Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 21-01-2011) 19-04-2011, n. 15583 Competenza per territorio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. IL FATTO. Il presente procedimento – instaurato a seguito delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Palermo in merito alle dichiarazioni rese, a decorrere dal mese di giugno 2002, dal collaboratore Gi.An., capo mandamento di Caccamo e componente effettivo della Commissione Provinciale di Cosa Nostra, arrestato il precedente 16 aprile 2002 – riguarda fatti attinenti:

a) Innanzitutto, a plurimi episodi di propalazioni di notizie riservate in merito alle indagini dirette alla cattura dei due più importanti esponenti dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, Pr.Be. e M.D.M., che hanno coinvolto sia infedeli servitori dello Stato appartenenti all’arma dei CC, (in particolar modo al Raggruppamento Operativo Speciale:

mar. Bo.An. e R.G.), alla guardia di finanza (mar. Ci.Gi. in servizio presso il centro operativo D.I.A. e distaccato presso la D.D.A. della Procura della Repubblica di Palermo), alla polizia di Stato (vicequestore V. G.) e alla polizia municipale ( B.G.A., in servizio presso gli uffici della Procura della Repubblica di Palermo), sia esponenti politici ( Cu.Sa., governatore della Regione Siciliana), sia associati mafiosi (quali i medici Mi.Mi., Ar.Sa. e Gu.Gi., quest’ultimo al vertice del mandamento mafioso di Brancaccio e Gr.Vi., cognato del Gu.Gi.);

b) Successivamente, ad indagini concernenti la posizione dell’imprenditore A.M. sia con riferimento alla sua partecipazione all’associazione mafiosa e, unitamente al medico Ca.Al., cognato e socio, e al dipendente R. R., a rapporti con gli infedeli servitori dello Stato sia con riferimento a fatti-reato commessi con danno per la sanità siciliana per decine di miliardi di lire per avere l’ A. ottenuto, quale proprietario di due società esercenti in Bagheria terapia radio- oncologica di alta tecnologia, rimborsi non dovuti, indagini che hanno coinvolto anche funzionari e impiegati dell’A.U.S.L di Palermo ( I.L., G.M., P.S., L.B.A. e il marito di quest’ultima l’imprenditore Ca.An.).

2. LE CONTESTAZIONI. Nei confronti dei prevenuti Bo.An., C. G., Mi.Do., Gr.Vi. e G. G., si procedeva separatamente, e gli stessi venivano giudicati in procedimenti paralleli con esiti di cui si dirà in seguito, mentre i sottoelencati imputati venivano tratti in giudizio nel presente procedimento per rispondere dei seguenti reati.

A.M..

A) per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., commi 1, 2, 3, 4 e 6 per avere fatto parte, unitamente ad altre numerose persone (tra le quali PR.Be., GI.An., R. S., E.N., EU.Sa., G. L., L.I.P., CA.Ca., nel frattempo deceduto) dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, e per essersi, insieme, avvalsi della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva, per commettere delitti contro la vita, l’incolumità individuale, la libertà personale, il patrimonio, per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici, per realizzare profitti e vantaggi ingiusti per sè e gli altri, per intervenire sulle istituzioni e la pubblica amministrazione, in particolare per avere, tra l’altro, costituito un punto di riferimento nella zona di Bagheria per tutto lo schieramento mafioso facente capo a PR.Be., con specifico riferimento:

1) alla gestione di appalti pubblici e lavori privati;

2) alla raccolta di informazioni da pubblici ufficiali – tra le quali quelle di cui ai capi che seguono – finalizzata alla tutela dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra ed in particolare all’acquisizione di molteplici informazioni e notizie, coperte da segreto – che lo stesso A. trasferiva, almeno in parte, ad altri esponenti mafiosi tra i quali EU.Sa. – concernenti, tra l’"altro:

le indagini svolte dal R.O.S. dell’Arma dei Carabinieri e finalizzate alla cattura dei latitanti PR.Be. e M.D. M. ed aventi nello specifico ad oggetto:

1. la collocazione da parte di R.G. di microspie presso l’abitazione di GU.Fi. sita nel Comune di Castelvetrano;

2. la collocazione da parte di personale del R.O.S. di microspie presso l’abitazione di E.N. ed all’interno dell’autovettura in uso ad EU.Sa.;

3. la collocazione da parte di R.G. e di altro personale del R.O.S. di apparecchiature di videoripresa, in diverse zone del territorio di Bagheria, volte al controllo di soggetti sospettati di essere in contatto con PR.Be., tra i quali parenti ed affini di E.N. ( MO.On., P.P. L.) e comunque con rapporti di frequentazione con lo stesso (tra cui T.R.);

4. le attività investigative operate da parte di R.G. e di altro personale del R.O.S. sul territorio di Belmonte Mezzagno nei confronti di PA.Fr. – condannato in via definitiva per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., tra l’altro, in relazione a condotte di vicinanza con PR.Be. – e di altri esponenti mafiosi ad esso collegati;

5. la collocazione da parte di R.G. di microspie presso l’abitazione di GU.Gi., sita in (OMISSIS), nonchè le risultanze di tale attività di indagine dalle quali emergevano elementi a carico del GU.Gi. e di MI.Do.;

6. la collocazione da parte di R.G. di microspie presso la casa circondariale di Ascoli Piceno, finalizzate all’intercettazione dei colloqui periodici effettuati da GU.Gi. dopo il suo arresto;

7. la collocazione da parte di R.G. di microspie a bordo dell’autovettura di MI.Do.;

8. le attività di intercettazione svolte dal R.O.S. nei confronti di LO.Gi., all’epoca detenuto presso il C.D. T. di Pisa;

le indagini svolte dallo S.C.O. della Polizia di Stato e finalizzate alla cattura del latitante M.D.M. ed aventi nello specifico ad oggetto la collocazione di apparecchiature di videoripresa di fronte all’abitazione di ME.Pa., sita nel Comune di Bagheria;

l’esistenza di contatti di natura confidenziale tra personale appartenente al S.I.S.D.E. ed EU.Sa., finalizzati all’acquisizione di notizie utili alla cattura del latitante PR.Be.;

le indagini condotte dal N.A.S. dei Carabinieri ed aventi ad oggetto le attività delle società di A.M. nel settore della sanità;

e indagini condotte dalla Sezione Criminalità Organizzata della Squadra Mobile di Palermo e dal Servizio Centrale Operativo della Polizia di Stato, in corso nel settembre 2003, relative all’organizzazione mafiosa Cosa Nostra;

l’esistenza ed il contenuto delle dichiarazioni, rese in fase di indagini preliminari e, dunque, in interrogatori coperti da segreto, dal collaboratore di Giustizia GI.An.;

l’esistenza ed il contenuto delle dichiarazioni, rese in fase di indagini preliminari e, dunque, in interrogatori coperti da segreto, dal collaboratore di Giustizia BA.Sa. e relative allo stesso A.;

il contenuto di biglietti redatti dal latitante PR. B., indirizzati e trasmessi a GI.An., quando quest’ultimo era in stato di latitanza, rinvenuti e sequestrati nelle date del 16 aprile 2002 e 4 dicembre 2002;

le indagini condotte dal R.O.N.O. del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo sul conto di A.M.; nonchè le intercettazioni telefoniche effettuate nei confronti dell’ A. e dei coindagati CI.Gi. e R.G.;

3) al finanziamento di tale organizzazione mediante erogazione di ingenti somme di denaro contante;

4) alla concreta disponibilità all’assunzione, presso imprese e società a lui facenti capo, di soggetti a seguito di indicazioni ricevute da altri componenti dell’organizzazione mafiosa, tra i quali anche i fratelli ri. di Trabia ed E.N. di Bagheria;

– con l’aggravante di cui al comma 4 dello stesso articolo per far parte di una associazione armata;

– con l’aggravante di cui al comma 6 dello stesso articolo trattandosi di attività economiche finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto, il profitto di reati;

In Palermo, Bagheria ed altre località del territorio nazionale fino alla data del 4 novembre 2003.

R.G.:

C) per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. per avere – nella qualità di sottufficiale appartenente all’Arma dei Carabinieri in servizio presso la Sezione Anticrimine del R.O.S. di Palermo – concretamente contribuito, pur senza farne formalmente parte, al rafforzamento ed alla realizzazione degli scopi dell’organizzazione di tipo mafioso Cosa Nostra – i cui componenti si avvalgono della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento ed omertà che ne deriva; per commettere delitti; per acquisire in modo diretto o indiretto la gestione o, comunque, il controllo di attività economiche, di concessioni, di autorizzazioni, di appalti e servizi pubblici, per realizzare profitti e vantaggi ingiusti per sè e gli altri – in particolare:

fornendo – anche attraverso l’impiego di una rete di telefoni cellulari procurati da A.M. ed intestati a prestanome, il cui uso era riservato esclusivamente allo stesso A., al CI., al R. ed a pochissime altre persone di fiducia dell’ A., tra cui C.A. – in maniera sistematica e continua informazioni coperte dal segreto di ufficio relative ad attività investigative coordinate da questa Direzione Distrettuale Antimafia e svolte dall’Arma dei Carabinieri e dalla stessa Sezione Anticrimine aventi ad oggetto le illecite attività dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra ed, in particolare:

1) le attività di indagine svolte dal R.O.S. dell’Arma dei Carabinieri e finalizzate alla cattura dei latitanti PR. B. e M.D.M. ed aventi nello specifico ad oggetto:

la collocazione da parte di R.G. di microspie presso l’abitazione di GU.Fi. sita nel Comune di Castelvetrano;

la collocazione da parte di personale del R.O.S. di microspie presso l’abitazione di E.N. ed all’interno dell’autovettura in uso ad EU.Sa.;

la collocazione da parte di R.G. e di altro persone del R.O.S. di apparecchiature di videoripresa in diverse zone del territorio di Bagheria volte al controllo di soggetti sospettati di essere in contatto con PR.Be., tra i quali parenti ed affini di E.N. ( MO.On., P.P. L.) e, comunque, con rapporti di frequentazione con lo stesso (tra cui T.R.); e attività investigative operate da R.G. e da altro personale del R.O.S. sul territorio di Belmonte Mezzagno nei confronti di PA.Fr. – condannato in via definitiva per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., tra l’altro, in relazione a condotte di vicinanza con PR. B. – e di altri esponenti mafiosi ad esso collegati;

la collocazione da parte di R.G. di microspie presso la casa circondariale di Ascoli Piceno, finalizzate all’intercettazione dei colloqui periodici effettuati da GU.Gi. dopo il suo arresto;

le attività di intercettazione svolte dal R.O.S. nei confronti di LO.Gi., all’epoca detenuto presso il C.D. T. di Pisa;

2) le indagini svolte dallo S.C.O. della Polizia di Stato e finalizzate alla cattura del latitante M.D.M. ed aventi nello specifico ad oggetto la collocazione di apparecchiature di videoripresa di fronte all’abitazione di ME.Pa., sita nel Comune di Bagheria;

3) l’esistenza di contatti di natura confidenziale tra personale appartenente al S.I.S.D.E. ed EU.Sa., finalizzati all’acquisizione di notizie utili alla cattura del latitante PR.Be.;

4) le indagini condotte dal N.A.S. dei Carabinieri ed aventi ad oggetto le attività delle società di A.M. nel settore della sanità;

5) il contenuto di biglietti redatti dal latitante PR. B., indirizzati e trasmessi a GI.An., quando questi era in stato di latitanza, rinvenuti e sequestrati nelle date del 16 aprile 2002 e 4 dicembre 2002;

6) le indagini condotte dal R.O.N.O. del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo sul conto di A.M.; nonchè le intercettazioni telefoniche effettuate nei confronti dell’ A. e dei coindagati CI.Gi. e R.G.;

7) le attività di indagine svolte dal P.M. nel procedimento contro MI.Do. ed altri; in particolare informando A. M. della collocazione di microspie nell’abitazione di GU.Gi. e dell’esito di tali attività di indagine;

informando MI.Do. della collocazione di microspie nella sua autovettura, e, più in generale, dell’esito dell’attività di indagine espletata nei suoi confronti; condotte realizzate attraverso il sistematico contatto con personale in servizio presso l’Arma dei Carabinieri;

omettendo di riferire all’Autorità Giudiziaria o ai suoi Superiori i rapporti esistenti tra l. ed esponenti mafiosi di Bagheria (tra i quali CA.Ca., deceduto, GR.Le. ed E.N.), con il versamento di somme da parte dell’ A.;

mettendo a disposizione di A.M. e delle sue attività illecite la sua specifica competenza acquisita nel settore delle telecomunicazioni, in particolare svolgendo in più occasioni, vere e proprie operazioni di controllo dei locali del Centro (OMISSIS) gestito in Bagheria dallo stesso A., per accertare eventuali operazioni di intercettazione visiva e sonora effettuate dalla polizia giudiziaria, nonchè provvedendo all’allestimento ed alla manutenzione di apparecchi di videoripresa collocati presso lo stesso Centro;

prestando in modo sistematico e continuativo attività di ausilio in favore di A.M., attraverso contatti personali e diretti con funzionari della pubblica amministrazione ed esponenti politici, nonchè attraverso l’accesso a dati investigativi coperti da segreto di ufficio, al fine di favorire la realizzazione di interessi dell’ A. e del suo gruppo nel settore della sanità convenzionata. con l’aggravante di cui al comma 4 dello stesso articolo per avere concorso ad una associazione armata, avendo i componenti della medesima la disponibilità di armi ed esplosivi per il conseguimento delle finalità dell’associazione;

con l’aggravante di cui al comma 6 dello stesso articolo trattandosi di attività economiche finanziate in parte con il prezzo, il prodotto ed il profitto di delitti;

in Palermo, Bagheria ed altre località nazionali fino al 4 novembre 2003;

A.M., C.A., R.G., B. G.A. in concorso con CI.Gi. definito giudicato separatamente:

D) per il delitto di cui agli artt. 48, 81 cpv, 110 e 615 ter c.p., per essersi, in concorso tra loro, l’ A. ed il C. quali committenti dell’atto, abusivamente introdotti – in molteplici occasioni, nell’esecuzione di un medesimo disegno criminoso ed al fine di ottenere informazioni sulle indagini in corso nei confronti di A.M., degli amministratori delle società a lui facenti capo e dello stesso CI. – all’interno del sistema informatico di questa Procura della Repubblica, ed in particolare accedendo ai registri informatici di iscrizione degli indagati e di annotazione delle notizie di reato, protetto da misure di sicurezza;

realizzando la condotta anche con richieste false di accesso ai dati del sistema informatico rivolte a personale di segreteria della Procura delle Repubblica, m tal modo indotto in errore nell’effettuare l’accesso illecito;

riguardando i fatti un sistema informatico di interesse relativo alla sicurezza pubblica e comunque di interesse pubblico;

agendo, il CI. e la B., nella qualità – rispettivamente – di sottufficiale della Guardia di Finanza in servizio presso il Centro Operativo D.I.A. di Palermo e di ispettore componente la sezione di P.G. della Polizia Municipale, entrambi distaccati presso gli Uffici della Procura della Repubblica di Palermo;

con l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 per l’ A., il CI. ed il R., avendo commesso il fatto al fine di agevolare l’attività dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra;

Accertato in Palermo, dal giugno 2003 al 4 novembre 2003.

A.M., C.A., R.G. in concorso con CI.Gi. giudicato separatamente:

E) per il delitto di cui all’art. 110 c.p., art. 326 c.p., comma 1, L. n. 203 del 1991, art. 7, per avere, in concorso tra loro e con ignoti:

L’ A. ed il C., quali istigatori;

il CI., nella qualità di sottufficiale della Guardia di Finanza in servizio presso il Centro Operativo D.I.A. di Palermo e distaccato presso gli Uffici della Procura della Repubblica di Palermo;

il R., quale sottufficiale appartenente all’Arma dei Carabinieri e in servizio presso la Sezione Anticrimine del R.O.S. di Palermo;

il CI. ed il R., con violazione dei doveri inerenti alla propria funzione, ed entrambi e l’ A. al fine di agevolare l’attività dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, rivelato notizie di ufficio che dovevano rimanere segrete, tra le quali quelle meglio specificate ai capi che precedono, sui procedimenti penali pendenti e sulle attività di indagine in corso dal dicembre 2002 al 4 novembre 2003 nei confronti dell’ A., degli amministratori delle società a lui facenti capo e degli stessi CI. e R. da parte del R.O.N.O. del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo, del N.A.S. dei Carabinieri, della Guardia di Finanza e della Sezione Criminalità Organizzata della Squadra Mobile di Palermo;

in Palermo e Bagheria dal dicembre 2002 fino alla data del 4 novembre 2003;

B.G.A.:

F) per il delitto di cui agli artt. 81 e 110 c.p., art. 326 c.p., comma 1, per avere – nella sua qualità di operatore di polizia giudiziaria distaccata presso la segreteria di un Magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia – in concorso con C.G., in più occasioni, ed in esecuzione del medesimo disegno criminoso, rivelato ad A.M. notizie di Ufficio che dovevano rimanere segrete e concernenti, in particolare, provvedimenti di iscrizione al Registro Generale Notizie di Reato.

In Palermo, nel corso del 2003.

A.M. e R.G.:

G) per il delitto di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 326 c.p., comma 1, L. n. 203 del 1991, art. 7 perchè, in concorso tra loro e con altre persone ignote, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, il R., quale sottufficiale appartenente all’Arma dei Carabinieri in servizio presso la Sezione Anticrimine del R.O.S. di Palermo, con violazione dei doveri inerenti alla propria funzione ed al fine di agevolare l’attività dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra, rivelava all’ A., che a tal fine lo istigava, notizie di Ufficio che dovevano rimanere segrete, tra le quali quelle indicate ai capi che precedono e più in particolare:

le indagini svolte dal R.O.S. dell’Arma dei Carabinieri e finalizzate alla cattura dei latitanti PR.Be. e M.D. M. ed aventi nello specifico ad oggetto;

1) la collocazione da parte di R.G. di microspie presso l’abitazione di GU.Fi. sita nel Comune di Castelvetrano;

2) la collocazione da parte di personale del R.O.S. di microspie presso l’abitazione di E.N. ed all’interno dell’autovettura in uso ad EU.Sa.;

3) la collocazione da parte di R.G. e di altro personale del R.O.S. di apparecchiature di videoripresa in diverse zone del territorio di Bagheria volte al controllo di soggetti sospettati di essere in contatto con PR.Be., tra i quali parenti ed affini di E.N. ( MO.On., P.P. L.) e comunque con rapporti di frequentazione con lo stesso (tra cui T.R.);

4) le attività investigative operate da parte di R.G. e di altro personale del R.O.S. sul territorio di Belmonte Mezzagno nei confronti di PA.Fr. – condannato in via definitiva per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., tra l’altro, in relazione a condotte di vicinanza con PR.Be. – e di altri esponenti mafiosi ad esso collegati;

5) la collocazione da parte di R.G. di microspie presso l’abitazione di GU.Gi. sita in (OMISSIS), nonchè le risultanze di tale attività di indagine dalle quali emergevano elementi a carico del GU.Gi. e di MI.Do.;

6) la collocazione da parte di R.G. di microspie presso la casa circondariale di Ascoli Piceno, finalizzate all’intercettazione dei colloqui periodici effettuati da GU.Gi. dopo il suo arresto;

7) la collocazione da parte di R.G. di microspie a bordo dell’autovettura di MI.Do.;

8) le attività di intercettazione svolte dal R.O.S. nei confronti di LO.Gi., all’epoca detenuto presso il C.D. T. di Pisa;

9) la collocazione di apparecchiature di videoripresa di fronte all’abitazione di ME.Pa., sita nel Comune di Bagheria;

10) l’esistenza di contatti di natura confidenziale tra personale appartenente al S.I.S.D.E. ed EU.Sa., finalizzati all’acquisizione di notizie utili alla cattura del latitante PR.Be.;

11) le indagini condotte dal N.A.S. dei Carabinieri ed aventi ad oggetto le attività delle società di A.M. nel settore della sanità;

12) il contenuto di biglietti redatti dal latitante PR. B., indirizzati e trasmessi a GI.An., quando questi era in stato di latitanza, rinvenuti e sequestrati nelle date del 16 aprile 2002 e 4 dicembre 2002;

13) le indagini condotte dal R.O.N.O. del Comando Provinciale dei Carabinieri di Palermo sul conto di A.M.; nonchè le intercettazioni telefoniche effettuate nei confronti dell’ A. e dei coindagati CI.Gi. e SU.Gi.;

in Palermo, Bagheria ed altre località nazionali, dal 1999 fino alla data del 4 novembre 2003.

A.M.:

H) per il delitto di cui agli artt. 81 cpv., 319 e 321 c.p., per avere, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, promesso e dato a R.G., quale sottufficiale appartenente all’Arma dei Carabinieri in servizio presso la Sezione Anticrimine del R.O.S. di Palermo, una retribuzione non dovuta e consistita nel valore di un’autovettura marca Crysler pari a circa 25 milioni di vecchie lire, acquistata dal R. presso il concessionario (OMISSIS) di Palermo e pagata dall’ A.; nonchè nel valore dei lavori e dei materiali per la realizzazione di un’abitazione sita in territorio del comune di Piana degli Albanesi di proprietà del R.; il tutto a fronte del compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio tra i quali quelli aventi ad oggetto la rivelazione di segreti meglio specificati ai capi che seguono e precedono;

In Palermo, Piana degli Albanesi, Bagheria e altrove dal 1999 al 4 novembre 2003.

R.G.:

L) per il delitto di cui agli artt. 81 cpv e 319 c.p., per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, ricevuto da A.M. e nella qualità di sottufficiale appartenente all’Arma dei Carabinieri in servizio presso la Sezione Anticrimine del R.O.S. di Palermo, una retribuzione non dovuta e consistita nel valore di un’autovettura marca Crysler pari a circa 25 milioni di vecchie lire acquistata dal R. presso il concessionario (OMISSIS) di Palermo e pagata dall’ A.; nonchè nel valore dei lavori e dei materiali per la realizzazione di un abitazione sita in territorio del Comune di Piana degli Albanesi di proprietà del R.; il tutto a fronte del compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio tra i quali quelli aventi ad oggetto la rivelazione di segreti meglio specificati ai capi che seguono e precedono;

In Palermo, Piana degli Albanesi, Bagheria, e altrove dal 1999 al 4 novembre 2003).

RO.RO.:

M) per il delitto di cui agli artt. 110 e 378 c.p., per avere, in concorso con CU.Sa., aiutato A.M., che sapeva sottoposto ad indagini per più ipotesi delittuose, ad eludere le investigazioni, informandolo, su richiesta di CU. S., di notizie riservate ricevute dallo stesso CU. e relative all’esistenza di una telefonata intercettata, intercorsa tra CI.Gi. e l’ A., nonchè dell’esistenza di indagini nei confronti dello stesso A., di CI.Gi. e di R. G.;

In Palermo, il 20 ottobre 2003.

CU.Sa.:

N) Per il delitto di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 326 c.p. per avere – con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso – in concorso con altri soggetti ignoti e con BO.An., maresciallo dell’Arma dei Carabinieri in aspettativa perchè eletto deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana, rivelato ad A. M., anche con l’intermediazione di RO.Ro., notizie che dovevano restare segrete perchè concernenti i procedimenti e le attività di investigazione in corso nei confronti dello stesso A., di Ci.Gi. e R.G.;

in Palermo e Bagheria, il 20 ed il 31 ottobre 2003.

RELATIVO AL PROC. PEN. N. 746/06 R. G. T. RIUNITO IN DATA 2/05/2006.

CU.Sa.:

O) per il delitto di cui all’art. 110 c.p. e art. 378 c.p., commi 1 e 2, per avere – in concorso con altri soggetti ignoti, con RO. R. e con BO.An., maresciallo dell’Arma dei Carabinieri in aspettativa perchè eletto deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana – aiutato, con le modalità di cui al capo che precede, A.M., CI.Gi. e R.G., sottoposti ad indagine, il primo per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. e gli altri per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., ad eludere le investigazioni che li riguardavano;

In Palermo ed altrove, fino al mese di ottobre del 2003.

CU.SA.:

P) per il delitto di cui agli artt. 110, 81 cpv. e 326 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7 per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in concorso con altri soggetti ignoti e con BO.An., maresciallo dell’Arma dei Carabinieri in aspettativa perchè eletto deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana, rivelato a MI.Do., AR.Sa. e GU.Gi. notizie che dovevano restare segrete perchè concernenti i procedimenti penali e le attività di investigazione in corso nei confronti, tra gli altri, degli stessi MI.Do. e GU.Gi., commettendo il fatto al fine di agevolare l’attività dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra;

In Palermo ed altrove, nella primavera – estate del 2001.

RELATIVO AL PROC. PEN. N. 746/06 R. G. T. RIUNITO IN DA TA 02/05/2006.

CU.SA.:

Q) per il delitto di cui agli artt. 81 cpv. e 110 c.p. e art. 378 c.p. commi 1 e 2, e L. n. 203 del 1991, art. 7 per avere, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, in concorso con altri soggetti ignoti e con BO.An., maresciallo dell’Arma dei Carabinieri in aspettativa perchè eletto deputato dell’Assemblea Regionale Siciliana, aiutato, con le modalità di cui al capo che precede, MI.Do., AR.Sa. e GU.Gi., sottoposti ad indagine, il primo per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., il secondo ed il terzo per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., ad eludere le investigazioni che li riguardavano, commettendo il fatto al fine di agevolare l’attività dell’organizzazione mafiosa Cosa Nostra;

In Palermo ed altrove, nella primavera – estate del 2001.

R.G.:

R) per il delitto di cui all’art. 326 c.p., per avere nella sua qualità di maresciallo dell’Arma dei Carabinieri, appartenente/alla Sezione Anticrimine del R.O.S., rivelato a BO.An. maresciallo in servizio presso il reparto Operativo del Comando Provinciale di Palermo dei Carabinieri, in aspettativa perchè candidato alle elezioni per il rinnovo dell’Assemblea Regionale Siciliana, notizie che dovevano restare segrete perchè relative alle indagini in corso nei confronti di GU.Gi. ed, in particolare, l’esistenza di attività di intercettazione dalla quale emergevano elementi pregiudizievoli anche per CU.Sa. e MI.Do.;

In Palermo, nel maggio – giugno 2001.

R.G.:

S) per il delitto di cui all’art. 326 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7 per avere rivelato – nella sua qualità di maresciallo dell’Arma dei Carabinieri appartenente alla sezione Anticrimine del R.O.S. – a MI.Do. notizie destinate a rimanere segrete e relative ad attività di intercettazione effettuate nei confronti dello stesso MI.Do., indagato per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.; commettendo il fatto al fine di favorire l’attività dell’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra;

In Palermo, nella primavera – estate del 2002.

R.G.:

T) per il delitto di cui all’art. 326 c.p., per avere rivelato – nella sua qualità di maresciallo dell’Arma dei Carabinieri appartenente alla sezione Anticrimine del R.O.S. – a RA. G. e ad AC.Ro. notizie destinate a rimanere segrete e relative ad attività di intercettazione effettuate nell’autovettura di MI.Do., indagato per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p.;

In Palermo, nella primavera – estate 2002.

R.G., in concorso con RA.GI. e A. R. giudicati separatamente:

V) per il delitto di cui agli artt. 81 cpv. e 110 c.p., art. 615 bis c.p., commi 1, 2 e 3, perchè, in concorso tra loro e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, il RA. quale committente, l’ AC.RO. ed il R. quali materiali esecutori, il R. agendo quale pubblico ufficiale, Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri in servizio presso la Sezione Anticrimine del R.O.S. di Palermo, e con violazione dei doveri inerenti alla funzione ed esercitando di fatto, e quindi abusivamente, la professione di investigatore privato, si procuravano indebitamente notizie attinenti la vita privata di LI.An.Ro., coniuge dello stesso RA., notizie che venivano abusivamente apprese attraverso la captazione di conversazioni tra presenti che avvenivano all’interno dell’abitazione della stessa LI., attraverso l’installazione clandestina di apparati atti all’uso.

In Palermo, nel corso del 2002.

V.G.:

A-1) per il delitto di cui all’art. 378 c.p., art. 61 c.p., n. 9, per avere, con violazione dei doveri inerenti la sua funzione di Dirigente la Divisione Anticrimine della Questura di Palermo, aiutato A.M., che sapeva sottoposto ad indagini per più ipotesi delittuose, ad eludere le investigazioni, omettendo di segnalare alla polizia giudiziaria o alla competente autorità giudiziaria l’impiego, da parte di A.M., proprio al fine di sottrarsi alle attività di intercettazione telefonica nei suoi confronti, di una rete di telefoni cellulari intestati a prestanome, il cui uso era riservato esclusivamente a lui stesso, a CI.Gi. ed a pochissime altre persone di sua fiducia;

In Palermo, nell’estate e fino al 5 novembre 2003.

V.G.:

B-1) per il delitto di cui all’art. 479 c.p., per avere, nella qualità di Dirigente della Divisione Anticrimine presso la Questura Mi Palermo, redatto la nota Prot. 903129 Div. Ant. del 16.10.2003, trasmessa alla Questura di Palermo – Segreteria di Sicurezza, in evasione della richiesta del CESIS "di comunicare ogni possibile notizia" su A.M. ai fini del rilascio del nulla osta di sicurezza, falsamente attestando, nella consapevolezza di indagini in corso a carico dello stesso A. da parte della Procura della Repubblica di Palermo, l’assenza "di elementi ostativi per il rilascio" del predetto nulla osta.

Fatto commesso in Palermo, il 16 ottobre 2003.

A.M., G.M., O.D. E I. L.;

C-1) per il delitto di cui all’art. 416 c.p., commi 1 e 2, per essersi associati tra loro e con ignoti al fine di commettere, con divisione di ruoli e di compiti, meglio specificati ai capi che seguono, più delitti contro il patrimonio mediante frode, tra cui quelli indicati ai tre capi che seguono; agendo l’ A. quale promotore dell’associazione;

Fatti commessi in Palermo e Bagheria, dal 1 luglio 1999 al 4 novembre 2003.

A.M., G.M., O.D. E I. L.:

D-1 per il delitto di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 7, art. 640 p.p. e cpv. n. 1 cod. rf, perchè, in concorso tra loro e con ignoti, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, l’ A. in qualità di gestore di fatto e di titolare della maggioranza delle quote della società (OMISSIS) – Villa (OMISSIS) s.r.l., l’ O. in qualità di Responsabile della Radioterapia del Centro gestito dalla suddetta società, lo I. ed il G. in qualità, rispettivamente, di Direttore e di Funzionario medico del Distretto Sanitario di Base di Bagheria, si procuravano in danno della A.U.S.L. 6 di Palermo:

A) un ingiusto profitto consistente nella erogazione alla detta società, in regime di assistenza indiretta, di ingenti somme non dovute perchè erogate a titolo di "rimborso" di prestazioni di radioterapia "conformazionale" anche quando le prestazioni avevano in realtà ad oggetto radioterapie "tradizionali" – nel senso che tutte le prestazioni venivano fatte pagare ai costi delle terapie conformazionali anche quelle, nella misura del 40% circa, che riguardavano tumori trattati con terapie tradizionali – traendo in inganno gli organi amministrativi e tecnici della A.U.S.L. n. 6 con raggiri costituiti dal formare e presentare documentazione utile ai fini del rimborso dalla quale risultava falsamente che tutte le prestazioni erogate avevano per oggetto la terapia conformazionale, nonchè con gli ulteriori raggiri sottospecificati;

B) un ulteriore ingiusto profitto consistente nella erogazione alla detta società, in regime di assistenza indiretta, di ingenti somme a titolo di rimborso di prestazioni di radioterapia, somme in realtà non dovute perchè lo stesso "ciclo" terapeutico veniva pagato più volte in quanto ogni fattura aveva ad oggetto non un "ciclo" terapeutico completo ma in realtà una frazione di esso "ciclo", (con il risultato finale che ogni singola fattura faceva apparire completata la terapia ad un costo di gran lunga inferiore a quello effettivamente percepito: a titolo esemplificativo, per il tumore alla mammelle risulta l’emissione di fattura per ogni frazione di terapia per L. 18 milioni a fronte di un effettivo esborso per l’intero ciclo di terapia di L. 90 milioni (Euro 46.480,00); traendo in inganno gli organi amministrativi e tecnici della A.U.S.L. n. 6, con raggiri sottospecificati;

C) un ingiusto profitto consistente nella ripetizione dei pagamenti "sine titulo" da parte dell’A.U.S.L. n. 6 di somme già in effetti rimborsate dalle A.U.S.L. di appartenenza dei pazienti (non residenti nel territorio amministrativo dalla predetta A.U.S.L. n. 6), traendo in inganno gli organi amministrativi e tecnici della A.U.S.L. n. 6 con gli artifizi e raggiri sottospecificati.

Con la precisazione che gli artifici e raggiri consistevano, fra l’altro:

– nell’uso di documentazione contenente affermazioni non rispondenti al vero (soprattutto con riferimento al "domicilio sanitario";

– nell’uso di documentazione non corrispondente a quella prescritta (specie per l’uso di fotocopie invece che di originali, come invece previsto – ovviamente – dalla normativa vigente;

– nella redazione da parte del Distretto Sanitario di Base di Bagheria delle proposte di deliberazione di liquidazione che dovevano poi essere adottate dalla A.S.L. 6 con modalità tali da eludere i controlli da parte della Direzione Generale dell’Azienda.

Con l’aggravante di avere cagionate all’A.U.S.L. 6 di Palermo un complessivo danno patrimoniale di rilevante gravità (nell’ordine di alcune decine di miliardi di vecchie lire).

Fatti commessi in Palermo e Bagheria, dal 1^ luglio 1999 al novembre 2003 (o comunque alla data di emissione dei relativi mandati di pagamento da parte della Pubblica Amministrazione).

E-1) per il delitto di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 7, art. 640 c.p., p.p. e cpv. n. 1, perchè, in concorso tra loro e con ignoti, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, l’ A. in qualità di gestore di fatto e di titolare della maggioranza delle quote della società A.T.M. – (OMISSIS) s.r.l, l’ O. in qualità di Responsabile della Radioterapia del Centro gestito dalla suddetta società, lo I. ed il G. in qualità, rispettivamente, di Direttore e di Funzionario medico del Distretto Sanitario di Base di Bagheria, si procuravano in danno della A.U.S.L. 6 di Palermo;

A) ingiusto profitto consistente nella erogazione alla detta società, in regime di assistenza indiretta, di ingenti somme non dovute perchè erogate a titolo di "rimborso" di prestazioni di radioterapia "conformazionale " anche quando le prestazioni avevano in realtà ad oggetto radioterapie "tradizionali" – nel senso che tutte le prestazioni venivano fatte pagare ai costi delle terapie conformazionali anche quelle, nella misura del 40% circa, che riguardavano tumori trattati con terapie tradizionali – traendo in inganno gli organi amministrativi e tecnici della A.U.S.L. n. 6 con raggiri costituiti dal formare e presentare documentazione utile ai fini del rimborso dalla quale risultava falsamente che tutte le prestazioni erogate avevano per oggetto la terapia conformazionale, nonchè con gli ulteriori raggiri sottospecificati;

B) un ulteriore ingiusto profitto consistente nella erogazione alla detta società, in regime di assistenza indiretta, di ingenti somme a titolo di rimborso di prestazioni di radioterapia, somme in realtà non dovute perchè lo stesso "ciclo" terapeutico veniva pagato più volte in quanto ogni fattura aveva ad oggetto non un "ciclo" terapeutico completo ma in realtà una frazione di esso "ciclo" (con il risultato finale che ogni singola fattura faceva apparire completata la terapia ad un costo di gran lunga inferiore a quello effettivamente percepito: a titolo esemplificativo, per il tumore alla mammella risulta l’emissione di fattura per ogni frazione di terapia per L. 18 milioni a fronte di un effettivo esborso per l’intero ciclo di terapia di L. 90 milioni (Euro 46.480,00)); traendo in inganno gli organi amministrativi e tecnici della A.U.S.L. n. 6;

con i raggiri sottospecificati;

C) un ingiusto profitto consistente nella ripetizione dei pagamenti "sine titulo" da parte dell’A.U.S.L n. 6 di somme già in effetti rimborsate dalla A.U.S.L. di appartenenza dei pazienti (non residenti nel territorio amministrativo dalla predetta A.U.S.L. n. 6), traendo in inganno gli organi amministrativi e tecnici della A.U.S.L. n. 6 con gli artifizi e raggiri sotto specificati.

Con la precisazione che gli artifici e raggiri consistevano, fra l’altro:

nell’uso di documentazione contenente affermazioni non rispondenti al vero (soprattutto con riferimento al "domicilio sanitario");

nell’uso di documentazione non corrispondente a quella prescritta (specie per l’uso di fotocopie invece che di originali, come invece previsto – ovviamente – dalla normativa vigente;

nella redazione da parte del Distretto Sanitario di Base di Bagheria delle persone di deliberazione di liquidazione che dovevano poi essere adottate dalla A.S.L. 6 con modalità tali da eludere i controlli da parte della Direzione Generale dell’Azienda.

Con l’aggravante di avere cagionate all’A.U.S.L. 6 di Palermo un complessivo danno patrimoniale di rilevante gravità (nell’ordine di alcune decine di miliardi di vecchie lire).

Fatti commessi in Palermo e Bagheria dall’inizio del 2001 al novembre 2003 (t comunque alla data di emissione dei relativi mandati di pagamento da parte della Pubblica Amministrazione).

A.M., G.M., E I.L.:

F-1) per il delitto di cui agli artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 7, art. 640 c.p., p.p. e cpv., n. 1, perchè, in concorso tra loro e con ignoti, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, l’ A. in qualità di gestore di fatto e di titolare della maggioranza delle quote della società A.T.M. – (OMISSIS) s.r.l., lo I. ed il G. in qualità, rispettivamente, di Direttore e di Funzionario medico del Distretto Sanitario di Base di Bagheria, si procuravano in danno della A.U.S.L. 6 di Palermo, i cui organi amministrativi e tecnici traevano in inganno con artifizi e raggiri, un ingiusto profitto consistente nella erogazione alla detta società, in regime di assistenza indiretta, di ingenti somme a titolo di "rimborso" di prestazioni di radioterapia, somme in realtà non dovute ai sensi della L.R. n. 88 del 1980, art. 2, dato che nello stesso comune era attivo ed operante in regime di pre-accreditamento altro centro di radioterapia di un altra società facente capo allo stesso A. e da lui gestita ((OMISSIS) – Villa (OMISSIS) s.r.l.).

Con la precisazione che gli artifici e raggiri consistevano, fra l’altro:

nell’uso di documentazione non corrispondente a quella prescritta (specie per l’uso di fotocopie invece che di originali):

nell’uso di documentazione contenente affermazioni non rispondenti al vero (soprattutto con riferimento al "domicilio sanitario):

nell’uso di documentazione redatta volutamente in modo tale da non fare risultare che l’oggetto della singola richiesta di pagamento e della corrispondente fattura non era un intero "ciclo", ma solo una parte di esso;

nella redazione da parte del Distretto Sanitario di Base di Bagheria delle proposte di deliberazione di liquidazione che dovevano poi essere adottate dalla A.S.L. 6 con modalità tali da eludere i controlli da parte della Direzione Generale dell’Azienda.

Con l’aggravante di avere cagionato all’A.U.S.L. 6 di Palermo un danno patrimoniale di rilevante gravità.

Fatti commessi in Palermo e Bagheria, dal 9 febbraio 2002 (data del preaccreditamento della (OMISSIS) s.r.l.) in poi, accertato il 12 novembre 2003.

D1- E1- F1 MODIFICATI IN DATA 03/04/2007.

A.M.:

G-1) per il delitto di cui agli artt. 319 e 321 c.p., per avere promesso e dato a G.M., nella qualità di Funzionario medico del Distretto Sanitario di Base di Bagheria, una retribuzione non dovuta e consistita:

nel valore dei lavori di rifacimento e ristrutturazione di un’abitazione sita nel territorio del Comune di (OMISSIS) per un valore pari a circa 20 milioni di vecchie lire;

il tutto a fronte del compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio tra i quali quelli descritti ai capi F-1), G-1), H-1);

In (OMISSIS), tra il 1999 ed il 2000.

G.M.:

H-1) per il delitto di cui all’art. 319 c.p., per avere ricevuto – nella qualità di Funzionario medico del Distretto Sanitario di Base di Bagheria – da A.M., una retribuzione non dovuta e consistita:

nel valore dei lavori di rifacimento e ristrutturazione di un abitazione sita nel territorio del Comune di (OMISSIS) per un valore pari a circa 20 milioni di vecchie lire;

il tutto a fronte del compimento di atti contrari ai doveri del suo ufficio tra i quali quelli descritti ai capi F-1), G-1), H-1);

In (OMISSIS), tra il 1999 ed il 2000.

A.M.:

I-1) per il delitto di cui agli artt. 318 e 321 c.p., per avere promesso e dato a P.S., nella sua qualità di pubblico ufficiale poichè dipendente della A.S.L n. 6 con la qualifica di collaboratore amministrativo, somme di denaro per un importo complessivo pari a circa 15 milioni di vecchie lire; a fronte di atti del proprio ufficio, consistenti nell’accelerare ed orientare positivamente le pratiche di rimborso delle prestazioni sanitarie che le società del gruppo di A.M. fornivano ed in relazione alle quali richiedevano il rimborso alla A.S.L. n. 6;

In Palermo e Bagheria, in data antecedente all’ottobre del 2003.

P.s.:

L-1) per il delitto di cui all’art. 318 c.p., per avere ricevuto da A.M. – il P. nella qualità di pubblico ufficiale poichè dipendente della A.S.L. n. 6 con la qualifica di collaboratore amministrativo – somme di denaro per un importo complessivo pari a circa 15 milioni di vecchie lire; a fronte di atti del proprio ufficio, consistenti nell’accelerare ed orientare positivamente le pratiche di rimborso delle prestazioni sanitarie che le società del gruppo di A.M. fornivano ed in relazione alle quali richiedevano il rimborso alla A.S.L. n. 6;

In Palermo e Bagheria, in data antecedente all’ottobre del 2003.

A.M.:

M-1) per il delitto di cui agli artt. 318 e 321 c.p., per avere promesso e dato a L.B.A., responsabile dell’ufficio liquidazione assistenza indiretta presso la A.S.L. n. 6 di Palermo, una retribuzione non dovuta complessivamente pari a 250 milioni delle vecchie Lire, parte in contanti e parte in assegni intestati a favore di CA.An. – titolare dell’omonima impresa individuale e coniuge della L.B. il tutto a fronte dell’adozione di atti del suo ufficio; in particolare, consistendo i medesimi;

1) nell’adozione delle proposte di mandato per il pagamento delle prestazioni sanitarie rese in regime di assistenza indiretta dalla Casa di Cura "Villa (OMISSIS)" S.R.L., di cui l’ A. era gestore di fatto e titolare della maggioranza delle quote, previa verifica della regolarità amministrativa delle relative istanze di rimborso;

2) nell’individuazione di quei crediti – tra quelli oggetto di contenzioso tra la A.S.L. n. 6 e la Casa di Cura "Villa (OMISSIS)" per le prestazioni sanitarie erogate nel periodo agosto- dicembre 2001 – che dovevano ritenersi effettivamente esigibili e che, pertanto, avrebbero potuto costituire oggetto di accordo transattivo, successivamente stipulato in data 04.11.2002 trarla stessa A.S.L. e la predetta casa di cura;

3) nell’individuazione di quei crediti – tra quelli oggetto di contenzioso tra la A.S.L. n. 6 e la Casa di Cura "A.T.M.", di cui l’ A. era gestore di fatto e titolare della maggioranza delle quote, per le prestazioni sanitarie erogate nel periodo agosto- dicembre 2001 – che dovevano ritenersi effettivamente esigibili e che, pertanto avrebbero potuto costituire oggetto di accordo transattivo, successivamente stipulato in data 04.11.2002 tra la stessa A.S.L. e la predetta casa di cura.

Fatti commessi in Palermo, dal 1997 al 2002.

L.B.A. e CA.AN.:

N-1) per il delitto di cui agli artt. 110 e 318 c.p., per avere, in concorso tra loro, la L.B. n.q. di responsabile dell’ufficio liquidazione assistenza indiretta presso la A.S.L. n. 6 di Palermo, accettato per sè la promessa di una retribuzione non dovuta da parte di A.M. e da questi, in adempimento di quanto pattuito, ricevuto somme, complessivamente pari a 250 milioni delle vecchie lire, parte in contanti e parte in assegni intestati a favore di CA.An. – titolare dell’omonima impresa individuale e coniuge dell’indagata – il tutto a fronte dell’adozione di atti del suo ufficio; in particolare, consistendo i medesimi:

1) nell’adozione delle proposte di mandato per il pagamento delle prestazioni sanitarie rese in regime di assistenza indiretta dalla Casa di Cura "Villa (OMISSIS)" S.R.L., di cui l’ A. era gestore di fatto e titolare della maggioranza delle quote, previa verifica della regolarità amministrativa delle relative istanze di rimborso;

2) nell’individuazione di quei crediti – tra quelli oggetto di contenzioso tra la A.S.L. n. 6 e la Casa di Cura "Villa (OMISSIS)" per le prestazioni sanitarie erogate nel periodo agosto- dicembre 2001 – che dovevano ritenersi effettivamente esigibili e che, pertanto, avrebbero potuto costituire oggetto di accordo transattivo, successivamente stipulato in data 04.11.2002 tra la stessa A.S.L. e la predetta casa di cura;

3) nell’individuazione di quei crediti – tra quelli oggetto di contenzioso tra la A.S.L. n. 6 e la Casa di Cura "A.T.M.", di cui l’ A. era gestore di fatto e titolare della maggioranza delle quote, per le prestazioni sanitarie erogate nel periodo agosto- dicembre 2001 – che dovevano ritenersi effettivamente esigibili e che, pertanto, avrebbero potuto costituire oggetto di accordo transattivo, successivamente stipulato in data 04.11.2002 tra la stessa A.S.L. e la predetta casa di cura.

Fatti commessi in Palermo dal 1997 al 2002.

Società (OMISSIS) s.r.l.:

O-1) in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 5, comma 1 e art. 24, commi 1 e 2; per essere l’ente responsabile per il delitto di cui al capo D-1) (ex art. 640 c.p., comma 1 e cpv. n. 1.) commesso nel suo interesse o a suo vantaggio da A.M. nella qualità di soggetto che esercitava anche di fatto la gestione ed il controllo di tale società;

avendo la società conseguito, a seguito della commissione del delitto, un profitto di rilevante gravità con pari danno per l’ente pubblico A.S.L. n. 6;

Fatti commessi in Palermo e Bagheria, dal 1 luglio 1999 al novembre 2003.

Società A.T.M. (OMISSIS) s.r.l.:

P-1) in relazione al D.Lgs. n. 231 del 2001. art. 5, comma 1 e art. 24, commi 1 e 2; per essere l’ente responsabile per i delitti di cui ai capi E-1 e F-1) (ex art. 640 c.p., comma 1 e cpv., n. 1) commessi nel suo interesse o a suo vantaggio da A.M. nella qualità di soggetto che esercitava anche di fatto la gestione ed il controllo di tale società; avendo la società conseguito, a seguito della commissione dei delitti, un profitto di rilevante gravità con pari danno per l’ente pubblico A.S.L. n. 6;

Fatti commessi in Palermo e Bagheria, dall’inizio del 2001. 3. LA DECISIONE DI PRIMO GRADO. All’esito del dibattimento di 1^ grado, il Tribunale di Palermo, con sentenza del 18/01/2008, così statuiva:

dichiarava A.M. colpevole dei reati di cui ai capi A), D), E), G), escluse le condotte di cui ai numeri 5, 6, 7, 8 e 12, H), D1) ed E1), escluse le condotte descritte nei rispettivi punti a), G1), riqualificato ai sensi dell’art. 318 c.p., I1) ed M1), unificati sotto il vincolo della continuazione;

R.G. colpevole dei reati di cui all’art. 81 cpv., art. 361 c.p., comma 2 e art. 378 c.p., comma 2, così riqualificata l’originaria contestazione di cui al capo C) della rubrica con l’esclusione delle condotte relative alla collocazione di microspie presso le case circondariali di Ascoli Piceno e di Pisa nonchè al contenuto dei biglietti di Pr.;

ed inoltre colpevole dei reati di cui ai capi D), E) e G) con l’esclusione della circostanza aggravante prevista dalla L. n. 203 del 1991, art. 7 nonchè, per il solo capo G), anche delle condotte di cui ai punti 5), 6), 7), 8) e 12);

ed ancora colpevole dei reati ascrittigli ai capi I), R), S), esclusa la circostanza aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7, T) e V), unificati tutti i predetti reati sotto il vincolo della continuazione;

Cu.Sa. colpevole dei reati ascrittigli, unificati sotto il vincolo della continuazione, escluse per i capi di imputazione P) e Q) la continuazione interna e la circostanza aggravante prevista dalla L. n. 203 del 1991, art. 7;

I.L. colpevole dei reati ascrittigli ai capi D1) ed E1), escluse le condotte descritte nei rispettivi punti a), unificati sotto il vincolo della continuazione;

C.A. colpevole dei reati ascrittigli, unificati per continuazione;

V.G. colpevole dei reati allo stesso contestati, unificati per continuazione;

L.B.A. e Ca.An. colpevoli del reato loro in concorso ascritto;

Ro.Ro. colpevole del reato ascrittogli;

G.M. colpevole del reato di cui all’art. 318 c.p., così riqualificata l’originaria contestazione di cui al capo H1);

P.S. colpevole del reato a lui ascritto;

B.G.A. colpevole del reato a lei ascritto al capo D);

Società (OMISSIS) s.r.l. ed A.T.M. (OMISSIS) s.r.l. responsabili per i reati loro rispettivamente ascritti;

e, concesse ai soli imputati Ro. e B. le circostanze attenuanti generiche, ritenute, per la B., equivalenti alle contestate aggravanti, condannava A.M. alla pena di anni quattordici di reclusione;

R.G. alla pena di anni sette di reclusione;

Cu.Sa. alla pena di anni cinque di reclusione;

I.L. alla pena di anni quattro, mesi sei di reclusione ed Euro millecinquecento/00 di multa;

C.A. alla pena di anni quattro mesi sei di reclusione;

V.G. alla pena di anni tre di reclusione;

L.B.A. e Ca.An. alla pena di anni due di reclusione ciascuno;

Ro.Ro. alla pena di anno uno di reclusione;

P.S. e G.M. alla pena di mesi nove di reclusione ciascuno;

B.G.A. alla pena di mesi sei di reclusione;

Società (OMISSIS) s.r.l. ed A.T.M. (OMISSIS) s.r.l., concesse ad entrambe la circostanza attenuante di cui al D.Lgs. n. 231 del 2001, art. 12, comma 2 alle pene rispettivamente di Euro seicentomila/00 ed Euro quattrocentomila/00.

Condannava tutti i predetti colpevoli, in solido, al pagamento delle spese processuali, e l’ A., il R., il C., lo I. ed il G., singolarmente, a quelle relative al proprio mantenimento in carcere durante la rispettiva custodia cautelare.

Visti gli artt. 28, 29, 31 e 32 c.p.;

dichiarava A.M., R.G. e Cu.Sa. interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e in stato di interdizione legale durante l’espiazione della pena;

I.L., C.A. e V.G. interdetti dai pubblici uffici per la durata di anni cinque.

