necessità di un ulteriore approfondimento, sulla plausibile evenienza che l’autore del falso mai avrebbe utilizzato la propria sigla.

5. Del tutto generico appare infine l’ultimo motivo, con cui si denuncia la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione, in relazione alla ritenuta colpevolezza dell’imputato.

Il controllo di legittimità sulla motivazione non concerne nè la ricostruzione dei fatti nè l’apprezzamento del giudice di merito, ma è circoscritto alla verifica che il testo dell’atto impugnato risponda a due requisiti che lo rendono insindacabile, cioè l’esposizione delle ragioni giuridicamente significative che lo hanno determinato e l’assenza di difetto o contraddittorietà della motivazione o di illogicità evidenti (cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi), ossia la congruenza delle argomentazioni rispetto al fine giustificativo del provvedimento.

La sentenza impugnata ha invero fondato il suo convincimento su un solido quadro probatorio, come esposto in premessa, privo di illogicità manifeste.

6. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna dei ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e di una somma in favore della Cassa delle ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 1.000,00.

Inoltre, il ricorrente è tenuto alla refusione delle spese sostenute dalla parte civile, che si liquidano come indicato in dispositivo.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle ammende. Condanna inoltre il ricorrente alla rifusione delle spese, che liquida nella somma di Euro 3.000 oltre accessori in favore della parte civile "Banca di Credito Cooperativo della Bassa Friulana".

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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