Visti gli artt. 228, 230 e 417 c.p.;

applicava ad A.M., a pena espiata, la misura di sicurezza della libertà vigilata per la durata di tre anni;

Visti gli artt. 538 e ss. c.p.p.;

condannava A.M. al risarcimento, in favore della parte civile costituita Comune di Bagheria, in persona del legale assolveva A.M. dai reati di cui ai capi limitatamente alle condotte di cui ai numeri D1) ed E1), limitatamente alle condotte descritte nei rispettivi punti a), perchè il fatto non sussiste; R. G. dall’imputazione di cui al capo C) come sopra riqualificata, limitatamente alle condotte relative alla collocazione di microspie presso le case circondariali di Ascoli Piceno e di Pisa nonchè al contenuto dei biglietti di Pr. perchè il fatto non sussiste;

ed inoltre dal reato allo stesso contestato al capo G V, limitatamente alle condotte di cui ai punti 5), 6), 7), 8) e 12) perchè il fatto non sussiste; B.G.A. dal reato di cui al capo F) per non aver commesso il fatto;

G.M. dai reati di cui ai capi C1) ed F1) perchè il fatto non sussiste, nonchè dai capi ed E1) per non aver commesso il fatto;

O.D. dai reati di cui al capo C1) perchè il fatto non sussiste, nonchè dai capi D1) ed E1) per non aver commesso il fatto;

I.L. dal reato di cui ai capi C1) ed F1) perchè il fatto non sussiste nonchè dai reati di cui ai capi D1) ed E1), limitatamente alle condotte descritte nei rispettivi punti a), i perchè il fatto non sussiste;

disponeva la trasmissione all’Ufficio del Pubblico Ministero in sede di copia degli atti relativi, per le eventuali determinazioni di sua competenza, in ordine all’esercizio dell’azione penale nei confronti di V.G. e di Ro.Ro..

4. LA DECISIONE DI SECONDO GRADO. La sentenza veniva impugnata sia dagli imputati che dal P.M., e la Corte di Appello di Palermo, con sentenza del 23 gennaio 2010, così provvedeva:

In parziale riforma della sentenza resa il 18.01.2008 dal Tribunale di Palermo ed appellata dagli imputati A.M., R. G., C.A., B.G.A., RO. R., CU.Sa., V.G., G. M., I.L., P.S., L.B. A., CA.An., dalle società (OMISSIS) s.r.l. e ATM (OMISSIS) s.r.l., in persona del loro legale rappresentante, appellata inoltre dal Procuratore della Repubblica nei confronti degli imputati A. M., R.G. e CU.Sa.;

dichiarava non doversi procedere nei confronti di L.B. A. in ordine al reato ascrittole (capo N1) perchè estinto per morte dell’imputata e revoca nei suoi confronti le statuizioni civili;

dichiarava non doversi procedere nei confronti di R.G., A.M. e G.M. in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti ai capi R, G1, HI perchè estinti per prescrizione, e revoca le statuizioni civili dell’impugnata sentenza nei confronti del G.;

qualificava il fatto ascritto a R.G. al capo C), così come originariamente contestato, come concorso nel reato di associazione mafiosa p. e p. dagli artt. 110 e 416 bis c.p., con le aggravanti di cui al comma 4 e al comma 6 del medesimo articolo;

riteneva, nei confronti di CU.Sa., in relazione ai reati di cui ai capi P e Q la sussistenza della circostanza aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 così come originariamente contestata;

per l’effetto rideterminava la pena nei confronti di R.G., previo riconoscimento della diminuente prevista per il rito abbreviato, in anni otto di reclusione;

elevava la pena inflitta a CU.Sa. ad anni sette di reclusione;

elevava inoltre la pena inflitta ad A.M. ad anni quindici e mesi sei di reclusione;

confermava nel resto l’impugnata sentenza;

condannava C.A., B.G.A., RO. R., CU.Sa., V.G., I.L., P.S., C.A., la società (OMISSIS) s.r.l. e la società ATM (OMISSIS) s.r.l in persona del loro legale rappresentante al pagamento delle ulteriori spese processuali. condannava A.M. alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile COMUNE DI BAGHERIA in questo grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 16.000,00, oltre rimborso spese generali, CPA ed IVA come per legge, ed inoltre lo stesso A. M., I.L., P.S. e C. A. alla rifusione delle spese sostenute nel medesimo grado di giudizio dalla parte civile AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE – A.S.P. di Palermo (già Azienda Unità Sanitaria Locale n. 6 di Palermo), che liquida in complessivi Euro 28.000,00 oltre rimborso spese generali, CPA ed IVA come per legge.

5. I MOTIVI DI RICORSO. Avverso tale decisione hanno proposto ricorso per Cassazione gli imputati deducendo i seguenti motivi:

5.1 RICORSO A.M..

Il difensore del prevenuto, A.M. – condannato alla pena di anni 15 e mesi 6 di reclusione – innanzitutto deduce la violazione dell’art. 416 bis c.p.p., la mancanza e illogicità manifesta della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza sia della condotta che dell’elemento soggettivo del reato di partecipazione all’associazione mafiosa, nonchè la inosservanza dell’art. 54 c.p..

Rileva, in proposito, che avere pagato per "la messa a posto" relativa alla costruzione di 289 strade interpoderali la somma fissa di L. 7.000.000 per ciascun appalto senza avere ricevuto alcuna contropartita dalla associazione mafiosa non costituisce collusione con la struttura criminosa, in quanto, come confermato dal collaboratore Gi. che riceveva ordini direttamente da Pr.Be., anche tutte le imprese dovevano pagare la somma pari al 2% dell’importo dei lavori, indipendentemente dalla riferibilità dell’impresa a qualche famiglia locale, pena l’intervento violento della associazione con danneggiamenti ed attentati.

Il ricorrente deduce che nella fattispecie deve quindi trovare applicazione il disposto di cui all’art. 54 c.p. in quanto la protezione ricevuta fu esclusivamente fittizia essendo in Sicilia operante una unica pericolosa struttura mafiosa dalla quale non è possibile assumere le distanze e rifiutare protezione.

In ordine allo stesso reato deduce travisamento di fatto per l’interpretazione data dalla Corte di Palermo alle segnalazioni effettuate dai capi mafia Ri.Sa. e Pr.Be. a mezzo dei c.d. "pizzini" che sono stati ritenuti espressione di "un rapporto privilegiato di cui godeva il ricorrente in virtù del ritenuto patto di protezione".

Deduce cioè che la "centralizzazione dei versamenti non costituisce espressione di privilegio di cui godeva l’ A., bensì la normale prassi tenuta dall’organizzazione per un imprenditore operante nel territorio di Bagheria, di competenza della famiglia del Pr.".

Deduce ancora l’illogicità della valutazione operata dalla Corte di Appello della volontarietà della corresponsione della somma di L. 20.000.000 a E.N. nell’anno 2003, dazione che invece deve essere considerata frutto di estorsione da parte di un autorevole esponente mafioso, come risulta dalla intercettazione telefonica del 20.1.03.

Rappresenta l’illogicità della valutazione dei rapporti con L. I.P. intesi come finalizzati ad acquisire rapporti con elementi vincenti della mafia di Bagheria e la contraddittorietà delle dichiarazioni del collaboratore Gr.Gi. sui rapporti epistolari tra A. e Pr..

Deduce poi difetto di motivazione in ordine al delitto di cui all’art. 326 c.p., non essendo sussistenti condotte induttive nei confronti del R., non avendo interesse ad acquisire dati, negando anche la spontaneità delle dichiarazioni intercettate in carcere a Eu.Sa. in cui costui affermava di avere saputo da A. del posizionamento della microspia nella sua auto, avendo il detenuto interesse a confermare quel dato.

Propone analoghe doglianze per il delitto di cui all’art. 315 ter c.p. relativamente alla predisposizione della c.d. rete riservata che risulta stata posta in essere su istigazione del Ci., non consentendo i dati acquisiti attribuire all’ A. analoga posizione, non avendo assunto al riguardo alcuna iniziativa anche per quanto riguarda le ricerche per conoscere l’inizio di procedimenti per le vicende sanitarie.

Deduce ancora manifesta illogicità della motivazione in ordine alla affermazione di responsabilità per le truffe sanitarie esponendo la non compiutezza degli accertamenti istruttori, la carenza normativa regionale per la determinazione delle tariffe da applicare, rilevando che le modalità delle richieste di rimborso non potevano trarre in inganno i funzionari della ASL n. 6.

Rappresenta la liceità dell’elezione del domicilio sanitario da parte delle persone sottoposte alla terapia oncologica ed espone che nei ruoli banca era indicato che gli atti originali erano presso il Distretto n. 4 di Bagheria.

Nega quindi la sussistenza dei raggiri, essendo consentito sul piano formale lo spezzettamento delle fatture, avendo la corte territoriale ignorato le risultanze della consulenza di parte in ordine alla determinazione dei costi, al riguardo deducendo che i bunker ove erano alloggiati gli acceleratori lineari erano presenti nelle strutture dal 1996 e dal 1999.

Insiste nel dedurre la ritualità della procedura relativa alle liquidazioni delle fatture.

Con il primo dei motivi nuovi, depositati in data 4.1.11, l’altro difensore dell’ A. insiste nell’escludere che tra l’organizzazione mafiosa e l’imprenditore "si fosse verificato un patto di protezione con reciproche e corrispettive prestazioni e controprestazioni" rilevando che, comunque, le imprese dell’ A. furono oggetto di attività minatoria.

Deduce, poi, efficienza motivazionale della decisione "nella parte in cui omette di considerare quali siano le concrete situazioni fattuali attraverso le quali sia lecito desumere, senza alcun automatismo probatorio, che l’ A. in un certo periodo storico, per convenienza o per altri motivi, abbia accettato di fare parte dell’associazione mafiosa Cosa Nostra, impegnandosi a mettersi a disposizione della stessa per l’adempimento dei ruoli che gli venivano di volta in volta o in generale assegnati".

Deduce, ancora, l’arbitrarietà della conclusione cui sono giunti i giudici di merito, in violazione di ogni regola probatoria, con riferimento alle notizie che A. acquisì da R., Ci. o altri, notizie arbitrariamente ritenute essere state comunicate da A. ai mafiosi interessati.

Con il secondo dei motivi nuovi, il difensore deduce la violazione di legge per difetto dell’elemento soggettivo, che la Corte di Palermo ha solo implicitamente ritenuto sussistente senza specifiche argomentazioni, "della consapevolezza e della volontà di fare parte di un sodalizio criminoso nonchè della volontà di porre in essere quelle attività finalizzate alla conservazione ed al rafforzamento dell’associazione stessa".

Con il terzo dei motivi nuovi deduce non sussistere il delitto di accesso abusivo a sistema informatico non potendosi ritenere abusivo l’ingresso al sistema da parte di soggetto abilitato ad accedervi.

Con il quarto dei motivi nuovi deduce violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, art. 7 erroneamente ritenuta quanto ai capi D ed E della imputazione in quanto l’istigazione al pubblico ufficiale era diretta ad ottenere notizie nell’esclusivo interesse proprio, mentre per il capo G "l’ottenimento delle notizie segrete corrispondeva alla precisa esigenza dell’ A. di avere elementi utili per la sua posizione personale al fine di difendersi dagli ingiusti pericoli ai quali era o poteva essere sottoposto dalla struttura organizzativa del sodalizio".

Evidenzia l’incoerenza della decisione che ha configurato l’aggravante solo nei confronti dell’istigatore e non anche nei riguardi del pubblico ufficiale.

Con il quinto dei motivi nuovi deduce difetto di motivazione con riferimento al diniego di attenuanti generiche a persona incensurata, non essendovi sul punto motivazione del giudice di appello.

5.2 RICORSO R.G..

Il difensore di R.G. – imputato condannato alla pena di anni 8 di reclusione – deduce, con un primo motivo, violazione dell’art. 649 c.p.p. per violazione del principio del "ne bis in idem" con riferimento all’imputazione di cui al numero 7 del capo C della rubrica – (condotta consistita nell’avere informato Mi.

D. della collocazione di microspie nella autovettura di costui) – fatto in primo grado ritenuto non costituire agevolazione dell’associazione mafiosa "Cosa Nostra" ex art. 416 bis, ma mero favoreggiamento personale, fatto in ordine al quale il P.M. non aveva proposto appello, con la conseguenza che la Corte di Palermo non era stata investita sul punto di cognizione ed aveva, illegittimamente, qualificato nuovamente il fatto ai sensi dell’art. 416 bis c.p..

Con un secondo motivo deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione del diritto di difesa prospettando le stesse doglianze di cui al primo motivo di ricorso per il rilievo che l’omessa indicazione delle rivelazioni fatte al Mi. da parte del P.M. nell’atto di appello non ha consentito alla difesa di esporre le proprie contrarie ragioni davanti alla corte territoriale.

Con un terzo motivo di ricorso deduce violazione del disposto di cui all’art. 521 c.p.p. rilevando che la affermazione di colpevolezza per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. è fondato anche su rivelazioni del R. al Bo.An., primo destinatario della notizia relativa alle microspie collocate presso l’abitazione di Gu.Gi., episodio estraneo al capo di imputazione, come quello relativo ai mafiosi E..

Come quarto motivo deduce violazione di legge e difetto di motivazione per avere la Corte territoriale considerato le operazioni di bonifica da microspie eseguite in favore di Cu.Sa. quale elemento di consapevolezza della portata e delle conseguenze delle azioni poste in essere in favore di personaggi legati ad ambienti mafiosi.

Con il quinto motivo di ricorso, deduce violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione di responsabilità per il delitto associativo che afferma non essere sussistente in conseguenza di contraddizioni interne e travisamento dei dati processuali con specifico riferimento:

1. all’episodio Bo. – Gu.Gi. che non può essere considerato per quanto già esposto nei precedenti motivi di ricorso e che comunque è episodio ininfluente perchè mai il R. "avrebbe potuto immaginare, nè sospettare che il maresciallo Bo. avrebbe potuto confidare ad altri la confidenza ricevuta in via del tutto confidenziale".

Bo. sfruttò la confidenza per le sue ambizioni politico elettorali, rivelando al suo referente politico, Cu.

S., la notizia segreta, che "per dinamiche interne al partito politico non imputabili al R. veniva veicolata in quella catena che aveva permesso il disvelamento della notizia al capo mafia".

Il rapporto tra "il ricattato A. e il concussore Bo. rinforzava nel R. la convinzione dell’estraneità dell’ A. ad ambienti malavitosi in quanto costui era "sottoposto ad estorsione anche da rappresentanti della famiglia di Bagheria".

Deduce l’"inaffidabilità del ragionamento paralogico" che collega l’episodio Bo. Gu.Gi. con quello della rivelazione E. di ben due anni dopo del gennaio – febbraio 2003;

2. all’episodio Me.Pa. del giugno 1999 (persona imparentata con favoreggiatori del latitante M.D.M. in quanto sorella della convivente di costui) in cui non furono disvelate notizie segrete dal momento che le indagini della Polizia di Stato erano da tempo concluse e che "l’esistenza delle attività investigative che avevano riguardato l’abitazione della Me. era già conosciuta dalla predetta perchè era stata comunicata all’ A. da altri ufficiali di PG ( Di.Ca. e Bo.)".

Deduce che "la dotazione da parte dell’ A. di un cellulare riservato anche alla Me., non era un fatto necessariamente noto al R.", evidenziando anche per questa vicenda una traslazione temporale di eventi ricollegati fra loro anche se separati da quattro anni;

3. all’episodio Mi.Do. verificatosi nel corso dell’anno 2002 ed illogicamente considerato come prestato a vantaggio di più persone appartenenti al sodalizio mafioso in quanto R. ebbe a informare il Mi.Do. di avere messo le microspie nella autovettura di costui quando dette microspie non erano più operative mentre la notizia era già nota al Mi.Do. per averla ricevuta dal dott. Ra. cui precedentemente lo stesso R. la aveva comunicata.

Rappresenta l’illogicità della "suggestiva tecnica argomentativa che ha legato l’episodio Mi.Do. con la travisata vicenda Bo." e nega che il R. sia stato a conoscenza dei vantaggi procurati alla organizzazione criminale per effetto delle confidenze rivolte all’ A. che sapeva vittima di estorsioni da parte degli E..

Come sesto motivo deduce mancanza di motivazione con riferimento alle prove evidenziate nell’atto di appello rilevando che dal 1999 al 2003 l’ A. era un soggetto incensurato non sottoposto ad indagini, come accertato dalla decisione di primo grado e che in detto periodo "il R. non rivelò ad alcuno notizie sulle innumerevoli attività investigative poste in essere dal R.O.S. sul territorio di Bagheria" avendo proficuamente partecipato a numerose positive indagini antimafia, mai confidate ad A..

Rileva che agli inizi dell’anno 2003 l’ A. fu individuato come "soggetto di interesse investigativo" in quanto erano state registrate visite degli E. presso la clinica dell’ A. che non era indicato come possibile fiancheggiatore di "Cosa Nostra" e ricorda al riguardo altri specifici dati processuali di natura testimoniale, di risultanze di intercettazioni, ovvero di decisioni relative all’imputato Ci.Gi. che in altro procedimento è stato riconosciuto colpevole per analoghi fatti di favoreggiamento con esclusione del delitto associativo.

Come settimo motivo deduce mancanza di motivazione in ordine alla mancata assoluzione per il delitto di favoreggiamento per difetto di dolo in quanto il prevenuto fu consapevole di trasgredire al dovere del silenzio ma solo in favore di soggetto estraneo all’ambiente malavitoso.

Come ottavo motivo di ricorso deduce – con riferimento ai capi D) ed E) della imputazione (artt. 48, 81 cpv. 110 e 615 ter c.p.; art. 110 c.p., art. 326 c.p., comma 1, con l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7), delitti posti materialmente in essere dal maresciallo Ci.Gi., in ordine ai quali è stato riconosciuto il concorso morale del prevenuto – non avendo avuto nè sollecitato notizie in materia di sanità presso fonti del N.A.S. e per quanto concerne la comunicazione della proroga delle intercettazioni essendo stata divulgata una notizia millantata e non veritiera circa la durata di detta proroga (15 giorni anzichè 20).

In ordine ai delitto di corruzione di cui al capo I deduce, con il nono motivo di ricorso, vizio di motivazione sottolineando l’assenza di rapporto sinallagmatico tra la ricezione delle somme di denaro e le rivelazioni di notizie segrete in quanto "la semplice ricezione dei 20 milioni di lire nonchè il modesto aiuto fornito per la realizzazione della casetta rurale non era sufficiente ad integrare il reato per la carenza in capo al R. della preordinazione di effettuare a favore del donante una controprestazione illecita e contraria ai suoi doveri di ufficio".

Insiste nel sostenere che i particolari rapporti con A. escludevano l’esistenza di un accordo corruttivo.

Eccepisce poi, con il decimo motivo di ricorso, il decorso del termine di prescrizione in ordine ai delitti di cui ai capi S (art. 326 c.p. e L. n. 203 del 1991, art. 7 in Palermo nella primavera estate 2002), T) (art. 326 c.p. in Palermo nella primavera estate 2002), V) (artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 615 bis c.p., commi 1, 2, 3.

In Palermo nel corso del 2002), in ordine ai quali la Corte territoriale ha ritenuto che al termine di anni 7 e mesi 6 scadente nel dicembre 2009 deve essere aggiunta la proroga di mesi 1 e giorni 16 (20 giorni per sospensioni in primo grado e 26 giorni in secondo grado) con la conseguenza che la prescrizione è maturata il 14 febbraio 2010, data successiva alla pronuncia della decisione di appello.

Al riguardo deduce che la non precisione della data in cui furono posti in essere i delitti, incertezza non risolta dagli accertamenti dibattimentali deve operare a favore del reo, essendo arbitrario individuare la data dei detti reati nel 30 giugno 2002.

Come undicesimo motivo deduce difetto di motivazione in ordine al diniego di attenuanti generiche ed alla quantificazione della pena in una misura più prossima al minimo edittale con minimi aumenti per la continuazione.

Espone che il prevenuto "brillante tecnico del R.O.S. dei Carabinieri", ha ammesso le proprie responsabilità, è stato soggiogato dalla forte personalità e dal comportamento dell’ A. ed ha tenuto un comportamento processuale di collaborazione anche nei procedimenti separati a carico di Bo. e Mi.Do..

5.3 RICORSO C.A..

Il difensore di C.A., condannato alla pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione per i reati di cui ai capi D) artt. 48, 81 cpv., 110, 615 ter c.p. con l’aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 ed E) art. 110 c.p., art. 326 c.p., comma 1; L. n. 203 del 1991, deduce violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla competenza funzionale del giudice di Palermo ai sensi dell’art. 11 c.p.p. in quanto in sede di indagini preliminari gli atti essenziali del procedimento sono stati trasmessi al Procuratore della Repubblica di Caltanissetta per "verificare se magistrati in servizio presso la Procura di Palermo siano coinvolti nella rivelazione di segreti di ufficio in favore dell’imprenditore A.M.(.

t.i.c.d.d.d.a.d.G.d.

C.d.5.

C.r.d.s.p.d.a.a.s.

d.p.e.s.i.c.i.i.m.

i.h.s.a.s.n.r.d.

s.d.P. l.f. e p., accertando "assenza di elementi di riscontro all’ipotesi che possa essere stato un magistrato a fornire notizie sui procedimenti penali in corso", disponendo conseguentemente l’archiviazione del procedimento per l’infondatezza della notizia di reato.

Deduce che indipendentemente dalla formale iscrizione nel registro degli indagati i due magistrati hanno sostanzialmente assunto la qualità di indagati, con la conseguenza della necessità di spostamento della competenza del giudice ai sensi dell’art. 11 c.p.p., in quanto la competenza per connessione si determina in relazione alla notizia di reato e permane anche nell’ipotesi di successiva archiviazione nei confronti del magistrato indagato.

Rappresenta al riguardo che l’iscrizione a Caltanissetta del procedimento contro ignoti, pur essendo la notizia riferita a magistrati ben indicati è un errore e che comunque sussiste l’ipotesi di cui all’art. 11 c.p.p. in quanto il Ci., imputato giudicato separatamente è stato imputato di calunnia, proprio per aver indicato falsamente fonti informative in magistrati della Procura della Repubblica di Palermo.

Eccepisce quindi l’incostituzionalità dell’art. 11 c.p.p. con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost. nella parte in cui l’interpretazione giurisprudenziale non consenta di ritenere il trasferimento di competenza pur in assenza di formale iscrizione di magistrati nel registro degli indagati in quanto la tutela dell’indipendenza del giudice è connessa funzionalmente al principio di imparzialità con conseguente necessaria estraneità rispetto agli interessi e ai soggetti coinvolti nel processo.

Con un secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla affermazione di colpevolezza per il delitto di concorso in indebito accesso a sistema informatico accertato per avere il C. "condiviso tutte le iniziative illecite del cugino A. peraltro attivandosi anche attraverso una fonte interna alla Procura rimasta non individuata".

Nega che il C. ebbe a sollecitare A. ad acquisire tramite Ci. informazioni sul registro degli indagati per accertare l’inserimento del nome dell’ A. (telefonata del 20 settembre in cui non conferì incarichi ma diede solo un parere cui nulla di fatto seguì) ed analizza le varie telefonate escludendo concorso morale nel delitto in quanto le stesse non sono indicative di certezze, mentre la valutazione di legittimità non può essere limitata alla coerenza intrinseca e alla congruità delle ipotesi dell’accusa, ma deve prendere in considerazione anche le ipotesi antagoniste di spiegazione dei fatti.

E’ necessaria anche la verifica della eventuale incompletezza o inesattezza dei dati informativi su cui si basa la motivazione.

Al riguardo espone di essere estraneo ai meccanismi truffaldini posti in essere nelle strutture sanitarie, evidenzia il diretto interesse del Ci. a conoscere dati inerenti la sua posizione, avendo detto imputato effettuato tre ingressi al sistema della Procura in data antecedente al 20 settembre 2003, non essendo rilevante il dato costituito dalla partecipazione alla cosiddetta rete riservata, stante anche la pericolosa presenza, non considerata dal giudice di appello del Bo., persona dedita al ricatto e all’uso non ortodosso della sua appartenenza alle forze dell’ordine, acquisendo la fiducia di imprenditori per poi presentarsi "come una sorta di agente segreto" creando lui stesso i pericoli dai quali proteggere l’imprenditore, come accertato dal giudice di primo grado.

Lamenta ancora violazione del disposto dell’art. 54 c.p. sussistente "per il timore degli interventi condizionanti dell’inquietante Bo." e nega la sussistenza del concorso anche sotto la forma del rafforzamento dell’altrui volontà svolgendo diffusa analisi del contenuto della telefonata del 20 settembre 2003 nella quale non ebbe a concordare alcun accesso abusivo a sistema informatico, riproducendo i motivi di appello non considerati dal giudice di secondo grado.

Nega il contenuto sostanzialmente confessorio della dichiarazione resa il 24 novembre 2003 e contesta l’interpretazione giurisprudenziale data dalla corte di merito in relazione alla sussistenza del delitto di cui all’art. 615 ter c.p. qualora l’ingresso al sistema informatico sia operato da addetto al sistema non per ragioni direttamente inerenti il suo ufficio (motivo questo analogo ad altro avanzato dalla ricorrente B.) in quanto la norma non sanziona il permanere nel sistema da chi ha l’autorizzazione per accedervi.

Deduce che la differente interpretazione di questa norma resa dalla corte territoriale che ritiene sussistere il reato anche per chi sia legittimo titolare delle chiavi di accesso ma utilizzi l’ingresso per acquisire notizie non inerenti i propri doveri di ufficio, è in contrasto con le Raccomandazioni del Consiglio di Europa, come già ritenuto nella sentenza n. 26797/2008 della Cassazione sez. 5^, ric. Peperaio.

Inoltre, tale interpretazione rende superflua la distinzione delle due fattispecie astratte previste dallo stesso disposto dell’art. 615 ter.

Deduce ancora la mancata verifica di sussistenza da parte del giudice di merito dell’elemento soggettivo richiesto dalla norma incriminatrice, dolo che è stato sostanzialmente ritenuto "in re ipsa", mentre, stante l’incertezza delle interpretazioni giurisprudenziali in ordine all’accesso ai sistemi informatici può trovare applicazione il dettato dell’art. 5 c.p., stante l’ignoranza inevitabile e quindi scusabile con riferimento ad una equivoca formulazione del testo normativo.

Con riferimento al delitto di cui all’art. 326 c.p. deduce il difetto di prova dell’esistenza di una propria fonte informativa, mentre è illogica la motivazione di responsabilità per il concorso nel delitto quale istigatore del Ci. e del R..

Deduce che il privato non può concorrere nel delitto con il pubblico ufficiale, non essendo detto comportamento sanzionato dalla norma.

Con altro motivo deduce violazione di legge e mancanza di motivazione in ordine alla omessa concessione dell’attenuante di cui all’art. 114 c.p..

Deduce gli stessi vizi per il diniego di attenuanti generiche e la quantificazione della sanzione non nel minimo edittale, pur essendo persona incensurata che non ha percepito antigiuridicità di condotte.

5.4 RICORSO B.G.A..

Il difensore di B.G.A. – imputata condannata alla pena di mesi 6 di reclusione concesse attenuanti generiche equivalenti ed il beneficio della sospensione per il reato di cui al capo D) artt. 48, 81 cpv. 110, 615 ter c.p. in Palermo dal giugno 2003 al 4.11.03 – deduce, con il primo motivo di ricorso, violazione di legge con riferimento all’affermazione di responsabilità in ordine al delitto di accesso abusivo al sistema informatico della Procura della Repubblica di Palermo (R.E.GE.) (art. 615 ter c.p.) in quanto la prevenuta, Ispettore della Polizia Municipale, addetta alla segreteria di un Magistrato della Procura della Repubblica di Palermo era assegnataria di password per l’accesso ai registri informatizzati della Procura senza limiti "spaziali o temporali" per la consultazione dei dati inerenti al sistema.

Osserva che la condotta sanzionata dalla norma incriminatrice è "l’intrusione ed il mantenimento nel sistema informatico protetto da misure di sicurezza, da parte di chi sia legittimato ad accedervi, ma vi permanga al di fuori ed oltre la volontà del titolare del diritto".

Espone che ai fini della punibilità della condotta è necessario che il titolare del sistema renda palese la volontà di impedire l’accesso o il mantenimento all’interno del sistema informatico con l’introduzione di codici di accesso ovvero escludendo o limitando l’accesso con disposizioni specifiche, che nella concreta fattispecie non sono mai stati posti alla prevenuta nei cui confronti non può quindi parlarsi di abusività di accesso con riferimento agli scopi e alle finalità dell’operatore.

Insiste nel dedurre che l’eventuale successiva rivelazione di segreto di ufficio non è "collegata rispetto all’accesso al sistema realizzato in condizioni di formale e sostanziale legittimità".

Con il secondo motivo di ricorso deduce mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della decisione rilevando difetto di prova in ordine alla sussistenza di accessi al sistema da parte dell’imputata ulteriori rispetto a quello registrato il 23.9.03 sul modello 21 (imputati noti) in relazione al fascicolo n. 140/03 in quanto il teste ri., esperto del sistema, ha dichiarato che all’epoca sin dal giugno 2003 il programma era in grado di registrare anche le ricerche pur negative mentre il giudice di appello ha seguito l’opinione contraria riferita dall’altro tecnico d’. senza superare il contrasto indicato dalla difesa escutendo nuovamente il consulente tecnico ri..

Lamenta che l’omessa considerazione del contrasto inficia di logicità l’accertamento di penale responsabilità non essendovi prova di accessi per la verifica delle tre posizioni di Ro., d’. e Gi., negando valenza decisiva alle dichiarazioni rese dalla prevenuta.

5.5 RICORSO V.G..

V.G. – condannato alla pena di anni 3 di reclusione per i reati di cui ai capi A1) art. 378 c.p., art. 61 c.p., n. 9 in Palermo nell’estate fino al 5 novembre 2003 e B1) art. 479 c.p. in Palermo il 16.10.03 – con ricorso personale deduce violazione di legge e difetto di motivazione in quanto la prova di responsabilità è stata esclusivamente tratta dal contenuto delle dichiarazioni di ammissione dei fatti rese dal medesimo ricorrente in sede di indagini preliminari in data 5 novembre 2003, dichiarazioni sostanzialmente disconosciute nel corso dell’esame dibattimentale.

Lamenta al riguardo che la Corte di appello non ha considerato quanto dedotto nei motivi di appello, vale a dire che esso V. seppe solo del sequestro operato dai NAS presso il Distretto sanitario di Bagheria il 18 settembre 2003, con la conseguenza che la notizia ebbe ad apprenderla dopo detta data.

Rappresenta poi che nella telefonata del 3.10.03 tra A. e Ci. non risulta che esso V. chiese di far parte di quella rete riservata, ma solo che i due avevano intenzione di proporre al V. di farne parte, coinvolgimento in concreto mai effettuato.

Elenca tutti gli eventi processuali accertati in ordine all’ A. nei mesi da giugno a novembre 2003, eventi evidenzianti che " A. è impegnato in una spasmodica e incessante attività di ricerca e verifica di eventuali attività investigative sul suo conto ma in tale attività non viene assolutamente coinvolto il V. rilevando che dalla telefonata del 3.10.03 tra A. e Ci. risulta che i due "evitano di conversare su temi concernenti la verifica di attività investigative sul loro conto alla presenza del V.".

Deduce che il giudice di appello non ha tenuto conto di una memoria difensiva relativa ad altra decisione in una fattispecie di omessa denuncia, rappresentando anche che per la vicenda di richiesta di informazioni per la pratica A.T.I. Group di A. la stessa non era esaurita e chiusa alla data del 3 ottobre 2003 in quanto il giorno precedente all’accesso del V. in Prefettura la ASL 6 aveva chiesto un supplemento di istruttoria.

Anche con riferimento al delitto di falso deduce violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla assenza di consapevolezza da parte di esso ricorrente della sussistenza di indagini in corso a carico di A., riportandosi alle motivazioni espresse con riferimento al primo motivo di gravame, rappresentando che le informazioni fornite per il nulla osta all’ A. dovevano essere contenute in documenti ufficiali acquisibili in un procedimento penale.

Deduce gli stessi vizi di legge per il diniego delle attenuanti generiche malgrado il suo stato di persona incensurata che non ha avuto percezione di disvalore di quanto accertato.

5.6 RICORSO CU.SA..

I difensori di Cu.Sa. – imputato condannato alla pena di anni 7 di reclusione per i reati di cui ai capi N) artt. 110, 81 cpv. e 326 c.p. in Palermo e Bagheria 20 e 31 ottobre 2003 O) art. 110 c.p., art. 378 c.p., commi 1 e 2 in Palermo e altrove fino al mese di ottobre 2003 P) artt. 110, 81 cpv. e 326 c.p., L. n. 203 del 1991, art. 7 in Palermo e altrove nella primavera estate 2001 Q) artt. 81 cpv e 110 c.p., art. 378 c.p., commi 1 e 2, L. n. 203 del 1991, art. 7 in Palermo e altrove nella primavera estate 2001 – deducono con un primo motivo di ricorso l’incompetenza funzionale dei giudici di Palermo per violazione del disposto di cui all’art. 11 c.p.p. per le stesse ragioni esposte con analogo motivo dalla difesa del C..

Come secondo motivo deducono violazione degli artt. 268 e 271 c.p.p. per essere il decreto n. 963/01 NRI con cui sono state disposte le intercettazioni in casa Gu.Gi. a decorrere dal 1.2.01 e nei giorni 12 e 15.6.01 non utilizzabili perchè eseguite a mezzo di impianti diversi da quelli istallati presso la Procura della Repubblica senza che il P.M. abbia indicato le ragioni di inidoneità degli apparati presso la Procura della Repubblica, inidoneità solo indicata come tale.

Come altro motivo di inutilizzabilità deducono violazione dell’art. 268 c.p.p., comma 3 e art. 271 c.p.p. con riferimento alla 24^ proroga disposta dal Gip in data 2.2.01 di cui al decreto 1007 del 29.7.07 in quanto le ricerche del latitante D.F.F. che avevano imposto immediatezza di intervento si erano concluse sin dal 2 dicembre 2000, come comunicato dagli stessi Carabinieri con nota in pari data.

La ragione della indisponibilità degli apparati individuata in relazione alla cattura del latitante D.F.F. non può permanere per giustificare altri provvedimenti successivi che si fondano su fatti e temi di indagini diversi.

Con un terzo motivo di ricorso deducono violazione di legge e difetto di motivazione in ordine ai canoni probatori utilizzati per i delitti di favoreggiamento e rivelazione di segreti di ufficio per i capi P e Q (episodio Gu.Gi. del 12.6.01) che il difensore qualifica "operazione di assemblaggio di elementi di diversa natura rivelatasi finalisticamente e probatoriamente asservita all’esigenza dimostrativa della tesi preconcetta la quale permea l’intero costrutto argomentativo". Deducono, in particolare, che la chiamata in correità al riguardo espressa dal collaborante Ar.

S. per avere appreso la notizia da Mi.Do. – che cioè Cu. avrebbe rivelato a quest’ultimo la notizia dell’esistenza di una intercettazione telefonica intercorsa tra Mi.Do. e Gu.Gi. – è corredata da riscontri inadeguati.

Al riguardo espone:

1. che le intercettazioni ambientali disposte presso l’abitazione di Gu.Gi. non possono costituire riscontro alle dichiarazioni accusatorie dell’ Ar. in quanto in detta conversazione è proprio lo stesso Ar. che indica in To.

(il Cu.) la fonte del Mi.Do., mentre nessun rilievo ha l’incarico che Gu.Gi. immediatamente affidò a Ar. di contattare il Cu. per ulteriori notizie;

2. che la presunta rivelazione da parte di Mi.Do. al Gr.

V. (cognato del Gu.Gi.) della notizia circa l’esistenza di indagini sul conto dello stesso Gu.Gi. è falsa in quanto nel procedimento contro il Gr. è risultato che costui non ricevette confidenze da M.D. ma da altra non indicata fonte;

3. che i risultati peritali concernenti la conversazione ambientale captata presso l’abitazione di Gu.Gi. non sono decisivi in quanto la frase che Gr.Gi. dice al marito Gu.Gi. al momento del rinvenimento della microspia "vero ragione aveva Cu.To." non è percepibile (al contrario di quanto affermato dal perito fonico di ufficio ge.), come affermato dall’altro perito di ufficio Za.;

4. che non costituiscono riscontro individualizzante le dichiarazioni di R.G. nel cosiddetto episodio del ristorante (OMISSIS) il 24 giugno 2001, giorno delle elezioni regionali per il rinnovo dell’Assemblea regionale ( Ar. ha visto Mi.

D. appartarsi con Bo. e Cu., quindi Mi.Do. si avvicina a Ar. e gli dice "siamo rovinati" in quanto Bo. aveva detto che era stata scoperta una microspia nascosta nella presa elettrica di un lume nel suo salotto e che era stata registrata la frase "hai visto che avevano ragione").

Ciò al contrario dimostra, secondo il ricorrente, che Mi.Do. viene a sapere il tutto solo in quella data e non prima;

5. che la candidatura elettorale di Bo. non può essere valutata come corrispettivo di un patto col Cu. finalizzato all’acquisizione di notizie riservate, come solo assertivamente detto dal collaboratore ca.;

6. che il confronto c. – z. non è parimenti rilevante in quanto l’iniziativa del Cu. di "suggerire all’avvocato di Ar. la possibilità che egli si avvalesse della facoltà di non rispondere" fu dettata non "per impedire la rivelazione di sue presunte condotte illecite ma da una generica esigenza di tutelare la sua immagine ed evitare inquinamenti generici che riguardavano suoi rapporti personali con soggetti compromessi in indagini di mafia".

Come quarto motivo di ricorso deducono vizio strutturale di motivazione in ordine alla prova del dolo richiesto per affermare la sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 dolo specifico consistente nel fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dall’art. 416 bis c.p..

Espone che la Corte territoriale ha ritenuto un fatto ignoto come fonte di un’ulteriore presunzione in forza della quale ha pronunciato condanna; ha presunto cioè che Cu. fosse a conoscenza dei rapporti tra Mi.Do. e Gu.Gi. con la conseguenza che le notizie rivelate allo stesso Mi.Do. fossero per essere portate a conoscenza del Gu.Gi. al fine quindi di agevolare la struttura criminale.

Il ricorrente afferma trattarsi del divieto della cosiddetta "praesumptio de praesumpto" la cui inosservanza comporta la violazione dell’art. 192 c.p., comma 2 ed il vizio di motivazione.

Con un quinto motivo deducono vizio di motivazione in ordine all’accertamento dell’accordo elettorale tra Gu.Gi. e Cu. quale presupposto per l’affermazione del dolo richiesto per l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 rilevando che il "dato obiettivo del rifiuto da parte di Cu. della candidatura di Pr.S., proprio perchè lo stesso era sponsorizzato da Gu.Gi. è incompatibile dal punto di vista logico con la supposta adesione di Cu. al disegno politico di Gu.Gi.";

che la prima proposta del Cu. di candidare Mi.Do. nel non sicuro collegio di Agrigento è dato escludente accordi con Gu.Gi.; che nessun incontro tra Cu. e Gu.

G. è avvenuto, malgrado le richieste di Gu.Gi. al riguardo; che Mi.Do. aveva interesse all’appoggio sia di Cu. che di Gu.Gi. mentre Cu. rimase estraneo ai rapporti tra i due.

Come sesto motivo di ricorso si deduce violazione di legge per avere la corte di Palermo ritenuto il dolo eventuale del Cu. nel reato di rivelazione di segreti di ufficio e di favoreggiamento ed il dolo specifico per l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 sussistendo comunque incompatibilità tra dolo diretto da cui esula il momento finalistico dell’intenzione e dolo specifico richiesto dalla norma incriminatrice.

Con un settimo motivo di gravame deducono difetto di motivazione, travisamento della prova ed erronea applicazione di legge penale relativamente al riconoscimento del dolo diretto nel reato di rivelazione di segreto e favoreggiamento in quanto l’avere il Cu. riferito a Mi.Do. la notizia segreta che costui riportava a Ar.Sa., il quale la riferiva a Gu.Gi. realizza un rapporto mediato tra favoreggiatore e favoreggiato che esclude il delitto. Si evidenzia con forza che "l’azione favoritrice di Mi.Do., in mancanza di un mandato specifico di Cu. di avvertire anche Gu.Gi., non può giuridicamente essere ascritta ad altri che a Mi.Do. stesso:

essa è frutto di una scelta consapevole e volontaria del solo Mi.Do.".

Accollare a terzi scelte di azioni poste in essere da altri viola il principio di responsabilità personale e trasforma anche il delitto di favoreggiamento in delitto colposo.

Come ottavo motivo di ricorso deducono gli stessi vizi di motivazione relativamente alla sussistenza del dolo specifico necessario per integrare l’aggravante con riferimento ai reati di rivelazione di segreto e di favoreggiamento riguardo a Gu.Gi..

Al riguardo rilevano che i Giudici di appello hanno riconosciuto il dolo specifico previsto per l’aggravante in forza dell’accertato dolo diretto per i due delitti ritenendo che rivelare segreti ad un mafioso e favorire un mafioso costituisce condotta consapevolmente prestata a favore dell’organizzazione, essendo il favoreggiato un esponente di vertice dell’organizzazione.

Espone che la verifica dell’elemento intenzionale deve essere separatamente operata per il delitto e per l’aggravante, dovendo comunque l’azione superare il rapporto interpersonale ed essere diretta ad agevolare il sodalizio, finalità quest’ultima che necessita di specifica prova.

Insiste nel ribadire essere "più verosimile che Cu. abbia agito allo scopo di proteggere sè stesso e tutt’al più anche l’amico Mi.Do. e non per favorire la cosca di Brancaccio in quanto tale"; presumere la sussistenza del fine di agevolare, desumendolo – come hanno fatto i giudici di secondo grado – automaticamente da una mera ritenuta idoneità oggettiva della condotta all’agevolazione della organizzazione criminale, equivale a violare i principi generali in punto sia di elemento soggettivo, sia di prova".

Insistono per i vari episodi nel dedurre assenza di elementi individualizzanti di riscontro riferibili al Cu. sia per la vicenda delle raccomandazioni per l’assunzione di medici preso l’Ospedale (OMISSIS), sia per le dichiarazioni di ca., sia per il centro commerciale di Brancaccio.

Con un nono motivo di ricorso deducono gli stessi vizi della decisione riferiti al dolo specifico necessario per integrare l’aggravante in relazione al delitto di rivelazione di segreto e favoreggiamento riguardo al Mi.Do., persona solo indagata per concorso esterno in associazione, non conosciuta come "figura centrale" dell’associazione mafiosa.

Deducono come decimo motivo violazione di legge e difetto di motivazione in ordine al delitto di rivelazione di segreto e favoreggiamento di A. di cui ai capi N ed O della imputazione, essendo il vizio riferito alla individuazione della finalità e dei destinatari dell’informazione fornita da Cu., in quanto l’agire del prevenuto fu finalizzato a sollecitare gli altri ad evitare di coinvolgerlo nei loro discorsi.

Evidenzia che A. e C. era già a conoscenza della notizia per averla appresa da altra fonte.

Deducono come undicesimo motivo violazione di legge e difetto di motivazione in quanto il delitto di cui all’art. 326 c.p. è reato proprio e difetta nella fattispecie la prova del concorso morale nei delitti di cui ai capi N e P della rubrica da parte di Cu., non potendosi ipotizzare la sussistenza di un presunto accordo tra lo stesso Cu. e Bo..

Per il capo P ( Gu.Gi.) fu il R. a rendersi autore della originaria condotta di rivelazione che partecipò al Bo., che essendo in aspettativa dal servizio non esercitava di fatto una funzione direttamente collegata ad attività di servizio ed era quindi anch’esso extraneus al delitto).

Per il secondo episodio la fonte non è il Bo., ma un soggetto ignoto con la conseguenza che non risulta provato che la notizia riservata sia stata ricevuta da un pubblico ufficiale e che la stessa sia stata frutto di un preventivo accordo tra i due soggetti.

Come dodicesimo motivo è dedotta violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla mancata applicazione dell’esimente di cui all’art. 384 c.p. con riferimento ai delitti di favoreggiamento avendo il Cu. avuto di mira il conseguimento di interessi propri.

Rileva che l’esimente può essere rilevata d’ufficio anche quando l’imputato nega le due condotte addebitate che furono eventualmente poste in essere allo scopo di rimanere estraneo a fatti che non lo coinvolgevano direttamente.

Con motivo aggiunto i difensori deducono ancora violazione di legge e difetto di motivazione per il diniego delle attenuanti generiche e per la quantificazione della sanzione che i giudici di appello hanno confermato riportandosi pedissequamente a quanto già espresso nella sentenza di primo grado.

Con motivi nuovi depositati in data 23.12.10 i difensori si riportano alle argomentazioni di inutilizzabilità delle intercettazioni di cui ai decreti n. 963/01 NRI e delle conseguenti conversazioni captate in casa Gu.Gi. a decorrere dal giorno 1.2.01 e nei giorni 12 e 15 giugno 2001 (primo dei motivi nuovi).

Ribadiscono le censure in ordine alla prova di responsabilità per l’episodio Gu.Gi. del 2001 rilevando che, come risulta da una sentenza di primo grado a carico di Gr.Vi. (che viene prodotta) Mi.Do. non notiziò il Gr.Vi. di quanto avrebbe saputo dal Cu. relativamente alle microspie in danno di Gu.Gi., essendo questa una mera supposizione dell’ Ar..

Escludono che le confessioni del R. possano costituire conferma di responsabilità di Cu., ribadendo l’incertezza di contenuto della intercettazione 15.6.01, stante il contrasto tra i periti nel decifrare le parole registrate.

Per l’episodio della cena al (OMISSIS) ribadiscono che R. informò Bo. e non Cu. e che il teste va. non sentì la frase: "siamo rovinati" (secondo dei motivi nuovi).

Propongono ancora censure in ordine alla sussistenza del dolo specifico previsto per integrare l’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 essendo inesistente la prova di un presunto accordo Cu. – Gu.Gi. in ordine alla candidatura del Mi.Do., essendo stato escluso l’intervento del Cu. per segnalazioni ad un concorso medico e per il centro commerciale di Brancaccio (terzo dei motivi nuovi).

Con ulteriori motivi depositati in data 30.12.10 reiterano le doglianze per l’episodio Gu.Gi. di cui ai capi P e Q della imputazione, rilevando che la prova di responsabilità è conseguente ad unica chiamata in correità indiretta -(quella dell’ Ar.) – che non può trarre conferma dalle dichiarazioni di R. in quanto non erano presenti microspie presso la segreteria politica del Mi.Do., nè erano state posizionate telecamere sul palazzo di fronte, nè erano state predisposte intercettazioni presso la villa di campagna dell’ Ar. (primo degli ulteriori motivi nuovi).

Ancora sono avanzate censure in ordine al ricostruito patto elettorale tra Gu.Gi. e Cu. per la candidatura di Mi.Do. rilevando che i dati processuali evidenziano che Mi.Do. e Ar. hanno millantato a Gu.Gi. un coinvolgimento di Cu. in realtà mai avvenuto.

Al riguardo sono analizzati diffusamente tutti i dati processuali risultanti dalle intercettazioni in ordine alla pregressa prospettata candidatura dell’avv. Pr.S., ponendo dubbi comunque sulla veridicità delle dichiarazioni che Mi.Do. ebbe a rendere all’ Ar. in un momento in cui Cu. non gli aveva fatto nessuna proposta di candidatura.

Mi.Do. poteva avere mentito anche a Gu.Gi. circa la proposta di candidatura avuta da Cu., agendo in quei momenti per ottenere la candidatura al posto del Pr.S..

Al riguardo sono riportati i contenuti e prospettati diversi significati alle intercettazioni del 9 e 14 aprile 2001 e sono addotte argomentazioni già presenti nei motivi principali di ricorso.

Inoltre viene sottolineato il programma politico e l’impegno istituzionale del Cu. incompatibile con i "desiderata" del Gu.Gi., come emerso dalle deposizioni rese in dibattimento da autorevoli rappresentanti dello Stato (secondo degli ulteriori motivi nuovi).

I difensori ritornano ancora sulla sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 in ordine alla quale deducono travisamento della prova con riferimento alle dichiarazioni di Ar. rilevando che "la supposta notizia riferita a M. D. non poteva da un punto di vista logico essere ritenuta di alcun significativo interesse per Gu.Gi., che nulla aveva da temere o da apprendere dal suo contenuto con riguardo al tema delle indagini a suo carico".

Contestano anche la creazione di un sistema di controinformazione creato da Bo. e Cu., sistema incompatibile con la tempistica di trasmissione delle notizie che lo stesso Bo. ricevette da R..

Producono copia della sentenza 28.3.08 del Tribunale di Palermo a carico di Bo. per il medesimo fatto accertato in concorso con Cu. senza il riconoscimento dell’aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 nemmeno contestata.

Insistono nell’evidenziare l’insussistenza dell’elemento soggettivo richiesto dall’aggravante e non compatibile con il dolo eventuale e con il dolo diretto, ulteriormente sviluppando argomentazioni esposte con pari ampiezza nei motivi principali (terzo degli ulteriori motivi nuovi).

Con il quarto degli ulteriori motivi nuovi si deduce, sempre in relazione alla aggravante di cui al D.L. n. 152 del 2001, art. 7 l’incompatibilità del dolo eventuale e del dolo diretto con il dolo specifico.

Con il quinto degli ulteriori motivi nuovi, relativo all’episodio ascritto ai capi N) ed O) della rubrica, contestano la sussistenza dell’aggravante prevista dall’art. 378 c.p., comma 2 non essendo emerso in alcun modo che l’imputato fosse consapevole che A., Ci. e R. fossero sottoposti ad indagine per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p..

5.7 RICORSO RO.RO..

Il difensore di Ro.Ro. – imputato condannato alla pena di anni 1 di reclusione con generiche equivalenti e sospensione condizionale per il reato di cui al capo M) artt. 110 e 378 c.p. in Palermo 20.10.03 – deduce contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione di responsabilità anche sotto il punto di vista del travisamento della prova, non essendo le notizie ricevute dal Cu. idonee a fargli comprendere che A. era persona sottoposta ad indagini.

Ciò in quanto l’intercettazione della telefonata era relativa al Ci., effettivamente conosciuto come indagato, come il R., mentre la partecipazione alla cosiddetta rete riservata non implica partecipazione ad attività elusive di indagini di polizia giudiziaria, essendo il ricorrente estraneo alla attività di ricezione di notizie ed interessato unicamente all’approvazione del tariffario regionale.

Evidenzia che il successivo incontro del 31 ottobre 2003 tra Cu. ed A. in Bagheria all’interno del negozio di abbigliamento (OMISSIS), essendo A. stato convocato a mezzo di emissari e non telefonicamente, esclude il ruolo di intermediario delineato dal giudice di merito.

Con altro motivo deduce gli stessi vizi della decisione con riferimento a specifici atti processuali quali le ammissioni del medesimo Ro. che riguardavano l’avere conosciuto da Cu. che indagato era solo il Ci. e l’altro maresciallo e non l’ A. e che il telefono della rete riservata era da lui stato utilizzato solo per chiamare un paio di volte l’ A. per ragioni di ufficio.

Ricorda anche che all’incontro della stessa sera del 20 ottobre in prossimità dello studio del legale di A., cui intervenne, essendovi in precedenza stato un incontro anche con l’avvocato amministrativista che si occupava delle tariffe, ebbe a rimanere in disparte con il ragioniere d’., mentre gli altri parlavano tra loro.

Deduce anche violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento alla quantificazione della pena in misura minima e al diniego del beneficio della non menzione.

5.8 RICORSO I.L..

Il difensore di I.L. – imputato condannato alla pena di anni 4 e mesi 6 di reclusione e Euro 1500,00 di multa per i reati di cui ai capi D1) artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 7, art. 640 p.p. e cpv. c.p., n. 1 in Palermo e Bagheria dal 1.7.99 al novembre 2003 ed E1) artt. 110 e 81 cpv. c.p., art. 61 c.p., n. 7, art. 640 p.p. e cpv. c.p., n. 1 in Palermo e Bagheria dall’inizio del 2001 al novembre 2003 – deduce violazione di legge e difetto di motivazione in ordine alla prova di responsabilità in assenza di un qualche interesse alla realizzazione delle truffe che cagionarono danni per decine di milioni di Euro, evidenziando che non è emerso alcuna percezione di illeciti profitti da parte del ricorrente che non ebbe alcun ruolo nella frammentazione delle pratiche di richiesta rimborsi, frammentazione contenenti relazioni dalle quali si evinceva con chiarezza che le sedute radioterapiche erano solo una parte dell’intero trattamento.

Nega conseguentemente la sussistenza di artifici e raggiri avendo lo I. verificato la regolarità formale delle pratiche di rimborso conformemente alle mansioni di cui era investito argomentando diffusamente sulle modalità di verifica dei costi, funzione estranea alle sue competenze professionali di medico generico addetto a funzioni amministrative ed insistendo che la procedura adottata era conforme alla normativa vigente.

Anche con riguardo alla ripetizione di pagamenti "sine titulo" da parte della ASL n. 6 di somme già rimborsate dalle ASL di appartenenza dei pazienti non residenti rappresenta l’assenza di riferimenti con le altre ASL e la impossibilità di accertare che i pagamenti già erano stati effettuati, fornendo al riguardo riferimenti a dati processuali utili per dimostrare la buona fede del ricorrente.

Con altro motivo deduce carenza di motivazione in ordine al diniego di attenuanti generiche ed alla quantificazione della sanzione in misura inferiore.

Altro difensore, avv. Marco Mazzamuto, deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. D) per omessa assunzione di prova decisiva costituita dalla effettuazione di una perizia contabile su tutte le pratiche di rimborso di assistenza indiretta delle cliniche dell’ A. al fine di "avere una più esatta visione quantitativa e temporale" della frammentazione delle fatture e dei diversi importi inerenti il medesimo soggetto.

Deduce al riguardo che la relazione dei NAS è insufficiente ed incompleta anche con riferimento al mutamento di prassi nella trattazione delle pratiche disposta dal ricorrente.

Deduce violazione di legge e difetto di motivazione con riferimento anche al travisamento del fatto considerato su dati incompleti in ordine alla sussistenza di artifici e raggiri, che afferma essere insussistenti in quanto, come esposto anche dall’altro difensore, già dalle richieste era comprensibile che le fatture si riferivano ad una parte di trattamento.

Evidenzia poi che gli artifici non erano oltretutto necessari, avendo il giudice di merito accertato che la destinataria delle pratiche era la corrotta L.B. e che il direttore della ASL dott. ma. era complice dell’ A..

Esclude rilevanza alle funzioni esercitate nelle pratiche dai dirigenti del distretto di Bagheria i quali in ordine alle richieste formavano i ruoli banca (vale a dire le proposte di deliberazione di liquidazione), essendo i funzionari della direzione generale della ASL addetti alla effettiva liquidazione.

Rappresenta la incongruenza delle risposte date dal giudice di merito con riferimento ai tetti di spesa determinati solo nell’anno 2005 mentre gli artifici erano inidonei perchè comunque "la crescita del badget avrebbe inevitabilmente allertato la ASL e la Regione Sicilia".

Deduce gli stessi vizi della decisione con riferimento alla sussistenza del dolo che non può essere tratta dalla frammentazione delle pratiche stante il mutamento di prassi imposta dallo I., indicando diffusamente diversi atti processuali relativi all’iter burocratico di liquidazione, contestando che il ricorrente ebbe ad avvisare A. dei due interventi dei NAS. Espone le stesse doglianze avanzate dall’altro difensore in ordine alla liquidazione di somme già rimborsate da ASL diverse.

Deduce erronea applicazione dell’istituto della continuazione fondato su richieste di liquidazione per fatti analoghi, richieste avanzate da due società ((OMISSIS) ed ATM) che però hanno unico riferimento imprenditoriale all’ A..

Deduce da ultimo mancare la prova della sussistenza del danno di rilevante gravità. 5.9 RICORSO P.S..

Il difensore di P.S. – imputato condannato alla pena di mesi 9 di reclusione con il beneficio della sospensione condizionale per il reato di cui al capo L1) art. 318 c.p. in Palermo e Bagheria in data antecedente all’ottobre 2003 – deduce violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione esponendo che il prevenuto ha svolto funzioni meramente manuali ed esecutive, escludenti la qualifica di pubblico ufficiale; deduce che le regalie ricevute non avevano alcuna relazione con il procedimento amministrativo in ordine al quale la direzione aziendale aveva imposto la presentazione delle richieste in maniera scaglionata, negando avere avuto alcun potere di controllo sulle richieste inerenti le cliniche private dell’ A..

L’operato meramente esecutivo del P. non era tale da influire sui meccanismi di ripetizione delle pratiche di rimborso, nè di creare privilegi personali all’ A..

Con altro motivo deduce violazione di legge in ordine al diniego di attenuanti generiche che non possono essere escluse per la entità del reato.

Deduce ancora che il reato è prescritto in quanto integrato al momento della ricezione del denaro, che trattandosi di lire è necessariamente avvenuta prima del 28 febbraio 2002, essendo decorsi oltre anni 7 e mesi 6 prima della decisione di appello.

5.10 RICORSO CA.AN..

Il difensore di Ca.An. – imputato condannato alla pena di anni 2 di reclusione per il delitto di cui al capo N1) artt. 110 e 318 c.p. (corruzione in atti di ufficio in concorso con L.B. A.) in Palermo dal 1997 al 31 ottobre 2002 – deduce, con un primo motivo di ricorso, violazione di legge e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla responsabilità fondata sulle dichiarazioni accusatorie di A.M. rese nella fase istruttoria, dichiarazioni mendaci, in quanto la sola somma di Euro 20.000,00 fu corrisposta al Ca. per lavori di condizionamento del sistema di aereazione nella struttura sanitaria in costruzione dell’ A..

Rappresenta la violazione dell’art. 81 c.p. per non avere il giudice di merito valutato separatamente le condotte contestate per il periodo 1997 – 2000 ed il successivo comportamento relativo all’emissione della fattura di Euro 20.000,00 in data 31 ottobre 2002.

Con il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge per essere la prova di responsabilità fondata sulle sole dichiarazioni dell’ A. senza considerare la loro genericità per il riferimento al prestito di L. 50.000.000 e senza valutare la sussistenza di prove relative all’intervento del ricorrente sull’operato del proprio coniuge, funzionario ASL addetto alla verifica della regolarità amministrativa delle istanze di rimborso dal 1997 al 2000.

Deduce ancora violazione dell’art. 318 c.p. per non essere state individuate le condotte specifiche della L.B. che non ebbe a mutare il proprio comportamento dopo la ricezione "dei fantomatici prestiti per 50 milioni di lire".

Con separato motivo deduce violazione di legge per non avere la corte territoriale considerato la effettiva causale della fattura di Euro 20.000,00 oltre IVA che ebbe fondamento in lavori effettivamente eseguiti.

Deduce da ultimo che la fattispecie potrebbe integrare comunque la meno grave ipotesi di corruzione impropria successiva, non essendo stata nemmeno ipotizzata una attività posta in essere dal pubblico ufficiale dopo la ricezione di utilità non dovute.

5.11 RICORSO G.M..

Il difensore di G.M. – imputato nei cui confronti è stata dichiarata la prescrizione per il delitto di corruzione in atti di ufficio (capo H della imputazione) – deduce violazione di legge sussistendo in atti sufficienti elementi per affermare l’insussistenza del fatto corruttivo in considerazione della inattendibilità del teste an. sulla identità degli operai che eseguirono i lavori e sui pagamenti effettuati, essendo la condotta contestata quale conseguenza di corruzione intrinsecamente inutile, come accertato già in primo grado.

L’attività posta in essere dal G. era indifferente per la Pubblica Amministrazione, non essendo riconducibile ad una attività di pubblico ufficiale, dato escludente la sussistenza del fatto da accertare, anche in presenza della causa estintiva della prescrizione.

Con altro motivo deduce che il fatto deve essere qualificato ex art. 319 c.p., in quanto sono stati posti in essere atti irrilevanti per le procedure amministrative di rimborsi da persona che, non essendo dipendente di ruolo non rivestiva la qualità di pubblico ufficiale.

5.12 Il difensore della parte civile Comune di Bagheria ha depositato in data 22.12.10 nota difensiva con la quale confuta le doglianze esposte dalla difesa di A. in ordine alla partecipazione dal delitto associativo evidenziando la congrua logicità degli accertamenti del giudice di merito unitariamente valutati in un contesto diversamente non controvertibile.

5.13 Il difensore della parte civile Azienda Provinciale Sanitaria di Palermo ha depositato memoria redatta in data 13 gennaio 2011 con riferimento alle posizioni di A. e I., rilevando l’infondatezza dei ricorsi proposti nell’interesse di costoro.
Motivi della decisione

6. Vanno, innanzitutto, esaminate le questioni procedurali relative alle eccezioni di incompetenza funzionale e di inutilizzabilità delle intercettazioni proposte da più ricorrenti.

6.1 INCOMPETENZA FUNZIONALE. L’eccezione di incompetenza funzionale dei giudici di Palermo avanzata ex art. 11 c.p.p. dalle difese di C. e Cu. è inammissibile perchè la questione è stata già proposta dal coimputato Ci.Gi. (giudicato separatamente) ed esaminata e valutata negativamente da questa Corte di legittimità con la sentenza n. 42690 del 28.10.2010 con la quale ha ritenuto infondata l’eccezione.

Deve al riguardo ribadirsi che in tema di competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati, l’operatività dell’art. 11 c.p.p. è subordinata alla condizione che il magistrato, nel procedimento penale, assuma formalmente la qualità di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato, "attraverso le iniziative formali previste dall’ordinamento giuridico spettanti all’organo del pubblico ministero" (Cass. 6^ n. 35218 del 22.4.2008, dep. 12.09.2008, rv. 241373; Cass. n. 40984 del 9.5.05).

La connessione ex art. 12 c.p.p. tra il procedimento da trattare e quello riguardante i magistrati è l’unica ragione che determina "ex lege" lo spostamento di competenza, connessione che deve essere formalmente accertata ai sensi del disposto di cui allo stesso art. 12 c.p.p..

Lo spostamento di competenza con deroga al giudice naturale deve necessariamente essere ancorata a precisi dati normativi che in concreto non si sono verificati in quanto i due magistrati nei cui confronti il Ci. avrebbe avanzato il sospetto di essere gli informatori di A., non sono mai stati iscritti nel registro degli indagati e quindi non hanno mai assunto la qualità di concorrenti nello stesso reato ai sensi del disposto di cui all’art. 12 c.p.p., comma 1, lett. A).

Nè è da ritenere che il disposto di cui all’art. 11 possa essere ritenuto rilevante per avere i due magistrati successivamente acquistato la qualità di parti offese nel procedimento contro il Ci., imputato di calunnia nei loro confronti e poi prosciolto.

Ciò in quanto la calunnia sarebbe stata eventualmente commessa non per nascondere i delitti di cui al presente procedimento, ma al fine di procurarsi l’impunità, fattispecie che è stata esclusa come rilevante ai fini dell’art. 12 c.p.p. dalla L. n. 63 del 2001, art. 1.

L’eccezione di incostituzionalità della norma nella parte in cui l’interpretazione giurisdizionale non consente di ritenere il trasferimento di competenza anche in assenza di formale iscrizione di magistrati nel registro degli indagati è manifestamente infondata avendo già il giudice delle leggi statuito rientrare nella esclusiva discrezionalità del legislatore limitare la possibilità di rilevare l’incompetenza per territorio a vantaggio dell’interesse all’ordine e alla speditezza del processo, evitando così che, avviato il giudizio di merito, esso possa essere vanificato da un tardivo spostamento di competenza territoriale o che le parti possano sottrarne la cognizione al giudice oramai investito (Corte Costituzionale sentenza n. 349/2000).

La Corte Costituzionale in altra ordinanza (n. 439 del 1998) ha osservato che lo spostamento della competenza per procedimenti riguardanti magistrati non è demandata alla discrezionalità di un organo giudiziario, ma dipende necessariamente e quindi esclusivamente dall’accertamento obiettivo di fatti ipotizzati dalla legge e mira ad assicurare la continuità e l’efficienza della funzione giurisdizionale.

L’interpretazione giurisprudenziale di situazioni che impongono il trasferimento di competenza per il collegamento dell’ufficio giudiziario con la cognizione del reato è quindi normativamente esclusa.

6.2 INTERCETTAZIONI. Le doglianze avanzate dalla difesa di Cu. con riferimento alla violazione del disposto di cui agli artt. 268 e 271 c.p.p. per le intercettazioni disposte nell’abitazione di Gu.Gi. a decorrere dal 1.2.2001 e nei giorni 12 e 15.6.2001 sono infondate, come già accertato da questa Corte sia nel procedimento cautelare contro Mi.Do. definito con sentenza 10.2.04 dalla Sesta Sezione (sentenza n. 9198/04) sia in altro procedimento cautelare contro Gr.Vi. (Cass. 6^, n. 28060 del 4.5.04).

I provvedimenti in questione richiamano espressamente "per relationem" i presupposti di fatto e di diritto posti a fondamento del decreto di urgenza emesso dal P.M. il 29 luglio 1999 (n. 1077/99), confermato dal Gip con convalida del 31 luglio 1999.

Detti decreti non hanno come oggetto e finalità esclusive le ricerche del latitante, (nella specie: D.F.F.), come previsto dall’art. 295 c.p.p., comma 3 (norma esplicitamente richiamata dal P.M.), ma anche la sussistenza di gravi indizi del reato di cui all’art. 378 c.p. in relazione al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

I decreti sono stati emessi a seguito della nota del ROS dei Carabinieri del 27.7.99 con la quale si evidenziava l’urgenza di approfondite indagini sull’associazione mafiosa operante nel mandamento di Brancaccio, di cui il Gu.Gi. era indiziato di appartenere.

La nota è allegata quale parte integrante del decreto di urgenza emesso dal P.M. il 19 luglio del 1999 ed integra la motivazione anche dei decreti emessi successivamente dal Gip. Tanto esclude rilevanza alla successiva nota dei Carabinieri in data 2 dicembre 2000 con cui si informa che l’attività diretta alla cattura del latitante D.F.F. doveva ritenersi esaurita, in quanto sia il P.M. che il Gip hanno emesso i decreti in questione per proseguire le indagini facendo riferimento proprio alla cattura del latitante e dei suoi eventuali favoreggiatori in un contesto associativo di stampo mafioso.

Se nella richiesta di intercettazione ambientale del P.M. in data 1.2.2001 non è menzionata la ricerca del latitante, nella stessa viene, comunque, espressamente ribadito che permangono le ragioni di cui al primo decreto del 27.7.1999, convalidato il 31.7.1999 e ciò significa che la nota dei carabinieri è stata disattesa e che il P.M. ha ritenuto di dovere proseguire in quella direzione le ricerche del latitante o comunque gli accertamenti in ordine al contesto mafioso in Brancaccio.

Non sussiste, quindi, la discrasia evidenziata dal ricorrente tra la richiesta del P.M. ed il decreto del Gip del 2.2.01 mentre la richiesta di polizia (nella fattispecie: la nota dei Carabinieri del 2.12.2000), non assume rilievo autonomo nella valutazione del contenuto dei decreti del P.M. e del Gip. Le critiche difensive in ordine sia alla motivazione della necessità di proseguire le intercettazioni ambientali avvalendosi di attrezzature appartenenti a privati presso i locali del ROS dei Carabinieri sia in ordine all’urgenza sono parimenti infondate.

Con i decreti il P.M. ha ordinato che le operazioni si svolgessero con le stesse modalità inizialmente disposte con decreto del 27.7.99 nel quale già si rilevava che, ai sensi del disposto di cui all’art. 268 c.p.p., comma 3, gli impianti della Procura non erano idonei nel loro complesso ad assicurare la rapidità ed efficienza richiesta dalla complessità e delicatezza delle indagini e consentire un celere raccordo tra gli elementi indiziari acquisiti e le emergenze delle intercettazioni, significando con ciò l’esistenza di particolari ragioni di urgenza "potendo ogni ritardo pregiudicare irrimediabilmente le indagini e le investigazioni in corso".

Il richiamo del P.M. alle modalità esecutive originariamente disposte conferma fondatamente l’attualità dei presupposti legittimanti le modalità esecutive delle intercettazioni ambientali.

Si rileva, ancora, che nel provvedimento del Gip è specificata l’indisponibilità di idonei apparati dell’ufficio e le ragioni di urgenza per la natura e gravità del reato, con la conseguenza che un ritardo avrebbe compromesso l’indagine.

Va, infine, sottolineato che il provvedimento di proroga censurato dal ricorrente è adeguatamente motivato "per relationem" con riferimento al decreto originario autorizzativo conformemente al dettato delle Sezioni Unite di cui alla sentenza n. 17 del 21.9.2000, Primavera ed altri.

7. Vanno, quindi, esaminate le posizioni dei singoli ricorrenti.

7.1 A.M..

7.1.1 Con il primo motivo di ricorso e con i primi due motivi nuovi, il difensore del ricorrente A.M. – imprenditore, titolare di cliniche private ed operante anche nel settore degli appalti pubblici e privati, imputato dei reati di cui agli artt. 416 bis, 615 ter e 326 c.p. (questi due ultimi aggravati D.L. n 152 del 1991, ex art. 7, artt. 318, 319 e 640 cpv c.p., e condannato alla pena di anni 15 e mesi 6 di reclusione) – deduce la violazione dell’art. 416 bis c.p., la mancanza e illogicità manifesta della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza sia della condotta che dell’elemento soggettivo del reato di partecipazione all’associazione mafiosa, nonchè la inosservanza dell’art. 54 c.p..

Tali motivi sono manifestamente infondati dal momento che, non solo la tesi sostenuta dallo stesso imputato e dalla difesa del medesimo di essere stato vittima della organizzazione mafiosa non ha trovato fondamento alcuno, quanto è rimasto accertato, secondo le esaustive, logiche e convincenti argomentazioni dei Giudici di merito, saldamente ancorate a precise risultanze processuali, che l’ A. si era messo al servizio della mafia ed era divenuto partecipe, consapevole dell’associazione denominata "Cosa Nostra".

Egli va, quindi, correttamente qualificato come "imprenditore colluso" intendendosi per tale – alla luce del principio più volte affermato da questa Corte di legittimità – colui che è entrato in rapporto sinallagmatico con l’associazione, tale da produrre vantaggi per entrambi i contraenti, consistenti per l’imprenditore nell’imporsi nel territorio in posizione dominante e per il sodalizio criminoso nell’ottenere risorse, servizi ed utilità (Cass. 1^, 30-6- 10 n. 30534, rv. 248321; Cass. 5^, 1 ottobre 2008, n. 39042; Cass. 1^, 11 ottobre 2005, n. 46552).

Nella concreta fattispecie è stato compiutamente accertato dai Giudici di merito che l’ A., con la costruzione di numerosissime strade interpoderali, ha conseguito profitti superiori ai dieci miliardi di lire, acquisendo, in oltre 15 anni di attività, una posizione dominante rispetto alle altre imprese, preavvisando gli esponenti mafiosi delle opere da eseguire, richiedendo al riguardo autorizzazione preventiva, trattando anche per altre zone della Sicilia occidentale solo con gli esponenti di Bagheria.

In proposito, i Giudici di merito hanno richiamato le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Gi.An. – già a capo della famiglia mafiosa e del mandamento di Caccamo ed uomo di fiducia di Pr.Be. come oggettivamente dimostrato dal rinvenimento in suo possesso di numerosi messaggi provenienti dal capo-mafia corleonese al vertice di "Cosa Nostra" – secondo il quale "l’interesse dell’organizzazione criminale nella realizzazione delle opere da parte dell’ A. e nel rafforzamento della sua posizione imprenditoriale, doveva attribuirsi al fatto che in tal modo l’organizzazione mafiosa vedeva assicurati vari vantaggi che consistevano nei pagamenti che lo stesso avrebbe effettuato, nella possibile fornitura di mezzi e di materiali da parte dei altri componenti dell’organizzazione e, in genere, negli altri favori che l’imprenditore avrebbe potuto loro garantire assicurandosi una posizione di forza"(pag. 16 sent. 2^ grado).

In punto di fatto è stata correttamente esclusa dalla Corte territoriale che nei confronti dell’ A. fosse stata posta in essere attività estorsiva, protrattasi per così lungo tempo – (il giudice ha, invero, ritenuto, non illogicamente, che l’assenza di denunce di specifici fatti estorsivi e la somma fissa corrisposta dallo stesso fossero indici della collusione) – essendovi accordo con l’organizzazione, (che percepì facili introiti per almeno L. 2 miliardi), accordo che garantì tranquilla esecuzione dei lavori in tutto quell’ampio territorio facendo conseguire all’ A. una posizione dominante in quel mercato di opere pubbliche.

Non può, in definitiva, essere rivolta censura di illogicità all’accertamento della Corte territoriale che – "ben consapevole della difficoltà di fare impresa nel territorio siciliano, ove è stata ripetutamente riconosciuta la presenza di una agguerrita organizzazione mafiosa capace di incidere sul tessuto economico e di stringere d’assedio le attività imprenditoriali" – ha congruamente ritenuto che "tale particolare situazione e condizione non può legittimare condotte che, ben lungi dal costituire espressione di metus nei riguardi dell’organizzazione medesima, si profilino invece quali attività poste in essere in collegamento con la stessa, al di fuori dei parametri normativi dei delitti contro la persona, in forza di accordi pattuiti tra le parti ed ai quali viene poi data libera esecuzione in tempi assai lunghi".

La Corte di Palermo, al riguardo, ha considerato anche gli attentati indicati dalla difesa ed ha, non illogicamente, ritenuto che i primi tre episodi fossero conseguenti ad una lotta di mafia per il predominio locale, mentre i restanti consistevano in fatti di micro criminalità, estranei ad intimidazioni mafiose e solo "tre sporadici casi tra il 1993 ed il 1995 non possono costituire (a fronte dei circa 300 cantieri) espressione di concreta, attuale e persistente minaccia" limitativa di libertà".

Conseguentemente, la doglianza difensiva tendente a prospettare che il "trattamento" riservato all’imprenditore A. da parte dei vertici mafiosi non era privilegiato, è del tutto infondata e si sostanzia, peraltro, in una censura in punto di fatto in quanto prospetta una diversa lettura dei dati processuali.

Nè la rispondenza delle valutazioni probatorie può essere oggetto di analisi ai fini del riconoscimento del vizio del travisamento del fatto, vizio che può essere oggetto di valutazione in sede di legittimità in quanto inquadrabile nelle ipotesi di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e); l’accertamento di detto vizio richiede pertanto la dimostrazione da parte del ricorrente della avvenuta rappresentazione al giudice di merito degli elementi dai quali quest’ultimo avrebbe dovuto rilevare il detto travisamento, sicchè la Corte di Cassazione possa a sua volta desumere dal testo del provvedimento impugnato se e come gli elementi siano stati valutati (Cass. S.U. 2.7.97 n. 6402, ud. 30.4.97, rv. 207945).

Il giudizio di legittimità ha per oggetto l’accertamento della mancanza e della illogicità manifesta della motivazione risultanti dal testo del provvedimento impugnato e non può esplicarsi in indagini extratestuali dirette a verificare se i risultati della interpretazione delle prove costituenti i fondamenti della decisione siano effettivamente corrispondenti alle acquisizioni probatorie risultanti dagli atti del processo (Cass. 1^, 10.2.000 n. 94, c.c. 10.1.00, rv. 215336; Cass. 2^, 20.9.94 n. 3695, c.c. 13.9.94, rv.

198818).

Nella concreta fattispecie, il ricorrente ritiene che il trattamento riservato con il pagamento in Bagheria di una cifra fissa e non corrispondente all’entità dei lavori preventivamente comunicati non sia un trattamento di favore che gli consentì, a differenza di altri, (ovviamente esclusi da quel mercato), una posizione monopolista.

La censura si palesa meramente assertiva avendo il giudice di merito accertato che le condizioni di pagamento della "messa a posto" riservate ad A. erano esclusivamente conseguenza del rapporto privilegiato stretto con gli esponenti della famiglia di Bagheria, che lo tutelavano direttamente impedendo contatti ed intromissioni delle singole cosche nel cui territorio apriva strade interpoderali.

In proposito, i Giudici di merito hanno richiamato le dichiarazioni dei due collaboratori di giustizia Br.Gi. e L.B. G. i quali, entrambi, "hanno confermato che proprio in occasione delle esecuzione delle opere di realizzazione di strade di penetrazione agraria in Altofonte, il primo direttamente dal Pr. ed il secondo dagli altri componenti della consorteria criminale, avevano ricevuto segnalazioni dirette a tutelare i cantieri e le imprese A. da possibili attentati o richieste provenienti da "Cosa Nostra".

Il Br., in particolare, ricordava di aver ricevuto diverse segnalazioni provenienti dal Pr. in persona che gli raccomandava le imprese A. con riguardo alle strade agrarie realizzate nel territorio di Altofonte e che lo ammonivano a non richiedere all’imputato, direttamente o indirettamente, ulteriori somme di denaro, oltre quelle dallo stesso dovute ad importo fisso" (pag. 315 sent. 2^ grado).

Trattasi di dichiarazioni che riscontrano in pieno quanto sostenuto dal Gi. circa "il legame che l’imprenditore aveva con il capomafia il quale lo considerava una pedina fondamentale del suo sistema di potere ed era assai interessato alla realizzazione delle cliniche in Bagheria", come aveva riferito al Gi. lo stesso Pr. con il quale egli era in stabile contatto (pag. 320 sent. impugnata).

La Corte ha, ancora, richiamato ulteriori dichiarazioni provenienti da collaboratori di giustizia, tutte convergenti nell’indicare nell’ A. un imprenditore in contatto con ambienti mafiosi dai quali riceveva protezione: "ciò risulta, invero, dalle affermazioni rese da Si.An. che apprendeva della vicinanza particolare tra l’imputato e Pr. dalle parole di un altro uomo d’onore, Va.Lo., da Ba.Sa. secondo cui il suo capo-famiglia Pa.Gi. si lamentava del ruolo egemone acquisito dall’imputato nel settore delle strade di penetrazione agraria e gli confidava dello speciale rapporto di protezione che l’imputato poteva vantare per il diretto intervento di Pr.

B., da Br.Gi. che affermava di aver ricevuto, nel tempo, più segnalazioni dal predetto capo dell’associazione mafiosa, tutte riguardanti la protezione delle imprese A., dalla Ba.Gi. che, in occasione del cantiere di Altofonte, era stato sollecitato dallo stesso Br. e da B. L., altri capi-mafia corleonesi, a non infastidire o intralciare i lavori delle predette imprese"(pag. 326 sent. 2^ grado).

Inoltre, la Corte territoriale ha evidenziato come il Gi. avesse anche riferito in ordine:

a) ai rapporti personali che l’ A. intratteneva con il Gi. stesso e con altri associati mafiosi della famiglia di Caccamo ( Gu.Di. e Gu.An.);

b) alla realizzazione da parte delle imprese A. di una strada interpoderale per conto e nell’interesse di altri esponenti mafiosi dello stesso centro e, cioè, i Li.;

c) a un versamento spontaneo da parte di A. alla famiglia mafiosa di Bagheria ed, in particolare, E.N. di un importo di 100.000.000 di lire, avvenuto verso la fine degli anni 80;

d) a un rapporto personale intercorso tra l’imputato e l’esponente mafioso di Bagheria L.I.P. al quale l’ A. doveva rivolgersi su indicazione dell’associazione per la risoluzione di ogni questione controversa;

e) alla conoscenza dell’imputato con uomini d’onore della famiglia di Trabia e, segnatamente, con il capo di essa Ri.Sa., e ciò pur durante il periodo di latitanza di quest’ultimo, quando l’associato mafioso – come risultava al collaboratore di giustizia – aveva fatto ripetutamente visita all’imprenditore (pag. 320 sent. 2^ grado).

Ciò posto, del tutto generiche, appaiono le doglianze del ricorrente riferite alla dazione di 20.000.000 di lire avvenuta nel 2003 in favore del mafioso E.N., dal momento che non sono state indicate le modalità e, soprattutto la causale della dazione, e che, comunque, oltre a risolversi, in non consentite censure di fatto e di merito non sono, in alcun modo, idonee a scalfire le argomentazioni rese in proposito dai Giudici di merito i quali hanno richiamato le dichiarazioni sul punto dell’ A., del E. N. e del testimone c. e, cioè, di colui che ebbe materialmente ad effettuare la consegna dell’importo all’associato mafioso per conto dell’imprenditore, oltre che il contenuto di intercettazioni ambientali svolte sull’autovettura Opel Corsa degli E. stessi.

Ancora generiche sono le doglianze interpretative della intercettazione di Eu.Sa. in quanto il ricorrente si limita a riportare la trascrizione della telefonata, mentre è comunque noto che l’interpretazione del linguaggio e del contenuto delle conversazioni telefoniche costituisce una questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito e si sottrae al sindacato di legittimità se tale valutazione è motivata in conformità ai criteri della logica e delle massime di esperienza (Cass. 5^, 3.12.97 n. 5487, rv. 209566; Cass. 6^, 12.12.95 n. 5301, rv. 205651).

Al riguardo il giudice di merito ha ampiamente analizzato il contenuto di quella telefonata (v. pag. 328 e segg.) da cui l’ A. risulta essere soggetto da proteggere e non da estorcere.

La prova della spontaneità della dazione è confermata dalla ulteriore circostanza evidenziata dalla Corte territoriale circa l’affermazione del Gi. in ordine alla "dazione spontanea di una somma di denaro dell’importo di 100.000.000 di lire che sarebbe stata versata, da parte dell’ A., all’associato mafioso E.N. per ingraziarsi proprio i componenti della famiglia mafiosa uscita vincente da un aspro scontro interno all’organizzazione avvenuto alla fine degli anni 80"(pag. 321 sent.

2^ grado).

Le doglianze, pertanto, non inficiano la accurata ricostruzione della operazione effettuata dai Giudici di merito i quali hanno, in particolare, richiamato le dichiarazioni del collaborante di giustizia Gi.An. che aveva ricordato come l’ E. gli aveva confidato che l’ A. – dopo essersi avvicinato alla famiglia mafiosa di esso E. – aveva versato la somma in maniera spontanea e svincolata da qualsiasi costrizione operata dalla predetta organizzazione.

In proposito, già il Giudice di I grado aveva messo in rilievo come il collaboratore avesse proprio escluso che detta somma fosse il frutto di tangente o, comunque, di costrizione da parte dell’associazione mafiosa e dovesse essere, invece, intesa come una elargizione effettuata in occasione dell’insorgere di un nuovo rapporto protettivo con la famiglia mafiosa di Bagheria, diversa da quella alla quale gli A. si erano precedentemente appoggiati.

Logica e convincente deve ritenersi, conseguentemente, la conclusiva argomentazione sul punto resa dalla Corte territoriale: "E se quindi è rimasto provato che, a fronte di una richiesta proveniente da un associato mafioso priva di carattere intimidatorio, l’ A. nella piena consapevolezza dell’appartenenza di E. a "Cosa Nostra" locale accettò di versare un’ingente somma di denaro senza causale alcuna, essendo stato escluso qualsiasi ruolo di intermediario svolto dal Eu.Sa. in operazioni commerciali effettuate dall’appellante, ne deriva che si impone la valutazione della stessa in termini di attività di consapevole finanziamento di una famiglia mafiosa, non potendosi altrimenti spiegare il fatto.

E quindi, ancora nel gennaio del 2003, A.M. ben consapevole della caratura mafiosa dei soggetti che con lui interloquivano, consegnava loro una rilevante somma di denaro, così permettendo all’organizzazione di potere contare su un canale finanziario davvero importante se non decisivo visto che allo stesso si ricorreva nei momenti di necessità e difficoltà" (pagg. 330 e 331 sent. 2^ grado).

Osserva questa Corte di legittimità che correttamente, quindi, i Giudici di merito hanno, sulla base delle suddette dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, accertato come l’ A. avesse effettivamente versato, in maniera spontanea, alle casse dell’associazione mafiosa notevoli somme di denaro, al di fuori di una versa e propria attività estorsiva svolta ai suoi danni e ciò al fine, dichiarato, oltre che dal Gi. e dagli altri collaboratori, di rafforzare quel rapporto privilegiato con l’organizzazione mafiosa e con il Pr. in particolare, che gli permetteva di operare senza dover temere ritorsioni alcune.

Anche del tutto generiche ed assertive sono le doglianze concernenti i rapporti con il mafioso L.I.P., non essendo state proposte dalla difesa argomentazioni a sostegno di una diversa causale dell’incontro con l’associato mafioso del centro abitato di Bagheria, incontro che, oltre alle dichiarazioni del teste ci., risulta provato anche dalle dichiarazioni del Gi., il quale aveva organizzato l’incontro presso l’ufficio di A.M. dicendogli che, per tutte le vicende che riguardavano l’organizzazione mafiosa, da quel momento in poi, esso A. avrebbe dovuto rivolgersi sempre ed immancabilmente al predetto L. I.P..

Corretta è, pertanto, la valutazione della Corte territoriale che ha ritenuto "rilevante l’incontro tra L.I.P., associato mafioso di Bagheria e l’ A., avvenuto alla presenza proprio del Gi. il quale riferiva di aver così posto l’imprenditore sotto l’ala protettiva del predetto uomo d’onore" (pag. 323 sent. 2^ grado).

Il giudice di merito ha anche valutato la portata delle dichiarazioni rese in dibattimento da Gr.Gi., accompagnatore personale del boss Pa.Fr., soggetto strettamente legato a Pr.Be., considerando quanto A. fece in favore del detto Pa.Fr. (v. pagg. 332 e seguenti) e verificando le imprecisioni non sostanziali dei luoghi indicati dal collaboratore relativi al deposito in contrada Lanzirotti, non essendo contraddetta da elementi diversi la ragione di detta conoscenza di quei luoghi giustificata dall’avervi accompagnato Va.Gi. a consegnare i "pizzini" di Pr..

In proposito, la Corte territoriale ha posto in risalto:

1. che il Gr.Gi. – inserito nella famiglia mafiosa di Belmonte Mezzagna – era genero di Pa.Fr., (avendone sposata una figlia), il quale "era strettamente legato a Pr.

B. di cui curava la latitanza e che incontrava frequentemente anche alla presenza dello stesso collaboratore";

2. che "figura particolarmente rilevante per il mantenimento dei rapporti con il latitante Pr. era costituito da Va.

G. – cognato del Pa.Fr. e già condannato proprio per il favoreggiamento del capomafia – poichè detto associato si occupava in un determinato periodo storico di ritirare i messaggi del latitante Pr. (i c.d. pizzini) e consegnarli, poi, ai destinatari o ad altri soggetti, a loro volta, incaricati della successiva distribuzione";

3. che il Gr., nel ricordare di aver accompagnato il Va. durante l’attività di distribuzione dei messaggi del Pr., precisava che "alcuni di questi bigliettini erano stati consegnati, negli anni 1996 – 97, all’ A. e ciò era avvenuto all’interno del deposito di macchinari edili che lo stesso aveva in località Lanzirotti di Bagheria e, precisamente, in un piccolo ufficio sito subito dopo l’ingresso lateralmente";

4. che il Gr. aveva aggiunto ancora che " P.F. e Va.Gi. gli avevano confidato che l’ing. A. era soggetto di piena fiducia del Pr. e che tale rapporto aveva specificamente ad oggetto proprio le attività imprenditoriali dell’imputato";

5. che, infine, il Gr. aveva riferito che l’ A. aveva fornito al Pa.Fr. un’abitazione in Bagheria ove era stato alloggiato altro associato mafioso durante l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale e, presso una delle cliniche dell’imputato, era stato assunto certo Va.

G., genero dell’associato mafioso Ca.Pi., su sollecitazione del Pa.Fr. (v. pag. 333 sent. impugnata).

La Corte territoriale ha, poi, messo in rilievo come le dichiarazioni dei collaboranti, ed, in particolare del Gi., fossero confortate proprio dal rinvenimento dei "pizzini", sia quello rinvenuto su Ri.Sa., in cui si allude all’ A. ed a una strada che costui stava realizzando, sia quelli consegnati dal mafioso Na.Lu. relativi ad altra strada costruita in territorio di Piazza Armerina, sia quelli del Pr. in cui si dice trasmettere al Gi. L. 21.000.000 "per strade A. tuo paese", sia altri relativi alle strade di Altofonte.

Corretta la valutazione resa al riguardo dalla Corte territoriale che osserva essere indice di rapporto privilegiato ed esclusivo il fatto che il capo assoluto di Cosa Nostra, Pr.Be., si preoccupi personalmente di inviare il denaro versato dall’ A. alle famiglie locali.

Del resto, già lo stesso Giudice di 1^ grado aveva accuratamente ricostruito sia il contenuto dei predetti messaggi, sia le occasioni in cui gli stessi vennero rinvenuti, ed aveva individuato autori e destinatari, sottolineando che tutti i c.d. "pizzini" che riguardavano A., apparivano riconducibili ad attività o segnalazioni provenienti dal capo-mafia Pr.Be., vertice assoluto dell’organizzazione "Cosa Nostra", operante nel territorio siciliano, sino al suo arresto (v. pag. 312 sent. 2^ grado che richiama le argomentazioni del Tribunale).

Da ultimo, questa Corte non può non evidenziare la corretta valutazione logica, operata dal Giudice di 2^ grado, dell’agire del ricorrente che, con la forza corruttiva del denaro, ha sistematicamente accresciuto il proprio potere attraverso anche il rafforzamento della struttura mafiosa con il costante finanziamento economico – (v. anche i versamenti annuali di L. 50.000.000 per le cliniche) – ed attraverso il reperimento di notizie segrete circa le indagini svolte dal ROS dei Carabinieri nei confronti di vari esponenti mafiosi e dei capi latitanti di Cosa Nostra (i casi Me., Pa.Fr. ed E. concernevano, infatti, indagini svolte nei confronti dei favoreggiatori dei latitanti Pr.Be. e M.D.M.).

Corretta e rilevante è anche la considerazione dei Giudici del merito che:

a) la rivelazione di notizie segrete riguardanti indagini di ricercati mafiosi, peraltro al vertice dell’associazione;

b) l’assunzione alle proprie dipendenze di Me.Pa., sorella della convivente del latitante M.D.M.;

c) l’avere avvertito il mafioso E. della esistenza della microspia nell’Opel Corsa, costituiscano azioni che dimostravano l’inesistenza di situazioni di soggezione a richieste intimidatorie mafiose, costituendo, anzi, esse sicuri elementi dimostrativi della partecipazione dell’imputato all’associazione criminale denominata "Cosa Nostra".

Invero, i Giudici di merito hanno ritenuto molto rilevante quest’ultimo, specifico aspetto della condotta partecipativa dell’ A., connesso all’attività di acquisizione di informazioni riservate coperte dal segreto investigativo, e ciò mediante una rete informativa che si era avvalsa di soggetti infedeli operanti nel Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri e in altri settori dell’amministrazione giudiziaria che aveva permesso l’acquisizione di notizie sull’attività di ricerca dei latitanti Pr.

B. e M.D.M., ruolo questo dell’ A. che era di evidente importanza assoluta per l’associazione mafiosa.

Del tutto convincente è l’argomentazione della Corte territoriale secondo cui non era accettabile la prospettazione – (come pure sostanzialmente esposta nei motivi di gravame) – che un soggetto minacciato da Cosa Nostra e mai denunciante alcun fatto specifico, se non dopo il suo arresto, possa avere avuto interesse ad acquisire specifiche informazioni riguardanti indagini anti-mafia che dovevano rimanere del tutto estranee al proprio ordinario interesse conoscitivo.

Sul punto, quindi, è da condividere la seguente logica argomentazione della Corte territoriale: "se, infatti, A. era colui che era costretto a versare somme di denaro all’organizzazione criminale locale, che aveva dovuto pagare incertissime somme per un lungo arco temporale, mantenendo inalterata una condizione di metus perenne nei confronti dell’organizzazione, mai lo stesso avrebbe avuto interesse ad acquisire informazioni dal R. sui membri dell’organizzazione mafiosa sottoposti ad intercettazioni ed investigazione" (pag. 338 sent. imp.).

Ha precisato il Giudice di 2^ grado che "tale aspetto della condotta dell’ A. risultava ancorpiù evidente sol che si esamini la prima vicenda tra quelle oggetto di contestazione a carico sia del predetto che del mar. R., avvenuta nel corso dell’anno 1999, ed avente ad oggetto il controllo di una telecamera piazzata da personale della polizia di Stato nei confronti dell’abitazione del nucleo familiare Me. in (OMISSIS), fraz. di Bagheria"(pag. 339 sent. imp.).

Sul punto, la Corte territoriale ha premesso (pagg. 339 – 340) che Me.Fr., dipendente dell’ A., risultava essere stato tratto in arresto e poi condannato per favoreggiamento di M. D.M. nel corso dell’anno 1998; la sorella Me.Ma. era stata anch’essa giudicata colpevole di analogo fatto di favoreggiamento nel 2000, all’esito di un procedimento nel quale emergevano i suoi stabili legami sentimentali con lo stesso capo- mafia trapanese che si riteneva essersi nascosto, per un periodo, proprio in quell’abitazione di (OMISSIS); l’ultima sorella, Me.

P., era dipendente, quale segretaria, dell’imputato A. M., già nel 1999, e che con lo stesso aveva un rapporto di particolare fiducia in considerazione del fatto che ella era in quel ristrettissimo gruppo che ancora nell’autunno del 2003 usufruiva della cd. rete riservata e, cioè, della rete di telefoni cellulari utilizzata dall’ A. e da soggetti di sua fiducia per conversazioni non intercettabili.

Quindi, la Corte di merito, ha evidenziato, sulla base del credibile racconto del R., che tra la Me. – soggetto certamente non sprovveduto, appartenendo ad una famiglia di favoreggiatori di M.D.M. – e l’ A. sussisteva un rapporto confidenziale di particolare profondità al punto tale che ella poteva contare sul pieno appoggio dell’imprenditore, tant’è che era, addirittura, andata a lamentarsi proprio con l’ A. di frequenti controlli operati dalla polizia all’interno della sua abitazione.

Quest’ultimo, a sua volta, sollecitava l’intervento degli infedeli sottufficiali Bo.An. e R.G. al fine di effettuare una verifica sui luoghi per riscontrare la presenza di una telecamera di fronte all’abitazione di Me.Pa..

Si recavano, pertanto, presso l’abitazione di quest’ultima, ed in tale occasione il R. constatava la presenza di una telecamera occultata, puntata verso l’abitazione della predetta e riferiva detta circostanza proprio al collega Bo. e all’ A..

Correttamente, tale vicenda – che costituisce il punto 9 del delitto di rivelazione di notizie di ufficio di cui al capo G della rubrica – è stata ritenuta dalla Corte territoriale "una delle condotte significative della partecipazione dell’ A. all’associazione mafiosa e del concorso esterno per R. nel delitto di cui all’art. 416 bis c.p.".

Ed, invero, del tutto logica e quanto mai convincente è la conclusione, sul punto, della Corte territoriale: "Tale fatto, avvenuto già nel 1999, a parere di questa Corte, rende del tutto evidente quali furono gli scopi perseguiti dall’ A. nelle richieste di informazioni al R., che l’imprenditore in quello stesso torno di tempo legava a sè assumendone moglie e fratello, e risulterà, come si vedrà dopo, rilevante anche per la posizione processuale di quest’ultimo. Innanzi tutto, infatti, appare evidente che fu proprio A., sia pure in concorso con il Bo., ad assumere l’iniziativa di recarsi ad effettuare il controllo sicchè, sotto questo profilo, è provato che l’imputato agì quale istigatore del R. alla rivelazione della notizia segreta perchè riguardante indagini in corso.

Ma, soprattutto, detto fatto, avvenuto nel 1999, spiega appunto l’atteggiamento psicologico dell’ A. nei riguardi dei componenti dell’associazione mafiosa e dei suoi più fidati favoreggiatori in termini assolutamente incompatibili con la tesi difensiva dell’imprenditore taglieggiato.

Se l’ A. fosse stato un soggetto sottoposto a minacce e vessazioni, costretto a versare ingenti somme di denaro, mai infatti avrebbe assunto alle f sue dipendenze, mantenuto quale segretaria e persino inserito nel suo più fedele gruppo di soggetti di fiducia, Me.Pa., sorella addirittura della convivente di M. D.M., storico capo-mafia del trapanese imparentato con i Gu.Gi. di Brancaccio e residente per un periodo proprio in quella abitazione di (OMISSIS)".

Analoghe, logiche e convincenti argomentazioni sono state svolte dalla Corte di merito con riferimento alla vicenda " E.", relativa alla trasmissione della notizia riguardante l’esistenza di una microspia all’interno dell’autovettura in uso a Eu.

S. e nella quale viaggiava frequentemente anche il padre, l’associato mafioso definitivamente condannato E.N. e, cioè, quello stesso soggetto che, come si è già evidenziato in precedenza, aveva ricevuto il pagamento spontaneo di 100.000.000 di lire alla fine degli anni 80 e che, poi, sempre nel gennaio-febbraio 2003, riceveva da A.M. altro versamento di 20.000.000 di lire, oltre a indurre l’imprenditore ad assumere due giovani provenienti da Acquedolci, luogo ove il mafioso scontava la misura di prevenzione.

L’episodio è stato ritenuto dalla Corte come quello che "manifestava con i maggiore evidenza e lapalessiana certezza la sussistenza di rapporti di scambio di informazioni segrete tra l’ A. e l’organizzazione mafiosa, capace, peraltro, di illuminare l’intero contesto delle condotte del predetto imputato".

La vicenda – contestata in concorso ad A. e all’infedele R. al n. 2 del capo G della rubrica e che costituisce una delle condotte significative della partecipazione all’associazione mafiosa per l’imprenditore e parallelamente del concorso esterno per il maresciallo del R.O.S. – è stata scandagliata a fondo dai giudici di merito che ne hanno approfondito tutti gli aspetti rilevanti con una motivazione del tutto convincente e condivisibile.

Basterà qui ricordare quanto esposto, in via meramente riassuntiva, dal Giudice di 2^ grado che "nel corso delle indagini dirette alla cattura del boss Pr.Be. venivano individuati quali soggetti legati allo stesso i componenti della famiglia degli E. di Bagheria ed il E.N. in particolare già definitivamente condannato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p..

In tale contesto, proprio R.G., procedeva ad installare varie microspie in appartamenti, negozi ed autovetture di tale nucleo familiare, e quella che risultava aver dato maggiori risultati investigativi era l’apparecchiatura posta a bordo dell’auto tipo Opel Corsa di Eu.Sa., che, tuttavia, l’11 marzo del 2003, veniva trovata e disattivata.

Orbene, R.G. riferiva che, in occasione delle sue visite alla clinica dell’ A., era stato da questi contattato ed informato della presenza della struttura sanitaria, proprio di uno degli E.; in tale circostanza, il mar. del ROS aveva confidato all’imprenditore che nei confronti di detti soggetti, egli stesso aveva installato diverse microspie precisando che una di esse era stata attivata proprio nell’autovettura Opel Corsa" (pag. 344 sent. 2^ grado).

Aggiungeva la Corte di merito che "il dato, poi, che collegava definitivamente l’ A. al detto ritrovamento era costituito dall’analisi di una conversazione ambientale (v. pagg. 432 e segg., sent. 1^ grado), svoltasi il 18 giungo 2004 tra Eu.

S., successivamente al suo arresto, ed i suoi familiari presso la Casa circondariale di Palermo, in occasione della quale il detenuto, inequivocabilmente ammetteva che era stato proprio A. M. ad averli avvertiti preventivamente della esistenza di detto servizio di intercettazione" (pag. 345 sent. 2^ grado).

Correttamente, quindi, la Corte territoriale ha ritenuto costituire tale intercettazione ambientale del tutto genuina un autonomo elemento di prova.

Conclusivamente, deve affermarsi che i Giudici di merito, valutate adeguatamente le risultanze processuali hanno, con argomentazioni quanto mai esaustive e convincenti, immuni da vizi logico-giuridici e saldamente ancorate a specifiche risultanze processuali, analiticamente richiamate e approfonditamente valutate, accertato la fondatezza della impostazione accusatoria, secondo la quale "l’ingegnere A. aveva stabilito un patto di protezione con l’organizzazione mafiosa che prevede un tipico scambio di utilità tra l’imprenditore mafioso e l’organizzazione in quanto il primo fruisce dell’appoggio dell’associazione per conseguire uno sviluppo economico in una posizione di potere altrimenti non realizzabile e di converso, è chiamato a fornire una controprestazione che avvantaggia il sodalizio mafioso.

Nel caso dell’ A. le prestazioni riguardavano: l’impegno a finanziare l’organizzazione attraverso il versamento sistematico di somme di denaro; l’impegno all’assunzione di personale segnalato dagli uomini di onore ed all’accettazione di forniture da parte di imprese vicine all’organizzazione; l’impegno ad assicurare una funzione di tramite con esponenti politici, pubblici amministratori ed altri rappresentanti delle istituzioni; l’impegno a reperire e trasmettere informazioni riservate sulle attività di indagine in corso nei confronti di Cosa Nostra"(pag. 6 sent. 2^ grado).

Ritiene, pertanto, questa Corte di legittimità pienamente condivisibili le argomentazioni conclusive sulla posizione dell’ A. formulate dai Giudici del merito secondo cui deve ritenersi incontestabilmente accertato, in forza delle emergenze dibattimentali – (messaggi sequestrati, dichiarazioni di collaboratori, conversazioni intercettate, dichiarazioni dell’infedele mar. R.) – che "proprio il Pr., il Gi. ed, in genere, i vertici della famiglia mafiosa di Bagheria avevano voluto che l’ A. facesse parte del loro sodalizio e lo proteggevano, rafforzandone in ogni modo, l’attività essendo consapevoli della sua importanza strategica per l’organizzazione.

Importanza che si era manifestata attraverso il costante finanziamento economico ed anche attraverso il reperimento di notizie segrete circa le indagini svolte dal Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri nei confronti di vari esponenti mafiosi e dei capi latitanti della stessa organizzazione poichè, è bene ribadire che, i casi Me., Pa.Fr. ed E. riguardavano tutte indagine svolte nei confronti dei favoreggiatori dei latitanti Pr.Be. e M.D.M." (pag. 352 sent. 2^ grado).

Non vi è, quindi, alcun dubbio, ad avviso di questa Corte di legittimità, che, avuto riguardo alle attività svolte dall’imputato, lo stesso si era messo a servizio della mafia ed era divenuto partecipe consapevole dell’associazione denominata "Cosa Nostra". 7.1.2 Palesemente inammissibile risulta il secondo motivo di ricorso proposto con riferimento al delitto di cui all’art. 326 c.p. e ciò per le medesime ragioni che sono di seguito esposte con riguardo all’impugnazione proposta dal R., (cui espressamente si rinvia), avendo i giudici di merito debitamente evidenziato, con argomentazione non controvertibile, che le confessioni dello stesso maresciallo dei Carabinieri erano confortate dalle cospicue e continuative dazioni ricevute dall’ A. che aveva ogni interesse a conoscere, come seppe, il contenuto di varie indagini che riguardavano non solo esso A. ma anche e soprattutto vari esponenti mafiosi (v. i già ricordati casi Me., Pa.Fr. e E., relativi ad indagini tutte dirette, come si è accennato in precedenza, alla cattura dei latitanti Pr.

B. e M.D.M.).

7.1.3 Anche il terzo motivo di ricorso – che vuole negare il concorso con Ci.Gi. e C.A. nel delitto di cui all’art. 615 ter c.p. dell’ A., diretto beneficiario delle rivelazioni necessarie tra l’altro (e da ultimo) per conoscere il tenore delle indagini relative alle truffe per diverse decine di milioni di Euro che le aziende sanitarie dell’imputato avevano indebitamente ricevuto dalla Regione Sicilia – è inammissibile per sostanziarsi in una non consentita diversa valutazione dei dati processuali.

Senza voler nuovamente percorrere l’intero esaustivo percorso motivazionale seguito analiticamente dai giudici di merito (pagg. 386 e segg. sent. impugnata) non può certo affermarsi che il beneficiario di tutte le notizie sia estraneo all’incarico dato al R. ed al Ci..

E’ palesemente illogico sostenere che l’avere dato lettura al Ci. del decreto di sequestro probatorio eseguito dai NAS che non era stato consegnato a lui, ma al dipendente pubblico I. L. e l’avere indicato al R. il numero del decreto non costituisca concorso nel delitto.

Ed, invero, i Giudici di merito, con riferimento a specifiche emergenze processuali, (tra le quali il contenuto di numerose intercettazioni telefoniche), hanno adeguatamente spiegato che proprio "attraverso l’analisi del numero delle notizie di reato contenuto nel provvedimento di sequestro di cui l’ A. era venuto in possesso, per essergli stato immediatamente trasmesso dal direttore sanitario I.L., gli infedeli mar. Ci. e R., cui tale dato veniva comunicato dall’imprenditore, iniziavano delle ricerche attraverso più accessi abusivi al sistema informatico della Procura della Repubblica di Palermo, tese a comprendere quale fosse l’oggetto delle indagini specifiche e i nominativi degli indagati, sempre sollecitati e istigati dall’imprenditore e anche dal C." (pag. 388 sent. 2^ grado).

In particolare, il Ci., per accedere alle informazioni riservate o faceva uso della password di altri dipendenti che ne erano dotati e che imprudentemente si fidavano del predetto maresciallo o sfruttava la collaborazione della operatrice B.G.A. alla quale si era pure rivolto in più occasioni.

Hanno messo, ancora, in evidenza i Giudici di merito che "tale essendo il quadro generale, era avvenuto che il 25 giugno, il 6 e il 18 settembre del 2003, erano stati compiuti tre accessi sul procedimento a carico dell’ A. per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. attraverso la predetta password in dotazione all’operatore To. che, nel corso del dibattimento di 1^ grado, aveva, appunto, dichiarato di aver comunicato tale chiave di accesso al Ci. perchè convinta che questi ne facesse uso per motivi di servizio.

Detti fatti provavano, quindi, indubbiamente, che le informazioni, poi riferite dall’ A. al Ci. nel corso delle conversazioni intercettate, erano proprio frutto delle ricerche effettuate dal maresciallo" (pagg. 388 e 389 sent. 2^ grado).

Sulla base di tali risultanze, (e sulla base del contenuto di ulteriori conversazioni telefoniche che sarà meglio evidenziato nell’esaminare la posizione dell’imputato C.A.), i Giudici di merito sono pervenuti alla seguente, corretta conclusione:

"benchè il Ci. fosse stato l’autore materiale del reato di abusiva introduzione nel sistema informatico, l’ A. e il C. avevano agito quali istigatori, poichè la finalità ultima era quella di proteggere i loro interessi economici in relazione alle attività svolte dalle aziende sanitarie operanti in Bagheria e, ciò, avevano fatto con piena consapevolezza della illiceità degli accessi, avuto riguardo ai consigli che tutti avevano ricevuto dal difensore dell’ A. circa l’opportunità di fare ricorso al sistema legale dettato dall’art. 335 c.p.p., e alle stesse ammissioni degli imputati, ricavabili dall’interrogatorio del C. del 24 novembre 2003, acquisito agli atti del giudizio" (pag. 390 sent. 2^ grado).

7.1.4 Il motivo, (terzo dei motivi nuovi) – con il quale si contesta, con richiami alla giurisprudenza di questa Corte, che possa ritenersi integrata la fattispecie di cui all’art. 615 ter c.p. da parte di chi, munito di titolo per accedere al sistema informatico, vi si introduca allo scopo di acquisire informazioni per finalità estranee a quelle di ufficio – è inammissibile per le ragioni esposte nella valutazione della posizione della ricorrente B., alle quali espressamente si rinvia intendendosi qui integralmente riportate.

7.1.5 Con il motivo, (quarto dei motivi nuovi), il difensore del ricorrente deduce la insussistenza dell’aggravante prevista dal D.L. 15 maggio 1991, n. 203, art. 7 contestata per le ipotesi di rivelazione di segreti di ufficio (capi e) e g) della rubrica) e per il reato di cui all’art. 615 ter c.p., e si contesta che la Corte di Appello ha fondato la sua decisione in proposito limitandosi a richiamare il principio affermato da questa Suprema Corte nel procedimento cautelare, senza verificare se tale principio era ancora sostenibile sulla base delle risultanze processuali emerse all’esito della istruzione dibattimentale.

La censura è manifestamente infondata dal momento che la Corte di merito ha condiviso il principio enunciato da questa Corte di legittimità con sentenza del 16/04/2004 n 23134 dopo avere accertato – come si è ampiamente visto in precedenza – "il ruolo assai particolare e decisivo assunto dall’ A. nell’organizzazione mafiosa, di cui era uno degli stabili finanziatori e, al contempo, canale privilegiato per l’acquisizione di informazioni riservate, attinenti proprio le indagini antimafia", finalizzate addirittura alla cattura dei vertici di Cosa Nostra.

La Corte territoriale, quindi, a differenza di quanto pretestuosamente assume il ricorrente, non si è limitata a ribadire sic et simpliciter quanto stabilito da questa Corte regolatrice nel procedimento cautelare, ma ha correttamente specificato (pag. 394) che – "posto che è stata accertata la stabile compenetrazione del predetto imprenditore nell’organizzazione mafiosa, avendo lo stesso compiuto una serie di condotte illecite a favore proprio di "Cosa Nostra" – non sussistono i presupposti per invertire tale orientamento che, appunto, ha affermato: "sussiste l’aggravante di cui al D.L n. 152 del 1991, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991 (aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo), in relazione ai reati di cui all’art. 326 c.p., (rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio), ed all’art. 615 ter c.p. (accesso abusivo ad una sistema informatico o telematico), qualora le condotte delittuose ivi previste siano tenute per apprendere notizie sulle sorti del procedimento penale in relazione al reato di associazione mafiosa addebitato all’imputato, in quanto la captazione di dette informazioni non può essere preordinata alla salvaguardia di un interesse esclusivamente personale ma costituisce obiettivamente un vantaggio non solo per il soggetto che riceve l’informazione ma per tutta l’associazione, posto che la lesione della segretezza crea un vulnus nelle indagini di cui possono avvantaggiarsi gli associati contrastando con comportamenti o atti illegittimi i fatti destinati a restare segreti" (Cass. 23134 del 16.4.2004).

Conseguentemente, sono manifestamente infondate le censure difensive, ivi compresa quella secondo cui "le notizie che l’ A. avrebbe ottenuto, previa istigazione del pubblico ufficiale, concernevano esclusivamente la posizione processuale dello stesso A. e, comunque, riflettevano l’interesse delle sue imprese mentre nessun elemento vi era che potesse portare alla conclusione che l’attività di istigazione fosse stata posta in essere al fine di agevolazione l’azione investigativa", e che "l’ottenimento delle notizie segrete corrispondeva alla precisa esigenza dell’ A. di avere elementi utili per la sua posizione personale al fine di difendersi dagli ingiusti pericoli ai quali era o poteva essere sottoposto dalla struttura organizzativa del sodalizio" (pag. 11, motivi nuovi).

7.1.6 Le plurime doglianze, proposte, con il quarto motivo di ricorso, in ordine ai delitti di truffa, (indebiti incassi accertati sino al mese di marzo 2003), sono manifestamente infondate e devono essere unitariamente valutate, con la premessa che tali delitti, come in genere accade per simile tipologia di reati, sono stati realizzati con l’uso di strumenti e procedure in sè leciti, strumenti e procedure che, peraltro, hanno nella parte offesa (l’ente regionale) creato una falsa rappresentazione della realtà.

In sostanza, la dissimulazione della realtà è stata accertata in fatto dalla Corte territoriale perchè posta in essere attraverso la strumentale proliferazione delle fatture per unico trattamento terapeutico; l’utilizzazione di documenti in fotocopia; l’unilaterale autodeterminazione dei corrispettivi da parte delle strutture sanitarie richiedenti in violazione dei principi in materia di tariffazione e di rimborso secondo il costo; l’anomala utilizzazione delle procure all’incasso rilasciate dai pazienti e la loro strumentale fruizione plurima; il rilascio da parte del medico g. di ricette, senza la previa visita dei pazienti, che attestavano la necessità di trattamenti radiologici presso le strutture sanitarie.

Al riguardo il giudice di merito ha accertato la permanenza di tutte le pratiche presso il distretto di Bagheria, (ove furono sequestrate), non essendo le stesse state trasmesse in originale presso la ASL n. 6 di Palermo con la conseguenza che detto ente non fu in grado di verificare l’apparente regolarità della procedura.

Ciò in quanto, come correttamente argomentato dagli stessi giudici, la verifica attraverso il riscontro dei soli ruoli banca era praticamente impossibile.

Del resto – e ciò si osserva in punto di diritto – la mancata diligenza nell’uso dei poteri di controllo e di verifica della parte offesa non assume rilievo.

Detta circostanza, infatti, non esclude l’idoneità del mezzo in quanto si risolve in una mera deficienza di attenzione che il più delle volte è determinata dalla fiducia che, con artifici e raggiri, sa suscitare il truffatore nella parte lesa.

E’ costante principio di legittimità che, qualora sia stato accertato il nesso di causalità tra l’artificio ed il raggiro e l’altrui induzione in errore, non è necessario verificare l’idoneità in astratto dei mezzi usati quando in concreto questi si sono rivelati idonei a trarre in errore (Cass. 2^, n. 34059 del 3.7.09, rv. 244948; Cass. 6^, n. 13624 del 24.2.2003, rv. 224495;

Cass. 5^, 7.10.99 n. 11441, rv. 214868).

Con riferimento alla doglianza relativa alla regolarità della prassi di frazionamento delle fatture relative ad un intero trattamento per singolo paziente, il giudice di appello ha debitamente ricordato che, ai sensi del disposto della normativa regionale e statale (L.R. n. 88 del 1980 e D.Lgs. n. 502 del 2002), per le prestazioni di radioterapia è previsto un preciso limite al rimborso in assistenza indiretta, limite pari alla tariffa dell’intera prestazione, già prevista nel nomenclatore per l’assistenza sanitaria diretta, aumentata del 50%.

Nella fattispecie, la Corte territoriale ha accertato per ogni richiesta concernente ciascuna seduta, l’applicazione della tariffa prevista per l’intero ciclo radioterapico, azione palesemente illegittima, contraria a qualsivoglia prassi possa invocarsi.

La Corte di Appello ha anche logicamente confutato l’argomentazione di richieste commisurate all’incremento dei costi, tesi contraria ai disposti normativi ed in fatto smentita dai periti di ufficio e, da ultimo, da una semplice verifica dagli attuali costi di prestazioni analoghe, (i rimborsi della Regione per l’anno 2002 ammontavano a 56 milioni di Euro; quello dell’anno 2003 a 50 milioni di Euro, mentre per il 2004, e per gli anni successivi, di soli 6 milioni di Euro).

Ciò senza addentrarsi in una analisi comparata degli incrementi dei corrispettivi locupletati dalle cliniche dell’ A. rispetto agli investimenti, analisi dimostrativa del fatto che le tariffe richieste dopo la metà dell’anno 1999 erano state artatamente gonfiate (v. in dettaglio le logiche argomentazioni della sentenza a pag. 582).

Con riferimento allo specifico motivo di ricorso relativo alla dedotta liceità della elezione del domicilio sanitario e delle corrispondenti procure all’incasso che le due cliniche facevano sottoscrivere "in bianco" ai pazienti, prassi instaurata con l’insediamento del dott. I.L. nel distretto sanitario di Bagheria, deve affermarsi la congruità logica delle osservazioni esposte al riguardo dai giudici di merito che hanno accertato questo strumento essere stato fondamentale per il meccanismo truffaldino.

Il sistema infatti aveva come conseguenza che il mandante – cedente – creditore (il paziente) non conoscesse il contenuto economico della prestazione oggetto della procura – cessione; che il terzo debitore – ceduto (l’AUSL) non conoscesse preventivamente la misura economica della sua obbligazione; che il procuratore – cessionario (le due cliniche) decidesse unilateralmente la misura economica del credito ceduto, prescindendo da qualsiasi rapporto sinallagmatico con il cedente. Le procure all’incasso, rilasciate per una sola e determinata prestazione, sono state utilizzate in maniera anomala in quanto allegate in fotocopia alle istanze frammentate e, quindi, moltiplicate ai fini del rimborso ed hanno costituito, in sostanza, strumento per agevolare l’elusione dei controlli da parte delle AUSL, costituendo, quindi, ulteriore raggiro volto all’induzione in errore.

Le diffuse argomentazioni riportate in ricorso sono superate da tali considerazioni concludenti, non avendo giusto rilievo di merito le deposizioni testimoniali frammentariamente considerate dal ricorrente e riferite a soggetti che conoscevano prassi di rimborsi differenti (come il teste sc.) o hanno partecipato a verifiche amministrative non complete (teste gi.).

7.1.7 Generico e manifestamente infondato è, infine, l’ultimo dei motivi nuovi con il quale il ricorrente lamenta la omessa concessione delle attenuanti generiche.

Invero, la Corte territoriale ha puntualmente e ampiamente motivato in ordine al trattamento sanzionatorio relativo all’ A., ponendo in rilievo:

a) il ruolo di particolare gravità svolto dallo stesso all’interno dell’organizzazione mafiosa denominata "Cosa Nostra", addirittura risultando personalmente in contatto con quel soggetto, Pr.

B., che era indiscusso vertice della pericolosissima organizzazione mafiosa siciliana con il quale l’ A. intratteneva scambi di messaggi;

b) la gravissima condotta reiterata di acquisizione di informazioni relative alle indagini in corso nei riguardi di vari soggetti organici a "Cosa Nostra", e di divulgazione agli stessi ( E. e Pa.Fr.) o, comunque, il contatto con altri esponenti di vertice, e ciò anche grazie alla costante attività corruttiva posta in essere nei confronti dell’infedele servitore dello Stato mar.

R..

La irrogazione della pena di 15 anni e 6 mesi di reclusione – maggiore rispetto a quella inflitta all’ A. dal Tribunale – appare, quindi, correttamente motivata secondo i criteri di cui all’art. 133 c.p. in considerazione soprattutto della accertata ed evidenziata gravità delle condotte dell’ A. che, da un lato, era imprenditore colluso con Cosa Nostra e, dall’altro lato, poneva in essere una costante attività di corruzione nei confronti di pubblici ufficiali, sia a livello delle forze dell’ordine, soprattutto per ottenere informazione riguardanti indagini di mafia, sia a livello di funzionari delle strutture sanitarie per ottenere rimborsi non dovuti per milioni di Euro.

Il ricorso dell’Aiello deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

7.2 R.G..

L’imputato R.G. – maresciallo del Raggruppamento Operativo speciale dei CC, addetto alla collocazione ed installazione degli apparati di registrazione sonora e visiva nel corso di indagini antimafia – ricorre avverso la sentenza della Corte territoriale con la quale – in riforma della decisione di 1^ grado che lo aveva, previa riqualificazione della originaria contestazione di cui al capo c) della rubrica, dichiarato colpevole dei reati previsti dagli artt. 81 e 361 c.p., art. 378 c.p., comma 2 – è stato, a seguito di impugnazione anche del Pubblico Ministero, riconosciuto responsabile del delitto di cui agli artt. 110 e 416 c.p., così come originariamente contestato, oltre che dei reati previsti dagli artt. 319, 326 e 615 bis e ter c.p.. E condannato alla pena di anni otto di reclusione. Articola, in proposito, il ricorrente undici motivi.

7.2.1 Il primo motivo di ricorso – con il quale la difesa deduce la violazione del principio del ne bis in idem ai sensi dell’art. 649 c.p.p. – è infondato in quanto il P.M. ha interposto gravame avverso la decisione di primo grado con riferimento all’esclusione della violazione del disposto di cui all’art. 416 bis c.p. contestata al capo C della imputazione, rilevando che il prevenuto ebbe la "piena consapevolezza di fornire aiuto all’organizzazione mafiosa attraverso notizie che nel tempo ha rivelato".

Il Procuratore appellante ha, nell’atto di impugnazione, indicato specificatamente alcune delle notizie particolari svelate all’ A., ma ha chiaramente inteso investire il giudice di appello della valutazione di tutte le rivelazioni accertate, ivi comprese le notizie riservate svelate al Mi.Do..

Il ricorrente R., in sostanza, nel porre in risalto la motivazione esposta dal P.M. a sostegno dell’appello, non considera l’oggetto dell’appello stesso che riguarda l’intero capo C della imputazione comprensivo di tutte le rivelazioni dei segreti di ufficio che il P.M. appellante ha esposto essere finalizzati all’agevolazione della struttura criminale, come poi accertato dal giudice di appello.

Va richiamato in proposito l’effetto pienamente devolutivo dell’appello in ordine ai capi della sentenza oggetto di gravame ed il principio di legittimità che statuisce che l’atto di gravame attribuisce al giudice di appello gli ampi poteri decisori previsti dall’art. 597 c.p.p., comma 2, lett. B).

Al riguardo, le Sezioni Unite della Corte hanno evidenziato che il giudice di appello è legittimato a verificare tutte le risultanze processuali ed a riconsiderare anche i punti della sentenza di primo grado che non abbiano formato oggetto di specifica critica (come nel caso in esame le rivelazioni al Mi.Do.), non essendo vincolato strettamente alle motivazione esposte dall’impugnante (Cass. S.U. 12.7.05 n. 33748, rv. 231645; Cass. V 21.10.08 n. 46451, rv. 242600).

7.2.2 Dette considerazioni hanno effetto anche con riferimento al secondo motivo di gravame – con cui si denuncia la violazione del diritto di difesa -avendo il prevenuto espresso sia in primo che in secondo grado – (e, quindi, conseguentemente sull’appello del P.M.) – le sue difese sul capo di accusa concernente il concorso esterno in associazione mafiosa.

7.2.3 Anche per il terzo e quarto motivo di ricorso – con cui si eccepisce l’inosservanza del disposto di cui all’art. 521 c.p.p. – vale il dettato delle Sezioni Unite appena ricordato, in quanto gli episodi citati dal ricorrente, (confidenze all’infedele mar.

Bo.An. e al medico Mi.Do. ed operazioni di bonifica da microspie), sono ed erano ben conosciuti dal prevenuto trattandosi di risultanze processuali in ordine alle quali è stata svolta difesa, risultanze correttamente considerate dal giudice di appello in forza del pieno principio devolutivo dell’atto di gravame, si che è da escludere, nella maniera più assoluta, che il R. sia stato giudicato per un fatto diverso da quello contestato.

7.2.4 Con il quinto motivo di ricorso il difensore censura l’apparato motivazionaie della decisione in ordine alla affermazione di colpevolezza per il delitto associativo esaminando partitamente i singoli episodi accertati che nega essere uniti da unitaria volontà di favoreggiamento dei vari personaggi sottoposti ad intercettazione ad opera dell’ufficio dei ROS cui il ricorrente apparteneva.

In particolare, contesta che dagli episodi " Bo. – Gu.Gi.", " Me.", " Mi.Do.", " E." e da quello delle "bonifiche", esaminati dalla Corte territoriale, a volte singolarmente, altre volte congiuntamente, possano farsi discendere elementi dimostrativi dell’esistenza in capo al R. dell’elemento soggettivo necessario per integrare la fattispecie prevista dagli artt. 110 e 416 c.p. (pagg. 18-43 ricorso).

Osserva in proposito questa Corte di legittimità che il ricorrente, nel censurare, di volta in volta, la valutazione dei singoli episodi operata dalla Corte di merito, propone non consentite censure in fatto che, peraltro, non intaccano la granitica motivazione della Corte territoriale la quale ha, con argomentazioni convincenti, immuni da vizi logico-giuridici, strettamente ancorate a specifiche risultanze processuali singolarmente richiamate, (contenuto di conversazioni telefoniche intercettate, confessione dell’imputato, ecc.), valutato il comportamento del R. nell’intero arco temporale di cui al capo di accusa, accertando non solo la materialità delle condotte ma anche la consapevolezza dell’imputato di svolgere attività proficua per l’associazione criminale.

I Giudici di appello hanno, in proposito, evidenziato che la condotta di rivelazione continuata da parte del prevenuto non era stata limitata nell’ambito di un esclusivo rapporto confidenziale con l’imprenditore colluso A.M., avendo il R., nel tempo, compiuto attività analoghe anche in favore di altri soggetti inseriti nel contesto associativo mafioso.

Queste le notizie illecitamente rivelate nel tempo dall’infedele sottufficiale dei C.C. dettagliatamente elencate alle pagg. 358 e 359 della sentenza della Corte territoriale:

1) giugno 1999 notizie ad A.M. e al B. A. dell’esistenza di sistemi di videoripresa nell’abitazione dei Me.Fr., Me.Ma. e Me.Pa., persone strettamente legate al latitante M.D.M. e, cioè, al boss trapanese, al vertice dell’associazione criminale "Cosa Nostra", del quale avevano favorito la latitanza;

2) nel corso dello stesso 1999, notizie all’ A. di intercettazioni ambientali nell’abitazione estiva di Gu.

F., cognato di M.D.M., e fratello del medico Gu.Gi., capo del mandamento di Brancaccio;

3) nel giugno 2001 notizie su esistenza di intercettazioni ambientali presso l’abitazione del pluricondannato per mafia Gu.

G., microspie da lui stesso attivate nell’anno precedente;

4) nel giugno 2001, notizie al Bo. e, tramite questi, anche al Cu.Sa., uomo politico eletto in quello stesso mese di giugno Governatore della Regione siciliana, sull’intercettazione a casa di Gu.Gi.;

5) nell’estate del 2002, notizia a Mi.Do. dell’esistenza di una microspie che egli stesso aveva collocato all’interno di un’auto del Mi.Do.;

6) nel 2003 notizia a A.M. che l’abitazione di Acquedolci del mafioso E.N. era sottoposta a servizi di intercettazione ambientale;

7) nel febbraio 2003, notizia allo stesso A. che l’auto al mafioso Eu.Sa. era sottoposta a servizi di intercettazione;

8) notizia a A.M. di servizi di registrazione negli esercizi commerciali di due parenti dell’ E.;

9) notizia a A.M. di servizi di captazione nell’abitazione di D.S.D., persona in contatto con personaggi mafiosi di Bagheria;

10) notizia ad A. dell’attivazione di servizi di registrazione nell’abitazione di Pa.Fr., inserito nella rete dei fiancheggiatori di Pr.Be.;

11) notizia ad A. di servizi di intercettazione nei confronti della macelleria dei fratelli T. di Bagheria.

La verifica delle suddette condotte di rivelazione di notizie coperte da segreto, eseguita in maniera analitica dalla Corte di merito, esclude la fondatezza delle doglianze proposte in ricorso con riferimento ad uno iato temporale tra le varie condotte che, invece, risultano essere continuative nel tempo.

Invero, il Giudice di 2^ grado, attraverso una quanto mai esaustiva e puntuale disamina delle risultanze fattuali (pagg. 357 e segg.), ha incontestabilmente accertato che l’infedele servitore dello Stato aveva rivelato, in maniera sistematica e continua, informazioni coperte da segreto di ufficio relative ad attività investigative – coordinate dalla D.D.A. di Palermo – svolte da vari organi di P.G. finalizzate precipuamente alla cattura dei latitanti Pr.

B. e M.D.M. e, cioè, di quei mafiosi che erano, in quel momento, al vertice di "Cosa Nostra", con ciò ponendo in essere una dolosa perdurante attività chiaramente di aiuto per l’associazione criminale.

In particolare, è rimasto provato che l’infedele mar. del ROS riferiva all’imprenditore colluso A.M. informazioni riguardanti indagine che dovevano rimanere segrete, alcune delle quali, proprio tramite l’ A., finivano per essere apprese o dai soggetti coinvolti nelle attività di investigazione oppure da coloro che collaboravano con l’organizzazione mafiosa tutelando la latitanza dei capi.

Ampio e del tutto corretto è stato, poi, l’accertamento dell’elemento soggettivo della consapevolezza e volontà di recare un contributo al programma criminoso del sodalizio mafioso (Cass. S.U. n. 33748 del 12.7.2005), in quanto sin dal 1999 con la vicenda delle telecamere presso l’abitazione dei Me., quindi nel corso del 2001, in occasione della doppia rivelazione pervenuta al mafioso Gu.Gi., ed ancora nel 2003 con il disvelare l’esistenza della microspia posta sull’auto degli E., mafiosi legati al capo di "Cosa Nostra", il R. aveva sempre appreso che la sua attività di rivelazione di notizie segrete aveva avvantaggiato l’organizzazione mafiosa informandola delle specifiche attività investigative in corso.

In tutte queste vicende il R. ebbe, invero, la piena consapevolezza di avvantaggiare l’associazione mafiosa proseguendo nelle rivelazioni che aveva direttamente constatato essere state utilizzate per sviare le indagini sui vari soggetti intercettati.

Il R., pur rendendosi conto della direzione delle notizie riferite, pur in presenza di conosciuti, acclarati pacifici ed incontestabili vantaggi assicurati all’organizzazione mafiosa per effetto delle sue rivelazioni all’imprenditore bagherese, proseguì nella condotta illecita, continuando a mettere al corrente l’ A. di ulteriori attività investigative che puntualmente venivano, poi, apprese dai soggetti sottoposti ad indagini, come nel caso dei servizi di registrazione nell’abitazione di Pa.Fr., mafioso strettamente legato a Pr.Be..

Molteplici sono state le occasioni evidenziate dal Giudice di 2^ grado in cui il R. ebbe modo di venire a conoscenza della circostanza che proprio le sue precedenti condotte di rivelazioni avevano determinato l’apprensione della notizia proprio da parte dei membri dell’organizzazione nei cui confronti egli stesso (e non altri) avevano collocato i suddetti apparati di captazione.

Particolare importanza, ai fini di tratteggiare l’atteggiamento psicologico dell’imputato il quale proseguì nel suo comportamento di continuata rivelazione, pur essendo perfettamente consapevole delle conseguenze di tale agire, è stata dalla Corte di merito (pagg. 360 – 363) attribuita all’"episodio Me." al fine di dimostrare come l’imputato, fin dal 1999, avesse avuto modo di accertare gli effettivi legami dell’ A. con componenti della rete di fiancheggiatori dei capi-mafia Pr.Be. e M. D.M..

La vicenda è stata diffusamente esaminata da questa Corte nel valutare la posizione dell’ A. ed, in tale occasione, si sono evidenziati:

a) la personalità dei Me. – legati, da un lato, al latitante M.D.M. e, dall’altro lato, all’imprenditore di cui Me.Pa.e Me.Fr. erano anche dipendenti;

b) il ruolo avuto dalla Me.Pa., dall’ A. e, soprattutto:

c) quello svolto dall’infedele R. nella rivelazione della notizia segreta e nella individuazione delle apparecchiature di registrazione visiva diretta verso l’ingresso di casa Me..

Basterà, qui, soltanto aggiungere la seguente logica e convincente argomentazione della Corte di merito: "Ebbene, dopo tale notizia, non solo Me.Pa. continuava a prestare regolare servizio presso la clinica ma manteneva ancora rapporti di fiducia con l’ A. sino addirittura ad essere parte di quella rete riservata costituita dall’imprenditore con Ci., R., C. ed altri nel corso del 2003 e finalizzata ad impedire di essere intercettati.

Ora appare logico e consequenziale chiedersi, non soltanto per quale motivo R. si decise a fornire informazioni riguardanti indagini che allora erano in corso nei riguardi dei favoreggiatori del capo- mafia M.D.M. ma, soprattutto, in che modo lo stesso potè poi giustificare la prosecuzione di quel rapporto particolare che legava A.M. a Me.Pa..

Posto, infatti, che fu ben presto noto al R., abituale frequentatore della clinica ove era stata assunta la moglie prima ed il fratello dopo, la permanenza della Me. nella struttura, il maresciallo dovette necessariamente ed inequivocabilmente comprendere che questo soggetto, imparentata con i più fidati favoreggiatori del latitante M.D.M. nella cui ricerca egli stesso era attivamente impegnato, manteneva un rapporto di fiducia con A. e che proprio grazie a questo il suo intervento era stato sollecitato da A. e Bo."(v. pag. 361).

In conclusione, nonostante ciò, l’infedele sottufficiale proseguì, imperterrito, non soltanto a frequentare, ma addirittura a confidare ulteriori notizie segrete all’ A..

Un ulteriore episodio è stato, poi, valorizzato dalla Corte di merito sotto il profilo specifico dell’individuazione dell’elemento psicologico del reato consumato dal R.. (v. pagg. 369 – 370).

Il Giudice di 2^ grado ha fatto riferimento alla vicenda della microspia collocata nell’auto del mafioso E., vicenda già, peraltro, ampiamente esaminata da questa Corte allorquando si è proceduto alla valutazione della posizione dell’ A. – (che aveva comunicato la notizia, ricevuta dal R., agli E. come provato dal contenuto del colloquio intercettato nel carcere tramite microspie ambientali) – in occasione della quale, peraltro, si è già evidenziato il ruolo dell’infedele sottufficiale.

Si osserva, comunque, che il Giudice di 2^ grado, per quanto attiene specificamente al ruolo del R., ha posto in rilievo che – dopo alcuni giorni che il prevenuto aveva comunicato all’imprenditore la notizia riservata – l’ E., nel corso di una ricerca definita "mirata" da esponenti del ROS, sentiti come testimoni, rinveniva la microscopia e la disattivava e tale attività veniva registrata dall’apparecchiatura sino, appunto, al momento dell’interruzione delle trasmissioni.

La fase del ritrovamento era poi ripetutamente ascoltata dal R. che veniva, cosi, a conoscenza, anche in detto caso, della circostanza che la sua precedente condotta di rivelazione aveva direttamente agevolata i componenti dell’organizzazione mafiosa, dal momento che era stata individuata un’apparecchiatura che, sino a quel momento, aveva fruttato ottimi risultati investigativi visto il tenore dei colloqui tra E.N. e E. S. che si svolgevano proprio dentro l’Opel Corsa e l’uso da parte del Eu.Sa. del mezzo per contattare altri soggetti gravitanti nel giro dei più fedeli collaboratori di Pr.Be. addetti anche al ruolo di c.d. "postini" in quanto incaricati di smistare i messaggi del capo-mafia corleonese.

Del resto, la rivelazione fatta da parte dell’imputato, riguardava non soltanto un’apparecchiatura che stava dando rilevanti risultati investigativi ma, altresì, un sistema che aveva permesso di accertare come gli E. nel corso delle loro conversazioni facessero espresso riferimento all’ingegnere A. quale soggetto da tutelare.

Del tutto corretta, logica e convincente è, pertanto, la conclusione cui sul punto è pervenuta la Corte di merito la quale ha osservato come "nonostante il R. avesse immediatamente ascoltato la fase del ritrovamento della microspia l’11 marzo del 2003, e quindi fosse stato inequivocabilmente posto in condizione di ricostruire i fatti ed il ruolo proprio e dell’ A. nella rivelazione, dopo questa data non aveva in alcun modo interrotto i rapporti con l’imprenditore ma, anzi, continuava a frequentarlo ed addirittura a riferirgli ulteriori notizie segrete e riservate come quelle riguardanti la sottoposizione dell’abitazione dei Pa. a servizi di intercettazione e registrazione a distanza", (come si è già accennato in precedenza).

Già a seguito di questi due episodi era oramai definitivamente chiaro all’infedele sottufficiale che l’imprenditore della sanità A.M. aveva rapporti di collaborazione con l’organizzazione mafiosa alla quale trasmetteva notizie segrete.

Un altro fatto, avvenuto nel corso del 2001, rende, così come correttamente evidenziato dalla Corte territoriale (pagg. 362 – 364), ancor più manifesto l’elemento psicologico sotteso alle condotte del R..

96 Ci si riferisce in particolare alla rivelazione delle notizie riguardanti l’installazione di microspie, collocate dallo stesso R., nell’abitazione palermitana dell’associato mafioso Gu.Gi., sottoposto ad indagini dopo la sua scarcerazione e risultato subito rientrato in contatto con ambienti mafiosi ed esponenti politici quali Mi.Do..

La vicenda è più diffusamente affrontata ed evidenziata da questa Corte nella parte motivazionale dedicata alla posizione processuale del coimputato Cu.Sa.; qui appare sufficiente ricordare che, a fine primavera 2001, proprio il Maresciallo R., e cioè colui che l’anno precedente era riuscito a collocare le microspie nell’abitazione del Gu.Gi., confidava al collega Bo. intento a presentare la propria candidatura politica in una lista collegata a quella del Cu., che proprio presso questa residenza venivano registrate conversazioni che coinvolgevano il Cu. medesimo.

Dopo alcuni giorni, e precisamente il 15 di giugno di quell’anno, una delle microspie che erano state istallate dal R. all’interno dell’abitazione del capomafia veniva rinvenuta e disattivata ma, nel corso di tali operazioni i componenti della famiglia Gu.

G. che partecipavano alla ricerca, facevano riferimento alla circostanza di essere stati precedentemente avvertiti da soggetti in contatto proprio con Cu.To. e tale conversazione veniva pure essa ugualmente registrata da altri apparati collocati sempre nelle stesse stanze.

Il R. ascoltava ripetutamente il nastro registrato ed assumeva, così, piena consapevolezza della circostanza che la notizia da egli rivelata precedentemente a Bo. aveva, tramite il Cu., raggiunto addirittura il capo-mafia G. G. che, poi, con l’ausilio di un piccolo scanner aveva rinvenuto l’apparato di registrazione.

Egli, quindi, era venuto a conoscenza di quella catena che aveva permesso il disvelamento della notizia al capo-mafia ed aveva avuto ad oggetto il rinvenimento di una delle microspie che egli stesso aveva precedentemente occultato all’interno dell’abitazione.

Anche su tale episodio corretta, logica e convincente è l’argomentazione della Corte di merito: "Orbene, nonostante ciò – qtmdi benchè l’imputato avesse a quel punto appreso con piena consapevolezza che Bo. aveva tradito evidentemente la sua fiducia rivelando il fatto al Cu. che poi a sua volta aveva fatto sapere della microspia al Gu.Gi. – il R., non solo non denunciò il fatto e non interruppe i rapporti con il Bo., che si era palesato quale soggetto assolutamente privo di scrupoli e con lo stesso Cu., anch’egli coinvolto nella catena dei rivelamenti, ma addirittura si recò nuovamente dallo stesso Maresciallo Bo. a riferirgli che la fase del ritrovamento era stata registrata e che in quel contesto erano state captate frasi dei Gu.Gi. che palesavano i canali di informazione attraverso altre apparecchiature di registrazione" (pag.

363).

Tale condotta dava, poi, vita all’ulteriore catena di informazioni e all’episodio della c.d. rivelazione della rivelazione poichè il Bo., in occasione della cena elettorale del 24 giugno 2001, organizzata dal partito del Cu. presso il ristorante (OMISSIS) proprio per celebrare la vittoriale elettorale, informava dei fatti il Mi.Do. e l’ Ar., e, cioè, quelle persone che avevano entrambe operato da intermediari del Cu. nel trasmettere la notizia al Gu.Gi..

Era così avvenuto e caduto sotto la diretta percezione del R. che quelle stesse microspie, che egli aveva precedentemente installato, erano state rinvenute, disattivate o, comunque, rese inefficaci, per effetto della condotta posta in essere dallo stesso soggetto addetto al posizionamento.

Coerente e logica è, pertanto, l’ulteriore argomentazione dei giudici di 2^ grado secondo cui la seconda rivelazione illecita – dopo che la prima notizia riservata aveva raggiunto lo stesso capomafia di Brancaccio (e di ciò il R. aveva avuto diretta e piena conoscenza) – non poteva avere se non "l’evidente e unico scopo di avvertire Bo. e i suoi correi del pericolo che stavano tutti correndo e, quindi, per far sapere agli altri soggetti coinvolti della presenza di ulteriori microspie a casa Gu.

G. che, peraltro, egli stesso aveva installato".

Oltre, agli episodi riguardanti le rivelazioni in favore del gruppo Bo. – Cu. – Mi.Do. – Gu.Gi. il Maresciallo del Ros ha ammesso di avere anche personalmente informato Mi.Do. di attività di captazione delle conversazioni da egli stesso installate all’interno dell’autovettura di questi.

L’episodio, oggetto della specifica contestazione di cui al capo S) della rubrica, ebbe a verificarsi nel corso del 2002 quando R. incontrava Mi.Do. che gli veniva presentato da un comune amico il dottore Ra.; in occasione di tali incontri, il Maresciallo del Ros metteva al corrente Mi.Do. dell’esistenza di indagini sul suo conto e del fatto che egli stesso aveva collocato sull’autovettura del predetto Mi.Do. una microspia per intercettarne le conversazioni.

Il fatto nella sua evoluzione storica non è contestato perchè oltre ad essere ammesso dal R. è stato anche oggetto di integrale conferma da parte del Ra..

Sul punto, la Corte territoriale ha così correttamente motivato (pagg. 366 – 367): "Ed al proposito non può omettersi di segnalare che a quella data R. sapeva già del pieno coinvolgimento nelle indagini antimafia del Mi.Do. che non era un soggetto qualsiasi, bensì quell’individuo che il capo-mafia di Brancaccio Gu.Gi. aveva individuato quale candidato dell’associazione mafiosa per le prossime consultazioni elettorali regionali, concordando detta scelta con il Cu.Sa. a seguito di una trattativa pur indiretta durata mesi, che aveva avuto ripetuti contatti con detto esponente mafioso nel cui interesse aveva seguito varie vicende e che allo stesso, quindi, risultava indissolubilmente legato.

Avere pertanto non solo frequentato Mi.Do., ma altresì confidato allo stesso delle indagini in corso, confermando un dato dal medico pur già conosciuto, e precisato addirittura di avere egli stesso in precedenza collocato una microspia nella sua autovettura, non è un "dato sporadico ed occasionale" così come sostenuto dal Tribunale di primo grado, poichè R. aveva già in occasione della seconda rivelazione a Bo. diretta ad agevolare anche Gu.Gi. manifestato la propria volontà di riferire fatti e notizie segrete a più soggetti in contatto con l’organizzazione mafiosa ed a suoi componenti di vertice in particolare, secondo le osservazioni che sono state in precedenza svolte.

La condotta dell’imputato, quindi, appare avere favorito ed avvantaggiato diversi soggetti tutti intranei o comunque in stretto collegamento con l’organizzazione mafiosa".

Gli episodi prima analizzati, e incontestabilmente provati sulla base delle molteplici e convergenti risultanze processuali, (contenuto delle conversazioni intercettate, dichiarazioni dell’ Ar., ammissioni del R., ecc.), sono "idonei a qualificare il dolo del R. al momento dell’adozione successiva di ulteriori condotte analoghe; posto, infatti, che l’imputato aveva appreso della diffusione proprio ai mafiosi intercettati delle notizie da lui rivelate ad altri riguardanti dette attività investigative, l’avere poi proseguito in tempi successivi nel compimento di condotte analoghe non può certamente essere ricondotto ad una semplice imprudenza del Maresciallo del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, bensi alla precisa volontà di questi di agevolare l’organizzazione tramite continue rivelazioni all’ A. ed agli altri soggetti con i quali era in contatto" (pag. 360 sent. 2^ grado).

Conclusivamente può affermarsi che l’imputato ebbe la piena consapevolezza di agevolare l’organizzazione mafiosa dal momento che risulta in modo incontestabile che proseguì nelle condotte di rivelazione pur dopo aver preso atto degli enormi vantaggi che i suoi comportamenti avevano assicurato a "Cosa Nostra", la quale si era vista così recapitare le notizie sulle intercettazioni in corso da parte di quello stesso soggetto che aveva materialmente collocato le apparecchiature di registrazione occulte.

Ne consegue che le doglianze sollevate dalla difesa in ordine alla valutazione degli episodi su indicati operata dalla Corte di merito ai fini della sussistenza dell’elemento soggettivo sono infondate, così come lo sono quelle relative alle c.d. Bonifiche e alla c.d.

Rete riservata, episodi dai quali il Giudice di merito ha tratto ulteriori elementi dimostrativi dell’elemento psicologico del reato in questione.

Sono innanzitutto infondate le doglianze difensive relative alle c.d. bonifiche.

La Corte territoriale, oltre al caso Mi.Do., prima analizzato, ha fatto riferimento anche all’accertata collaborazione del R. con il Cu.Sa. in occasione di alcune operazioni di "bonifica" che l’imputato veniva chiamato, al di fuori dei compiti di servizio, ad effettuare presso le residenze e gli uffici dell’uomo politico.

Invero, dal 1999 al 2002, il Maresciallo R. era stato incaricato di controllare la sussistenza di eventuali apparati di intercettazione negli uffici e nell’appartamento del Cu. sicchè, è evidente che il prevenuto era soggetto di assoluta fiducia di quello stesso gruppo di soggetti che, nel 2001, aveva usufruito delle informazioni che il R. aveva fornito al Bo. perchè pervenissero al Gu.Gi..

Conseguentemente, del tutto logica e coerente è la seguente argomentazione della Corte di merito: "E se tali incarichi fiduciari proseguirono ad essere assunti ed espletati ancora nel 2002 quando R. faceva accesso alla Presidenza della Regione proprio per effettuare un’ulteriore operazione di bonifica, se ne deve necessariamente ed inequivocabilmente inferire che il Maresciallo del Ros, sebbene perfettamente consapevole che quel gruppo di potere aveva illecitamente sfruttato le sue informazioni, aveva continuato a collaborare con lo stesso come peraltro dimostrato da tutto il successivo svolgimento dei fatti, dall’inserimento del R. stesso nella rete riservata dell’ A. sino alla data del suo arresto (5 novembre 2003), dalla offerta di un cospicuo regalo in denaro da parte del duo Bo. – Cu." (pagg. 373 e 374).

Correttamente, quindi, anche tale episodio delle c.d. bonifiche è stato ritenuto dai Giudici di 2^ grado come "elemento idoneo a far ritenere che R.G., in aperta violazione dei propri doveri, agevolò in più occasioni, con piena coscienza e volontà l’organizzazione mafiosa e ciò fece sia trasmettendo alla stessa una serie di informazioni riguardanti le indagini in corso nei confronti di vari esponenti criminali, sia partecipando a pieno titolo a quel sistema contro-informativo la cui composizione, attività e scopo vengono illustrati nel capitolo dedicato alla posizione del coimputato Cu.Sa. e che, comunque, può riaffermarsi era istituzionalmente stato creato dal predetto uomo politico e dal fido Bo. con l’evidente intento di arrestare, impedire o comunque divulgare il contenuto anticipatamente, di tutte le indagini che avevano ad oggetto i collegamenti tra l’associazione mafiosa e gli esponenti politici quali Cu. medesimo ed altri collaboratori di questi".

Infine, la Corte territoriale ha esaminato e valutato il significativo ed inquietante episodio della cd. rete riservata evidenziando come, proprio nel giugno del 2003, su sollecitazione di Ci.Gi., maresciallo della Guardia di Finanza distaccato presso l’ufficio della Procura della Repubblica di Palermo, e, precisamente, presso l’ufficio di un magistrato della Direzione Distrettuale Antimafia, era stata costituita la c.d. rete telefonica riservata diretta ad eludere le investigazioni da parte degli imputati che avevano attivato una serie di utenze cellulari in loro uso a nome di terze persone ignare, utilizzate soltanto per i contatti tra loro stessi e che, pertanto, si confidavano apertamente quando conversavano utilizzando i predetti apparecchi.

Dette apparecchiature erano in uso ad A., Ci., R., C., Ro. e d’. questi ultimi due entrambi dipendenti dell’imprenditore, e come in precedenza anticipato da Me.Pa., segretaria dello stesso A., e prevedeva un utilizzo dei telefoni mediante un circuito chiuso nel senso che queste utenze avrebbero dovuto comunicare esclusivamente tra di loro in modo da impedire di essere intercettate dall’esterno, circostanza però che non aveva impedito agli investigatori di riuscire ugualmente nell’intento di captare le conversazioni.

Che la funzione della rete riservata fosse sostanzialmente illecita, in quanto mirata ad eludere le investigazioni ed a trasmettersi notizie segrete, i Giudici del merito lo hanno ricavato dalle dichiarazioni rese dal R., da quelle riferite nel verbale acquisito agli atti del giudizio e reso dall’imputato Ro.

R., utilizzabile nei confronti di tutti gli imputati, oltre che dal contenuto delle conversazioni intercettate su tali utenze (solo occasionalmente e fortuitamente scoperte).

Come si è in precedenza accennato, i colloqui riguardavano sempre interessi economici dei soci A. e C. connessi alla truffa per decine di milioni di Euro ai danni dell’Azienda Sanitaria Locale 6, i rapporti tra costoro ed il Cu. finalizzati ad includere nel tariffario regionale le prestazioni alle quali erano interessati ai prezzi da loro suggeriti, l’illecita attività di ricerca di notizie segrete riguardanti le indagini in corso svolta sempre su interesse dei predetti imputati dai marescialli Ci. e R., i rapporti con il Presidente Cu. finalizzati sempre alla ricerca di notizie riservate.

Sulla base di tali elementi i Giudici del merito hanno individuato e distinto i vari ruoli svolti da ciascuno degli imputati in tale vicenda: " A. aveva assunto un ruolo di collegamento tra tutti i correi sollecitandoli a ricercare notizie riguardanti l’iscrizione nei vari registri degli indagati, C. aveva condiviso tutte le iniziative illecite del cugino A. peraltro attivandosi anche attraverso una sua fonte interna alla Procura rimasta non individuata; R. aveva partecipato alle fasi direttive e progettuali anche attivandosi personalmente per la ricerca di notizie coperte ancora da segreto investigativo ed il Ci., infine, risultava avere svolto la parte principale delle attività di infiltrazione e percezione abusiva di notizie coperte da segreto proprio in virtù del suo ruolo e dei rapporti personali che egli aveva creato all’interno dell’ufficio della Procura della Repubblica di Palermo, coinvolgendo nelle ricerche illecite anche la coimputata B.G.A." (pag. 386).

Alla stregua delle considerazioni finora esposte, deve concludersi che correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che i fatti addebitati al R.G. integrassero il delitto previsto dagli artt. 110 e 416 bis c.p., così come allo stesso contestato al capo C) della rubrica – (erroneamente riqualificato nelle ipotesi di cui agli artt. 378 e 361 c.p. dal Giudice di 1^ grado) – sussistendo sia l’elemento oggettivo che quello soggettivo del reato in questione:

a) Quanto all’elemento oggettivo del delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., la costante rivelazione di notizie segrete assicurata da R. ad A. era attività certamente idonea ad integrare il delitto di concorso esterno in associazione mafiosa, visto che le rivelazioni erano state plurime, continuative e si erano protratte per circa quattro anni, così che il contributo oggettivamente fornito da R. doveva ritenersi di notevole importanza per l’associazione. b) Quanto all’elemento soggettivo, egli era ben consapevole della illiceità della propria condotta agevolatrice del sodalizio mafioso in quanto egli ebbe a proseguire le condotte di rivelazione pur dopo aver appreso che le stesse, già in precedenza, avevano permesso ai componenti dell’organizzazione di apprendere la notizia da lui stesso trasmesse e, così, di eludere le investigazioni, ed, altresì, analoghe attività agevolatrici vennero assunte nei confronti di soggetti quando era oramai nota la sottoposizione di costoro ad indagini antimafia.

Ha fatto, così, la Corte territoriale corretta applicazione del principio affermato da questa Corte di legittimità (Cass. Sez. Fer.

10/09/1999, Mastrorosa ed altri) – e che con la presente decisione deve essere confermato – che se per un solo episodio di rivelazioni di notizie relative ad indagini può essere ritenuto il meno grave reato di favoreggiamento, ove, invece, le informazioni siano sistematiche ad uno o più associati, su indagini a carico di essi associati (o dell’intero sodalizio) deve essere riconosciuto, quantomeno, il concorso nel reato associativo (se non proprio quello di partecipazione).

7.2.5 Con il sesto motivo di ricorso, la difesa deduce che la sentenza di 2^ grado non aveva dato "risposta alle specifiche e documentate doglianze svolte negli atti di appello della difesa, rendendola incompatibile, sui punti essenziali della decisione (l’atteggiamento psicologico del R.),con gli atti del processo che sono stati in parte ignorati e in parte travisati" (pag. 43 ricorso).

La doglianza – che, peraltro, si risolve sostanzialmente in una non consentita censura di puro merito – è infondata poichè la Corte territoriale ha, con motivazione davvero ampia e approfondita, dato ragioni del giudizio di responsabilità dell’imputato valutando, una per una, le risultanze processuali e dando diffusamente risposta alle plurime deduzioni dell’appellante.

Sul punto va, peraltro, ricordato il principio di legittimità che statuisce che il giudice d’appello deve tenere presente, dandovi risposta in motivazione, quali sono state le doglianze dell’appellante in ordine ai punti investiti dal gravame, ma non è tenuto ad indagare su tutte le argomentazioni elencate in sostegno dell’appello quando esse siano incompatibili con le spiegazioni svolte nella motivazione, poichè in tal modo quelle argomentazioni si intendono assorbite e respinte dalle spiegazioni fornite dal giudice di secondo grado con la conseguenza che la ipotizzabilità di una diversa valutazione delle medesime risultanze processuali non costituisce vizio di motivazione, valutabile in sede di legittimità.

(Cass. 5^, n. 7588 del 6.5.99, depositata 11.6.99, rv. 213630).

Ulteriori doglianze nella difesa sono relative alla dedotta erroneità della Corte di merito in relazione alla ritenuta consapevolezza del R. della "mafiosità dell’ A., essendo vero, invece, che nel 2003 era emerso che l’imprenditore era sì possibile soggetto di interesse investigativo, ma non come persona associata alla mafia, bensì quale imprenditore possibile vittima di richieste estorsive".

La censura è infondata non solo per la accertata intraneità dell’ A. all’associazione mafiosa, ma anche perchè la Corte territoriale, sullo specifico punto, ha richiamato la deposizione degli investigatori (cap. so., col. da., maggiore ru. e mar. sa.) i quali "hanno fatto chiaramente ed univocamente risultare che, nel corso di varie riunioni, l’ A. era stato individuato, tra l’inverno e la primavera del 2003, come soggetto di interesse investigativo per i suoi legami con esponenti mafiosi ma, ciò nonostante, l’imputato proseguiva a frequentare lo stesso e a rivestire il ruolo di soggetto di piena fiducia dell’imprenditore come dimostrato dall’inserimento a quella data nella cd. rete riservata.

Anzi, tra l’estate e l’autunno di quell’anno, R. addirittura passava informazioni riservate all’ A. circa la sottoposizione di questi ad attività di intercettazione telefonica nel procedimento intentato contro l’imprenditore già a quella data per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p."(pag. 372).

Infine, la circostanza indicata dalla difesa che il GUP di Palermo, con sentenza dell’8/04/2005, aveva escluso per il mar. Ci.

G. la sussistenza del concorso in associazione mafiosa ritenendo la sola ipotesi di favoreggiamento aggravato ai sensi dell’art. 378 c.p., comma 2 (e condannandolo alla pena di anni 4 e mesi 8 di reclusione), è irrilevante poichè una diversa valutazione operata da altro giudicante in ordine ad un diverso imputato è inlnfluente nel presente procedimento, atteso anche che le condotte ascritte all’infedele mar. Ci.Gi. – (sostanzialmente relative alle ipotesi di rivelazione di notizie riservate e all’abusivo accesso al sito informatico, ai fini di conoscere lo stato delle indagini relative all’imprenditore A.) – sono solo in parte coincidenti con le più numerose e consistenti condotte dell’infedele mar. R. per il quale sono state accertate anche plurime rivelazioni di notizie riservate relative a vari esponenti mafiosi (v. episodi " Me.", " E.", " Gu.Gi.").

7.2.6 Con riferimento al settimo motivo di ricorso – con il quale si deduce la mancanza assoluta di motivazione (e la manifesta illogicità della stessa), in ordine alla richiesta di assoluzione formulata con l’atto di appello in relazione ai delitti di cui all’art. 378 c.p., comma 2 e art. 361 c.p. (pag. 57 ricorso) – si osserva che esso è infondato in quanto le argomentazioni esposte nell’esaminare il quinto motivo di ricorso escludono rilevanza alle censure proposte per il delitto ritenuto in primo grado (art. 378 c.p., comma 2) avendo il giudice di appello correttamente ritenuto, come si è ampiamente detto, che i fatti ascritti al R. integrano il più grave delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p..

7.2.7 L’ottavo motivo di ricorso concernente i capi D (art. 615 ter c.p.) ed E (art. 326 c.p.) della imputazione è infondato.

Invero, non è manifestamente illogico il riconoscimento del concorso del R. nel delitto di cui all’art. 615 ter c.p. per avere rafforzato l’intento criminoso degli istigatori A.M. e C.A. e degli autori materiali Ci.Gi. e B.G.A..

Va, innanzitutto, precisato che la vicenda degli accessi al sito informatico della Procura della Repubblica di Palermo è stata già valutata da questa Corte nell’esaminare la posizione dell’imputato A.M. e sarà oggetto di ulteriori argomentazioni nell’esaminare la posizione degli imputati C.A. e B.G.A..

Nel rinviare, quindi, alle suddette argomentazioni – con le quali è stato già evidenziato anche il ruolo svolto nella vicenda dal R. – basterà qui precisare che costui è stato ritenuto anch’egli coinvolto nell’assunzione di notizie segrete effettuate sia personalmente sia in concorso con l’ A. e il Ci., quantomeno rafforzando l’intento criminoso degli altri, come, peraltro, risultante anche dalle conversazioni seguenti la rivelazione proveniente da Cu.Sa. e diretta all’ A. tramite Ro.Ro. in data 30 ottobre del 2003, (sulla quale ci si soffermerà in seguito), e dagli incontri successivi tra tutti i soggetti coinvolti, (sul punto, v. più dettagliatamente quanto esposto alle pagg. 388 e segg. della sentenza di 2^ grado).

La Corte ha, invero, evidenziato il concorso del R. comprovato dai costanti e frenetici contatti di quei giorni tra gli imputati, essendo rimasto accertato che il prevenuto ebbe a condividere tutte le iniziative illecite poste in essere materialmente anche dagli altri (in particolare, v. telefonate del 18 e 24 settembre 2003 tra Ci. e R. sulle informazioni riservate da acquisire richiamate nelle decisioni di 1^ e 2^ grado).

Il concorso nei delitti in questione, inoltre, non è solo morale in quanto è rimasto provato che fu proprio il R. a riferire all’ A. della proroga dell’intercettazione richiesta dal P.M. al GIP. il 30.9. 2003 (v. pagg. 395 – 396 sent. 2^ grado e pag. 600 sent. 1^ grado).

Sul punto, i Giudici di merito hanno così adeguatamente e correttamente motivato: "Invero, dalla conversazione intercettata del 30 settembre ore 14.01 riportata l’impugnata pronuncia a pag. 603 del supporto informatico, tra R.G. e Ci.Gi., risulta che il primo, dopo avere incontrato un suo collega rimasto non identificato, aveva appreso che proprio in quel frangente era stata avanzata un’ulteriore richiesta di proroga delle intercettazioni telefoniche sulle utenze dell’ A..

A tale colloquio ne seguiva altro anch’esso intercettato alle ore 19.54 dello stesso giorno in cui R., questa volta colloquiando proprio con il diretto interessato A.M., gli comunicava appunto dell’avvenuta proroga per ulteriori 15 giorni delle attività di captazione, mettendo così direttamente in condizione il soggetto sottoposto alle attività investigative di sottrarsi alle indagini.

Ed a fronte dell’avvenuta comunicazione proprio al soggetto indagato della sottoposizione dello stesso ad attività di intercettazione in esatta coincidenza con l’emissione del provvedimento da parte dell’autorità giudiziaria, appare evidente che il reato di rivelazione di notizie segrete si sia consumato, non potendo ritenersi circostanza decisiva quella dell’avvenuta trasmissione di una notizia difforme solo perchè la durata delle attività indicate era di soli 15 giorni in luogo dei 20 effettivi, poichè comunque il danno alle indagini fu procurato, essendo stato messo l’indagato in condizioni di apprendere l’espletamento di attività investigative nei suoi diretti confronti.

Ancora una volta, quindi, R.G., nel settembre del 2003 dopo che le precedenti trasmissioni di notizie avevano procurato serissimi ostacoli alle attività investigative in occasione della vicenda Gu.Gi. e di quella E., determinando la scoperta delle microspie da egli stesso piazzate, avevano favorito soggetti in contatto con latitanti mafiosi ed al contempo con l’ A. quali i fratelli Me. ed i Pa., proseguiva nella sua attività di costante rivelazione informando l’imprenditore di Bagheria della prosecuzione a suo carico di indagini antimafia mediante il ricorso alle intercettazioni di conversazioni da parte dei Carabinieri.

E certamente l’ A. sollecitava continuamente tali attività, tenendosi in contatto con i due Marescialli e richiedendo le informazioni agli stessi, aventi ad oggetto l’apprensione delle notizie segrete, essendo suo spasmodico interesse conoscere l’esistenza e durata dei servizi di intercettazione attivati nei suoi riguardi, come peraltro inequivocabilmente dimostrato dal contenuto di quelle conversazioni riportate alle pagg. 600 e segg. del supporto informatico della sentenza di primo grado".

Ne consegue che, anche, il reato previsto dall’art. 326 c.p. – oltre quello di cui all’art. 615 ter – è pienamente integrato in quanto l’indagato A. venne messo nelle condizioni di apprendere l’espletamento di attività investigative nei suoi diretti confronti.

7.2.8 Le doglianze proposte con il nono motivo di ricorso relativo al delitto di corruzione sono inammissibili in quanto meramente rivalutative della logica valutazione probatoria resa dalla Corte territoriale la quale ha considerato che l’assunzione immediata della moglie e del fratello Vi. alle dipendenze dell’imprenditore, il "prestito" di L. 25.000.000 per l’acquisto dell’auto, mai restituito, gli ulteriori "prestiti" nel 2003, anch’essi mai restituiti, gli operai e i materiali gratuitamente forniti per costruire la casa rurale, sono tutte elargizioni da parte dell’ A. che non possono avere una giustificazione diversa da quella retributiva delle varie illecite rivelazioni e, quindi, di evidente natura corruttiva.

In sostanza, i Giudici del merito hanno debitamente evidenziato (pagg. 379 -380, sent. 2^ grado):

a) "la ripetuta attività di retribuzione delle condotte illecite di rivelazione posta in essere dal corruttore A. nei confronti del corrotto R. richiamata nei capi di imputazione H) ed I) rispettivamente sotto i diversi profili attivo e passivo, ritenuta sussistente all’esito del giudizio di primo grado";

b) "Trattasi, con evidenza, di regalie di valore certamente non indifferente ma anzi particolarmente significativo, che non trovano alcuna altra giustificazione se non nell’attività costante e ripetuta di rivelazione di notizie da parte del R. e nell’evidente grande interesse che la stessa assumeva per l’ A. che, altrimenti, mai si sarebbe spinto ad investire decine di milioni di lire in autovetture e lavori di ristrutturazione in favore di un soggetto che aveva conosciuto poco tempo prima e con il quale non vi era certamente una frequentazione assidua al di fuori del posto di lavoro.

Peraltro, è appena il caso di notare, che mai di regalie potrebbe comunque parlarsi vertendosi in ipotesi di corruzione propria e cioè connessa al compimento di atti contrari ai doveri di ufficio, quali appunto furono le rivelazioni di notizie, sicchè l’accettazione di qualsiasi compenso da parte del Pubblico Ufficiale costituisce sempre reato";

c) che il R. non aveva al riguardo fornito una coerente giustificazione alternativa di tutti i favoritismi e di tutte le regalie.

Sulla base di tali argomentazioni, la Corte territoriale è pervenuta alla seguente, logica e condivisibile conclusione: "Ora, nel caso in esame, non è proprio emerso per quale altra ragione l’ A. avrebbe dovuto effettuare tali consistenti pagamenti a vantaggio del R. se non per ottenere da questi quella mole di informazioni riguardanti l’associazione mafiosa denominata "Cosa Nostra" con la quale l’imprenditore di Bagheria era in fattiva collaborazione.

L’assenza di qualsiasi ragione alternativa, l’accertato compimento di una serie di illecite condotte di rivelazione e la contemporaneità tra le stesse e le dazioni di consistenti somme di denaro o di altre utilità, costituiscono tutti elementi idonei a far individuare la causa dei pagamenti proprio nella ricezione delle notizie segrete".

Alla luce delle suesposte considerazioni, pertanto, l’impugnata sentenza deve essere confermata anche quanto ai delitti di cui ai capi H) ed I) della rubrica contestati al R.G. e all’ A.M..

7.2.9 Deve essere, invece, accolto il decimo motivo di ricorso proposto con riferimento al decorso del termine di prescrizione per i reati ascritti ai capi S, T, V della rubrica, essendo corretti i dati temporali indicati dalla difesa.

Invero, i delitti di rivelazione di segreti di ufficio (capi S e T, non aggravati L. n. 203 del 1991, ex art. 7), risultano commessi nella "primavera-estate 2002", mentre quello previsto dall’art. 615 bis c.p. risulta commesso nel "corso del 2002".

Le confessioni del prevenuto, unite a quelle rese da Ra.

G. nel procedimento connesso, escludono la sussistenza di differenti cause di non punibilità ai sensi dell’art. 129 c.p.p..

La pena complessiva deve essere, quindi, rideterminata in anni 7 mesi 5 e giorni 10 di reclusione rimodulando la sanzione nei termini già statuiti dal giudice di merito con l’eliminazione della pena irrogata in continuazione per detti delitti (pena base anni 10 + anni 1 e mesi 2 (anzichè anni 2) per continuazione = anni 11 mesi 2 diminuita di un terzo per la concessa diminuente del rito = anni 7 mesi 5 e giorni 10).

7.2.10 Quanto al trattamento sanzionatorio), va osservato che i giudici di appello hanno coerentemente indicato i parametri oggettivi imponenti il diniego di attenuanti generiche e la quantificazione della sanzione nella misura irrogata rilevando la "indubbia gravità" dei fatti non illogicamente definita "particolare se non eccezionale" ed il reiterato e costante tradimento delle istituzioni pubbliche cui apparteneva l’imputato che ha così mortificato l’operato di tutte le decine di altri appartenenti alle forze dell’ordine impegnati fedelmente, e con grave rischio, nelle investigazioni di contrasto alla pericolosissima associazione criminale, ed ha tradito completamente e ripetutamente la fiducia che i magistrati inquirenti e i vertici dei CC. riponevano in lui.

Il ricorso sul punto (undicesimo motivo) è, quindi, del tutto infondato in quanto la concessione delle attenuanti generiche e la quantificazione della sanzione rientrano nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo (Cass. 6^, n. 41365 del 28.10.2010, depositata 23.11.2010, rv.

248737; Cass. 1^, n. 46954 del 4.11.04, depositata 2.12.04, rv.

230591).

La sentenza impugnata, per quanto attiene alla posizione di R. G., deve, conseguentemente, essere annullata senza rinvio, limitatamente ai reati ascritti ai capi S, T, V della rubrica perchè estinti per sopravvenuta prescrizione.

Gli altri motivi di ricorso vanno, invece, rigettati.

7.3 C.A..

Il ricorso proposto nell’interesse di C.A. – medico chirurgo, cugino e uomo di fiducia dell’imprenditore A. M., imputato dei delitti ex artt. 326 e 615 c.p. – è inammissibile.

7.3.1 Quanto alla eccezione proposta con il primo motivo di ricorso relativo alla competenza ex art. 11 c.p.p., essa è stata già esaminata e disattesa nella trattazione delle questioni preliminari con argomentazioni che hanno evidenziato la manifesta infondatezza della eccezione medesima, e alle quali si fa espresso rinvio.

7.3.2 Quanto alla eccezione per l’applicabilità del disposto di cui all’art. 615 ter c.p. nei confronti di pubblici ufficiali titolari di password – oggetto di una delle doglianze contenute nel secondo motivo di ricorso – si rinvia alle considerazioni di seguito esposte con riferimento al gravame avanzato nell’interesse di B. G.A..

Le ulteriori plurime doglianze difensive, diffusamente svolte con il secondo motivo di ricorso, oltre che rievocare in larga misura il tenore delle censure già poste a fondamento dell’appello e puntualmente disattese dai giudici di quel grado, appaiono tutte orientate verso una rilettura delle risultanze processuali, piuttosto che come una deduzione di "errores in procedendo o in iudicando" in cui il giudizio di appello sarebbe incorso.

Il ricorso sul punto è, pertanto, palesemente inammissibile, proprio perchè i relativi motivi risultano solo formalmente evocativi dei prospettati vizi di legittimità, ma, in concreto, sono articolati esclusivamente sulla base di rilievi di merito, tendenti ad una rivalutazione delle relative statuizioni adottate dalla Corte territoriale.

Statuizioni, per di più, sviluppate sulla base di un esauriente corredo argomentativo, proprio sui punti in relazione ai quali il ricorrente ha svolto le proprie censure evidentemente tese ad un improprio riesame del fatto, estraneo al perimetro entro il quale può svolgersi il sindacato riservato a questa Corte.

La Corte territoriale ha, infatti, passato in analitica ed esauriente rassegna di tutti quelli che apparivano essere i punti critici della complessa vicenda avendo accertato gli stretti rapporti intercorrenti, non solo tra l’ A. e l’infedele sottufficiale Ci., ma anche tra quest’ultimo ed il C. e come costui fosse anch’egli inserito nella rete riservata finalizzata ad eludere le intercettazioni telefoniche in corso di svolgimento (telefoni, come si è già evidenziato, intestati a persone ignare, acquistati dall’ A. su sollecitazione del Ci. e consegnati, oltre che a costoro, all’infedele mar. R., al d’., al R. R. e Me.Pa., segretaria dell’ A.).

La vicenda relativa all’acquisizione di notizie riservate sul sito informativo della Procura della Repubblica di Palermo è stata diffusamente esposta nell’esaminare il ruolo in proposito avuto dall’ A. e dal R. ed, in tale occasione, si è anche evidenziato il ruolo svolto dallo stesso C..

Basterà, quindi, qui aggiungere che il concorso nel delitto previsto dall’art. 615 ter c.p. discende dal fatto che i partecipi della rete contemporaneamente erano sempre a conoscenza dello stato delle indagini comunicandolo costantemente agli altri, esortandosi reciprocamente ad operare per acquisire notizie.

La prova che il ricorrente ebbe a condividere tutte le iniziative illecite dell’ A. significativamente è stata tratta anche dal contenuto delle seguenti telefonate intercettate, riportate alle pagg. 398 e segg. della sent. di 2^ grado:

a) quella del 20 settembre 2003 tra l’imputato C. e il cugino A. nella quale il primo sollecitava il cugino a far acquisire, tramite il Ci., informazioni sul registro degli indagati e, precisamente, ricercando il nominativo del cognato dell’ A. che, all’epoca, era amministratore pro-tempore di una delle due società operanti nella sanità privata;

b) quella del 21 settembre 2003, in cui i due si accordano per far effettuare la ricerca al Ci., e non al legale, il successivo lunedì;

c) quella svoltasi sempre il 21 ottobre del 2003, dalla quale risulta che il C. rassicura il cugino circa l’indagine principale a suo carico, quella per associazione mafiosa, mentre l’indagine in materia sanitaria veniva ritenuta un filone autonomo del tutto svincolato da quello principale in relazione alla quale bisognava continuare ad effettuare controlli abusivi sul sistema informatico della Procura;

d) quella del 2 ottobre 2003, in cui il C. discute con l’ A. e il Ci. della validità degli atti processuali convenendo, con evidenza, di svolgere ulteriori investigazioni illecite;

e) quella del 5 ottobre 2003, nel corso della quale il C. parla con l’ A. confermandogli che, tramite la sua fonte, ha accertato che è stata disposta la proroga delle intercettazioni per altri 15 giorni e che, nell’indagine relativa al delitto di cui all’art. 416 bis c.p., non erano emersi elementi di rilievo a carico dell’ A..

Oltre al contenuto delle suddette intercettazioni telefoniche, (ed ad altre dell’8, 28 e 30 ottobre 2003), i Giudici del merito hanno correttamente evidenziato anche il contenuto di una dichiarazione, sostanzialmente confessoria, resa dal C. in occasione del suo interrogatorio in data 24 novembre 2003 acquisito agli atti del giudizio a seguito dell’esercizio della facoltà di non rispondere;

in detto interrogatorio, l’imputato – dopo aver riferito di avere, in passato, appreso dall’ A. che questi era indagato a seguito delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Gi.

A. – riconosceva palesemente il suo contributo alle ricerche illecite svolte materialmente dall’infedele mar. Ci.Gi. nel registro in uso alla Procura della Repubblica di Palermo (v. pag.

399 sent. 2^ grado che richiama il verbale riportato in buona parte alle pagg. 730 e segg. sent. 1^ grado).

La Corte territoriale ha adeguatamente motivato anche in ordine all’elemento soggettivo ricavato "dalla palese consapevolezza della illiceità della condotta che, oltre ad essere stata riconosciuta dall’imputato nel verbale del 24 novembre, che costituisce una chiara ammissione di responsabilità, emerge, con evidenza, dal contenuto delle conversazioni intercettate e riportate nella sentenza di 1^ grado e, specificamente, in quei colloqui in cui l’appellante ed il cugino predispongono gli accessi abusivi da far effettuare al Ci., prima del ricorso alla procedura legale consigliata dall’avvocato dell’imprenditore bagherese"(v. pag. 406 sent. 2^ grado).

Le censure mosse dal ricorrente sul valore delle ammissioni rese dal C. il 24 novembre 2003 costituiscono palesi censure in fatto e si sostanziano in non consentite valutazioni di merito a fronte di una analisi probatoria esposta dalla Corte territoriale con logica, completa e con disamina di tutte le doglianze proposte con l’atto di appello.

Manifestamente infondate sono, poi, le censure sulla persona del mar.

Bo., essendo del tutto carente di presupposti il richiamo ad uno stato di necessità, così come del tutto incongruo è il riferimento al disposto di cui all’art. 5 c.p. in assenza di un pacifico orientamento giurisprudenziale dal quale il prevenuto abbia potuto trarre il convincimento di liceità del proprio comportamento, convincimento che, invece, è palesemente escluso dalla contraria consapevolezza dell’agire illegale direttamente posto in essere ed anche demandato al Ci. (Cass. 4^ n. 32069 del 15.7.2010, rv.

248339).

Inoltre, costituisce mera negativa di fatto, irrilevante nel giudizio di legittimità, il difetto di prova dell’esistenza di una propria fonte informativa all’interno della Procura della Repubblica, essendo stato il dato accertato dalle ammissioni al riguardo fatte dal ricorrente nel corso delle telefonate intercettate.

7.3.3 Ancora, del tutto infondate sono le deduzioni difensive, (contenute anch’esse nel secondo motivo di ricorso), con le quali si contesta la possibilità, in punto di diritto, di ritenere in capo al C. il concorso nel delitto ex art. 326 c.p..

Si assume dalla difesa dell’imputato che il delitto è a struttura plurisoggettiva, ma si tratta di una plurisoggettività meramente naturalistica, perchè il divieto è rivolto esclusivamente all’intraneus; il silenzio dell’art. 326 c.p., circa la punibilità dell’extraneus, è significativo giacchè, quando la legge ha voluto includere nell’illecito anche il ricettore della notizia, lo ha detto espressamente.

La doglianza è, come si è detto, manifestamente infondata.

Invero – atteso l’accertato accordo criminoso e l’istigazione rivolta all’infedele pubblico ufficiale – va ricordato che, secondo il costante insegnamento di questa Corte di legittimità, tali condotte integrano il concorso tra il pubblico ufficiale e l’"extraneus" nella consumazione del delitto (Cass. 6^ n. 37531 del 14.06.2007, rv.

238029).

E’ stato, in proposito, precisato che "integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti di ufficio la divulgazione da parte dell’extraneus del contenuto di informative di reato redatte da un ufficiale di polizia giudiziaria realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore" (Cass. sez. 6^, 14/10/2009, n 42109, rv. 245021).

Del tutto esatta è, inoltre, la motivazione della Corte territoriale in ordine all’aggravante prevista dall’art. 615 ter c.p., comma 2 atteso che gli accessi abusivi venivano compiuti da pubblici ufficiali operatori su un sistema informatico contenenti dati relativi all’ordine pubblico come quello, appunto, in uso alla Procura della Repubblica presso il Tribunale.

Inoltre, deve ritenersi corretta l’esclusione operata dalla Corte di merito della diminuente di cui all’art. 114 c.p. in quanto la disponibilità di propria fonte, la direttiva concordata per l’acquisizione di notizie illecite ed il fornire all’ A. notizie relative al procedimento per associazione mafiosa costituiscono dati escludenti la minima rilevanza del fatto posto in essere, avuto, altresì, riguardo al frequente intervento del C. nella preparazione e predisposizione delle attività illecite concordate in più occasioni con il cugino A.M..

7.3.4 Ne consegue che il terzo motivo di ricorso, nel quale sono contenute le doglianze in ordine alla sussistenza dell’aggravante e alla violazione dell’art. 114 c.p., è manifestamente infondato.

7.3.5 Infine, anche il quarto motivo di ricorso deve ritenersi manifestamente infondato, in quanto il giudizio relativo alla concedibilità di attenuanti generiche ed alla quantificazione della sanzione deve ritenersi esaurientemente compiuto con il porre in risalto anche una sola delle circostanze suscettibili di valutazione.

Nel caso specifico, vi è di più: la motivazione è stata esposta con riguardo alla intensità del dolo, al comportamento processuale ed alla entità dei fatti, non essendo il giudice, comunque, tenuto a considerare in maniera analitica i singoli elementi di cui all’art. 133 c.p. esponendo per ciascuno di questi le rispettive ragioni che lo hanno indotto a formulare il proprio conclusivo giudizio (Cass. 2^, 2.9.00 n. 9387, ud. 15.6.00, rv. 216924).

Il ricorso del C. deve, quindi, essere dichiarato inammissibile.

7.4 B.G.A..

Il ricorso proposto nell’interesse di B.G.A. – ispettore della Polizia municipale di Palermo, componente della squadra di p.g., addetta alla segreteria di un magistrato della Procura della Repubblica di Palermo, assegnataria di password per l’accesso ai registri informatizzati della Procura (R.E.G.E.), imputata del reato ex art. 615 ter c.p. – è inammissibile.

Il giudice di merito ha accertato un primo accesso con la password dell’imputata in data 23.9.03 su modello 21 registro noti; la stessa ha ammesso i fatti nel corso del suo esame all’udienza del 24.1.06 ed ha riferito di avere agito su richiesta del Ci.Gi., nonchè di avere eseguito ricerche anche sui modelli 44 e 45 inserendo i nominativi indicati dal Ci..

L’accesso è stato dalla Corte territoriale riconosciuto come illegittimo perchè effettuato nella piena consapevolezza che non si trattava di una attività di ufficio, ma di un controllo abusivo al sistema effettuato nell’interesse personale ed esclusivo del Ci., pur se frutto dell’induzione di quest’ultimo, che le aveva rappresentato che le ricerche lo riguardavano personalmente o, comunque, riguardavano suoi familiari.

La vicenda è stata, peraltro, già compiutamente esaminata e valutata da questa Corte di legittimità con riferimento alla posizione degli imputati R. e C. con argomentazioni alle quali espressamente si rinvia.

7.4.1 In ogni caso, con riferimento alle doglianze proposte con il primo motivo di ricorso in ordine alla insussistenza del delitto di cui all’art. 615 ter c.p. non applicabile ai titolari di password di accesso, si evidenzia che dette analoghe doglianze sono già state da questa Corte accertate come infondate nell’ambito del procedimento contro Ci.Gi., infedele sottufficiale della Guardia di Finanza, concorrente con la ricorrente nel medesimo delitto, e giudicato separatamente (Cass. 6^, n. 42690 del 28.10.2010).

Questa Corte non può, quindi, non confermare il principio di legittimità – enunciato sulla medesima questione in procedimento separato – e più volte affermato da questa Corte regolatrice secondo cui "integra il reato di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico la condotta del soggetto che, pur avendo titolo per accedere al sistema, vi si introduca con la "password" di servizio per raccogliere dati protetti per finalità estranee alle ragioni di istituto ed agli scopi sottostanti alla protezione dell’archivio informatico, in quanto l’art. 615 ter c.p. non punisce soltanto l’accesso abusivo, ma anche la condotta di chi vi si "mantenga contro la volontà espressa o tacita di chi ha diritto di escluderlo" (Cass. 5^, n. 19463 del 16.2.2010, rv. 247144; Cass. 5^, n. 2987 del 10.12.2009, rv. 245842; Cass. 13/2/2009 n 18006; sez. 5^, 8/7/2008 n 37322, rv. 2412/02).

L’assoluta infondatezza della doglianza è dimostrata anche dalle seguenti considerazioni: il dato testuale della norma che sanziona il "mantenersi" nel sistema oltre le finalità per le quali l’operatore ha avuto la password di accesso, risulta anche dalla aggravante dell’abuso della qualità di operatore del sistema di cui stesso art. 615 ter c.p., comma 2, n. 1 aggravante che non avrebbe ragione di essere ove l’operatore del sistema in quanto tale non possa porre in essere abusivi accessi con l’uso della propria password. Il titolare di password di un sistema protetto e riservato quale quello relativo ai vari registri di iscrizione di notizie di reato e di indagati noti ed ignoti, registri esclusi dalla consultazione di estranei, non può effettuare ricerche non finalizzate ai propri compiti di ufficio in quanto non è possibile pensare che ogni operatore può consultare, con il solo divieto di divulgazione ad estranei, (art. 326 c.p.), l’intero sistema e possa anche scambiare le informazioni assunte con gli altri operatori.

La password è conferita all’operatore per ragioni e finalità di servizio concernenti il proprio ufficio ed è questo il limite di utilizzo della stessa, limite ben noto alla B.G.A., che successivamente, come accertato dal giudice di merito, negò al Ci. di effettuare altre ricerche su quei registri.

Deve, quindi, ritenersi del tutto incongruo il riferimento proposto in ricorso a precedenti decisioni di questa Corte che, quanto alla sentenza n. 39290 in data 8.10.08, Peperaio, attiene a fattispecie diversa, che si riferisce a sistema informatico per il cui accesso non è necessaria password, mentre quello della Procura della Repubblica è un registro caratterizzato da segretezza al quale può accedere solo il personale autorizzato dal Procuratore della Repubblica ed esclusivamente per ragioni di ufficio e di servizio.

7.4.2 La doglianza contenuta nel secondo motivo di ricorso è manifestamente infondata poichè la Corte territoriale ha accertato gli altri accessi abusivi della B.G.A. attraverso le stesse ammissioni della ricorrente, nonchè per il dato di fatto, correttamente accertato a seguito della deposizione del consulente tecnico, secondo cui il sistema in quelle date non registrava quel tipo di accessi.

Il ricorso della B.G.A. deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

7.5 V.G..

Il ricorso redatto in favore di V.G. – Dirigente la Squadra Anticrimine della Questura di Palermo, imputato dei reati di cui agli artt. 378 e 479 c.p. – è infondato e deve essere rigettato.

7.5.1 Il primo motivo di ricorso si sostanzia in una mera negazione delle prove di colpevolezza indicate dal giudice di merito in ordine al delitto di favoreggiamento aggravato. Non può, infatti, porsi in dubbio che, dalla telefonata del 3.10.03 intercorsa tra l’imprenditore colluso A.M. e l’infedele mar. C. G., risulta che il V. era al corrente della rete riservata ideata dai predetti Ci. e A. per proteggere quest’ultimo, di quella rete, cioè, ideata al fine precipuo di eludere le attività investigative (anche per associazione mafiosa), cui l’ A. era sottoposto, e segnatamente al fine di sottrarsi da attività di intercettazione telefonica nei suoi confronti: v. telefonata 3.10.03, richiamata a pag. 565 della sent. di 2^ grado, nel corso della quale il V. chiede di far parte della rete, dato confessato dinanzi al P.M. dal ricorrente che non può certo avanzare ritrattazioni motivate su uno stato confusionale, avendo in sede istruttoria ammesso di conoscere le finalità di quella rete, nonchè di avere telefonato con il cellulare del Ci. (v. pag.

563 sent. 2^ grado).

Lo stesso imputato ha anche ammesso di conoscere l’esistenza di indagini a carico dell’ A. e di essere stato informato da costui del sequestro operato dai NAS. Si ricorda in proposito che la confessione dell’imputato può essere posta a base del giudizio di colpevolezza anche quando costituisce l’unico elemento di accusa purchè il giudice ne abbia favorevolmente apprezzato la veridicità, la genuinità e l’attendibilità, fornendo ragione dei motivi per i quali debba respingersi ogni sospetto di un intendimento autocalunnatorio o di intervenuta costrizione dell’interessato (Cass. N. 20591 del 5.3.2008, rv. 240213).

Nella fattispecie le chiare ammissioni dell’imputato, persona non certo estranea professionalmente all’accertamento di reati e, quindi, ben consapevole del significato e del valore di comportamenti tenuti nel corso di indagini giudiziarie, trovano conforto nel sopra indicato contenuto delle conversazioni intercettate e nell’uso della rete telefonica finalizzata ad escludere ulteriori accertamenti contro l’ A..

7.5.2 Le stesse argomentazioni valgono con riferimento al secondo motivo di ricorso relativo al delitto di cui all’art. 479 c.p., essendo obbligo dell’ufficiale di polizia giudiziaria – (tale essendo il V. ex art. 57 c.p.p., comma 1, lett. A) – di riferire quanto a sua conoscenza e non già solo quanto cartaceamente risultante nella documentazione in suo possesso, così determinando un falso per induzione conseguente al tacere elementi di fatto a sua conoscenza impeditivi del rilascio di quel certificato di sicurezza relativo alla società ATI Group di A., avendo anche omesso di approfondire i fatti mediante richieste di ricerche ad altri organi investigativi della Questura.

Gli accertamenti richiesti erano finalizzati a funzioni di prevenzione che l’ufficiale di polizia giudiziaria è tenuto a porre in essere anche di propria iniziativa, funzioni cui il prevenuto è venuto meno tacendo quanto a sua conoscenza, omettendo di sollecitare accertamenti, attivandosi direttamente per il rilascio del certificato non dovuto.

Il giudice di merito ha correttamente rilevato che il V. disse il falso e falsificò il vero comunicando l’assenza di investigazioni in corso, ben conoscendo, invece, le indagini in corso a carico di A., intervenendo personalmente poi presso i colleghi determinando l’esito del rilascio del certificato il successivo 16 ottobre 2003.

Conclusivamente, sulla base delle predette risultanze processuali, adeguatamente valutate dai Giudici di merito, ha trovato piena conferma l’impianto accusatorio secondo cui il V. – il quale aveva ricevuto una richiesta del CESIS di comunicare ogni possibile notizia su A.M. ai fini del rilascio della nullaosta di sicurezza – falsamente attestò, nella nota prot. n 903129 del 16/10/2003, inviata alla Questura di Palermo, l’assenza di elementi ostativi per il rilascio del predetto nulla-osta, pur nella consapevolezza di indagini in corso a carico dello stesso A. da parte della Procura della Repubblica di Palermo.

Vale, da ultimo, anche per questo ricorrente la manifesta infondatezza delle doglianze contenute anch’esse nel secondo motivo di ricorso concernenti le circostanze attenuanti generiche e la valutazione dosimetrica della pena che il giudice di merito ha debitamente quantificato con riferimento alla entità dei fatti ed alla personalità del prevenuto.

Il ricorso del V. deve, pertanto, essere rigettato.

7.6 CU.SA..

7.6.1 Cu.Sa. ricorre avverso la sentenza della Corte territoriale che – in parziale riforma della decisione del Tribunale con la quale era stato condannato alla pena di anni cinque di reclusione in quanto ritenuto responsabile dei reati, assunti in continuazione, di cui all’art. 326 c.p., (capi N e P della rubrica), e art. 378 c.p., comma 2, (capi O e Q), con l’esclusione dell’aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7 contestata in relazione ai delitti ascritti ai capi P e Q (vicenda Gu.

G.) – lo ha condannato, ritenuta sussistente l’aggravante suddetta, alla pena di anni sette di reclusione.

Il ricorso – che si articola in dodici motivi (del 5/6/2010), più un motivo ulteriore (del 7/6/2010), ad integrazione dei precedenti, tre motivi nuovi (del 23/12/2010) e cinque motivi nuovi (del 30/12/2010) – è infondato e, come tale, va rigettato per le ragioni qui di seguito esposte con la premessa che i primi due motivi del ricorso principale (del 5/6/2010), e il primo dei motivi nuovi (del 23/12/2010) – concernenti sia l’eccezione di incompetenza funzionale della Corte territoriale ex art. 11 c.p.p. sia quella di inutilizzabilità delle conversazioni ambientali captate nell’abitazione di Gu.Gi. – sono state già ritenute manifestamente infondate allorquando sono state esaminate e risolte le questioni procedurali proposte da più ricorrenti.

7.6.2 VICENDA INTERCETTAZIONI AMBIENTALI NELL’ABITAZIONE GU. G..

(capi P e Q della rubrica) 7.6.2.1 La vicenda va, dapprima, delineata nel suo complessivo svilupparsi -(già, peraltro, brevemente rappresentata nel valutare il ruolo svolto in proposito dall’infedele sottoufficiale del ROS R.G.) – per essere, poi, approfonditamente esaminata, onde accertare come le risultanze processuali siano state valutate dalla Corte territoriale, al fine di dare, così, compiuta risposta ai motivi dedotti dalla difesa dell’imputato con i quali si contesta il giudizio della Corte di merito sia in punto di responsabilità che in ordine alla sussistenza dell’aggravante prevista dal D.L. n 152 del 1991, art. 7.

Si deve, quindi, dare, innanzitutto, piena risposta al terzo motivo del ricorso principale, al secondo dei motivi nuovi (del 23/12/2010) e al primo degli ulteriori motivi nuovi (del 30/12/2010) con i quali si assume che vi sia stata violazione degli artt. 192 e 195 c.p.p. in ordine al criterio di apprezzamento complessivo delle fonti probatorie adottato dalla Corte di merito quale momento coessenziale all’accertamento dei reati di rivelazione di segreto di ufficio e favoreggiamento personale ascritti al ricorrente rispettivamente ai capi P e Q della rubrica, e dovrà, poi, darsi risposta ai motivi quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo e nono del ricorso principale, al terzo dei motivi nuovi (del 23/23/2010) e al secondo, terzo e quarto degli ulteriori motivi nuovi ( del 30/12/2010), con i quali si contesta, sotto varie angolazioni, la ricorrenza, nel caso di specie, dell’aggravante in questione, in particolare, sotto il profilo della esistenza del dolo specifico richiesto dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7. 7.6.2.2 La ricostruzione della vicenda e la relativa decisione del Giudice di 2^ grado si basano essenzialmente sul contenuto delle conversazioni registrate in casa di Gu.Gi. nei primi sei mesi del 2001 (e, segnatamente, ma non solo, di quelle del 12 e 15 giugno 2001), sulle dichiarazioni di Ar.Sa., escusso ai sensi dell’art. 210 c.p.p. nella qualità di imputato di reato connesso, sulle dichiarazioni di ca.fr., anch’egli sentito ex art. 210 c.p.p., e sulle ammissioni di R.G. il quale ha confessato, e confermato nel corso del dibattimento, di aver violato il dovere di segretezza connesso al suo ruolo di mar. dei C.C., addetto alla installazione delle microspie e di aver rivelato la notizia dell’esistenza di intercettazioni ambientali in casa del capo-mafia Gu.Gi. al suo collega B. A. il quale era, in quel periodo, intento a presentare la propria candidatura politica in una lista collegata a quella dell’on. Cu.Sa. candidato alla Presidenza della Regione.

Il R. lo aveva sconsigliato di candidarsi "proprio con il Cu.", aggiungendo che, in quel momento, il R.O.S. aveva in corso un servizio di intercettazione ambientale sul Gu.Gi. dal quale erano emerse cose poco piacevoli sul conto del Cu. e del Mi.Do..

Dall’interrogatorio reso in dibattimento dal R. – riportato per esteso dal Tribunale (pagg. 975 e segg.) – emerge che l’infedele mar. del ROS confidò all’altro "squallido traditore dello Stato", (così testualmente la sentenza di 1^ grado a pag. 974), Bo. che:

a) erano in corso intercettazioni ambientali nell’abitazione del capo- mafia Gu.Gi.;

b) che era emerso un rapporto Gu.Gi., Mi.Do., Cu.;

c) in particolare, che il " Mi.Do. si proponeva come portavoce del Cu. e il Gu.Gi. gli proponeva situazioni di cui lui (gli) avrebbe prospettato al Cu., di ottenere ciò che egli chiedeva" (pag. 978 sent. 1^ grado).

La notizia, come ampiamente spiegato dai Giudici del merito, veniva dal Bo. riferita al Cu..

I successivi passaggi della notizia sono minuziosamente narrati dall’ Ar.Sa. – medico, in quel momento sottoposto ad indagini per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., già condannato per partecipazione mafiosa e in stretti rapporti, anche di affari, con il capo del mandamento mafioso Gu.Gi. – il quale ha dichiarato di avere appreso da Mi.Do., suo collega medico, che era stato lo stesso Cu. a dire al Mi.

D. – suo fraterno amico, collega e compagno di partito e di cui il Cu. conosceva i costanti contatti con il pluricondannato per mafia Gu.Gi., capo del mandamento di Brancaccio – della esistenza della indagine e delle intercettazioni di conversazioni intercorse tra esso Mi.Do. nell’abitazione di Gu.

G..

Più specificamente, il Cu. – subito dopo aver appreso la notizia, aveva appositamente convocato il Mi.Do. e gli aveva confidato di aver saputo dal Bo. – ("mi disse Cu. e a lui glielo ha detto Bo.": v. pag 111 sent. Tribunale Palermo dell’8/03/2008 versata in atti ) – che "I ROS stavano indagando sul conto del Gu.Gi. perchè lo ritenevano un personaggio in ascesa nel gothe di Cosa Nostra" e che speravano di catturare il latitante M.D.M. attraverso suo fratello Gu.Ca..

Il Cu. aveva anche detto al Mi.Do. "Voi cautelatevi che io mi cautelo da me".

Precisava l’ Ar. che il Mi.Do. aveva trasmesso immediatamente la rivelazione ad esso Ar. il quale, a sua volta, l’aveva comunicata all’associato mafioso.

Sul punto, i Giudici di merito, oltre a riportare le precise dichiarazioni dell’ Ar., il quale ha ripetutamente affermato che la fonte di tutte le notizie da lui apprese era rappresentata da Cu.Sa., hanno messo in rilievo che il predetto Ar., in data 12/6/2001, era stato registrato mentre comunicava al Gu.Gi. che "a iddu To. ci u rissi.., (mi) u mannò a chiamari, ci rissi.." frase dal significato inequivocabile ulteriormente confermato dallo stesso Ar. il quale riferiva che l’espressione era proprio nel senso che il Cu. aveva mandato a chiamare il Mi.Do. e gli aveva riferito la notizia.

Al momento della rivelazione che era stata intercettata una conversazione la quale concerneva il Gu.Gi. e il Mi.

D. (e che l’ Ar. riteneva essere una telefonata), il Gu.Gi. escludeva, quasi con certezza, che potesse trattarsi di una conversazione telefonica ma riteneva verosimile che potesse essere una intercettazione ambientale e, con molta insistenza, chiedeva all’ Ar. di verificare, nel dettaglio, il contenuto della notizia con il Cu. con il quale l’ Ar. doveva incontrarsi dopo qualche giorno; in particolare, il capomafia voleva conoscere il tipo di intercettazione, l’attribuzione delle voci registrate e, nel caso si trattasse di una ambientale, il luogo dove erano state collocate le microspie, in quanto aveva già due dubbi in proposito.

Dopo alcuni giorni, e precisamente il 15 di giugno di quell’anno – dopo che il giorno precedente l’ Ar. aveva riferito al Gu.Gi. di non essere riuscito ad incontrarsi con il Cu. e che, quindi, di non avere avuto ancora alcuna notizia in ordine della presenza di microspie – una delle microspie, che erano state installate dal R. all’interno dell’abitazione del capo- mafia, veniva rinvenuta e disattivata ma, nel corso di tali operazioni, i componenti della famiglia Gu.Gi., che partecipavano alla ricerca, facevano riferimento alla circostanza di essere stati precedentemente avvertiti da soggetti in contatto proprio con Cu.To. e tale conversazione veniva pure essa ugualmente registrata da altri apparati collocati sempre nelle stesse stanze.

In tale occasione venivano registrate le frasi pronunziate dalla moglie del Gu.Gi., Gr.Gi. "meno male che ce l’hanno detto"….. "ragiuni, veru ragiuni avia Cu.To.".

Quanto alla prima espressione, osserva questa Corte di legittimità che essa si ricollega alla già ricordata frase, registrata il 12/06/2001, dell’ Ar. il quale comunica al Gu.Gi. che "aiddu To. ci u rissi".

Corretta e ineccepibile è, pertanto, l’argomentazione del Giudice del merito secondo cui "appare, quindi, chiaro come già il mero collegamento di tali due frasi – sul cui ascolto nessuno ha sollevato dubbi – sia sufficiente per concludere, anche al di là delle altre, plurime, rilevanti ed autonomamente significative prove emerse, per la partecipazione al fatto dell’imputato" (pag. 941 sent. 1^ grado).

Quanto alla seconda espressione – la cui interpretazione è stata contestata dalla difesa – si rileva che essa è stata ricostruita con ineccepibili argomenti logici dai Giudici del merito in considerazione delle opinioni espresse in proposito dai due periti fonici, entrambi periti di fiducia dell’A.G., dotati di specifiche competenze e pratici di dialetto siciliano (v. pagg. 925 – 940 sent.

1^ grado; nonchè pag. 435 sent. 2^ grado).

Vanno, quindi, disattese le deduzioni difensive – (svolte in ordine alla interpretazione di tale ultima frase contenute nel terzo motivo del ricorso principale, e riprese sinteticamente nel secondo dei motivi nuovi, del 23/12/2010) – che devono ritenersi del tutto infondate anche alla luce dell’ulteriore circostanza, correttamente valorizzata dai Giudici del merito, che il R. – appreso da uno dei colleghi della sala ascolto che una delle microspie da lui stesso collocata nell’abitazione del Gu.Gi. era stata scoperta e disattivata – aveva proceduto all’ascolto, diverse volte, delle bobine relative al particolare momento del ritrovamento sentendo pronunciare chiaramente la frase "Aveva ragione To.", (v. pagg.

921 – 922 sent. 1^ grado che riporta l’interrogatorio reso sul punto dal R. il quale ha, in buona parte, confermato l’accurata ricostruzione dallo stesso, in proposito, effettuata nel corso delle indagini preliminari, tentando, peraltro, di ridimensionare le precedenti dichiarazioni, limitando la frase suddetta a quella "forse ha ragione … forse aveva ragione").

Tale circostanza veniva sostanzialmente confermata dal teste D. V.G., collega del R. e membro della c.d. squadra tecnica del ROS, il quale, nel corso dell’esame reso all’udienza del 13 marzo 2007, confermava per intero il contenuto della dichiarazione resa in dibattimento dal R.. Il D.V.G., in particolare, non solo era stato presente alle fasi dell’ascolto e del riascolto, da parte del R., della conversazione intercettata al momento del rinvenimento, ma aveva anche appreso dallo stesso che era stata registrata una frase ("aveva ragione") dalla quale si evinceva, in modo evidente, che le persone presenti in casa Gu.Gi. erano state preventivamente avvertite della presenza di microspie in casa.

Dopo l’ascolto, il R. – resosi conto della estrema pericolosità della frase pronunciata nei luoghi della intercettazione – si era precipitato ad avvertire il Bo. e a riferirgli che la frase del ritrovamento era stata registrata e che in quel contesto erano state captate frasi dei Gu.Gi. che palesavano i canali di informazione attraverso altre apparecchiature di registrazione.

Tale episodio dava, poi, vita ad una ulteriore catena di rivelazioni ed, in particolare, all’episodio del 24 giugno 2001, giorno dedicato alle elezioni dell’Assemblea Regionale ed in cui si svolgeva un incontro tra tutti i candidati del partito e movimento del Cu., presso il ristorante (OMISSIS) di Monreale.

Dopo la cena l’ Ar. riferiva di avere notato che Mi.Do. e Bo. si appartavano a discutere e che i due venivano raggiunti anche dal Cu.; immediatamente dopo, Mi.Do. lo aveva raggiunto e gli aveva testualmente detto "siamo rovinati".

Precisava l’ Ar. che il Mi.Do. gli aveva espressamente detto che, nel corso del colloquio che aveva appena avuto con il Cu. e il Bo., aveva appreso che il G. G. aveva scoperto una microspia nascosta nell’abat jour del suo salotto e che, durante l’operazione di rinvenimento della microspia, era stata captata la frase in cui si affermava "avevano ragione" che poteva metterli a rischio.

L’ Ar. consigliava, quindi, Mi.Do. di interrompere completamente i suoi rapporti col Gu.Gi. e si proponeva di andare ad avvisare l’associato mafioso della presenza di ulteriori microspie.

Presente alla cena e alla discussione vi era va.re. – un vecchio amico dell’ Ar. e del Mi.Do. e buon conoscitore del Cu. – che ha sostanzialmente confermato le dichiarazioni dell’ Ar..

Logiche e convincenti sono le argomentazioni dei Giudici di merito i quali hanno "evidenziato come proprio l’ascolto di quella frase aveva definitivamente convinto il R. del fatto che il G. G. era stato avvertito dell’esistenza di intercettazioni a suo carico e, soprattutto, che era stato " To." a far pervenire al Gu.Gi. quell’informazione che aveva ricevuto dal Bo. (al quale l’aveva data lo stesso R.).

Se così non fosse, non troverebbe alcuna logica spiegazione il fatto che il R., immediatamente dopo aver ascoltato quella frase, avesse cercato di incontrare il Bo. ed il Cu. per chiedere conto del loro comportamento.

L’unica spiegazione di tale condotta aderente alla logica consiste per l’appunto nell’effettivo ascolto della suddetta frase che aveva convinto definitivamente il R. che " To." fosse stato il tramite del passaggio della notizia che lui stesso aveva rivelato al Bo." (pagg. 923 – 924 sent. 1^ grado).

Sulla base di tali risultanze processuali e segnatamente delle dichiarazioni dell’ Ar. e delle registrazioni delle frasi suddette (sia di quest’ultimo che della Gr.Gi.), è del tutto ininfluente, a differenza di quanto assume la difesa (sempre nel terzo motivo del ricorso pricipale e nel secondo dei motivi nuovi del 23/12/2010), accertare se il R., dopo l’ascolto della conversazione intercettata, avvertì solo il Bo. come ritiene la difesa, ovvero anche il Cu., e se il teste va. sentì effettivamente la frase profferita, secondo l’ Ar., dal Mi.Do. "siamo rovinati", avendo il teste, comunque, dichiarato – e la circostanza risulta testualmente dalla deposizione dibattimentale riportata per esteso nei motivi di ricorso (pagg. 77 – 79) – di aver assistito all’animata discussione tra il Mi.Do. e l’ Ar. i quali erano "preoccupatissimi", poichè "erano state scoperte le microspie e si beccavano l’un l’altro perchè era venuta fuori questa notizia che c’erano delle microspie piazzate a casa del Gu.Gi.".

Ha aggiunto il teste che l’ Ar. gli aveva chiesto di accompagnarlo in auto nella zona di (OMISSIS) a Bagheria per andare a trovare Gu.Ca., (fratello del Gu.Gi.), o parenti di quest’ultimo in quanto doveva dare l’importante comunicazione ma egli, avendo compreso i rischi connessi a tale comunicazione, aveva chiesto all’ Ar. di esonerarlo da tale incombenza.

Allo stesso modo, sempre a differenza di quanto assume la difesa (sempre nel terzo motivo del ricorso principale e nel secondo dei motivi del 23/12/2010), non è assolutamente "pregnante", nel contesto della vicenda come accertata dalle inoppugnabili risultanze processuali prima evidenziate, l’episodio Gr.Vi. (cognato del Gu.Gi.).

Ancora va evidenziato che la circostanza secondo la quale l’ Ar. aveva fatto riferimento ad una telefonata intercettata e non alla captazione ambientale, è stata correttamente ritenuta dai Giudici di merito – a differenza di quanto infondatamente assume la difesa (sempre nel terzo motivo del ricorso principale) – "del tutto ininfiuente per la vaiutazione giuridica del fatto ed ancora più ininfluente si è rivelata per gli stessi Ar. e Gu.

G., posto che costoro, nella conversazione del 12 giugno 2001, davano per certo che non potesse essere una conversazione telefonica e che dovesse per forza trattarsi di una ambientale, tanto che il Gu.Gi. voleva sapere dove erano collocate le cimici visto che lui aveva il dubbio su due posti" (pag. 987 sent. 1^ grado).

Del resto, il nucleo essenziale della notizia, così come rivelata dal Cu. al Mi.Do., era sicuramente vero, sicchè corretta è l’argomentazione dei Giudici di merito che "la notizia era rimasta autentica nel suo contenuto essenziale: vi era una intercettazione (poco importa se telefonica od ambientale) che riguardava Gu.Pe. e Mi.Mi.)".

E’ stato, ancora, correttamente osservato dai Giudici di merito che la notizia era, poi, dotata del carattere dell’assoluta specificità e novità: era, cioè, una notizia specifica che introduceva un dato di conoscenza del tutto nuovo per coloro i quali la ricevevano e che aveva determinato importantissime conseguenze, così individuate già dal primo Giudice (pagg. 987 – 988):

in primo luogo aveva costretto l’ Ar., il Mi.Do. e il Gu.Gi. a diradare i loro contatti ed aveva causato un vulnus reale di notevole importanza per la campagna elettorale del Mi.Do. tanto da determinare, probabilmente, la sua mancata elezione;

ma soprattutto aveva determinato la scoperta della microspia che, di fatto, aveva bruscamente interrotto, come si dirà più ampiamente in seguito, una delle indagini antimafia di maggiore rilievo.

Alla stregua delle considerazioni finora svolte, può conclusivamente affermarsi che il percorso che la notizia segreta ha seguito ( R. – Bo. – Cu. – Mi.Do. – Ar. – Gu.Gi.) è stato puntualmente ricostruito attraverso una disamina critica approfondita da parte dei Giudici del merito delle plurime e concordi emergenze processuali, svolta nel pieno rispetto dei criteri legali e della logica ed alla luce dei principi previsti dalla legge, così come interpretati da questa Suprema Corte in tema di valutazione della prova.

Del tutto infondate devono, pertanto, ritenersi le doglianze – la gran parte delle quali si risolvono in censure di puro merito – avanzate dalla difesa nel terzo motivo del ricorso principale e nel primo degli ulteriori motivi nuovi (del 30/12/2010) con le quali si deduce la violazione dell’art. 192 c.p.p. e la non corretta valutazione delle dichiarazioni dell’ Ar..

Deve al riguardo affermarsi la completa logicità e conformità ai canoni di cui all’art. 192 c.p.p., comma 3 del giudizio di merito che ha riconosciuto piena valenza delle dichiarazioni accusatorie, stante la credibilità dell’ Ar., che, pur non avendo assunto formalmente la qualifica di collaboratore di Giustizia, ha reso dichiarazioni "sempre logiche, coerenti, ben argomentate" puntualmente riscontrate, come si è già più volte evidenziato, da vari elementi esterni ed autonomi (v. le intercettazioni in casa Gu.Gi. e quelle eseguite in carcere nel corso della detenzione dello stesso Ar.; le dichiarazioni confessorie di R.G.; quelle dell’avv. z.; il confronto tra questi e l’avv. c.).

Non è stato da alcuno confutato che le dichiarazioni rese dall’ Ar. in ordine agli aspetti che attengono ai rapporti mafia politica, alle elezioni regionali del 2001 ed alle fughe di notizie oggetto del presente procedimento siano state sempre chiare e coerenti, prive di rancore o vendetta anche nel corso del controesame delle difese in cui non ha mostrato incertezze o esitazioni ed ha mantenuto un livello di coerenza tale da non lasciare dubbi circa la sua attendibilità intrinseca nonchè di quella estrinseca, dal momento che ogni qual volta il Giudice di merito ha sottoposto a verifica esterna il contenuto delle dichiarazioni rese dall’ Ar., le stesse hanno sempre resistito al vaglio critico e sono state corroborate da riscontri anche individualizzanti.

Il giudice di merito ha logicamente evidenziato che nelle intercettazioni dei colloqui in carcere Ar., "abbandonato al suo destino dai suoi ex amici" – (significativa in proposito è l’espressione del Cu. che aveva chiesto al Mi.Do. e, per suo tramite, anche all’ Ar. "di starsene zitti e farsi la galera") – non ha espresso alcun motivo di rancore nei riguardi degli accusati che pretendevano da lui silenzio, omertà ed acquiescenza.

Ed, a tale proposito, va ricordato l’episodio – cui i Giudici del merito hanno attribuito la valenza di un "ulteriore riscontro formidabile alla deposizione dell’ Ar." – concernente il tentativo posto in essere dall’imputato con il concorso di altri, di ottenere il silenzio compiacente dell’ Ar. nelle fasi successive all’arresto di costui.

L’episodio – già accuratamente ricostruito nella sentenza di 1^ grado – è stato così valorizzato dalla Corte territoriale (pagg.

532 e segg.):

"Nel corso di una conversazione al carcere con la moglie successiva all’esecuzione dei provvedimenti di custodia cautelare datata 4 settembre 2003, l’ Ar. aveva modo di sfogarsi riferendo che l’avvocato c., Sindaco di Monreale, aveva contattato altro soggetto per fargli sapere che avrebbe dovuto avvalersi della facoltà di non rispondere. Il contenuto di detto colloquio veniva chiarito dall’avv. z., difensore dell’ Ar., escusso nel dibattimento di primo grado, nel corso del quale riferiva che il giorno precedente l’interrogatorio di garanzia dell’ Ar. era stato contattato dal collega avv. c., con il quale aveva comuni trascorsi professionali, il quale espressamente gli diceva: "tu assisti Ar. il Presidente gradirebbe che si avvalesse della facoltà di non rispondere", facendo un chiaro ed esplicito riferimento alla volontà del Presidente della Regione Siciliana Cu.Sa..

Ma non è tutto; infatti l’indomani pomeriggio, dopo che nella mattinata l’ Ar. aveva risposto alle domande del G.I.P. nel corso dell’interrogatorio di garanzia, il c. si era nuovamente recato sotto casa sua e gli aveva chiesto come fosse andato l’interrogatorio; appreso che Ar. "aveva fatto quello che doveva fare", e cioè che aveva seguito liberamente le sue scelte il c. rispondeva che si sarebbe immediatamente recato dal Presidente Cu. a riferirgli quanto appena appreso".

A seguito di confronto con il c. – che, sentito come teste, aveva negato qualsiasi intervento presso l’ Ar. tramite il suo legale di fiducia per conto del Cu. – il Tribunale concludeva per la "solidità monolitica" della deposizione dei fatti esposta dall’avv. z. anche avuto riguardo alle numerose contraddizioni ed inverosimiglianze emerse dalla deposizione del c. culminate nella precisazione, smentita dai controlli effettuati presso il servizio scorte, di essersi trovato fuori Palermo il giorno del secondo incontro successivo all’interrogatorio di Ar., quando, invece, risultava proprio essersi trattenuto in città ed essere stato regolarmente accompagnato dal servizio assicuratogli dalle forze dell’ordine.

Del resto, l’ Ar., nel corso del suo esame dibattimentale, aveva già spiegato, fin nei minimi dettagli, tutti gli elementi di tale colloquio sicchè, anche in tale occasione, le sue dichiarazioni avevano trovato, per l’ennesima volta, piena conferma in plurimi ed estrinseci elementi di prova.

Ritiene, quindi, questa Corte regolatrice che anche in ordine a tale argomento può concludersi che, sulla base del contenuto già chiaro della conversazione ambientale tra l’ Ar. e la moglie, delle dichiarazioni dello stesso e successiva deposizione testimoniale dello z., accuratamente valutata nella sua completa attendibilità dai Giudici del merito, è rimasto, quindi, indiscutibilmente provato che Cu. cercò di ottenere il compiacente silenzio dell’ Ar.; ed è rimasto, altresì, provato che tale episodio costituisce un imponente riscontro alle affermazioni dell’ Ar. in ordine al coinvolgimento del Cu. nella diffusione di notizie riservate a beneficio del Mi.Do. e del Gu.Gi..

Ne consegue, quindi, la assoluta infondatezza delle censure, peraltro generiche, avanzate dalla difesa (sempre nel terzo motivo del ricorso principale), in ordine alla rilevanza dell’episodio, così come ritenuta dai Giudici del merito.

In proposito, già il Giudice di 1^ grado aveva, in maniera logica e convincente, spiegato che "un intervento sul difensore dell’ Ar. inteso a richiedere il silenzio e l’omertà di quest’ultimo, subito dopo il suo arresto e nella imminenza dell’interrogatorio di garanzia, non può trovare alcuna spiegazione sul piano logico se non quella del pieno coinvolgimento del Cu. nella vicenda della diffusione di notizie coperte da segreto.

Appare, infatti, evidente come un soggetto estraneo ai fatti e che non avesse nulla da temere non avrebbe avuto alcun motivo plausibile per prodigarsi immediatamente allo scopo di tentare di alterare l’ordinario svolgimento delle dinamiche processuali, in particolare, condizionando i meccanismi di acquisizione delle prove in sede di interrogatorio di garanzia" (pag. 953 – 954 sent. 1^ grado).

Altrettanto corretta è la conclusione sul punto della Corte territoriale: "Non può, invero, revocarsi in dubbio come il tentativo del Cu. di influenzare la condotta processuale di un coindagato a titolo di concorso nello stesso reato, suggerendogli il silenzio (o, se si preferisce, invitandolo all’omertà in virtù della sua preminente posizione di forza), costituisca una esplicita e patente dimostrazione di un preciso interesse ad inquinare le prove.

Ora per valutare il significato di detto comportamento occorre precisare quale interesse specifico mosse Cu. a cercare il silenzio di Ar.; per fare ciò bisogna ricostruire il particolare momento storico in cui avviene detto comportamento e cioè la condizione dell’imputato successivamente agli arresti di molti dei soggetti coinvolti nel presente giudizio.

A quella data il Cu. era già consapevole di essere indagato per concorso esterno in associazione mafiosa e che Ar., Mi.Do. e Gu.Gi. erano stati tutti coinvolti in altri analoghi fatti di reato che avevano determinato l’esecuzione di provvedimenti restrittivi della libertà personale degli stessi.

Bisognava quindi intervenire per impedire che le dichiarazioni di alcuni dei predetti potessero fare emergere lo svolgimento di quei fatti specificamente avvenuti in occasione delle elezioni regionali del 2001 e che erano culminati nella determinazione di candidare il Mi.Do. su sollecitazione proveniente dall’associato mafioso Gu.Gi. al quale poi erano state trasmesse, tramite Mi.Do. stesso, informazioni riguardanti il suo coinvolgimento in attività investigative" (pag. 534).

Alla stregua di tali considerazioni deve dichiararsi l’infondatezza del terzo motivo del ricorso principale e del primo degli ulteriori motivi nuovi (del 30/12/2010).

7.6.2.3 Stabilito, pertanto, che le dichiarazioni dell’ Ar., le dichiarazioni rese dal R., l’ascolto della frase registrata, le intercettazioni ambientali e le perizie toniche – risultanze tutte univoche e convergenti – forniscono il dato assolutamente certo che l’imputato Cu.Sa. rivelò al Mi.Do. – in quel momento sottoposto ad indagini per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. – notizie coperte dal segreto investigativo, occorre adesso esaminare, in maniera più approfondita, le questioni principali della vicenda e, cioè, se il Cu., nel riferire la notizia al Mi.Do., volesse che la rivelazione raggiungesse l’associato mafioso Gu.Gi. e, nella ipotesi affermativa, se fosse consapevole di agevolare l’attività dell’organizzazione mafiosa, integrandosi così le ipotesi di rivelazione e di favoreggiamento aggravati D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 aggravante esclusa in 1^ grado e affermata nel giudizio di appello.

Si darà, così, risposta alla maggior parte dei motivi di ricorso ed, in particolare, a quelli da quattro a nove del ricorso principale, due e tre dei motivi nuovi (del 23/12/2010) e da due a quattro degli ulteriori motivi nuovi (del 30/12/010).

La vicenda va, quindi, ulteriormente sviluppata con riferimento specifico alle figure dei protagonisti ( Cu. – Ar. – Mi.Do. – Gu.Gi.) e alle loro condotte – ampiamente descritte dal Giudice del merito – iniziando proprio da quelle dell’imputato Cu.Sa..

7.6.2.4 Cu.Sa.: Tutto il compendio probatorio raccolto all’esito della compiuta istruzione dibattimentale (in particolar modo le convergenti dichiarazioni rese da Ar.Sa. e ca.fr., riscontrate dal contenuto delle conversazioni captate e dalle ammissioni dell’imputato R. G.), ha dimostrato come: Cu.Sa. – medico radiologo, uomo politico a livello nazionale del partito UDC, candidato nelle elezioni regionali del giugno 2001 alla carica di Governatore della Regione siciliana, elezione, poi, effettivamente avvenuta – aveva stipulato con il mar. del Raggruppamento Speciale dei CC. Bo.An. – "traditore dell’arma dei CC. e delle Istituzioni per brama di potere di denaro" (così testualmente il Giudice di 1^ grado a pag. 811) un accordo criminoso, (così testualmente, ancora, la sentenza di 1^ grado a pag. 810 e quella di 2^ grado a pag. 423), ben preciso in forza del quale quest’ultimo avrebbe sistematicamente ricercato e riferito al primo tutte le notizie segrete concernenti indagini in corso sia a suo carico che nei confronti di ogni altro soggetto a lui vicino per amicizia personale ovvero per affinità politica. In cambio dell’assolvimento di tale prezioso ruolo informativo – la cui illiceità, evidentemente, era in re ipsa e doveva, pertanto, essere ben chiara ad entrambi – il Bo. avrebbe ottenuto alcuni vantaggi tra cui la candidatura alle elezioni regionali ed il sostegno elettorale del Cu., con la ragionevole certezza della sua elezione a deputato regionale.

Ed infatti, il Bo. – che non aveva alcun retroterra elettorale e non portava voti – veniva inserito dal Cu. come primo dei candidati nella lista "Biancofiore", lista c.d. d’appoggio a quella del candidato presidente, che, proprio per tale ragione ed in virtù dei complessi meccanismi elettorali, avrebbe certamente consentito – come effettivamente avvenne – l’elezione, quantomeno, del capolista.

In sostanza, secondo le dichiarazioni del ca., il Cu. aveva preso l’impegno assoluto di far eleggere il Bo. come deputato regionale e, a tal fine, l’intera costruzione della lista Biancofiore era stata pensata proprio per la elezione dell’infedele sottufficiale.

Va precisato che i Giudici di merito hanno ritenuto il collaboratore di giustizia altamente attendibile e riscontrato anche e soprattutto in quella parte delle sue dichiarazioni attinenti ai rapporti politico-mafiosi e alle vicende elettorali, con la precisazione che tali dichiarazioni convergono appieno con quelle rese, in modo del tutto autonomo, ed in tempi e contesti diversi da Ar.

S. il quale ha riferito di aver appreso dal Gu.Gi. e dal Mi.Do. che il Cu. teneva moltissimo all’elezione del Bo. proprio perchè gli passava preziose informazioni.

L’infedele sottufficiale aveva, infatti, dimostrato di possedere – attraverso una serie articolata di canali e di rapporti personali di fiducia creati nel corso della sua carriera di sottufficiale – una capacità di approvvigionamento di notizie riservate, anche attraverso la complicità di altri pubblici ufficiali, che egli aveva sfruttato, senza alcuno scrupolo ed in dispregio di qualunque regola morale e giuramento di fedeltà alle Istituzioni, sia per ottenere un arricchimento personale (ad esempio attraverso l’imprenditore A.) sia per fare una brillante carriera politica con l’aiuto elettorale e l’appoggio personale del Presidente della Regione e del più influente uomo politico siciliano.

"Il Cu., dal canto suo, aveva perfettamente chiaro il valore e il potere connessi all’ottenimento preferenziale di notizie riservate sia suo carico che nei confronti dei suoi amici, collaboratori, candidati, grandi elettori, referenti ecc.. Il Bo., come l’intero processo dimostra, rappresentava per lui un vero e proprio servizio segreto di intelligence, in quanto operante al di fuori di qualunque regola e con finalità delittuose" (pag. 809 sent. 1^ grado).

A tale conclusione si perviene, intanto, sulla scorta della mera considerazione della natura sistematica e continuativa dell’apporto di notizie riservate che il Bo. ha fornito al Cu..

Va, invero, evidenziato come solo nell’ambito del presente processo è risultato dimostrato il passaggio certo di numerose notizie dal Bo. al Cu., tra le quali:

– quella relativa alle intercettazioni in casa Gu.Gi. che interessava, oltre il capo-mafia anche Mi.Do., il medico mafioso Ar.Sa. e, di converso, anche lo stesso Cu., che la riferiva al Mi.Do.;

– quella relativa all’esistenza di ulteriori microspie che avevano captato le fasi del rinvenimento della "cimice" in casa Gu.

G. il 15 giugno 2001 (che si inseriva nello stesso contesto soggettivo);

in proposito va osservato che, pur essendo stato l’imputato Cu. assolto dal predetto fatto-reato, è rimasto accertato che detta rivelazione storicamente avvenne e fu opera del Bo. che agiva, pur sempre, in accordo con il Cu.;

– quella relativa ad indagini in corso a carico di ca.

f. (all’epoca amico e collaboratore del Cu.) in relazione ai suoi rapporti con i Ma., uomini d’onore della famiglia mafiosa di Villabate, che egli riferiva al ca.;

– quella relativa all’iscrizione nel registro degli indagati dei marescialli Ci. e R. che il Cu., dapprima tramite il Ro. e poi di persona, aveva girato al suo amico A. M., imprenditore colluso con la mafia.

Tutto ciò a prescindere dalla rivelazione da parte del Cu. di notizie riservate illecitamente apprese in altre occasioni quali:

a Br.Fr. quando, nel corso del 2002, confidava di essere in possesso di verbali di dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Ar.Sa. che lo riguardavano, a quel tempo non ancora resi pubblici;

ancora al Br.Fr. quando confessava di essere a conoscenza dell’intenzione del ca. di collaborare con la giustizia prima della formalizzazione di tale dichiarazione da parte dello stesso collaboratore.

Dalle considerazioni esposte e da quelle ulteriori che saranno svolte nell’esaminare il c.d. sistema di controinformazione, discende la completa infondatezza della doglianza, (sempre contenuta nel terzo motivo del ricorso principale) secondo cui non sarebbe stata data "dimostrazione rigorosa della matrice sinallagmatica del presunto patto".

Tanto esposto, rileva questa Corte di legittimità che un primo punto fermo da affermare è che la vicenda della rilevazione e del favoreggiamento posto in essere dal Cu. nei confronti del Mi.Do., del medico mafioso Ar. e del capo-mafia Gu.Gi. si colloca in questo torbido ed illecito rapporto tra un alto esponente politico ed un infedele e traditore sottufficiale dell’Arma dei CC. appartenente al Raggruppamento Operativo Speciale (R.O.S.).

Un secondo punto fermo è l’esistenza di un patto mafia-politica.

La Corte di merito (pag. 417) ha, così, delineato le linee generali dell’accordo, quali risultanti dal contenuto di numerose conversazioni intercettate, ampiamente trascritte nella sentenza di 1^ grado e correttamente valutate dal Giudice di 2^ grado: "Il M.D. raffigurava al Gu.Gi. il suo interesse a partecipare alla competizione elettorale per l’elezione al Parlamento regionale ed il capo-mafia lo individuava quale possibile candidato dell’organizzazione mafiosa, circostanza, questa, inequivocabilmente emergente dalla terminologia utilizzata dallo stesso boss il quale faceva riferimento in più e distinte occasioni agli interessi del gruppo che egli in quel momento rappresentava.

Inoltre, nel corso di questi colloqui, era sempre il capo-mafia Gu.Gi. a dettare al suo interlocutore, il candidato Mi.Do., anche il programma politico di riferimento cui quest’ultimo avrebbe dovuto attenersi nel corso della sua futura attività.

Acquisito l’appoggio del Gu.Gi., il M.D. contattava ripetutamente il Cu. per sondare la sua disponibilità ad inserirlo nelle liste elettorali delle prossime elezioni regionali e da alcune frasi utilizzate nelle conversazioni ambientali si ha modo di ritenere con certezza che avesse chiaramente ed inequivocabilmente rappresentato al futuro Presidente della Regione i suoi contatti con il capo-mafia e l’appoggio elettorale che quest’ultimo gli garantiva.

A tal punto, e cioè nell’aprile del 2001, interveniva ad appoggiare la candidatura Mi.Do. anche Ar.Sa., soggetto già condannato per gravi fatti di favoreggiamento aggravato in favore di associati mafiosi, che personalmente, dopo avere contattato il Gu.Gi., si recava dal Cu. a sollecitare la scelta in favore dell’amico Mi.Do., Cu., poi, decideva di candidare il Mi.Do. nelle liste del suo schieramento, sicchè, da questa sintetica analisi che nel prosieguo della motivazione verrà maggiormente approfondita, risulta evidente, a parere di questa Corte di Appello, che alla scelta di candidare Mi.Do. si pervenne a seguito di un progressivo scambio di informazioni tra Cu. e Gu.Gi. sempre mediate dallo stesso Mi.Do. quale interlocutore ed intermediario". 7.6.2.5 L’accordo politico-mafioso va ulteriormente sviluppato nell’esaminare le figure e le condotte degli altri protagonisti della vicenda ( Ar. – Mi.Do. – Gu.Gi. e i loro rapporti con il Cu.) – peraltro ampiamente illustrate dalla Corte territoriale, evidenziando sin d’ora la circostanza – giudiziariamente accertata in entrambi i casi – della comune appartenenza dei due medici Ar.Sa. e G. G. all’associazione mafiosa "Cosa Nostra". 7.6.2.6 Ar.Sa. Medico, gia’ arrestato e condannato definitivamente per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa e per il delitto di falso aggravato in relazione all’alterazione di una cartella clinica in favore di B.E.Sa.,al fine di consentire a questi di precostituirsi un alibi nell’ambito di una indagine per omicidio, e’ figura da ritenersi di estrema importanza nel complessivo quadro della vicenda e delle risultanze processuali – ivi comprese le sue attendibili e riscontrate dichiarazioni – in relazione agli aspetti che attengono ai rapporti mafia – politica, alle elezioni regionali del 2001 ed alle fughe di notizie, oggetto della presente disamina.

L’Ar. era, da un lato amico e collega del Cu., (con il quale aveva lavorato nel policlinico di Palermo e per il quale aveva fatto campagna elettorale "a 360 gradi" nel 1991, per l’elezione al Parlamento siciliano), e, dall’altro lato "pupillo" del boss mafioso Gu.Gi., (che è stato suo "padrino" di cresima), con il quale i rapporti erano diventati molto intensi e frequenti e le frequentazioni si erano estese ai rispettivi nuclei familiari.

Egli era, anche, divenuto socio del Gu.Gi. e si era adoperato nel favorire l’investimento di denaro di pertinenza di costui e dei suoi famigliari, (la moglie Gr.Gi. e il figlio Fr.), in conti correnti cifrati esteri, cassette di sicurezza e conti correnti di appoggio; (per tali fatti, unitamente ad altri di cui si dirà in seguito, erano state predisposte le intercettazioni ambientali nell’abitazione del Gu.Gi., anche durante il periodo di detenzione dello stesso, ove erano state intercettate importanti conversazioni tra la Gr.Gi. e l’ Ar.; v. decreti di autorizzazione delle intercettazioni del G.I.P. del Tribunale di Palermo).

Per tali condotte (indagine Ghiaccio 2) – ivi compreso naturalmente anche l’episodio della rivelazione della notizia al Gu.Gi.

– l’ Ar. è stato condannato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. – con sentenza divenuta irrevocabile a seguito della decisione del 18/10/2006 (n 41650/’06) di questa Corte di legittimità, (che ha dichiarato inammissibile il ricorso del P.G.) – alla pena di mesi sei di reclusione, applicatigli – in continuazione con i fatti giudicati dalla Corte di Assise di Palermo irrevocabile il 16/07/2002 – a seguito di giudizio ex art. 444 c.p.p., con il riconoscimento, in suo favore, della circostanza attenuante della collaborazione di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 8 per avere fornito elementi decisivi alla ricostruzione dei contatti intrattenuti dal capo-mafia di Brancaccio Gu.Gi. con esponenti delle istituzioni.

Ed è in tale contesto di rapporti che l’ Ar. coadiuva con il Gu.Gi. nello sponsorizzare e nel sostenere la candidatura del Mi.Do. – (suo amico e collega: l’ Ar. aveva presentato il Mi.Do. al Gu.Gi. mentre il Mi.

D., a sua volta, gli aveva fatto conoscere Cu.Sa.) – condividendo il programma dell’associato mafioso di sostenere la candidatura del Mi.Do., ritenuto idoneo a portare avanti e tutelare gli interessi dell’associazione criminale.

L’ Ar., quindi, in cooperazione con il Gu.Gi., ed in virtù di diretti e ripetuti contatti con il Cu., perorava con successo la candidatura di Mi.Do. nella lista del C.D.U. per le elezioni regionali, garantendo unitamente al Gu.

G., pieno ed incondizionato appoggio elettorale al Mi.Do. in cambio della garanzia sulle esigenze e gli interessi dell’organizzazione mafiosa.

7.6.2.7 Mi.Do.: Nella ricostruzione del circuito relazionale emerso, risulta centrale il ruolo svolto dal medico Mi.Do. considerato dai Giudici del merito "l’autentica cerniera, l’intermediario naturale" tra i vari soggetti della vicenda.

Egli era, infatti, in stretti rapporti di amicizia e di confidenza sia con il Cu. che con l’ Ar. e con il Gu.Gi. sicchè, come meglio si vedrà in seguito, l’individuazione del Mi.Do. come miglior candidato possibile per supportare gli interessi del Gu.Gi. e dell’associazione mafiosa che egli rappresentava ad alto livello era frutto di una corretta intuizione.

Egli, infatti, era così vicino al Cu. da consentire una immediata convergenza tra le posizioni e gli interessi di tutti e di ciascuno dei protagonisti della vicenda.

Il Mi.Do. era, invero, legato al Cu. da una "fraterna amicizia" consolidata dalla comune origine della Provincia di Agrigento, dagli studi universitari inseme compiuti, da un rapporto di colleganza e di affinità professionale, da un comune impegno politico facendo, entrambi, parte del gruppo dell’on. Ma.

C. e da un rapporto esteso anche alle mogli essendo una testimone di nozze dell’altra.

D’altro lato, il Mi.Do. era in stretti rapporti di amicizia con l’uomo d’onore Gu.Gi. – al quale era stato presentato dal comune amico, anch’egli medico, Ar.Sa. – rapporti sviluppatisi nel tempo, sia in modo diretto che mediato attraverso il medico Gr.Vi., cognato del capo mandamento in quanto fratello della moglie Gr.Gi. e rafforzati anche dall’aiuto ottenuto dal capo-mafia quando nel 1993 era stato eletto consigliere comunale di Palermo.

Le intercettazioni ambientali esaminate, inoltre, hanno dimostrato con solare evidenza come il Mi.Do. fosse pienamente consapevole del ruolo svolto dal Gu.Gi. in seno a "Cosa Nostra" e del tipo di interessi che la sua candidatura contribuiva a realizzare e rispetto ai quali il suo impegno politico era funzionale, e come il futuro Presidente della Regione avesse piena consapevolezza degli strettissimi rapporti, oltre che di frequentazione, anche di rappresentanza politica che il Mi.Do. aveva con il Gu.Gi. (v. pag. 492 sent. 2^ grado).

Mi.Do., medico incensurato e soggetto apparentemente dalla "faccia pulita", era stato scelto quale rappresentante del Gu.Gi. nel mondo politico, intermediario con soggetti istituzionali quali il Cu. e candidato al quale garantire il sostegno elettorale delle famiglie mafiose del mandamento di Brancaccio in cambio della piena disponibilità a fare favori, affari e nomine.

Al momento della rivelazione, il Mi.Do. era, quindi – e ciò spiega il motivo della divulgazione – l’intermediario di un rapporto instauratosi tra il Cu. e il capo del mandamento mafioso di Brancaccio Gu.Gi. il quale, nel contesto di tale rapporto – mediato, per evidenti ragioni di prudenza, (data la notoria mafiosità dell’associato), dal Mi.Do. (e dall’ Ar.) – aveva chiesto e ottenuto dall’uomo politico la candidatura in lista dello stesso Mi.Do., il quale si era impegnato a portare avanti gli interessi del Gu.Gi. che erano gli stessi dell’associazione mafiosa di cui Gu.Gi. era il rappresentante, anche e soprattutto ai fini dell’inquinamento della politica.

Per tali condotte, il Mi.Do. è stato condannato, prima dal Tribunale di Palermo, (sent. 6/12/2006), poi dalla Corte di Appello, (sent. 16/10/2008), alla pena di anni otto di reclusione per il reato di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p., ed il giudizio di responsabilità in ordine a tale reato è stato confermato da questa Suprema Corte che, con decisione del 19 novembre 2010, ha annullato la sentenza di 2^ grado "limitatamente al diniego delle attenuanti di cui all’art. 62 bis c.p.". 7.6.2.8 Tutto quanto sopra esposto, risulta incontestabilmente – oltre che dalle sempre precise e puntuali dichiarazioni dell’ Ar. – dal contenuto di numerose conversazioni intercettate nell’abitazione del Gu.Gi. in occasione di incontri tra costui ed il Mi.Do., tra esso Gu.Gi. e l’ Ar. ed ancora tra il Gu.Gi., il Mi.Do. e l’ Ar..

Il contenuto di tali conversazioni è stato, in buona parte, riportato nella sentenza impugnata, (nonchè, ancor di più, nella decisione di 1^ grado), e la Corte territoriale le ha puntualmente analizzate e correttamente interpretate mettendo in rilievo, oltre il contenuto politico-mafioso delle conversazioni, anche la significativa circostanza che alle riunioni avvenute tra i tre soggetti, seguivano incontri dell’ Ar. e del Mi.Do.

(isolatamente o congiuntamente) con il Cu., incontri cui seguivano altre riunioni nell’abitazione del Gu.Gi. ove i tre discutevano dei risultati raggiunti con l’uomo politico.

Sulla base del contenuto delle conversazioni del 1^, 9 e 20 febbraio, e 27 marzo 2001, emerge, secondo quanto puntualmente messo in evidenza dai giudici del merito, quanto segue:

1. il Gu.Gi. e il Mi.Do. discutono della possibilità di candidare esso Mi.Do. alle elezioni regionali;

quest’ultimo riferisce che non vi era nessuna possibilità per quanto riguardava le elezioni regionali in quanto il Cu. – (abitualmente indicato con il nome di To.) – gli aveva detto che tutti i seggi per le elezioni nazionali erano stati già divisi e che il candidato al Senato per il collegio di Bagheria era Ro. S.;

aggiungeva, però, che era possibile una sua candidatura alle elezioni regionali avendo il Cu. "invitato a candidarsi, mi chiese: dai alle regionali…";

2. il Gu.Gi. e il Mi.Do. discutono, poi, delle possibilità che quest’ultimo ha di essere eletto; in proposito, il padrino mafioso fa riferimento ai risultati elettorali che il fratello Gu.Ca. era riuscito, in passato, ad ottenere convogliando molti consensi elettorali nella zona di Bagheria e, comunque, in quella di loro influenza.

In tale contesto rappresenta espressamente al futuro candidato la forza elettorale che può assicurargli facendo proprio riferimento ai risultati in passato garantiti dal Gu.Ca. (soggetto condannato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p.);

3. il Gu.Gi. e il Mi.Do. discutono delle richieste che avrebbero potuto formulare in caso di mancata elezione ma comunque di buon successo elettorale, ( Gu.: "Si va beh, ma io non è che dico che a vinciri…, a stu punto, però, dico, va beh, se non è eletto e porta tri quattromila voti, vhi a dari tu a chistu?", ed ancora: "Eh picchi una cosa ci l’avi a diri…, non so se …"; ed il capo-mafia spiega quali sono i suoi interessi e quelli dell’organizzazione mafiosa da lui rappresentata e, cioè, ottenere favori ai "carcerati", oppure posti di sottogoverno per lo stesso Mi.Do.; in particolare, il capo-mafia rappresenta quale potrebbe essere l’interesse suo e della organizzazione facendo riferimento ad una situazione assai difficile per gli associati mafiosi ("ci stanno mettendo tutti dentro") ed alla conseguente necessità di "risolvere qualche problema carcerario";

4. il Mi.Do. dava ampie conferme della sua piena comprensione delle finalità mafiose che il Gu.Gi. intendeva perseguire (l’aiuto ai carcerati, l’adozione di normative carcerarie meno afflittive e punitive, ecc.) attraverso la candidatura che gli prospettava;

5. la piena consapevolezza del Mi.Do. di fungere da strumento di espressione della volontà di associato mafioso e di svolgere il ruolo di intermediario tra costui ed il Cu. come apertamente propostogli dallo stesso Gu.Gi. ("dico, Mi., se … se …. io non ho necessità, nè vado cercando nessun altro, ci siemu? a me mi basta avere …, non voglio avere …, il rapporto tramite te, se tu lo permetti e lo permette pure …";… "E save … e ci rissi pure chi è che il tramite tra me e To. che sei tu, iddu come facia a sapillu? io un ci l’hai u rittu Mi spiego ? Quindi tu riccillu …"; ed il Mi.Do.: "a To. gli posso dire quello che voglio, possiamo parlare…".

La Corte di merito ha ritenuto, poi, di fondamentale importanza la conversazione registrata in data 9 aprile 2001 nell’abitazione del capomandamento mafioso – riportate estesamente in entrambe le decisioni di merito – alla quale avevano, dapprima partecipato i soli Ar. e Gu.Gi., e poi anche il Mi.Do..

Ed, invero, l’ Ar. – contattato dal Mi.Do. a Milano ove si era trasferito – era ritornato a Palermo e si era subito recato, il 9 aprile 2001, dal suo "padrino" Gu.Gi. prospettandogli l’interesse a sostenere il Mi.Do..

Appreso del consenso del "padrino" sul Mi.Do. – (con il quale il capo-mafia, come si è visto, si era, a tal fine, più volte incontrato) – egli si era ripromesso di recarsi presso il suo amico Cu. con il quale aveva "un rapporto bello" per sollecitare la candidatura del comune amico Mi.Do. ("io lì devo andare da To. a dire").

Ed, infatti, durante la prima parte della conversazione, l’ Ar. ed il Gu.Gi. stabilivano la strategia politica più utile da adottare in vista di un imminente incontro che l’ Ar. aveva già fissato con il Cu..

I due interlocutori si dilungavano su tutta una serie di tematiche strettamente connesse alla vita dell’organizzazione mafiosa, con ciò lasciando chiaramente intendere che entrambi erano del tutto consapevoli del contesto mafioso nel quale anche la comune progettualità politica andava inserita.

Ed, invero, il Gu.Gi. spiegava all’ Ar. che tra gli obiettivi principali da perseguire in vista del suo impegno per le imminenti elezioni, vi era il richiamare l’attenzione sulle condizioni dei carcerati sulle insostenibili restrizioni imposte dai regimi detentivi speciali, oltre, ovviamente, sulla consueta necessità di fare affari e trarre profitti patrimoniali per sè e per gli altri affiliati dell’organizzazione mafiosa.

Le espressioni operate – (testualmente riportate nella sentenza di 1^ grado) – sia per il tono che per il contenuto, fanno chiaramente intendere che si tratta di tematiche gradite a "Cosa Nostra" e di obiettivi da raggiungere, attraverso un apposito canale politico, proprio nell’interesse della suddetta organizzazione mafiosa.

L’ Ar., in particolare, chiedeva chiaramente al suo "padrino", con massima deferenza e rispetto, quale fosse il percorso politico che intendeva realizzare ("Allora me parrinu mi deve dire una cosa …, dove dobbiamo andare? …. E qual è la strada"), ed il Gu.Gi. rispondeva che la candidatura del Mi.Do. era da sostenere che costui doveva essere consapevole di fungere da candidato di riferimento di esso Gu.Gi. e da futuro intermediario tra costui ed il Gu.Gi..

Poco dopo i due venivano raggiunti dal Mi.Do. il quale riferiva di essere appena uscito da casa Cu. ("no, io sono uscito da casa sua e gli ho detto che venivo quà"), provocando il commento del Gu.Gi.: "allura iddu sapi che i discursi diddu li sta portando qua", volendo con ciò significare che se il Cu. sapeva che Mi.Do., appena uscito da casa sua, sarebbe andato a casa del Gu.Gi., doveva necessariamente sapere che i discorsi da lui avuti con il Mi.Do. sarebbero stati subito riferiti al Gu.Gi. medesimo.

Dunque, Mi.Do. aveva detto chiaramente a Cu. che, di lì a poco, avrebbe raggiunto Ar.Sa. (abitualmente residente fuori Palermo) in casa "di chi immagini tu", specificandogli poi che si trattava del Gu.Gi. ("a questo proposito gli ho detto che venivo qua").

Di guisa che il Mi.Do. aveva avvisato Cu. del fatto che doveva riunirsi con gli altri due, in casa di Gu.Gi..

Ed infatti, come confermato dalla stessa conversazione in esame, è rimasto dimostrato che il Mi.Do., subito dopo essere uscito dall’appartamento di Cu., si era recato proprio a casa Gu.Gi..

Il Mi.Do., dunque, aveva già di fatto iniziato a ricoprire il ruolo di intermediario e tramite tra il Cu. e gli affiliati mafiosi Ar. e Gu.Gi..

Quindi, l’ Ar. proponeva di sostenere la candidatura proprio del Mi.Do. il quale avrebbe più facilmente ottenuto il gradimento del Cu. nonostante questi sapesse che si trattava di persona vicina al Gu.Gi. (sul punto, i Giudici del merito hanno richiamato la trascrizione delle intercettazioni ambientali dell’incontro con i chiarimenti resi dall’ Ar. nel corso del suo esame).

Dalla conversazione intercettata emergono altre significative circostanze:

1. che il capo-mafia aveva indicato nel Mi.Do. l’unico interlocutore tra lui ed il Cu. – (il Gu.Gi. dopo aver rivelato che il Cu. lo sta "cercando da un’altra strada", afferma: "non c’è dubbio ca nu atri semu amici… abbiamo un rapporto tramite te") – con la eventuale partecipazione dell’ Ar., nella personale convinzione che anche per il futuro Governatore tale ruolo era accettato e condiviso;

2. che la linea comune ai tre doveva essere fondata sulla creazione di uno stabile legame con il futuro Presidente della Regione essendo fondamentale che "il rapporto con To. avi a funzionare su questo e su altre cose…. indipendentemente dal fatto che qualcuno possa fare il deputato … deve essere comunque un progetto" (così il Gu.Gi.).

E’ evidente, quindi, che si tratta di un progetto politico-mafioso tant’è che nel prosieguo del dialogo il Gu.Gi. chiariva che nulla veniva fatto senza la prospettiva di una adeguata controprestazione, fatto questo che doveva essere ben chiaro;

dichiarava chiaramente, altresì, di aspirare a posti di sottogoverno e di altri favori in cambio dell’appoggio elettorale promesso specificando, soprattutto, al Mi.Do., che si trattava di ritorni che lui pretendeva anche in caso di esito sfavorevole della competizione, e ciò diceva dopo aver poco prima affermato "per ora nni interessa a nu atri però un posto importante", richieste che trovavano la adesione del Mi.Do. il quale faceva presente, riferendosi al Cu., "è chiaro … iddu prima fa una scelta a dare qualcosa che sia in grado di gratificare un po’ di gente … picchi chistu ci u rissi bellu chiaro stasira … picchi unn’è che si fa niente per niente";

3. che, nel corso del dialogo intercettato, l’ Ar. confermava la piena consapevolezza del Cu. circa il tipo di legame che intercorreva tra il Mi.Do. ed il Gu.Gi. ("e sto dicendo che il rapporto umano To. u sapi che tra di voi è più forte").

La Corte di merito ha, poi, messo in rilievo che sono rimasti accertati due successivi incontri tra Ar. e Cu. (al secondo era presente anche il Mi.Do.): quello della notte tra l’11 e il 12 aprile 2001 presso l’assemblea regionale (incontro confermato anche dal teste sc.fr.) nel quale l’ Ar. invita il suo amico politico alla candidatura del Mi.Do. riferendogli che quest’ultimo aveva l’appoggio del Gu.Gi.; e quello successivo del 13 aprile 2001 presso l’abitazione del Cu. ove il Mi.Do. e l’ Ar. avevano ricevuto l’assicurazione dell’uomo politico che la candidatura del primo era cosa decisa.

In tale occasione, il Cu. – (che, ovviamente per non esporsi, non poteva nè voleva incontrare Gu.Gi., e quest’ultimo per motivi prudenziali era d’accordo) – aveva manifestato espressamente la propria amicizia e disponibilità nei confronti del Gu.Gi., pur continuando ad insistere sulla inopportunità della candidatura Pr.S., esprimendo la frase riferita da Ar. – e che quest’ultimo, unitamente al Mi.Do., aveva, poi, il giorno successivo riportato al Gu.Gi.: "Con Pe. posso avere tutti i rapporti di questo mondo … do tutto quello che Gu.Gi. chiede ma c’è una preclusione sulla persona del Pr.S.".

L’indomani, il 14 aprile 2001, l’ Ar. ed il Mi.Do. erano, invero, ritornati a casa del Gu.Gi. e gli avevano puntualmente riferito gli sviluppi della questione relativi alle candidature.

Questi alcuni dei passi (pagg. 489 e segg. Sent. 2^ grado) della conversazione registrata ritenuti più rilevanti dai Giudici del merito, con la precisazione che l’ Ar. in dibattimento ha confermato la veridicità e l’esattezza di quanto egli riferiva al Gu.Gi. per averlo direttamente e realmente appreso dal Cu.: (l’ Ar.) "Ieri sera ho visto di nuovo a To. con Mi. e siamo stati a casa fino a tardi, fino alle due e mezza"; " To. mi ha detto, senti, dice io non ho bisogno di parlare con lui, io ho ben chiaro davanti a me tutto, tra l’altro, soprattutto se ci sei tu e comunque c’è Mi. … comunque dice, (riferendosi al Cu. …) noi dobbiamo candidare a Mi.";

"senti dice, (sempre riferendosi al Cu.) io con gli interlocutori, con Mi. e con gli altri interlocutori posso discutere di tutto, ma discutere di una cosa che devo dare a lui in questo momento ti dico no alla persona, (riferito all’avv. Pr.

S.) questo infatti è il messaggio conclusivo, dice io mi metto d’accordo con chi devo mettermi d’accordo e gli do quello che lui mi chiede o comunque ne discutiamo insieme, ma della persona no" (sempre riferito all’avvocato); "non escludendo che io con Mi., con Pe. posso avere tutti i rapporti di questo mondo": "Una cosa io ho intenzione, ne volevo parlare di chiedere a lui, eh … a Bruxelles la Regione Sicilia dà dei rappresentanti no? Cioè la Regione Sicilia ha a Bruxelles per le politiche comunitarie, proprio a pioggia, ed io ieri sera gliel’ho introdotto il discorso che eventualmente gli mettiamo uno dei nostri, un tecnico dei nostri, questo significa controllare i flussi di finanziamento U.E. verso determinate iniziative, non so se rendo l’idea".

Le risultanze processuali sopra indicate ed, in particolare, la conversazione registrata del 14/4/2001 sono state ritenute dai Giudici del merito di notevole pregnanza probatoria in quanto:

a. dimostrava incontestabilmente il dato di fatto che, alla scelta della candidatura del Mi.Do., si pervenne a seguito di un progressivo scambio di informazioni tra il Cu. ed il Gu.Gi., scelta certamente confermata dai due, pur in assenza, per motivi prudenziali, di incontri personali ma mediata dal Mi.Do. e dall’ Ar.;

b. contribuiva a chiarire i rapporti tra il Cu. ed il Gu.Gi. ed, in particolare, che essi dovevano avvenire tramite Mi.Do.;

c. confermava ancora una volta quanto sostenuto dall’ Ar. il quale spiegava al capo-mafia che il Cu. si era dichiarato disponibile ad esaudire tutte le sue richieste e che l’uomo politico non aveva alcuna preclusione nei confronti del Gu.Gi. ad eccezione della candidatura del difensore del capo-mafia (avv. Pr.S.) ritenuta inopportuna sia perchè già appartenente ad altra formazione politica (Forza Italia) sia perchè ritenuta manifesta espressione del capomandamento;

d. Inoltre, la tranche" dell’intercettazione relativa ai finanziamenti U.E. dimostrava ulteriormente che i progetti che gli interlocutori stavano, da tempo, elaborando non erano puramente teorici ma prevedevano ritorni, utilità, nomine di amici fidati in posti chiave allo scopo di interferire sulle scelte della P.A. come risultava chiaro dal riferimento preciso alla nomina di un loro referente presso un ufficio della Regione competente sui finanziamenti comunitari.

In proposito, l’ Ar., nelle sue dichiarazioni, aveva affermato di aver scritto il nome della persona che si voleva designare a tale incarico (dott. Fa.Vi., componente dell’ufficio elettorale del Mi.Do.), su un appunto consegnato al predetto Mi.Do. per ricordare la questione al Cu., affermazione, come evidenziato dai Giudici del merito, che aveva trovato pieno ed inequivocabile riscontro documentale nel sequestro del foglio di carta su cui era annotato il nominativo, sequestro avvenuto tra le carte del Mi.Do. all’atto del suo arresto.

Inoltre, è stato messo in debito risalto dai Giudici di merito che da altra intercettazione (del 20 maggio) "emergeva una precisa conferma di quanto sostenuto dall’ Ar. a proposito degli interessi economici connessi alla realizzazione di strutture turistiche nell’isola di Pantelleria. Tale passaggio del dialogo si aggiunge, come detto, al contenuto della lettera-memorandum spedita dall’ Ar. al Mi.Do. (ed a questi sequestrata), nella quale si trattavano per l’appunto affari ed investimenti che alcuni finanziatori settentrionali avevano intenzione di effettuare proprio a Pantelleria con l’appoggio politico del Cu. e del Mi.

D..

Ancora una volta, pertanto, le affermazioni dell’ Ar. trovano convalida sulla scorta di elementi di prova autonomi costituiti da dati documentali (la lettera) e da intercettazioni ambientali.

Non, dunque, meri elementi di riscontro non aventi autonoma dignità di prova ma prove esse stesse e dotate di una significativa valenza anche a prescindere dalle dichiarazioni dell’ Ar..

Nel documento sopra menzionato, stilato su carta intestata e con certezza attribuito a Ar.Sa. (v. esame grafico effettuato dal R.I.S. di Messina), ad esempio, si legge di un "promemoria da discutere eventualmente con To. per eventuali interessi comuni di "Pantelleria di una prima tranche di finanziamento", del fatto che "si dovrà costruire".

Lo scritto, su carta intestata di Ar. e da questi riconosciuto come autografo, ha tutto l’aspetto di un’annotazione su temi effettivamente già trattati in precedenza insieme al destinatario.

Orbene, il riferimento a questi contenuti concreti ed a " To. e Mi." confermano che, in effetti, tali iniziative non erano confinate nell’alveo delle mere intenzioni dell’ Ar., ma erano state discusse molto tempo prima quantomeno con il Mi.Do., affinchè questi le segnalasse al neo eletto Presidente della Regione"(pag. 808 sent. 1^ grado).

Ancora, in proposito, è stato evidenziato che negli ultimi colloqui intrattenuti con Mi.Do. ed Ar. da parte del Gu.Gi. questi, acquisita piena consapevolezza dell’accordo che si era raggiunto sul nominativo Mi.Do., aveva sollecitato, non iniziative come quelle in precedenza prospettate, bensì in modo assai realistico la promessa di incarichi politici per il Mi.

D. stesso pur nell’ipotesi di una sua eventuale mancata elezione.

L’interesse del Gu.Gi., infatti, era quello ben concreto che Mi.Do., una volta divenuto il rappresentante degli interessi dell’organizzazione criminale, potesse esercitare di fatto tale ruolo assumendo incarichi anche nell’ipotesi, poi verificatasi, di mancata elezione al Parlamento Regionale, non dovendo tale evento comportare il tramonto della possibilità di utilizzare detto legame.

Ed, invero, proprio a riscontro di tutti i dialoghi in precedenza richiamati, si pone la circostanza che, pochissimo tempo dopo rispetto alle elezioni regionali, il Mi.Do. – che non era stato eletto per pochi voti – otteneva l’incarico, su indicazione politica, di Direttore della società "(OMISSIS)" (società mista tra la Regione siciliana e "(OMISSIS)") e la nomina ad Assessore comunale, grazie proprio all’influenza del Presidente Cu. (come risulta anche dalle conversazioni telefoniche intercettate sulla utenza del Mi.Do., dopo le regionali, nella seconda parte dell’estate, con Cu., Gr.V., A.S. e Pr.S.).

Orbene, a tale specifico proposito, va evidenziato come lo stesso Cu.Sa., nel corso del suo esame dibattimentale si sia attribuita la paternità della nomina del Mi.Do. nella società "(OMISSIS)", sostenendo che gli era sembrato "giusto dargli un ruolo visto che non era stato eletto".

Tale nomina, fatta dal Cu. in favore del Mi.Do. subito dopo la sua mancata elezione, coincide con quanto richiesto dal Gu.Gi. nel corso delle sopra richiamate intercettazioni.

Corretta è, pertanto, la conclusione cui è pervenuta, sul punto, la Corte di merito secondo la quale Mi.Do. – superando ampiamente le previsioni della vigilia e pur riportando, quindi, un notevole successo elettorale pari a 2.600 voti di preferenza, grazie proprio al duplice appoggio pervenutogli sia dal candidato alla presidenza regionale sia dal capo-mafia – non veniva eletto in quella tornata elettorale al Parlamento Regionale, ma il Cu., secondo quanto dallo stesso riferito in dibattimento nel corso dell’esame, ne sollecitava la nomina a Presidente della società a partecipazione regionale (OMISSIS), nonchè alla carica di Assessore comunale a Palermo, così facendo in modo che lo stesso venisse a ricoprire più incarichi in maniera del tutto coincidente con le volontà già precedentemente espresse dal capo-mafia (pag. 496).

Già alla stregua di tali prime risultanze processuali, del tutto corretto e aderente, appunto, a tali emergenze processuali è, conseguentemente, il logico, condivisibile convincimento espresso dai Giudici di 2^ grado: "Il complessivo contenuto di dette conversazioni appare certamente inequivocabile essendo emerso che sin da mese di febbraio del 2001 Mi.Do. entrava in contatto con il Gu.Gi. per avere sostegno in una sua prossima candidatura politica per le elezioni regionali, analogamente a quanto era avvenuto in occasione della sua elezione a consigliere comunale, e che nei mesi successivi lo stesso Mi.Do. si presentava al Cu. quale intermediario del Gu.Gi. sicchè, dopo l’incidente della candidatura Pr.S. e grazie anche all’intervento dell’ Ar., si addiveniva alla scelta di sostenere proprio Mi.Do. che avrebbe potuto contare sul sostegno sia degli associati mafiosi Gu.Gi. ed Ar., il primo dei quali in posizione di vertice di una delle più numerose ed al contempo sanguinarie famiglie di "Cosa Nostra" palermitana, sia di quello dell’imputato Cu.Sa. che nulla aveva obiettato circa il legame intrattenuto dal suo amico personale e collega di partito Mi.Mi. assentendo, pertanto, tale sostegno"(pag. 488).

7.6.2.9 L’esistenza di un rapporto politico-mafioso tra il capomandamento Gu.Gi. e l’uomo politico Cu.

S. e la consapevolezza di quest’ultimo di agevolare l’associazione mafiosa è comprovata anche dalle condotte del Gu.Gi. e dal contenuto di ulteriori conversazioni intercettate.

7.6.2.10 Gu.Gi.: Medico chirurgo, ex primario del locale ospedale civico – uomo d’onore, capo del mandamento mafioso di Brancaccio, (già reggente della famiglia mafiosa di Roccella di Palermo); fratello di Gu.Fi., a sua volta, cognato del latitante M.D.M., capo-mafia trapanese ai vertici di "Cosa Nostra"; fratello di Gu.Ca., condannato a dieci anni di reclusione per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p.;

cognato del medico Gr.Vi., condannato, con sentenza irrevocabile per il reato di favoreggiamento personale aggravato D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 per aver aiutato il mafioso Gr.

S. ad eludere le indagini relative ad un duplice omicidio consumato ad (OMISSIS) il 25/01/1995 – era esponente di vertice della consorteria mafiosa.

Il Gu.Gi. – ripetutamente arrestato e condannato per ben due volte per associazione mafiosa nell’ambito di due procedimenti particolarmente eclatanti (maxiprocesso-uno e procedimento c.d.

"Golden market" – era in quel momento sottoposto ad indagini sia, (ancora una volta), per il delitto previsto dall’art. 416 c.p. sia per essere ritenuto a capo di un imponente traffico internazionale di sostanze stupefacenti e sia, ancora per numerose ipotesi di estorsione aggravata, oltre che per detenzione e porto abusivo di armi (operazione Ghiaccio 1).

Per tali reati, il Gu.Gi., con sentenza della Corte di Appello di Palermo del 24/5/2006 – divenuta irrevocabile a seguito di decisione di questa Corte di Cassazione (sez. 2^, 29/10/2007 n. 6847/08), è stato condannato alla pena di anni tredici e mesi quattro di reclusione.

Il Gu.Gi., invero, uscito dal carcere nel dicembre del 2000, aveva ripreso in pieno le attività connesse alla gestione del mandamento mafioso di Brancaccio finalizzate:

a) alla organizzazione di imponenti traffici di stupefacenti con la Colombia in compartecipazione con le famiglie mafiose trapanesi;

b) alla gestione di attività estorsive;

c) alla riorganizzazione interna di quella potentissima articolazione di "Cosa Nostra" che era il mandamento di Brancaccio di cui il Gu.Gi. era il capo assoluto;

d) all’attuazione dei "propositi di inserimento del Gu.Gi. nell’attività politico-istituzionale" (v. richiesta al G.I.P. del P.M. di proroga delle intercettazioni dell’11/05/2001).

Ed, invero, per quanto attiene a quest’ultimo aspetto, il Gu.Gi., proprio per la sua posizione apicale nell’ambito del sodalizio mafioso, era incaricato dall’organizzazione a contattare esponenti politici ed, ancor di più, a proporre candidature di soggetti chiamati a svolgere la funzione di rappresentante politico per conto dell’associazione (v. pag. 517 sentenza 2^ grado).

Ed ò in tale veste e in tale contesto che il capo-mafia – come si è più volte evidenziato – individua il Mi.Do. quale candidato dell’associazione mafiosa per le imminenti consultazioni elettorali regionali, concordando detta scelta con il Cu.Sa. a seguito di una trattativa indiretta, (per ragioni di prudenza, essendo consapevole della inopportunità di incontrarsi personalmente con l’uomo politico), ma mediata dall’ Ar. e, soprattutto, dal portavoce e interlocutore Mi.Do. che aveva avuto ripetuti contatti con l’esponente mafioso nel cui interesse aveva seguito varie vicende e che allo stesso risultava indissolubilmente legato (v. pag. 307 sent. 2^ grado).

Ed è, quindi, in tale contesto che il Gu.Gi. stringe l’accordo con il Cu. mediato dal portavoce Mi.Do. proponendo all’uomo politico che accetta (ed inserisce nella lista) la candidatura alle elezioni regionali del Mi.Do., e mobilitando l’intera famiglia mafiosa per le consultazioni al fine di ottenere il sostegno per un ridimensionamento del regime carcerario dell’art. 41 bis O.P., per il controllo dei flussi della spesa pubblica e per il condizionamento delle attività economiche sul territorio, tutti interessi dell’associazione mafiosa che il Mi.

D. si era impegnato a realizzare.

Costui, quindi, aveva ottenuto – come si è ripetutamente messo in rilievo – il sostegno e l’appoggio dell’associazione mafiosa in cambio della promessa di un concreto impegno in favore delle esigenze dell’organizzazione.

In sostanza, un vero e proprio patto politico-mafioso, un vero e proprio progetto di infiltrazione nel mondo politico-istituzionale avente come principale obiettivo l’On. Cu., portato avanti dal capo-mafia Gu.Gi., per il tramite del Mi.Do., nonchè dell’ Ar.Sa..

La candidatura del Mi.Do. era, così, il frutto di un sostanziale ed effettivo accordo maturato tra il vertice di un mandamento mafioso e l’uomo politico proiettato al vertice della Regione siciliana, mediato sempre, per evidenti motivi di opportunità, attraverso altri soggetti e cioè il Mi.Do. e l’ Ar.Sa..

In virtù di questo patto, il capo-mandamento era riuscito ad usufruire di un rapporto diretto con Cu.Sa. per rappresentargli le proprie richieste, formulate anche e soprattutto nell’interesse dei suoi amici, ossia di soggetti associati alla organizzazione mafiosa, ai c.d. "carcerati", come espressamente detto nelle conversazioni con il Mi.Do..

Nell’ottica del rapporto suddetto – nel quale il Mi.Do. aveva assunto il ruolo di intermediario, da un lato riferendo al Cu. tutto quanto si concordava con il Gu.Gi., e d’altro lato comunicando a quest’ultimo le risposte dell’uomo politico – non vi è alcun dubbio che il Cu., al momento della rivelazione della notizia al Mi.Do., delle investigazioni in corso e delle relative intercettazioni, era ben consapevole che costui l’avrebbe portata a conoscenza del Gu.Gi. destinatario finale della notizia anche perchè era nella sua abitazione che avvenivano le riunioni, il cui contenuto veniva registrato ed era lì che bisognava "tutelarsi" – (ed, in effetti, il Gu.Gi. scopriva le microspie) – ed "era ben consapevole esso Cu. che stava agevolando le attività di un tale membro dell’organizzazione mafiosa" (così a pag. 517 sent. 2^ grado).

Prima di richiamare il contenuto delle conversazioni intercettate dalle quali risulta, ancor più, incontestabilmente la instaurazione del patto politico-mafioso, (conversazioni, come già si è accennato, riportate per esteso nella decisione di 1^ grado e correttamente e adeguatamente valutate dal Giudice di 2^ grado), va ricordato – in quanto essenziale per la corretta comprensione della vicenda – che le attività tecniche di intercettazione – già iniziate nell’abitazione del Gu.Gi. fin dal 14/09/1999, finalizzate alla localizzazione e alla cattura del noto latitante (dal 1995) D.F.F. (componente del gruppo di fuoco capeggiato da Ba.Le., Sp.Ga. e Ma.

A.; condannato all’ergastolo), in quanto il Gu.Gi. veniva ritenuto in stretti rapporti con i favoreggiatori del latitante – venivano, dopo la escarcerazione avvenuta nel dicembre 2000 del Gu.Gi., ed in correlazione alla ritenuta posizione apicale di costui, ulteriormente sviluppate e proseguite e, dalle conversazioni registrate, avvenute nell’abitazione del capo- mafia, tra costui ed altri mafiosi e tra costui e il Mi.Do. e l’ Ar., emergeva che costoro si interessavano di appalti pubblici, progetto di investimento e reinvestimento di capitali di provenienza illecita, concorsi pubblici e nomine, oltre che il condizionamento di consultazioni elettorali.

Nello specifico: dall’esame delle intercettazioni, emerge, innanzitutto, il ruolo di capo-mafia del Gu.Gi. che impartisce direttive:

1. sia in ordine all’attività estorsiva, alla gestione della cassa comune in favore dei carcerati, al reperimento e alla custodia delle armi, ai contatti con gli altri capodecina e, in generale, a tutte le attività criminose della cosca;

2. sia con riferimento alle strategie politiche utili per controllare le scelte in materia di finanziamenti pubblici ed autorizzazioni urbanistiche.

Quanto alle prime attività, la Corte di merito le ha, così, individuate: "Il Gu.Gi. – riacquistata la libertà e rientrato nell’abitazione di famiglia – aveva ripreso dalla fine dell’anno 2000 in poi a gestire attività quale capo del mandamento di Brancaccio ed in tale contesto programmava delitti, incontrava altri affiliati, stabiliva le linee guida per l’organizzazione criminale.

Tali circostanze si desumono inequivocabilmente da varie conversazioni ambientali intercettate che non vengono riportate per esigenze di sintesi, non essendo sostanzialmente contestato detto ruolo di vertice nell’organizzazione "Cosa Nostra" del Gu.

G., e dalle quali testualmente risulta però che quest’ultimo in colloqui con altri coassociati fa riferimento alle modalità di contatto tra "soldato", "capodecina", "consigliere" e "sottocapo", al ruolo dallo stesso ricoperto nella "famiglia nostra", a soggetti definiti "reggenti", ai suoi trascorsi nell’organizzazione ed ai rapporti con esponenti di rilievo della stessa come " Ca.", al suo incarico di sostituto di tale " Lu." soggetto identificabile in Lu.Gi., pluriomicida condannato a vari ergastoli, alla distribuzione di somme alle famiglie dei "carcerati", all’organizzazione di rilevanti traffici di droga ("la deve vendere all’ingrosso e non al dettaglio… per noi tutta quella che vuoi"), alla divisione di proventi di attività illecite "per tutto il mandamento" (pag. 516).

Quanto alle seconde, basterà qui richiamare quanto evidenziato dal Giudice di 1^ grado: "Appare chiaro che non possono qui riportarsi per esteso tutti i dialoghi cui si fa riferimento, proprio per il loro numero e per la loro ampiezza, ma va detto come negli stessi si sia discusso di appalti pubblici, progetti di investimento e di reinvestimento di capitali illeciti da parte di "cosa nostra", tentativi di inquinamento della vita pubblica ed amministrativa, concorsi pubblici da alterare allo scopo di ottenere la nomina di persone vicine all’organizzazione, ulteriori nomine di propri referenti in consorzi pubblici, enti e società municipalizzate, l’adozione o modifica da parte dei competenti organi comunali di strumenti urbanistici, per giungere infine al gravissimo e reiterato tentativo di condizionamento di consultazioni elettorali attraverso l’individuazione ed il successivo sostegno mafioso in favore di candidati compiacenti" (pag. 833).

Ed, invero – dopo che il Cu. aveva accettato la candidatura del Mi.Do. e dopo che, nei dialoghi intercettati il 13 e il 14 aprile 2001, l’ Ar. spiegava al Gu.Gi. che il Cu. si era dichiarato disponibile ad esaudire tutte le sue richieste (ad eccezione della candidatura di Pr.S.) e che, pertanto, il Cu. non aveva alcuna preclusione nei confronti del capo-mafia – l’ Ar. e il Gu.Gi. avevano concordato di fare campagna elettorale per il Mi.Do. (e per il Cu.).

Sul punto, e cioè per quanto riguarda specificamente la vicenda in questione, ossia la candidatura elettorale del Mi.Do., i Giudici di merito hanno ritenuto rilevante l’intercettazione di conversazioni dalle quali risulta che il Gu.Gi., dialogando con i mafiosi Ma.Gr., S.L.F., Ca.Vi. ed altri, esplicita di voler sostenere il Mi.Do. al fine di ottenere un ridimensionamento del regime dell’art. 41 bis O.P., il controllo sui flussi della spesa pubblica, il condizionamento delle attività economiche sul territorio, condizionare i concorsi per la assunzione e la promozione dei medici (in merito, oltre la decisione impugnata, si veda pag. 46 sent. Corte di Appello di Palermo del 17/10/2005 prodotta in atti, relativa a di Gr.Vi., cognato del Gu.Gi.).

Particolare rilevanza è stata ancora attribuita dai giudici del merito al contenuto delle conversazioni registrate, in data 21/04/2001, le quali attestano, con assoluta chiarezza, l’intenzione del Gu.Gi. di mobilitare personalmente tutti i referenti mafiosi e gli uomini d’onore, quartiere per quartiere, come appare chiaro anche dal ricorso al termine "cristiani" usato, come è noto, nel linguaggio mafioso per riferirsi esclusivamente ai membri del sodalizio mafioso; i continui riferimenti, poi, a "noialtri" ovvero a soggetti in grado di orientare voti in zone ad alta densità mafiosa della provincia, confermano che la campagna elettorale svolta dal Gu.Gi. non si limitava al contesto dei medici ma riguardava soprattutto ambienti legati all’organizzazione "Cosa Nostra" (e talora ad ambedue assieme).

Nel corso della lunghissima conversazione, inoltre, si citavano numerosi soggetti che il Mi.Do. doveva incontrare durante la campagna elettorale tra i quali – figuravano per l’appunto medici, imprenditori, uomini d’onore ed amici del Gu.Gi..

Del resto, parecchie altre conversazioni intercettate tra il 14 ed il 28 aprile 2001 dimostrano con certezza che Gu.Gi. aveva avviato una consistente macchina elettorale a favore di Mi.

M. e che aveva preso accordi anche con altri affiliati mafiosi o soggetti vicini al sodalizio per sostenerlo.

In particolare, in data 17 aprile 2001, veniva intercettato un colloquio con il mafioso Pi.Gi., coinvolto nel c.d. primo maxi processo a "Cosa Nostra, al quale il Gu.Gi. chiedeva espressamente di intervenire presso i consorziati A.S.L delle zone di Carini, Capaci e Terrasini.

Il 27 aprile successivo il Gu.Gi. si incontrava con Ma.Gr., figlio di Ma.Fi., ex rappresentante della famiglia di Corso dei Mille e padrino di Gu.Gi..

Nel corso del dialogo, il Gu.Gi. parlava anche delle imminenti elezioni regionali, e, pur avendo capito che il suo interlocutore aveva già precedenti impegni, gli "ordinava" di impegnarsi in concreto solo per un candidato del C.D.U. vicino a Cu.To., senza farne tuttavia il nome.

Successivamente, in altro dialogo sempre con Ma.Gr., il Gu.Gi. chiariva espressamente che si trattava di " Mi.

M.".

In sostanza, l’indicazione dei referenti per le varie zone, le peculiari modalità e priorità nel contattare questi ultimi, il riferimento a tipiche forme con le quali avanzare le richieste, tutto era chiaramente connesso ai sistemi operativi di "Cosa Nostra", e dimostrava come la candidatura del Mi.Do. fosse sostenuta da tale organizzazione (così come quella collegata di Cu.

S.).

Dal tenore del complesso delle intercettazioni ambientali in atti è emerso, con il carattere della assoluta certezza:

1. che il Gu.Gi., l’ Ar., e diversi altri membri del sodalizio mafioso "Cosa Nostra" avessero fatto una attiva campagna elettorale per il candidato Mi.Do. (e per il Cu.);

2. che si ribadiva che tutto l’appoggio elettorale di cui si stava discutendo andava, ovviamente, ripagato attraverso precisi impegni da rispettare dopo le elezioni, nomine presso enti pubblici e strutture ospedaliere e favori da ricambiare.

Tale era la situazione al momento della rivelazione da parte del Cu. delle intercettazioni in corso.

7.6.2.11 Ciò chiarito, si osserva che la prosecuzione della suindicata attività investigativa – che aveva dato fino ad allora "straordinari e rilevantissimi elementi probatori" (v. richiesta di proroga del P.M. al G.I.P. del 30/05/2010) – veniva, pochi giorni dopo il provvedimento autorizzativo di proroga – interrotta dalla rivelazione al Mi.Do., da parte del Cu., della investigazione in corso nell’abitazione del capo-mafia, provocando tale disvelamento effetti nefasti in relazione ad una delle più rilevanti attività di indagine in corso sulla organizzazione "Cosa Nostra"; essa determinava, come effetto immediato, la fine di una delle più fruttuose indagini in corso sia per quanto attiene all’aspetto ordinario dell’attività del mandamento mafioso di Brancaccio (attività estorsive, droga, organigramma delle famiglie, ecc.) sia, soprattutto con specifico riferimento ai rapporti tra mafia, impresa, politica e pubblica amministrazione.

La rivelazione, quindi, avendo determinato l’interruzione delle intercettazioni di conversazioni rilevanti, aveva comportato un grave nocumento per le indagini che comunque erano di rilevante spessore come dimostrato dagli arresti eseguiti in seguito dai Carabinieri nel dicembre del 2002 e nel giugno del 2003 quando venivano tratti in arresto non soltanto 44 appartenenti all’organizzazione ma anche il Mi.Do., l’ Ar., Gr.Vi. ed altri.

Sono stati in proposito dalla Corte di merito richiamati sia gli esiti della c.d. operazione "ghiaccio 1" che aveva portato, il 4.12.2002, all’adozione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere per il reato di associazione mafiosa ed altro nei confronti di ben 44 persone in gran parte già condannate – ivi compreso il Gu.Gi. nonchè la moglie Gr.Gi. ed il figlio Gu.Fr. – con sentenza irrevocabile (Cass, sez. 2^, 29/10/2007), sia gli esiti della cd. operazione ghiaccio 2, la quale dava origine alla successiva ordinanza custodiale del 24.6.2003, con la quale vennero tratti in arresto, sempre per il reato associativo, gli stessi Mi.Do., Ar.Sa. (entrambi poi condannati con sentenza definitiva, come si è già ricordato), Bu.Fr., e il cognato del Gu.Gi., G. V., condannato in primo grado ex art. 416 bis c.p., e poi assolto dalla Corte di Appello di Palermo con sentenza divenuta irrevocabile a seguito del rigetto da parte di questa Corte di legittimità del ricorso del Procuratore Generale (Cass, sez. 2^, 16/04/2009, n. 20523).

Imponenti risultati investigativi, dunque, ai quali, senza la fuga di notizie ed il rinvenimento della microspia da parte del Gu.

G., ne sarebbero certamente seguiti di ulteriori. Ciò a maggior ragione se si considera che la scoperta dell’intercettazione ambientale che ha determinato la fine sostanziale dell’indagine, si è verificata il 15 giugno del 2001, a soli nove giorni dalla data (24 giugno 2001 ) fissata per le elezioni al Parlamento siciliano, sicchè non è assolutamente da escludere che, in considerazione dei fatti emersi sino a quella data, si sarebbero, con estrema probabilità, potute raccogliere ulteriori rilevanti emergenze a carico del Gu.Gi., del Mi.Do., dell’ Ar., e dello stesso Cu., oltre che di altri possibili protagonisti della vicenda.

Sulla scorta di tali considerazioni ritiene, conclusivamente, questa Corte di legittimità che la condotta di rivelazione delle notizie segrete ha oggettivamente rappresentato una agevolazione dell’attività posta in essere dall’associazione mafiosa, con precipuo riferimento al mandamento di Brancaccio, alla persona del Gu.Gi., alle relazioni politiche che egli stava intrecciando, agli accordi politico-mafiosi ed alle controprestazioni che ne sarebbero certamente derivate.

Tutto quanto sopra esposto fornisce già la prova non solo della sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 378 c.p., comma 2 ma anche della concorrente (Cass. Sez. 6^ n 35680/05, RV 232577) aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7 (aver commesso il fatto al fine di agevolare l’attività dell’organizzazione mafiosa "Cosa Nostra"), e ciò sia che si voglia seguire il principio giurisprudenziale secondo cui l’aggravante sussiste per il solo fatto che il soggetto favorito sia un esponente di vertice del sodalizio mafioso, sia che si voglia seguire il diverso principio che ritiene necessario che la condotta sia oggettivamente funzionale alla agevolazione dell’attività criminale.

In proposito, la Corte territoriale ha richiamato l’ineccepibile principio di legittimità per il quale, allorchè la condotta di favoreggiamento riguardi un esponente di spicco di un’associazione di tipo mafiosa, essa perciò solo ha una diretta influenza sulla esistenza dell’organismo criminale, onde bene è ritenuta, in un comportamento del genere, la circostanza aggravante di cui alla L. n 203 del 1991, art. 7 (Cass. Sez. 5^, 6/10/2004 n 43443, RV 229786;

id. n 4358/1996, RV 205499).

Va osservato a riguardo che tale principio è stato affermato, innanzitutto, nella ipotesi della latitanza quando, cioè, la condotta favoreggiatrice sia posta in essere a vantaggio di un esponente di spicco di un’associazione di tipo mafiosa, in quanto l’aiuto fornito al capo per dirigere da latitante l’associazione concretizza un aiuto di sodalizio criminale la cui operatività sarebbe compromessa dal suo arresto, mentre sotto il profilo soggettivo, non può revocarsi in dubbio l’intenzione dell’agente di favorire anche l’associazione allorchè risulti che abbia prestato consapevolmente aiuto al capo-mafia (Cass. Sez. 5^, 24/09/2007 n. 41587, RV 238191; id. 24/6/2009 n. 41063, RV 245386; id. 22/09/2009 n. 42018, RV 245401).

Il principio è stato affermato anche nella ipotesi identica a quella in esame ove – (proprio nel procedimento cautelare a carico dell’ A.M.) – si è statuito che "Sussiste l’aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, art. 7 convertito nella L. n. 203 del 1991 (aver commesso il fatto avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p. ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo), in relazione ai reati di cui all’art. 326 c.p. (rivelazioni ed utilizzazione di segreti d’ufficio) ed all’art. 615 ter c.p. (accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico), qualora le condotte delittuose ivi previste siano tenute per apprendere notizie sulle sorti del procedimento penale in relazione al reato di associazione mafiosa (art. 416 bis c.p.) addebitato all’imputato, in quanto la captazione di dette informazioni non può essere preordinata alla salvaguardia di un interesse esclusivamente personale ma costituisce obiettivamente un vantaggio non solo per il soggetto che riceve l’informazione ma per tutta l’associazione, posto che la lesione della segretezza crea un vulnus nelle indagini di cui possono avvantaggiarsi gli associati contrastando con comportamenti o atti illegittimi i fatti destinati a restare segreti" (Cass. Sez. 5^ 16/04/2004, n.23134, RV 229907).

Ed è questo il principio di diritto che questa Corte ritiene di dover ribadire poichè non vi è dubbio che, in tale ipotesi, come quella di specie, l’imputato – che ben conosceva la caratura mafiosa del Gu.Gi., al vertice del mandamento di Brancaccio – ha agito con la consapevolezza che la notizia portata a conoscenza del capo-mafia danneggiava l’istruttoria in corso, agevolando, conseguentemente, l’associazione mafiosa da questi rappresentata.

In proposito, la Corte territoriale ha così correttamente motivato:

"E proprio l’applicazione del suddetto principio al caso in esame dovrebbe quindi far ritenere che Cu. agevolando Gu.

G. a sottrarsi alle investigazioni, avuto riguardo alle valutazioni espresse in punto di elemento soggettivo, ha pertanto consapevolmente prestato aiuto all’organizzazione mafiosa poichè la condotta veniva posta in essere a vantaggio di un membro dell’organizzazione che in quel preciso momento storico era colui che aveva instaurato un rapporto con esponenti politici di livello regionale e quindi aveva assunto un ruolo particolarissimo e decisivo all’interno dell’associazione conosciuto anche all’imputato, sostanzialmente del tutto paragonabile a quello di un rappresentante addirittura superiore quanto a rappresentatività criminale.

In sostanza, il patrimonio conoscitivo dell’imputato al momento della commissione della condotta di trasmissione della notizia all’associato mafioso era tale da rendergli perfettamente noto detta posizione verticistica e comunque dirigenziale"(pag. 515).

7.6.2.12 La Corte di merito, tuttavia, non si è limitata a richiamare il principio di legittimità prima evidenziato, ma è andata oltre avendo ritenuto di dover sottolineare come ad identiche conclusioni si perviene anche ove si voglia aderire all’orientamento giurisprudenziale opposto, precedentemente esaminato e richiamato dal Tribunale, secondo cui l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 può riconoscersi nell’ipotesi di favoreggiamento solo quando si accerti la oggettiva funzionalità della condotta all’agevolazione dell’attività posta in essere dall’organizzazione criminale.

Ed invero, il giudice di 2^ grado, con una penetrante analisi, ha dimostrato la sussistenza dell’aggravante anche nell’ipotesi in cui si volesse aderire a quel diverso orientamento di legittimità secondo cui in tema di favoreggiamento, la circostanza in questione non si applica automaticamente ogni qualvolta venga favorito l’appartenente – anche se di vertice – ad una associazione mafiosa (situazione che, di per sè, configura la diversa aggravante prevista dall’art. 378 c.p., comma 2), essendo necessario l’accertamento della oggettiva funzionalità della condotta alla agevolazione dell’attività posta in essere dal sodalizio mafioso (Cass. Sez. 6^ 15/10/2003 n 44753, RV 227173; id. 27/10/2005 RV 232766; id.

8/11/2007 n 294, RV 238399), essendo, cioè, necessario che l’azione superi il rapporto interpersonale e sia diretta ad agevolare l’attività del sodalizio mafioso (Cass. Sez. 6^ 21/03/2001, n 11231).

In proposito, sono state ritenute, dai Giudici di 2^ grado, rilevanti – ai fini della consapevolezza da parte del Cu., nel trasmettere la notizia riservata delle indagini e delle intercettazioni che in quel momento erano in corso nell’abitazione del capo-mafia, che la notizia sarebbe stata riferita al Gu.

G. e avrebbe agevolato l’associazione mafiosa allo stesso facente capo – le circostanze che l’imputato:

A. era a conoscenza degli stretti, diretti rapporti esistenti, anche in quei momento, tra l’ Ar. e il capo-mafia, come aveva appreso direttamente parlandone con l’ Ar. ed il Mi.Do.;

B. era a conoscenza dei precedenti mafiosi dell’ Ar., avendogli costui riferito che, sin dal periodo della campagna elettorale del 1991, aveva messo a conoscenza il Cu. delle sue vicende giudiziarie ammettendo di avere effettivamente intrattenuto rapporti con associati mafiosi, ed era stato proprio lui a falsificare la cartella clinica del Br. permettendo a costui, quanto meno inizialmente, di avere un formidabile alibi in relazione all’accusa di partecipazione a gravissimi fatti delittuosi.

"Nonostante avesse reso noto al Cu. tale suo coinvolgimento in fatti di mafia, quest’ultimo aveva sempre mantenuto e approfondito i rapporti di amicizia anche accogliendo diverse volte a casa sua almeno fino al 2001 – 2002" (pagg. 96 – 97 sent. 2^ grado).

Lo stesso imputato Cu. ha ammesso di essere stato consapevole delle vicende giudiziarie per mafia del suo amico Ar.

S., con ciò confermando quanto da questi sostenuto;

C. era a conoscenza della notoria caratura mafiosa del Gu.

G., capo del mandamento mafioso di Brancaccio, esponente di spicco della organizzazione criminale.

In proposito, va osservato che lo stesso imputato Cu.

S., rendendo l’esame davanti al Collegio, ha ammesso e riconosciuto di essere stato, al momento del fatto, del tutto consapevole che Gu.Gi. era stato già processato e definitivamente condannato per reati di stampo mafioso.

Inoltre, i Giudici del merito hanno evidenziato come tale circostanza fosse, all’epoca, pubblica e del tutto notoria in quanto ampiamente riportata nel corso degli anni dalle cronache e dai mezzi di informazione.

Infatti, le notizie riguardanti il Gu.Gi. si erano susseguite, senza soluzione di continuità, fin dal primo maxi- processo (anni 80) ed erano proseguite con i vari arresti, il processo c.d. "Golden Market", le misure di prevenzione ecc..

Alle notizie riguardanti le vicende giudiziarie del Gu.

G., inoltre, era stato dato particolare risalto, trattandosi di un medico all’epoca in servizio quale primario del locale Ospedale Civico.

Va rilevato, infine, che – anche al di là della ammissione del Cu. e della riconosciuta notorietà della notizia dei precedenti e della condanna definitiva per mafia riportata dal Gu.Gi. – lo stesso Ar. abbia confermato la piena consapevolezza di tale circostanza da parte del Cu.; e del resto, la cautela del Cu. che riteneva imprudente incontrarsi con il Gu.Gi., perchè ciò poteva ledere la sua immagine di uomo politico e la sua opposizione alla candidatura del Pr.

S. "in quanto sarebbe stato immediatamente ricondotto alla persona dell’associato mafioso Gu.Gi." (pag. 98 sent. 1^ grado) sono circostanze ulteriormente dimostrative della consapevolezza da parte dell’imputato della notevole (notoria) caratura mafiosa del Gu.Gi.;

D. era, per certa ed espressa ammissione dell’ Ar., ben consapevole degli strettissimi rapporti che legavano il Mi.Do. al Gu.Gi. ed era perfettamente a conoscenza, per come si è ampiamente dimostrato in precedenza, che la candidatura del Mi.Do. era voluta dal Gu.Gi., e che il primo era stato scelto quale rappresentante del capomandamento nel mondo politico, intermediario con soggetti istituzionali quali il Cu., e candidato al quale garantire il sostegno elettorale delle famiglia mafiose del mandamento di Brancaccio in cambio della piena disponibilità a fare favori, affari e nomine.

In sostanza, l’indicazione della candidatura e l’appoggio a favore del Mi.Do. rispondeva ad una scelta compiuta dal sodalizio mafioso per perseguire gli interessi dell’organizzazione criminale.

Il Cu. era, quindi, ben consapevole della valenza di tale candidatura del Mi.Do., portatore degli interessi e delle esigenze del gruppo mafioso facente capo al Gu.Gi., ed aveva accettato di essere sostenuto dal voto degli associati mafiosi, sostegno elettorale che refluiva anche a vantaggio del Cu.;

sicchè è sicuramente incontestabile la circostanza che l’imputato era perfettamente consapevole dell’appoggio fornito non soltanto a titolo personale del Gu.Gi. ma dall’associazione mafiosa alla candidatura Mi.Do., (circostanza questa correttamente ritenuta, unitamente alle altre, dalla Corte di merito di speciale rilevanza per valutare l’elemento soggettivo dell’imputato nel successivo momento della rivelazione della notizia riservata nel giugno del 2001 : pag. 462);

E. era a conoscenza che il Mi.Do. era il candidato politico di riferimento e di rappresentanza del capomandamento e, quindi, dell’associazione mafiosa che lo sosteneva ma, allo stesso tempo, anche l’intermediario mafioso tra il capo-mafia e l’uomo politico che, suo tramite, aveva mostrato ampia disponibilità ad accogliere le richieste che il Gu.Gi. proponeva e avrebbe proposto nell’interesse del gruppo criminale.

Di estrema rilevanza è, in proposito, quanto dal Cu. detto al Mi.Do. e all’ Ar., e da costoro riferito al G. G. "Con Pe. posso avere tutti i rapporti di questo mondo ….. do tutto quello che Gu.Gi. mi chiede ma c’è una preclusione sulla persona del Pr.S.".

Questa frase, come già si è osservato in precedenza e va qui ribadito, esprime, in maniera più che eloquente, il contenuto dei rapporti tra il Cu. ed il capomafia e la disponibilità dell’uomo politico ad avere qualsiasi rapporto con il Gu.

G. e ad assecondarne le richieste, (con la sola esclusione della candidatura del difensore del capomafia), richieste che egli sapeva essere non quelle personali del Gu.Gi. ma erano bensì le richieste dell’associazione mafiosa nel cui interesse venivano proposte dal capo del sodalizio;

F. era consapevole che la condotta di favoreggiamento posta in essere – aver permesso l’interruzione delle indagini sui collegamenti mafia- politica che in quel momento stavano per essere efficacemente approfonditi sulla base di emergenze oggettive costituite dalle intercettazioni nell’abitazione del capo del sodalizio mafioso – era oggettivamente e funzionalmente diretta all’agevolazione dell’associazione mafiosa, garantita nell’eludere quelle investigazioni che avevano ad oggetto i rapporti tra i componenti della stessa ed esponenti politici ed in virtù dei quali il gruppo criminale mirava a realizzare vantaggi sia prettamente politici che affaristici come più volte rappresentato dal Gu.Gi. nel corso dei colloqui intrattenuti con il Mi.Do. e l’ Ar.Sa., in cui venivano sollecitate scelte che potessero agevolare la condizione dei detenuti ed al contempo nomine in incarichi di governo o sottogoverno idonee ad assicurare rilevanti affari economici agli associati mafiosi.

Del tutto coerenti con le risultanze processuali prima esposte, è, pertanto, la conclusione della Corte di merito (pag.g. 548 – 550) secondo la quale rivelare al Mi.Do. soggetto che aveva assunto un insostituibile ruolo chiave per il sodalizio mafioso e, cioè, quello di candidato politico, espressione dell’associazione mafiosa chiamato a rappresentarne gli interessi, (secondo quanto risultante espressamente dal contenuto delle intercettazioni ambientali nelle quali il Gu.Gi., dinanzi allo stesso futuro candidato rappresenta la linea politica da seguire e reclama per lo stesso e per l’organizzazione l’acquisizione di incarichi di sottogoverno, nella ipotesi di una mancata elezione poi puntualmente assegnati al Mi.Do.) – "non la esistenza di una qualsiasi attività investigativa nei suoi confronti, bensì proprio quella indagine specifica che riguardava i rapporti tra questi e l’associato mafioso Gu.Gi., significava interrompere i rapporti tra M. D. e l’associazione mafiosa e, quindi, impedire concretamente che le relazioni tra "Cosa Nostra" ed un esponente politico venissero approfondite e, soprattutto, che, in tal modo, potesse acclararsi il contributo di una parte politica all’associazione" …. "Il Cu., quindi, agevola direttamente l’associazione e, a tal fine, agisce impedendo il disvelamento dei fatti più significativi per la vita del gruppo criminale e, cioè, i rapporti con la politica e la possibilità di sfruttare la stessa per la realizzazione di scopi conformi ai disegni criminali". 7.6.2.13 Ad avviso di questa Corte di legittimità, può definitivamente affermarsi – con ciò condividendo le conclusioni cui è pervenuta, a differenza di quanto ritenuto dal Giudice di 1^ grado, la Corte di merito circa la sussistenza della contestata aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 – che:

a) non vi è dubbio che – oltre la piena consapevolezza da parte dell’imputato dei precedenti penali (reiterati e specifici) per reati di stampo mafioso che gravavano sulla persona del Gu.Gi.

(così come dell’ Ar.) – il Cu. era perfettamente consapevole che il Mi.Do. ed il Gu.Gi. sicuramente dovevano essere sottoposti, al momento della rivelazione della notizia, ad una indagine per fatti di mafia tenuto conto della esistenza di una indagine del R.O.S. e ad una intercettazione a loro carico nella quale il Mi.Do. colloquiava con un esponente mafioso;

b) non vi è alcun dubbio che il Cu. – (come, peraltro, già dimostrato: v. supra pag. 156) – avvertendo Mi.Do., intendesse avvertire il capo-mafia essendo il Mi.Do. – "che aveva assunto consapevolmente il ruolo di candidato mafioso" (pag. 114 sent. 2^ grado) – l’intermediario tra l’associazione mafiosa ed il Cu., ed è evidente che l’imputato – il quale, non solo aveva partecipato alla trattativa conclusasi con la scelta del Mi.Do., quanto era consapevole del ruolo assunto da costui di candidato politico chiamato a rappresentare gli interessi dell’associazione – era ben consapevole che le investigazioni del R.O.S. (e le intercettazioni) riguardavano i rapporti ed i discorsi politico-mafiosi che intercorrevano, in quel momento, tra essi, Cu., Mi.Do., l’associato mafioso Ar., e il "boss" Gu.Gi., e dei quali il Mi.Do. era il portavoce di quest’ultimo nei confronti dell’uomo politico (c.d. "anello di congiunzione"); di qui la necessità di comunicare la notizia delle indagini (e delle intercettazioni) al Mi.Do. affinchè costui la veicolasse subito al capo-mafia (come in effetti avvenne), e di qui l’ulteriore avvertimento "voi cautelatevi";

c) non vi è alcun dubbio che l’imputato, facendo pervenire la notizia al Gu.Gi., intendesse agevolare il sodalizio mafioso facente capo a quest’ultimo, giacchè il Cu. – dichiaratosi disponibile ad accogliere le richieste del capomafia – era perfettamente a conoscenza che la candidatura del Mi.Do., indicata dal capomandamento e accettata dall’uomo politico, era funzionale agli interessi dell’associazione da sempre impegnata nel progetto di infiltrazione mafiosa, e che ciò riguardava non solo il candidato Mi.Do. ma anche lo stesso futuro Presidente della Regione, partecipe del patto illecito; era, quindi, l’imputato perfettamente consapevole che, svelando la notizia di indagini in corso nell’abitazione del capo-mafia, con l’avvertimento di cautelarsi, avrebbe ostacolato l’indagine – come poi effettivamente avvenne – che tendeva a scoprire proprio quell’attività di infiltrazione nelle Istituzioni che interessava e giovava all’associazione mafiosa.

7.6.2.14 Da ultimo, deve rilevarsi che la circostanza, dedotta dalla difesa, che al traditore sottufficiale Bo. non sia stata contestata per l’episodio in questione l’aggravante di avere agevolato "Cosa Nostra" – come risulta dalla sentenza del Tribunale che ha condannato l’infedele servitore dello Stato alla pena di anni dieci di reclusione – è del tutto ininfluente non essendo assolutamente esatto, nè sotto l’aspetto della condotta nè sotto il profilo dell’elemento soggettivo, che, come afferma la difesa, (pag.

43 motivi nuovi,), le posizioni del Bo. e del Cu. sono state ritenute dai Giudici di 2^ grado "assolutamente sovrapponibili".

Come risulta dalla stessa sentenza in atti – e come è già emerso quanto si è accennato al c.d. sistema di controinformazione e su cui si ritornerà più diffusamente in seguito – il Bo., incisivamente definito dal Giudice di 1^ grado "uno squallido ricattatore ed un traditore dell’Arma dei Carabinieri e delle Istituzioni per brama di potere e di denaro", pur rivelando notizie attinenti ad indagini antimafia, aveva agito "non avendo di mira gli interessi generali dell’associazione mafiosa", bensì "per il perseguimento di specifici fini personali" (pag. 114), poichè, come si è ampiamente dimostrato, trasmetteva le notizie all’importante uomo politico per essere ricompensato addirittura con un seggio al Parlamento regionale.

La rivelazione della notizia, da un punto di vista soggettivo, non ha superato, quindi, il rapporto interpersonale con il Cu., a differenza della condotta posta in essere dal Cu. che aveva riferito notizie concernenti le investigazioni che interessavano il capo-mafia Gu.Gi. ed il portavoce di costui (il Mi.

D. sottoposto ad indagini per concorso in associazione mafiosa) affinchè le riferisse al capomandamento con il quale il Cu. aveva stabilito un accordo – mediato appunto dal Mi.Do. – che agevolava interessi mafiosi, rivelazione che aveva il fine specifico di ostacolare le indagini in corso ("voi cautelatevi") evento, poi, effettivamente verificatosi con la scoperta, da parte del Gu.Gi., della microspia installata dai R.O.S. nella sua abitazione.

7.6.2.15 La Corte di merito ha preso in considerazione, sempre ai fini di ulteriore dimostrazione della sussistenza della contestata aggravante D.L. n. 152 del 1991, ex art. 7 numerosi altri episodi – rivelazione ca., incontri Si.An., candidatura Ac., sistema di controinformazione – cui la difesa (nell’ottavo motivo del ricorso principale) contesta ogni valenza trattandosi di "episodi diversi dalle condotte di favoreggiamento e rivelazione di segreto riguardo a Mi.Do. – Gu.Gi. e A."(pag.

134 ricorso principale).

La difesa – dopo aver preso in esame soprattutto gli episodi "Rivelazione ca." e "Candidatura Ac." segnalando la contraddittorietà della motivazione data in proposito dalla Corte di merito – ha contestato essere rilevante, ai fini dell’aggravante in questione contestata, "quale sia stato l’elemento soggettivo dell’imputato nell’ambito di altre ed autonome condotte asseritamente commesse dall’imputato"(pag. 139).

La doglianza è infondata poichè la Corte territoriale ha correttamente richiamato tali episodi individuandoli come "riscontro individualizzante rispetto alla sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7", giacchè la circostanza che il Cu. aveva riferito notizie riservate su indagini a carico di esponenti mafiosi di rilievo, non in occasioni isolate od a singoli associati, ma ripetutamente in distinte occasioni a più associati mafiosi e a più soggetti in contatto con "Cosa Nostra", per essere uomini di fiducia dell’organizzazione, da un lato sta a dimostrare la non sporadicità dei rapporti del Cu. con elementi di spicco dell’associazione mafiosa, e dall’altro lato collega specificamente l’imputato rispetto al fatto della imputazione, e cioè, l’agevolazione mafiosa, tramite la descrizione di una condotta volontariamente assunta e diretta a trasmettere notizie riservate a più soggetti intranei o, comunque, in stabile contatto con l’organizzazione, e finisce, così, con il costituire un formidabile avallo alla, peraltro, già, accertata dimostrazione della consapevolezza del Cu. di agevolare l’associazione mafiosa nell’episodio della rivelazione in corso nei confronti del capo- mandamento mafioso Gu.Gi., investigazioni che stavano svelando, come si è ripetutamente evidenziato, oltre che varie attività criminali del sodalizio, anche l’infiltrazione mafiosa nelle Istituzioni attraverso l’accordo stipulato dal capo- mafia con l’uomo politico tramite "l’intermediarlo mafioso Mi.

D.". 7.6.2.16 Episodio rivelazione notizie riservate a ca.

f..

Ciò premesso, ritiene questa Corte di legittimità che l’episodio più significativo riguardi la vicenda della rivelazione delle notizie da Cu.Sa. a ca.fr. concernente la sottoposizione dello stesso ad indagini ed intercettazioni con riferimento alle sue frequentazioni dei vertici della famiglia mafiosa di Villabate individuati negli associati mafiosi Ma..

Tale episodio – inspiegabilmente non contestato al Cu. come ipotesi di reato ex art. 326 c.p. e art. 378 c.p., comma 2, aggravati ai sensi del D.L. n. 192 del 1991, art. 7 – è stato, comunque, oggetto di contraddittorio nel corso dell’esame dibattimentale dell’imputato ed è stato valutato come elemento di riscontro dalla Corte territoriale che (a pag. 521) ha così descritto l’episodio:

"il ca. riferiva che nel corso del 2003 e precisamente tre o quattro mesi prima dell’invio al Cu. del primo avviso di garanzia, il ca. si era recato alla Presidenza della Regione per incontrarlo ed aveva notato che lo stesso aveva un atteggiamento fortemente circospetto tanto che si erano recati ad interloquire solo all’esterno dell’edificio e precisamente nel parcheggio interno ove il Cu. in evidente stato di agitazione gli aveva detto che lui e cioè ca. era nei guai perchè intercettato dagli organi di Polizia per i suoi rapporti con Ma.Ni.; in tale contesto il Cu. gli aveva anche detto che l’esistenza di dette indagini a suo carico gli era stata rilevata dal Bo. e lo invitava pertanto ad interrompere immediatamente i loro rapporti di frequentazione ed anche telefonici.

Testualmente l’imputato riferiva al ca.: mi disse: "Tu sei nei guai perchè sei pedinato, microfilmato, fotografato, intercettato dagli organi di polizia, ci sono inchieste e indagini a tuo carico per i tuoi rapporti con Ma., per cui sei nei guai".

Riferiva, inoltre, il ca. che il Cu. aveva specificato con assoluta chiarezza che egli aveva saputo dal Bo. dell’esistenza di investigazioni, pedinamenti ed intercettazioni a carico di esso ca. e di M. N..

Riferiva, ancora, che dopo l’incontro nel parcheggio della Presidenza, egli aveva fatto immediato ritorno a Villabate ove aveva incontrato Ma.Ni. al quale "aveva riferito per filo e per segno il contenuto dell’incontro appena concluso con il Cu., compreso il riferimento alla fonte Bo.", (V. pag 1098 sent. 1^ grado).

La Corte di merito, prima di scendere alla valutazione dell’episodio, ha messo in debito risalto, da un lato i rapporti tra il ca. – Presidente dal 1995 al 1998 del Consiglio Comunale di Villabate, poi sciolto nel 2001 per infiltrazioni mafioso – con l’associazione criminale e, dall’altro, i rapporti del ca. con il Cu., rapporti sui quali si è a lungo soffermato anche il giudice di primo grado (pagg. 1076 e seg.).

1) Quanto ai primi, è stato messo in rilievo che il ca. era stato vicino ad Ma.An. e Ma.Ni., capi incontrastati della cosca mafiosa di Villabate, e sono stati puntualmente riportate le sue stesse ammissioni di "aver fatto parte del gruppo che faceva riferimento a Ma. e quindi di aver fatto parte della famiglia mafiosa di Villabate e del gruppo di Ma. a pieno perchè prestava il suo servizio, la sua capacità imprenditoriale e anche istituzionale e politica a vantaggio di queste persone" (pagg. 1077 sent. 1^ grado).

Grazie a tale ruolo, egli aveva anche conosciuto personalmente numerosi uomini di onore di quella famiglia, quali Ri.Ni. e Ri.Da., Mo.En. e Mo.Fr., Co.An., Mi.Ba., Vi.An., Ci.Ni., Fo.Ig. e Fo.Ri..

Ammetteva, altresì, che con parecchi dei suddetti soggetti aveva commesso una serie di reati e di condotte rientranti nella operatività della cosca di Villabate.

In tale contesto confessava di essere stato colui che aveva procurato nell’estate del 2003 i timbri da apporre su una falsa carta di identità consegnatagli da Ma.Ni. nella quale veniva apposta la fotografia del mafioso Pr.Be. che lo stesso Ma. avrebbe poi accompagnato all’estero e precisamente in Francia (Marsiglia) per essere sottoposto a intervento chirurgico.

In sostanza, il ca., su incarico di Ma.Ni. aveva favorito la latitanza addirittura del capo dell’intera organizzazione mafiosa Cosa Nostra.

Per mera completezza di esposizione va ricordato che il Ma.

N., con sentenza di questa Corte, (sez. 2^, 15-12-2010) è stato definitivamente condannato, unitamente a Fo.Ig. e Ri.

D., alla pena dell’ergastolo per omicidio, aggravato dalla finalità mafiosa, di ge.sa..

2) Quanto ai secondi, diffusamente esposti dal Tribunale, il ca. riferiva che era legato con Cu.Sa. da un forte ed antico vincolo di amicizia risalente al 1991 allorquando costui era stato candidato alle elezioni regionali.

Il Cu. lo aveva aiutato nella sua carriera politica facendolo nominare responsabile del movimento giovanile di Villabate e candidandolo poi alle elezioni comunali di Villabate nel 1994.

Egli aveva continuato ad incontrarsi quasi giornalmente con l’entourage del gruppo politico facente capo all’On. Ma.

S., e tali continue frequentazioni avevano determinato il nascere di autentici rapporti di amicizia con Br.Fr., Ro.Sa. e altri esponenti politici e sostenitori del gruppo, oltre che naturalmente con il Cu. – (che di quel gruppo era uno dei maggiori esponenti) – il quale aveva condiviso la propria abitazione in Roma con il ca., ed utilizzava una scheda telefonica intestata al medesimo ca., ma destinata da esso Cu. alla sola ricezione.

Tale profondo ed assiduo rapporto, sia sul piano personale che politico, era stato ulteriormente suggellato dalla partecipazione del Cu., unitamente all’On. Ma.Cl. e B. F. – in veste di testimone dello sposo, alle nozze del ca. avvenute l’11 luglio del 2000.

Allo sposalizio erano stati invitati anche i Ma., ma il Ma.An. era detenuto e il Ma.Ni. aveva convenuto con il ca. circa l’inopportunità della sua presenza, proprio per non creare imbarazzo a gli altri invitati.

I giudici del merito hanno ancora evidenziato che:

1. Siffatti rapporti di intensa amicizia personale e collaborazione politica erano stati pienamente confermati dallo stesso imputato Cu. nel corso del suo esame ove ammetteva senza incertezze i suoi rapporti amicali con il ca., i comuni trascorsi politici, la condivisione dell’appartamento a Roma e il ruolo di testimone in occasione del suo matrimonio.

2. Il Cu. era a conoscenza della caratura mafiosa dei Ma. e che si trattava di esponenti di Cosa Nostra, e ciò aveva appreso anche attraverso i suoi amici di Villabate Br.

F., Br.Ni. e Fi.Ad., così come sapeva che Ma.An. era stato da poco scarcerato dopo tre anni di detenzione per associazione mafiosa.

3. Lo stesso imputato Cu. ha ammesso di essere stato a conoscenza dei rapporti tra il ca. e il Ma., noti mafiosi locali, anche se non aveva indicato la fonte da cui aveva tratto questa notizia, affermando che si trattava di voci provenienti da Villabate; era comunque a conoscenza che i Ma. erano soci occulti della società Enterprise di cui il ca. fungeva da prestanome.

Osserva infine questa Corte di legittimità che i giudici del merito, con esaustive argomentazioni, ancorate a precise e specifiche risultanze processuali correttamente indicate, hanno accertato:

1. Che il collaboratore di giustizia ca.fr. doveva ritenersi altamente attendibile è riscontrato anche e soprattutto in quella parte delle sue dichiarazioni che attenevano ai rapporti politico-mafiosi e alle vicende elettorali;

2. che la complessiva istruzione dibattimentale aveva fornito elementi specifici di riscontro anche esterno e di natura individualizzante alla tesi accusatoria della piena credibilità del ca., ed hanno poi individuato i plurimi riscontri acquisiti alle dichiarazioni del ca., richiamando in proposito anche le testimonianze di B.G.B. e Br.Fr..

Il primo – amico fin dall’infanzia del Cu., il quale gli aveva presentato il ca. "come un suo grande amico personale" e con il quale anche egli aveva stabilito un forte rapporto di amicizia – ha dichiarato che, nel corso di un incontro con il ca., costui gli aveva riferito che il Cu., qualche tempo prima, gli aveva comunicato di essere venuto a conoscenza che a carico di esso ca. erano in corso indagini per fatti di mafia.

Tale dichiarazione, pervenuta da un teste altamente attendibile e del tutto disinteressato, è stata correttamente ritenuta dai giudici di 2^ grado quale piena conferma di quanto riferito dal ca. e, cioè, che il Cu. gli aveva trasmesso la notizia della sua sottoposizione ad indagini antimafia.

Il secondo – anche egli amico del Cu. il quale gli aveva presentato il ca. del quale poi esso Br.Fr. era stato, unitamente al Cu., testimone di nozze – ha riferito di avere due volte incontrato l’uomo politico il quale, una prima volta, aveva manifestato la sua viva preoccupazione per una possibile collaborazione con la giustizia del ca. nei cui confronti erano state avviate indagini per fatti di mafia, ed una seconda volta aveva mostrato una evidente e fortissima preoccupazione per la circostanza (che egli riferiva al Br.Fr.) che il ca. si era pentito e aveva iniziato a collaborare con gli inquirenti.

Logica e convincente è, anche in tal caso, ad avviso di questa Corte regolatrice la conclusione cui è pervenuta sul punto la Corte di merito: "la deposizione del testimone Br.Fr., il quale riferisce che il Cu. aveva mostrato segni di viva preoccupazione per la collaborazione del ca. corrobora di ulteriori elementi il compendio probatorio a carico di Cu.

S., poichè il timore di quest’ultimo doveva essere necessariamente ed inequivocabilmente ricollegato al patrimonio conoscitivo del ca……….che aveva ricevuto dal Cu. nel corso del 2003 informazioni riguardanti la sua sottoposizione ad attività investigativa, solo così potendosi spiegare lo stato di forte preoccupazione dell’imputato nel successivo 2005, quando apprendeva che quegli aveva iniziato a collaborare con la giustizia, altrimenti non comprendendosi per nulla nè tale atteggiamento nè le ragioni di una siffatta confidenza del Br.Fr." (pagg. 529-530).

Ne consegue, pertanto, la infondatezza delle censure mosse dalla difesa secondo cui le dichiarazioni dibattimentali del ca. non avevano trovato alcun riscontro esterno individualizzante (pagg.

135-137 ricorso).

Tutto ciò evidenziato, i Giudici di 2^ grado hanno, al fine di riconoscere la notevole valenza probatoria dell’episodio idoneo a fungere da ulteriore elemento di riscontro circa la sussistenza della contestata circostanza aggravante, hanno posto in risalto – dopo aver ribadito che l’imputato Cu. era a conoscenza dei rapporti intercorrenti tra ca. e i Ma. – che l’imputato, anche in questa occasione, aveva posto in essere una condotta del tutto analoga a quella già adottata in altra occasione, nel giugno 2001, allorquando aveva rivelato la notizia segreta riguardante la sottoposizione ad indagini di Mi.Do. e al capo mafia Gu.Gi.; ed, invero, anche nella vicenda in questione, il Cu. aveva rivelato la sottoposizione ad indagine di un soggetto politico palesemente sostenuto da ambienti mafiosi estendendo la rivelazione con l’indicazione specifica degli associati mafiosi.

Ne consegue, quindi, che, sul punto, del tutto corretta logica e convincente è la considerazione della Corte di merito:

"si verificava quindi una condotta del tutto analoga a quella posta in essere in occasione della rivelazione al Mi.Do. ed al Gu.Gi., poichè una notizia che doveva rimanere segreta, appresa sempre tramite il medesimo canale informativo costituito dal Bo., che riguardava la sottoposizione ad indagini anti- mafia di un soggetto come ca. in contatto con il Cu., veniva dall’imputato rivelata all’interessato con l’espressa indicazione ulteriore degli associati mafiosi, i Ma., che erano coinvolti nella stessa indagine, determinando ancora una volta la divulgazione dell’informazione segreta agli associati mafiosi.

Ha spiegato, infatti, ca. che appresa la notizia, aveva avuto modo di riferirla con tempestività proprio a Ma.Ni. che così veniva a sapere dell’esistenza di indagini nei suoi confronti. ……….. Ed anche in tal caso ciò che occorre evidenziare è che la rivelazione della notizia circa la sottoposizione ad indagini non veniva limitata all’indicazione del solo nominativo del ca., e cioè di colui che era in contatto diretto con il Cu. e poteva rappresentare il soggetto in relazione al quale sussisteva un interesse personale dell’imputato, ma era estesa anche all’indicazione specifica degli associati mafiosi, i Ma. di Villabate, la cui frequentazione da parte di ca. aveva determinato gli investigatori ad estendere le indagini anche su quest’ultimo" (pagg. 521 -522).

Sulla base di tali ineccepibili valutazioni la Corte territoriale è pervenuta alla seguente condivisibile conclusione: " invero, ritiene questa Corte che la descrizione di un simile, accadimento, e, cioè, di un ulteriore episodio di trasmissione di notizie riservate riguardanti indagini antimafia che è bene ricordare non ha formato oggetto di alcuna autonoma ipotesi di reato, ad associati mafiosi e soggetti gravitanti nello stesso contesto, con la piena consapevolezza della natura illecita della condotta, funge da elevato riscontro esterno alle dichiarazioni già analizzate provenienti dal collaboratore Ar. ed all’ulteriore materiale probatorio già valutato in rapporto al primo episodio quello del giugno del 2001, circa la specifica volontà dell’imputato di agevolare non un singolo individuo allo stesso legato da rapporto di amicizia, nè un singolo esponente mafioso, bensì proprio l’organizzazione nel suo complesso, visto che le rivelazioni furono molteplici e tutte aventi ad oggetto persone coinvolte in indagini antimafia"(pag. 523).

In conclusione, quindi, ritiene questa Corte di legittimità che questo episodio di trasmissione esterna di notizie è stato, in maniera logica e coerente, valutato come riscontro esterno alle dichiarazioni accusatorie e soprattutto alla specifica volontà dell’imputato di agevolare, non un singolo individuo legato da rapporto di amicizia, bensì proprio l’organizzazione criminale mafiosa.

7.6.2.17 Episodi incontri Si.An..

La Corte territoriale, infine, ha richiamato ulteriori circostanze di rilievo riferite dal testimone Br.Fr., evidenziando quanto segue: "dichiarava ancora Br.Fr. che in occasione della campagna elettorale per le elezioni regionali del 1991, nelle quali il Cu. era candidato, aveva partecipato ad un incontro a cui era presente oltre lui stesso e il Cu. anche l’On.le Ma.

C..

In detta occasione era stato proprio il Ma.Ca. a convocare l’incontro poichè doveva parlare col Cu., alla sua presenza, di una cosa delicatissima; nel corso dell’incontro a tre, il Ma.Ca. aveva rimproverato aspramente il Cu. di essersi recato dall’associato mafioso Si.An. per chiedergli sostegno elettorale.

In tale occasione Cu. ammetteva di essersi recato, insieme a Ro.Sa., dal Si.An. per chiedergli sostegno alla propria candidatura.

Il Ma.Ca., in quell’occasione aveva rimproverato il Cu. dandogli dell’irresponsabile, in quanto, pur essendo stato avvertito della caratura mafiosa del personaggio, si era rivolto al Si.An. per chiedergli voti.

E’ appena il caso di segnalare che, escusso nel dibattimento di primo grado, Si.An., successivamente al 1991 tratto in arresto e poi divenuto collaboratore di giustizia, ha riferito analogamente della visita degli allora giovani Cu. e Ro.Sa. nella quale entrambi gli chiedevano apertamente sostegno elettorale" (pag.

530).

A tale proposito, già il Giudice di 1^ grado aveva anche evidenziato come il Si.An. – dopo aver riferito di altri due incontri avuti, a scopo elettorale, con il Cu., presenti nell’ultimo incontro i mafiosi Te. e Pu.Sa. – aveva precisato che in quella occasione "l’imputato dopo i convenevoli, chiedeva, senza mezzi termini, l’appoggio elettorale del Si.An., precisando che ci teneva molto ad essere il primo degli eletti del suo partito e che, secondo le sue previsioni, era molto vicino a tale obiettivo" (pag. 1137 sent. 1^ grado).

Precisava ancora il Tribunale "che il Si.An. riferiva che, avendo assunto con il Cu. l’impegno di garantire una consistente partecipazione all’incontro elettorale presso il Circolo dei Te. (famiglia di tradizione mafiosa della zona), aveva contattato numerosi esponenti mafiosi di alto livello, quali Pu.Sa., Ve.Co., D.M.S., Gi.Ni. e Be.Si. (uomo d’onore di Alcamo ma ospite in quel mandamento), chiedendo loro di portare molte persone per manifestare, in modo palese, un concreto sostegno al Cu." (pagg.1139-1140).

Ed ancora i giudici del merito hanno posto in risalto l’ulteriore circostanza riferita dal Br.Fr., che già prima dell’incontro su indicato, il Cu. gli aveva manifestato la sua intenzione di andare a trovare il Si.An., ed egli lo aveva fortemente sconsigliato di assumere tale iniziativa, spiegandogli che il Si.An. era legato alla mafia e gestiva per conto di Cosa Nostra gli appalti in Sicilia; aveva cioè messo al corrente di ciò il Cu. suggerendogli di non incontrare il Si.An., spiegandogli quale fosse il ruolo che la dimensione criminale di costui, soprannominato br., e definito "il ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra" (pagg.1035-1062 sent. 1^ grado).

Va, in proposito, messo in evidenza che i giudici di merito hanno ritenuto il Br.Fr. teste dotato di elevatissima attendibilità intrinseca e di una autentica e assoluta indifferenza rispetto al dichiarante (anzi ancora legato al momento dell’audizione da rapporto di amicizia con l’imputato Cu.), ed hanno richiamato le analoghe dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia ca.fr. (per averle apprese dallo stesso B. F.), evidenziando come tali dichiarazioni de relato avevano trovato riscontro nella fonte diretta; hanno richiamato, inoltre, le dichiarazioni del collaborante Si.An. che sono di pieno riscontro a quelle rese dal ca. e dal Br.Fr..

L’imputato, a sua volta, ha ammesso sia di essersi recato, insieme a Ro.Sa., dal Si.An. per chiedergli appoggio elettorale – (ammettendo l’incontro negli stessi esatti termini riferiti dal mafioso) – sia che l’On. Ma.Ca. si era molto arrabbiato con lui per tale incontro (proprio come riferito dal Br.Fr.), negando però di essere consapevole della mafiosità del Si.An.;

negazione della consapevolezza della mafiosità risultata, invece, del tutto falsa sulla base delle concordi dichiarazioni rese dal teste Br.Fr., e da quelle dei collaboratori di giustizia e dai numerosi incontri, prima ricordati, del Cu. con noti esponenti mafiosi presentatigli proprio dal Si.An..

Alla luce di quanto finora esposto, corretta ed immune da vizi logico- giuridici è, quindi, la conclusione della Corte di merito, secondo cui detti episodi, oltre agli altri precedentemente riassunti, forniscono prova di precise e specifiche condotte idonee a dimostrare che il Cu. in più occasioni ebbe modo di agevolare l’organizzazione mafiosa sia comunicando al ca. notizie riservate sia intrattenendo con la stessa quei rapporti in occasione di competizioni elettorali ripetuti nel corso del 2001 in occasione della candidatura Mi.Do. seppur con attori differenti.

Emerge cioè un quadro di rapporti e frequentazioni che è lo stesso sotteso alla condotta contestata nel 2001, in assenza di qualsiasi specifica ragione per ritenere che il Cu. avesse reciso tali legami e tale atteggiamento, quando l’appellato ben consapevole di trasmettere notizie illecite favoriva l’associazione sia mettendo in allarme il capomafia Gu.Gi. sia agendo nei riguardi del Mi.Do." (pag. 531).

7.6.2.18 Episodio candidatura Ac.Gi..

Analoghe considerazioni sono state formulate in ordine alla vicenda della candidatura Ac. dalla Corte di merito che, nel rimandare alla decisione di 1^ grado per quanto atteneva alla analitica descrizione dell’episodio, ha così motivato: "occorre rilevare come in proposito riferiva ca. che l’ Ac., soggetto che era già stato coinvolto in passato in grosse truffe finanziarie commesse nell’ambito dell’affare del c.d. mago dei soldi su.gi., poi ucciso dalla mafia, era divenuto un intimo collaboratore degli associati mafiosi Ma. i quali ed in particolare il Ma.

A. ne avevano sponsorizzato la candidatura alle elezioni regionali del 2001.

In tale circostanza il ca. aveva, una prima volta, incontrato Ro.Sa., componente dello stesso partito del Cu., per chiedergli appunto l’inserimento di Ac. nella lista Biancofiore precisandogli che si trattava di una candidato sostenuto dal gruppo di Villabate e da Ma.An.;

il Ro.Sa. competente per la formazione della lista aveva immediatamente assicurato l’inserimento di detto soggetto tra i candidati chiedendogli di fargli avere al più presto i documenti e mandandogli i saluti per il Ma.An. stesso.

Successivamente, sempre prima delle elezioni, ca. aveva incontrato il Cu. una notte intorno alle ore due ed in tale circostanza rappresentava al Cu. la volontà del Ma.

A. di sponsorizzare la candidatura di Ac. cosa che non sorprendeva assolutamente l’uomo politico il quale però gli faceva presente che la lista Biancofiore era nata con l’unica esigenza di determinare l’elezione di Bo. nei cui confronti aveva assunto un impegno inderogabile in quanto detto soggetto, riferiva il ca., lo avrebbe "coperto" dalle indagini giudiziarie e dai problemi che potevano nascere.

Nel corso del colloquio quindi il Cu. si era mostrato preoccupato del fatto che Ac. potesse riportare più voti del Bo. ed in tale contesto il ca. raffigurava al Cu. l’appoggio che la famiglia Ma. avrebbe assicurato ad Ac..

Orbene, anche in tal caso, così come nella contestuale vicenda della candidatura Mi.Do. sponsorizzata dal Gu.Gi., il Cu. pur essendo venuto a conoscenza della esistenza di una candidatura in una lista collegata alla sua, appoggiata da parte di soggetti organici all’associazione mafiosa che venivano individuati ed espressamente segnalati dal ca. appare avere aderito alla richiesta senza muovere alcuna obiezione"(pagg. 424 – 425).

La difesa ha censurato tale interpretazione e la valenza che la Corte territoriale ha attribuito a tale episodio come ulteriore riscontro ai fini della sussistenza dell’aggravante.

Ha sottolineato la difesa "la palese illogicità e contraddittorietà della motivazione, posto che sono gli stessi giudici a ricordare che, nella medesima lista Biancofiore ove è stato candidato Ac., era stato candidato Bo., a cui, nell’ottica della Corte d’appello, Cu. aveva promesso l’impegno a determinarne l’elezione quale ritorno per il suo ruolo di "informatore" sulle indagini, tanto che – come ancora sottolineato dai medesimi giudici d’appello – la candidatura di Ac. aveva preoccupato Cu. quale causa della possibile sconfitta di Bo. (cfr. sent. app., p. 525).

Non è quindi logicamente sostenibile – e perciò non è idoneo a fondare un’adeguata motivazione – l’assunto che Cu. avrebbe contemporaneamente sostenuto la candidatura di Ac. e Bo., nè che avesse accettato la candidatura di Ac. sapendolo "appoggiato" dai Ma., se contemporaneamente si vuole sostenere – come fanno i giudici di secondo grado – che la vittoria di Bo. rappresentava per Cu. un risultato necessario perchè legato a colui che rappresentava la fonte delle informazioni in merito alle indagini" (pagg. 137-138 del ricorso principale).

La doglianza è infondata per le considerazioni che seguono.

Per una migliore comprensione della vicenda è necessario richiamare alcuni passi della motivazione data sul punto dal Giudice di 1^ grado – (che, come è noto, si salda con quella resa dal Giudice di appello) – il quale ha svolto una quanto mai ampia disamina dei fatti riportando estesamente le dichiarazioni rese, ex art. 210 c.p.p., dal collaborante ca..

Da tale disamina risulta:

a) che l’eccessiva facilità con la quale il ca. aveva ottenuto dalla candidatura dell’ Ac. nella lista Biancofiore aveva insospettito il ca. (pag. 1121: "questo è un problema che mi sono posto io, perchè conoscendo il Cu. e conoscendo l’organizzazione mi pareva strano, eccessivo che Ro.

S. desse l’ok. Così, senza neanche sentire Cu.");

b) che, subito dopo aver ottenuto il benestare dal Ro.Sa., il ca. aveva immediatamente cercato il Cu. "dicendo che aveva urgentissimo bisogno di parlargli", e che era riuscito ad incontrarlo verso le due di notte a (OMISSIS) dove il Cu.

"arrivò con tutto lo staff che aveva dietro di campagna elettorale", e si fermò prima a parlare con Lo.Ra. e poi con lo stesso ca.;

c) che, nel corso del colloquio, il ca. gli riferì l’episodio della accettata candidatura dell’ Ac. nella lista Biancofiore, (collegata al candidato Presidente e, cioè, allo stesso Cu.), ma costui aveva reagito in modo diverso da quello che si aspettava il ca. ("mi aspettavo che si lamentasse per questa candidatura, proprio perchè ingombrante e proprio perchè proveniente da Ma.An.; cioè, in realtà, glissò su questa argomentazione nel senso che, comunque, dava per scontato della candidatura di Ac. perchè Sa. aveva detto sì e va bene": pagg. 1122 – 1123);

d) che la preoccupazione del Cu. non era l’ingombranza della candidatura Ac." bensì "quanti voti poteva avere Ac.", poichè la lista Biancofiore era stata pensata per portare il mar. dei CC. Bo.An. alla elezione – cui egli teneva moltissimo "perchè lo avrebbe coperto da indagini giudiziarie" – e un sol candidato sarebbe stato eletto; comunque il Cu. riteneva – in contrasto con quanto sostenuto dal ca., il quale accreditava l’ Ac. di 2 – 3.000 voti "perchè appoggiato dalla famiglia Ma." – che tale candidato "non avrebbe preso più di 500 voti", mentre egli "avrebbe portato il Bo. oltre la soglia dei quattromila voti";

e) che alle elezioni l’ Ac. aveva ottenuto circa duemila voti realizzando una buona affermazione che, tuttavia, non gli era stata sufficiente per essere eletto, posto che il Bo. aveva ottenuto circa quattromila voti di preferenza ed era stato l’unico eletto nella lista del Biancofiore (esattamente come voluto e previsto dal Cu.).

Ha chiarito poi il Tribunale che l’imputato aveva di fatto confermato l’episodio dell’incontro notturno con il ca. davanti al bar (OMISSIS);

ha precisato, invero, sul punto il Tribunale: "dopo avere, infatti, limitato a un può darsi (v. pag. 42 trascr.) la conferma del fatto, il Cu. finiva per riconoscere di avere discusso con il ca. della candidatura dell’ Ac. dopo che la stessa era stata avallata da Ro.Sa., responsabile del partito per la formazione delle liste" (pag. 1126).

Già dopo l’esposizione di tale circostanza, appare evidente come la contraddittorietà della motivazione della decisione della Corte di merito, dedotta dalla difesa, sia solo apparente ma non reale ed effettiva, ed è destinata ad essere definitivamente superata dalle ulteriori circostanze ancora evidenziate dal Tribunale, che integralmente si riportano: "Durante lo spoglio delle schede, il ca. era andato, insieme all’ Ac., presso l’Assessorato agli enti locali, dove avevano luogo le operazioni di scrutinio.

Ivi aveva incontrato il Cu. che già festeggiava la sua elezione a Presidente della Regione, atteso che lo spoglio delle schede relative all’elezione del governatore era avvenuto prima di quello dei candidati al parlamento regionale.

Dopo essersi appartati, il ca. aveva fatto presente al Cu. che la candidatura dell’ Ac., pur fallita, era stata fondamentale per l’elezione del Bo., in quanto aveva fatto scattare l’unico seggio a Palermo.

Ed invero, senza i voti ottenuti dall’ Ac., il seggio probabilmente sarebbe scattato a Trapani ed avrebbe premiato la lista dell’ex On.le gi. e non il Bo. (al quale Cu. teneva tanto).

La mancata elezione dell’ Ac. era dispiaciuta molto al Ma., il quale aveva richiesto al ca. ed al No. di fare da intermediari con Cu. per ottenere un posto di sottogoverno o un incarico per il suo candidato.

Il ca., pertanto, ne aveva più volte parlato al Cu., il quale si era dimostrato disponibile ad esaudire detta richiesta del Ma..

In una di tali occasioni, il Cu. aveva dato appuntamento nei pressi del mercato ortofrutticolo – in occasione di una sua visita istituzionale – al ca., al No., al Vi.An. ed all’ Ac. stesso.

Nel corso di tale incontro (al quale Cu. arrivò un po’ in ritardo per via dei suoi impegni) il neo-eletto Presidente aveva assicurato e ribadito che l’ Ac. avrebbe avuto l’incarico che richiedeva.

A conferma di ciò l’ Ac., dopo qualche tempo, era stato effettivamente nominato liquidatore di un paio di cooperative (una delle quali edilizia) con incarico retribuito.

Sul punto specifico in atti è stato prodotto il decreto assessoriale di nomina dell’ Ac. in relazione all’incarico suddetto, a riscontro della specifica dichiarazione del ca..

E lo stesso Cu., nel corso dell’esame, ammetteva l’esistenza di detto incarico, limitandosi a sostenere che si trattava, però, di un fatto di poco conto che avrebbe portato a un limitato beneficio economico" (pagg. 1129 – 1130).

Le circostanze esaminate spiegano agevolmente, ad avviso di questa Corte di legittimità, il comportamento del Cu. – rimasto sostanzialmente indifferente allorquando il ca. gli aveva riferito l’episodio della accettata candidatura dell’ Ac. nella lista Biancofiore – che tanto aveva meravigliato e sorpreso il ca. medesimo.

In sostanza:

1. l’esito finale del colloquio tra il ca. ed il Cu. era stato "l’inserimento di Ac. in lista" (così testualmente il collaboratore di giustizia ad una precisa domanda del P.M.: v. pag. 1125 che riporta quanto dichiarato dal ca. in dibattimento;

2. la candidatura dell’ Ac. era stata fondamentale per l’elezione del Bo., in quanto aveva fatto scattare l’unico seggio a Palermo;

3. il Cu., pur consapevole – come si è più volte evidenziato – della caratura mafiosa dei Ma. e pur conoscendo che l’ Ac. era stato sostenuto elettoralmente da tale famiglia (che si era impegnata in ogni modo con finanziamenti, stampa, distribuzione di fac-simili elettorali, ecc.), aveva conferito all’ Ac. un incarico.

Conclusivamente non può non convenirsi con la Corte di merito allorquando afferma che anche in tal caso – così come nella contestuale vicenda della candidatura Mi.Do., sponsorizzata ed appoggiata dal capo-mafia Gu.Gi. – il Cu., all’atto della formazione delle liste per le elezioni regionali del 2001 nelle quali egli si presentava alla carica di Governatore della Regione, ha sostanzialmente accettato la presentazione in una lista, collegata alla sua, di un candidato che egli sapeva essere appoggiata da soggetti organici all’associazione mafiosa – (e, cioè, la famiglia mafiosa dei Ma. di Villabate, vicinissima ai fiancheggiatori del capo assoluto di Cosa Nostra Pr.Be.) – che venivano individuati ed espressamente segnalati dal ca., esaudendo, poi, la richiesta di Ma.An. che aveva chiesto al ca. di parlare con il Presidente della Regione per far ottenere un posto di sottogoverno o un incarico per il suo candidato, non risultato eletto.

Per completezza di esposizione va ricordato che l’ Ac. – a seguito della decadenza del Bo. dal ruolo di deputato regionale per il suo coinvolgimento per le quali è stato arrestato e condannato in primo grado alla pena di anni undici di reclusione (e si ancora in attesa di conoscere l’esito definitivo della vicenda processuale, iniziata da molti anni) – è, quale primo dei non eletti, subentrato al Parlamento regionale siciliano.

Non vi è, quindi, alcun dubbio che, come ritenuto dalla Corte di merito, anche tale episodio costituisca riscontro di quella aggravante contestata nella similare e contestuale vicenda Mi.

D. – Gu.Gi..

7.6.2.19 Sistema di controinformazione.

Da ultimo, deve essere valutata la valenza attribuita dalla Corte di Appello al c.d. sistema di controinformazione, valenza contestata dalla difesa dell’imputato.

Di tale sistema, realizzato dal Cu. e dal traditore mar.

Bo., si è già in precedenza accennato mettendo in rilievo il carattere illecito, criminoso, di esso sul quale i Giudici del merito, e segnatamente quelli di 2^ grado, si sono a lungo soffermati riportando anche le sempre precise e riscontrate dichiarazioni di ca.fr. – strettamente legato, come si è visto, al sodalizio mafioso dei Ma. – il quale ha chiarito che la lista parallela o satellite del Biancofiore (collegata al candidato Presidente) era stata voluta dal Cu. solo per candidare e per far eleggere all’A.R.S. il mar.

Bo. alla cui elezione egli teneva moltissimo in quanto quest’ultimo "lo copriva dalle inchieste giudiziarie e dei problemi che potevano nascere da questioni di tipo giudiziario".

Può, quindi, ribadirsi che – sulla base delle dichiarazioni del ca. le quali convergono a pieno con quelle rese da Ar.Sa. – che il Cu. era stato l’autore consapevole di un accordo criminoso con il Bo., del quale, come si è prima accennato, faceva parte anche l’infedele sottufficiale R., finalizzato al disvelamento sistematico di notizie segrete su indagini in corso da parte dell’A.G. ed il beneficiario di un sistema privato di intelligence finalizzato alla tutela e alla impunità sua e del suo sistema di potere (pagg. 810 – 817 sent. 1^ grado).

Ma vi è di più: tale accordo criminoso deve, invero, essere inquadrato in un contesto mafioso ed, in proposito, non possono non condividersi le quanto mai logiche e convincenti argomentazioni espresse sul punto dai Giudici di 2^ grado (pagg. 537 e segg.).

La Corte di merito ha evidenziato che:

a) nel caso di specie, l’istruzione dibattimentale aveva dimostrato che il Bo. acquisiva informazioni attraverso soggetti con i quali era in contatto all’interno del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri e, principalmente, proprio mediante l’illecita cooperazione con il mar. R. che era il capo dell’ufficio tecnico di detto corpo;

b) orbene, il Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri è corpo che nella Regione Siciliana è deputato a svolgere esclusivamente indagini antimafia aventi ad oggetto la repressione di gravissimi fatti di reato ad opera dell’organizzazione mafiosa ed i contatti che questa pericolosa associazione poteva instaurare con membri della cd. società civile;

c) inoltre, detto organo nel corso di quegli anni compresi tra il 2000 ed il 2003 aveva anche in corso delicate indagini tese ad individuare ed arrestare i più famosi latitanti appartenenti all’organizzazione mafiosa "Cosa Nostra".

Da tali oggetti ve constatazioni, la Corte territoriale ha logicamente desunto che "il Bo., attraverso la propria attività illecita, mirava ad acquisire informazioni riguardanti proprio l’attività dell’associazione mafiosa ed i suoi contatti con esponenti esterni alla stessa non potendo ritenersi che diversi potessero essere gli scopi; tali notizie dovevano poi essere trasmesse all’utilizzatore finale di detto sistema controinformativo, e cioè proprio all’imputato Cu., che, pertanto, predisponendo tale sistema dimostrava inequivocabilmente di avere specifico e spasmodico interesse ad acquisire informazioni riguardanti proprio le indagini antimafia".

L’esattezza di tali conclusioni si ricava da quelle emergenze probatorie, prima evidenziate, che hanno dimostrato quali notizie vennero carpite illecitamente prima e poi diffuse attraverso il sistema controinformativo; in particolare – partendo dal dato generale che, come già si è rilevato, tramite Bo. (e R.), sono state acquisite informazioni aventi ad oggetto sempre o attività dell’associazione mafiosa o di soggetti in contatto con la stessa – basterà qui ricordare, tra le più importanti, l’episodio Mi.Do. – Gu.Gi. che riguardavano indagini sul mandamento mafioso di Brancaccio; l’episodio Ci. – R. – A., quest’ultimo indagato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., che riguardavano attività investigative in corso nel territorio di Bagheria, ad alta densità mafiosa;

l’episodio ca. che riguardava indagini nei confronti di costui per i suoi rapporti con i componenti dell’organizzazione "Cosa Nostra" e, precisamente, con la pericolosa famiglia mafiosa dei Ma. di Villabate, strettamente legata al latitante Pr.Be. e, cioè, a colui che era al vertice di tale organizzazione.

Si tratta sempre di informazioni carpite e trasmesse agli interessati, le quali hanno, in tutti i casi, pertanto, avuto ad oggetto le attività dell’organizzazione mafiosa o di soggetti in contatto con la stessa, e ciò dimostra, ancora meglio, quale era lo scopo, la funzione e la finalità di detto sistema controinformativo creato e sostenuto dall’imputato.

Si è in presenza di una condotta di raccolta e cessione di informazioni di natura investigativa che non è solo quella che deriva da uno stabile rapporto con Bo. finalizzato alla "tutela del solo Cu." da indagini relative alla sua attività pubblica, ma che si sostanzia in una raccolta di informazioni che hanno fatto riferimento anche ad un ambito – il contrasto a "Cosa Nostra" – che non avrebbe dovuto essere quello naturale del Cu..

Invero, l’interesse dell’imputato di conoscere preventivamente l’oggetto di indagini antimafia è del tutto estraneo ai normali interessi di un uomo politico, essendo, invece, l’intento dell’imputato palesemente teso ad impedire che fossero conosciuti i suoi rapporti, e del suo "entourage", con l’organizzazione mafiosa;

e tale dato denota certamente la volontà di agevolare l’organizzazione, e precipuamente una delle sue articolazioni fondamentali, quella che era incaricata di creare e mantenere rapporti con gli esponenti politici o della società civile; sicchè il movente dell’azione delittuosa contestata all’imputato – (caratterizzata dalla apposita convocazione del Mi.Do. e alla celere trasmissione della notizia segreta a costui perchè la facesse rapidamente conoscere al capo-mafia Gu.Gi.) – può certamente ravvisarsi in una abitualità di frequentazione da parte del Cu. di ambienti ed esponenti dell’associazione avendo le risultanze processuali, come si è più volte evidenziato, dimostrato molteplici rapporti dell’imputato con vari esponenti dell’organizzazione mafiosa.

A tali già accertati rapporti, va aggiunto quello evidenziato dal Pubblico Ministero nell’atto di appello – e fatto proprio dalla Corte territoriale (a pagg. 553 – 554) -e, cioè, una intercettazione del 7 settembre 2005 riguardante una conversazione ambientale tra bo.

f., soggetto pluricondannato per associazione mafiosa e delitti connessi, e ma.ro., altro componente dell’organizzazione "Cosa Nostra", nel corso della quale il bo.fr. fa riferimento a ripetuti passati incontri proprio con il Cu., specificando il luogo ove questi erano avvenuti e i contenuti dei colloqui, incontri, poi, non più proseguiti per i problemi giudiziari che avevano successivamente investito l’imputato.

Alla stregua di tali risultanze, ritiene questa Corte di legittimità che sono, senz’altro, da condividersi le conclusioni cui è pervenuta la Corte di merito (pag. 554):

Invero – se a tale ultima emergenza probatoria, si uniscono quelle relative agli accertati rapporti con Si.An. sia in occasione della prima richiesta di sostegno elettorale del 1991, sia in occasione della cena presso il tennis club alla quale parteciparono numerosi esponenti, anche di spessore, dell’organizzazione criminale, le assidue frequentazioni con un medico mafioso Ar.Sa. (oltre che con il Mi.Do. in stretto rapporto con il capo-mafia Gu.Gi.) e con il ca.fr., associato al sodalizio mafioso di Villabate, (legato strettamente al capo della mafia Pr.Be.), il rapporto, sia pur mediato dal Mi.Do., con G. G. al vertice della pericolosa famiglia mafiosa di Brancaccio, le dichiarazioni di Br.Fr. sull’atteggiamento critico dell’on. Ma.Ca. nei riguardi dell’imputato, proprio a ragione di tali rapporti – ne emerge un quadro complessivo certamente caratterizzato dall’accertata sussistenza di ripetuti contatti con vari esponenti dell’organizzazione, e ciò spiega quale sia stato l’atteggiamento psichico dello stesso all’atto della rivelazione della notizia al Mi.Do. e al Gu.Gi. e, cioè, al capo del mandamento mafioso di Brancaccio con il quale aveva stipulato un accordo politico-mafioso – concernente, appunto, interessi mafiosi – così agevolando, con il trasmettere la notizia relativa alle indagini che vertevano anche su tale rapporto – indagini che subivano così una gravissima interruzione e che venivano irrimediabilmente compromesse – soggettivamente e oggettivamente l’associazione criminale.

Alla stregua delle considerazioni esposte, risulta la infondatezza dei seguenti motivi di ricorso, che vanno disattesi e reietti, e, precisamente, del quarto, quinto, sesto, settimo, ottavo e nono del ricorso principale, del secondo e terzo dei motivi nuovi (del 23/12/2010) nonchè il secondo, terzo e quarto degli ulteriori motivi nuovi (del 30/12/2010) con i quali si è contestata la esistenza, sotto vari aspetti, ed, in particolare, sotto il profilo soggettivo, dell’aggravante prevista dal D.L. n. 152 del 1991, art. 7. 7.6.3 EPISODIO RIVELAZIONE R. – CI. – A. (capi N e O della rubrica).

L’episodio contestato all’imputato ai capi N) ed O) riguarda la comunicazione di notizie riservate da parte di Cu.Sa. all’imprenditore A.M., dapprima indirettamente il 20 ottobre, attraverso l’intermediazione di Ro.Ro., e poi, direttamente in occasione dell’incontro presso un negozio di abbigliamento di Bagheria avvenuto il 30 ottobre 2003.

Avverso il giudizio di responsabilità riconosciuto dalla Corte di Appello in ordine ai reati di cui all’art. 326 c.p., e art. 378 c.p., comma 2, la difesa ha articolato i motivi da dieci a dodici del ricorso principale e il quinto dei motivi nuovi, tutti da ritenersi infondati per le considerazioni che seguono.

7.6.3.1 Tale episodio risulta da una serie di elementi probatori analiticamente indicati nelle sentenze di merito, tali da non potere fare sussistere alcun dubbio in ordine alla sua veridicità storica.

I fatti, invero, sono stati, in primo luogo, descritti in tal senso dal coimputato Ro.Ro. che ha reso ampia confessione, risultano ammessi anche dall’infedele sottoufficiale R., il quale, in dibattimento, ha fornito un’autonoma ricostruzione degli accadimenti in termini perfettamente compatibili con quella del Ro.; risultano ancora ammessi anche dall’altro coimputato A.M. il quale, nel corso dell’istruttoria dibattimentale, ha precisato che "il Presidente della Regione gli aveva riferito che c’erano delle indagini in corso nei confronti del R. e del Ci." e gli aveva anche detto che "erano state messe in evidenza le telefonate tra lui (l’ A.), Ci. e R.", e consigliava di "essere prudenti" e di "aprire gli occhi".

I fatti, infine, trovano autonoma e più che certa spiegazione nelle conversazioni telefoniche sulla c.d. rete riservata installata dall’imprenditore di Bagheria, e precisamente: quelle svoltesi il 20 ottobre riguardanti il Mar. Ci. e tale pe.ma. – la segretaria della Procura della Repubblica di Palermo, addetta alla persona del Procuratore Aggiunto Dott. L.F. – la quale aveva formulato una raccomandazione per il marito da girare al Presidente Cu.;

quella tra l’ A. ed il cugino e socio C.A. dello stesso giorno e del giorno successivo (21-10-2003); quella tra il mar. R. e il mar. Ci., nonchè tra quest’ultimo e l’ A. il 21 ottobre ed infine quella, sulla nuova rete riservata intercorsa il 31-10-2003 tra l’ A. e il C..

Il contenuto di tali conversazioni è stato correttamente ritenuto dai Giudici del merito non solo riscontro e convalida della concorde ricostruzione degli accadimenti effettuata dal Ro., dal R. e dall’ A. ma, in alcuni casi, anche autonoma fonte di prova.

Sulla base di tali emergenze processuali l’episodio è stato così ricostruito dalla Corte territoriale (pagg. 442 e segg.): il 20 ottobre del 2003 Ro.Ro., collaboratore dell’ing. A., incontrava il Cu. il quale, dopo avergli detto di essere da poco rientrato da Roma, testualmente gli riferiva che doveva tranquillizzare l’ingegnere poichè la commissione stava completando i lavori per la determinazione delle tariffe delle prestazioni di radioterapia, e poi, si lamentava del fatto che vi era stata una telefonata tra il Maresciallo Ci. e l’ingegnere A. nel corso della quale si parlava di raccomandazioni da formulare al Presidente.

Il Cu., inoltre, gli precisava di avere appreso che il Maresciallo Ci. aveva problemi, era indagato, e lo invitava a comunicare tale fatto all’ingegnere; inoltre mentre Ro. stava per allontanarsi il Cu. aveva anche aggiunto del coinvolgimento di altro Maresciallo dei Carabinieri, il R., intendendo dire che anche questo soggetto era sottoposto ad indagini nell’ambito della stessa vicenda.

Dal contenuto delle conversazioni, nonchè dalle dichiarazioni dei soggetti coinvolti era ancora emerso che la sera stessa dell’informazione e, cioè, il 20 ottobre costoro si erano recati, su invito dell’ A., nei pressi dello studio dell’avvocato di quest’ultimo e che l’indomani il Ci. aveva poi appreso, attraverso altri suoi canali, conferma della veridicità dell’informazione proveniente dal Cu..

Infine, il 31 ottobre Cu. ed A. si incontravano nuovamente ed il primo confermava al secondo il contenuto dell’informazione segreta, come è risultato da ulteriori conversazioni intercettate sulla rete riservata che coinvolgevano l’ A.; detto incontro avveniva presso un pubblico esercizio (negozio di abbigliamento (OMISSIS) di Bagheria), ove il Cu. si recava predisponendo un accurato piano per impedire che altri, compresi i membri del suo servizio di scorta, ne venissero a conoscenza ed a tal fine A. veniva convocato sempre mediante intermediari senza l’uso di alcun apparecchio telefonico.

Ed, invero, il contenuto delle informazioni date dal Cu. risulta incontestabilmente anche dalla importante conversazione intercettata sulla nuova rete riservata (nel frattempo occasionalmente scoperta per una imprudenza del C.).

Si tratta della conversazione del 31-10-2003 tra l’ A. e il C. – immediatamente successiva al termine dell’incontro presso il negozio di abbigliamento (OMISSIS) – nel corso della quale l’imprenditore – dopo aver profferito, con riferimento proprio alla fase delle investigazioni riguardante l’esame del contenuto di conversazioni intercettate ("stanno commentando queste conversazioni"), l’espressione "anzi quello lo metteva in………per dire viri sti bastardi che stanno combinando", riferiva al cugino che il Cu. gli aveva poco prima comunicato: "però in considerazione di questo dice vabbè apritevi gli occhi", frase questa inequivocabilmente dimostrativa dell’avvenuto avvertimento dell’esistenza di indagini da parte dell’imputato in favore di terzi ai quali era legato da stretti vincoli di amicizia e interesse, raccomandando agli stessi di agire con la massima cautela.

Orbene, è proprio la logica ricostruzione dei fatti, operata con professionale correttezza dai giudici di merito, che evidenzia la sussistenza degli accertati delitti posti in essere con le medesime modalità di trasmissione dei dati a soggetti che il Cu. sapeva in rapporto di frequentazione con gli interessati ai quali necessariamente avrebbero riferito con prontezza le notizie.

Sul punto deve osservarsi che aderenti alle risultanze processuali sono le argomentazioni della Corte di merito:

1. grazie ai suoi canali informativi l’allora Presidente della Regione Siciliana aveva acquisito la notizia riservata ed, anche in tal caso, si adoperava in più occasioni per metterne a conoscenza quel soggetto, e cioè A.M., "al cui soldo i due Marescialli prestavano illecito e stabile servizio come inequivocabilmente dimostrato dalla vicenda della c.d. rete riservata e dai frequentissimi contatti ed incontri tra i tre". 2. Il Cu., nell’atto di trasmettere la notizia al Ro. prima e ad Ai. in persona poi, aveva avuto piena consapevolezza che questi l’avrebbe trasmessa a quei soggetti con i quali era in contatto e, cioè, gli infedeli sottoufficiali Ci. e R..

Ha osservato opportunamente in proposito la Corte di merito come non potesse omettersi di segnalare che, anche nell’episodio dell’ottobre del 2003, il Cu. avesse tenuto una condotta del tutto analoga a quella posta in essere nel precedente giugno del 2001 e ciò, non a caso, ma in quanto espressione di una ben precisa modalità operativa; invero, individuato l’interessato finale ( Gu.

G. nel primo caso, Ci. e R. nel 2003), il Cu. ha effettuato la trasmissione dell’informazione non direttamente agli stessi, bensì sempre a soggetti che risultavano però in rapporti di frequentazione con gli interessati, così dando vita alla catena di rivelazioni che permetteva l’apprendimento dell’informazione da parte degli indagati medesimi.

Infatti, l’imputato era a conoscenza dei rapporti personali intercorrenti tra l’imprenditore ed i due sottufficiali e conosceva personalmente anche gli stessi al punto da avere chiesto ed ottenuto in almeno tre occasioni la collaborazione del R. in persona, quale soggetto di piena fiducia al quale aveva delegato l’incarico di effettuare adeguate "bonifiche" presso la sua residenza personale e gli uffici ove prestava servizio al fine di essere messo in guardia da possibili intercettazioni.

Conseguentemente, gli accertati rapporti di sostanziale dipendenza tra il Cu. e gli infedeli Marescialli Bo. e R., dimostrano, come accertato dalla Corte territoriale, l’intesa dell’imputato con i due sottoufficiali – (il Bo., anche quando era in aspettativa per ragioni elettorali, grazie alle sue pregresse entrature nell’Arma, era in grado di anticipare la conoscenza delle indagini) – con la conseguenza che il giudice di merito ha raggiunto la prova dell’intesa dell’imputato con il pubblico ufficiale (di qui l’infondatezza anche bdell’undicesimo motivo del ricorso principale).

Va, in proposito, richiamato il principio affermato da questa Corte regolatrice, già evidenziato nell’esaminare la posizione dell’imputato A.M. (Cass. N 37531/07, RV 238029), osservando anche che i Giudici di secondo grado hanno fatto, del resto, corretto richiamo alla interpretazione giurisprudenziale secondo cui "integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti di ufficio la divulgazione da parte dell’extraneus del contenuto di informative di reato redatte da un ufficiale di polizia giudiziaria, realizzandosi, in tal modo, una condotta ulteriore rispetto a quella dell’originario propalatore" (Cass. N. 42109 del 14- 10-2009, RV 245021), con la conseguenza che, a maggior ragione deve ritenersi la rilevanza penale della condotta di chi, appresa la notizia, la riferisce poi addirittura ai diretti interessati e, cioè, ai soggetti coinvolti dalle indagini o ad individui in diretto contatto con gli stessi.

Osserva ancora questa Corte di legittimità che la condotta posta in essere dal Cu. non fu solo astrattamente idonea ad agevolare gli indagati, comunicando loro dati non conosciuti relativi alla loro sottoposizione ad investigazioni, ma lo fu, come accertato dai giudici di merito, anche in concreto, in quanto, a seguito di tale informazione, tutti i soggetti coinvolti si adoperarono di concerto tra di loro e predisposero ulteriori precauzioni.

In proposito, la Corte territoriale ha, con argomentazioni del tutto logiche e con riferimento a precisi elementi fattuali, spiegato quale fu in concreto l’effetto del disvelamento e le conseguenti iniziative assunte dall’ A., dal Ci., dal R. ed anche dal C., tutte tendenti ad ottenere conferma delle notizie e a cautelarsi ulteriormente.

Ed, invero, la Corte di merito, nel richiamare l’episodio del 20 ottobre, ha così argomentato: "e che la notizia fu davvero dirompente per l’intero gruppo risulta dalla circostanza che l’ A., sentitosi evidentemente accerchiato, essendo stati posti sotto controllo anche i suoi più fidi servitori, organizzava immediatamente un incontro tra gli tutti gli stessi che si svolgeva nella immediatezza dei fatti la sera stessa del 20 ottobre nei pressi dello studio del difensore dell’ingegnere, ed in occasione del quale, ben lungi dal non dare peso alcuno ai fatti, ognuno degli interessati si riprometteva di intraprendere ulteriori iniziative tendenti ad ottenere la conferma della notizia della avvenuta iscrizione dei due rappresentanti delle forze dell’ordine e si organizzava inoltre un rapido aggiornamento degli apparecchi utilizzati dalla c.d. rete riservata", rete, che, come si è più volte evidenziato, e per come riferito dallo stesso R., era stata creata dall’ A. per proteggersi dalle indagini.

Sulla base di questi non contestabili dati probatori è del tutto logico l’accertamento del giudice di merito relativo all’elemento soggettivo, anche in considerazione che se il Cu. avesse voluto comunicare ad A. esclusivamente i dati relativi alla approvazione delle tariffe, avrebbe interloquito o con il solo Ro. ovvero con lo stesso A., ma senza le modalità di segretezza all’interno di un esercizio di rivendita di articoli di abbigliamento.

In conclusione, i Giudici di 2^ grado hanno, in maniera logica e convincente e con argomentazioni immuni da vizi giuridici, considerato le particolari modalità della condotta disvelatrice di notizie quali dati evidenzianti il dolo diretto del prevenuto di comunicare agli interessati la loro sottoposizione ad indagine, ed ha puntualmente esaminate e disattese, una per una, le doglianze contenute nell’atto di appello, a differenza di quanto assume la difesa.

7.6.3.2 Ne consegue, quindi, l’infondatezza del decimo motivo del ricorso principale, con il quale si contesta anche il difetto di motivazione in ordine alla individuazione delle finalità e dei destinatari dell’informazione fornita dal Cu..

Il granitico compendio probatorio prima evidenziato dimostra la assoluta inconsistenza della deduzione difensiva secondo la quale "l’intenzione di Cu. non era affatto quella di fornire una informazione destinata a consentire ad A. e altri di eludere le investigazioni a loro carico, bensì quella di sollecitargli ad evitare che coinvolgessero lui stesso nei suoi discorsi, con il rischio di coinvolgerlo nelle investigazioni tenuto soprattutto conto che nel frattempo egli stesso era stato sottoposto ad indagini per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa" (pag.148 ric.).

7.6.3.3 Il contenuto delle notizie disvelate al Ro. prima e successivamente all’ A. personalmente non riguarda gli aspetti di tutela personale di cui alla scriminante prevista all’art. 384 c.p. con conseguente infondatezza del dodicesimo motivo del ricorso principale.

A questo proposito non sono illogiche le considerazioni del giudice di appello che ha ritenuto insussistente una qualche ragione per cui, al fine di impedire il proprio coinvolgimento nei fatti, il Cu. abbia dovuto comunicare a Ro. prima e ad A. poi la sottoposizione ad attività investigative del Ci. e del R..

7.6.3.4 Sempre in ordine all’episodio in questione deve, infine, essere esaminato il quinto degli ulteriori motivi nuovi (del 30/12/2010) con il quale la difesa contesta che il Cu. fosse a conoscenza che i due sottufficiali erano indagati per condotte connesse alle attività dell’organizzazione mafiosa, con la conseguenza della insussistenza della contestata aggravante prevista dall’art. 378 c.p., comma 2.

La censura è infondata.

Invero – a parte la considerazione che l’aggravante in esame ha natura di circostanza oggettiva e sussiste per il solo fatto che il soggetto favorito sia associato all’organizzazione criminosa di stampo mafioso (Cass. Sez. 2^ n. 35266/07, RV 237849) – va rilevato che la Corte di merito ha desunto la consapevolezza del Cu. della sottoposizione dei soggetti favoriti A., Ci. e R. ad indagini per fatti di mafia con argomentazioni adeguate e convincenti, prive di vizi logico-giuridici.

Sono state, innanzitutto, messe in risalto le modalità quanto mai sospette e segrete dell’incontro tra il Cu. – già in quel momento indagato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa – e l’ A., anch’egli indagato per associazione mafiosa.

L’incontro, quindi, nel corso del quale il Cu. aveva riferito all’ A. delle indagini nei confronti del Ci. e del R., era stato caratterizzato da modalità del tutto anomale e sintomatiche di una spasmodica ricerca di segretezza e, quindi, da comportamenti fortemente sospetti connessi al loro stato di soggetti indagati (per reati di mafia).

E’ stato, altresì, messo in risalto che l’imputato era perfettamente consapevole – per i motivi ampiamente esposti in precedenza – che il R. era colui che aveva dato origine alle rilevazioni di notizie segrete che erano pervenute al capo del mandamento mafioso di Brancaccio, pluricondannato per associazione, Gu.Gi., rivelazioni che avevano, come pure si è già diffusamente evidenziato, coinvolto lo stesso Cu. il quale era stato, in data 1^ luglio 2003, interrogato dai Pubblici Ministeri siccome indagato per il delitto di cui agli artt. 110 e 416 bis c.p. proprio per rispondere dei rapporti con soggetti in stabile contatto con "Cosa Nostra" (il Mi.Do.) o addirittura organici dell’associazione (il Gu.Gi.), sicchè al momento della commissione della condotta in esame gli era perfettamente noto il coinvolgimento del R. in investigazioni che avevano ad oggetto tale episodio.

E’ stato, infine, messo in evidenza che la rivelazione in esame si collocava nel contesto del sistema di controinformazioni e, cioè, di quel sistema che, come, peraltro, si è già ampiamente evidenziato, era stato realizzato dal Cu. e dal Bo., con la connivenza del R. (e, cioè, di due appartenenti al ROS, organo deputato alle indagini antimafia), proprio al fine di acquisire – e riferire al Cu. – informazioni riguardanti, appunto, l’attività dell’associazione mafiosa o di soggetti in contatto con la stessa.

7.6.3.5. Infondato è, infine, l’ulteriore motivo, proposto dall’imputato con atto separato del 7/6/2010, relativo al trattamento sanzionatorio e alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

La Corte di merito ha, invero, puntualmente e correttamente motivato in proposito richiamando innanzitutto la rilevante gravità delle condotte di rivelazioni di notizie segrete poste in essere dal Cu., "avuto riguardo, non soltanto alla natura dei soggetti coinvolti ed al contenuto delle informazioni illecitamente divulgate che avevano ad oggetto sempre attività di investigazione antimafia, ma anche al ruolo pubblico ricoperto dall’imputato"(pag. 627 sent. 2^ grado).

Esatta, quindi, la connotazione di "assoluta particolarità e gravità delle condotte in questione, in quanto commesse nel contesto di un sistema di controinformazione (in un certo senso di controspionaggio), che funzionava grazie all’infedele operato di altri componenti delle Istituzioni – con il reiterato e costante tradimento delle stesse Istituzioni di appartenenza – "e ciò denota una intensità del dolo di non poco rilievo" (pag. 628).

Il ricorso del Cu. deve, pertanto, essere rigettato.

7.7 RO.RO..

7.7.1 I primi due motivi di ricorso proposti nell’interesse di Ro.Ro. – dipendente dell’ A. nel settore sanitario – costituiscono censure in fatto di una decisione fondata su parametri di logicità che non sono viziati da manifesta incongruenza in quanto ancorati a dati processuali di fatto ammessi dalla confessione del ricorrente.

I giudici di merito hanno, infatti, considerato che il Ro., dipendente di A., persona di sua assoluta fiducia ed incaricato di risolvere la problematica dell’approvazione del tariffario dei rimborsi radiologici, consigliere comunale di Bagheria nello stesso schieramento politico di Cu., ha fatto parte della rete telefonica riservata di cui conosceva le finalità di segretezza ed è stato concreto intermediario tra il Cu. e l’ A..

Come si è già accennato nell’esaminare la posizione dell’imputato Cu.Sa., il Ro. ha ammesso di avere incontrato il 20 ottobre 2003 il Cu. il quale gli riferiva di tranquillizzare l’ingegnere poichè la commissione stava completando i lavori per la determinazione delle tariffe delle prestazioni di radioterapia e poi si lamentava del fatto che vi era stata una telefonata tra Ci. ed A. nel corso della quale si parlava di raccomandazioni da formulare al Presidente.

Cu. al riguardo gli precisava di avere appreso che Ci. aveva problemi, era indagato e lo invitava a comunicare tale fatto all’ingegnere; inoltre, mentre Ro. stava per allontanarsi, Cu. aveva anche aggiunto del coinvolgimento di altro maresciallo dei carabinieri, il R., intendendo dire che anche questo soggetto era sottoposto ad indagini nell’ambito della medesima vicenda.

Ro. ha ammesso di avere subito informato l’ A. e i fatti sono stati ammessi anche da A. e R. e trovano riscontro in quattro telefonate della rete riservata, come accertato dalla Corte territoriale (v. pagina 442).

Il ricorrente ha, inoltre, partecipato all’incontro del 20 ottobre in via (OMISSIS) tra i vari soggetti interessati alle rivelazioni del Cu., con ciò essendosi integrato il contestato delitto avendo il Ro. rivelato agli interessati o, comunque, a persone a diretto contato con le stesse, quanto saputo dal Cu., vale a dire che i due sottufficiali erano oggetto di indagine.

E’ evidente la rilevanza penale ai fini del delitto di favoreggiamento di simile condotta volta ad eludere le investigazioni nei confronti anche di A. – (non è illogico avere ritenuto la partecipazione alla rete riservata come dato di consapevolezza del Ro. delle indagini disposte su A. sin dalla fine dell’anno 2002) – condotta che, di per sè, costituisce rivelazione di notizie riservate per avere dato ulteriore divulgazione all’avvenuta iscrizione dei due marescialli nel registro degli indagati (Cass. 6^, n. 42109 del 14.10.08, rv. 245021; Cass. 6^, n. 35647 del 17.5.04, rv. 229408).

Coerente la valutazione da parte della Corte di merito di non casualità della partecipazione del Ro. all’incontro della sera del 20 ottobre tra tutti i soggetti interessati alle rivelazioni di Cu., incontro cui aveva partecipato avendo accompagnato l’ A. che, in sua presenza, informò il Ci. ed il R. delle indagini nei loro confronti.

In definitiva la piena consapevolezza del prevenuto della sottoposizione ad indagini dell’ A. è stata debitamente accertata e ritenuta dai Giudici di merito.

7.7.2 Il motivo di ricorso in ordine alla quantificazione della sanzione è inammissibile in quanto la pena è stata determinata in misura prossima la minimo edittale avendo il giudice di merito debitamente considerato l’entità dei fatti e l’intensità del dolo.

7.7.3 Le stesse considerazione che hanno indotto i giudici di primo grado a concedere le attenuanti generiche e la sospensione condizionale (vedi detta sentenza rispettivamente alle pagine 1603 e 1613) dovevano peraltro essere considerate dalla Corte di appello per concedere l’ulteriore richiesto beneficio della non menzione, beneficio in ordine al quale il giudice di secondo grado non ha espresso argomentazioni.

Sul punto, la sentenza deve essere annullata e la non menzione viene direttamente disposta da questa Corte di legittimità in quanto, dalle sentenze di merito e dai documenti di cui la Corte può prendere visione, risulta che il Ro. è incensurato e non emergono elementi diversi di prognosi comportamentali sfavorevoli (Cass. 2^, 26.3.2010 n. 24742, rv. 247747; Cass. 5^, n. 21049 del 18.12.03, rv. 229233).

La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata relativamente alla omessa concessione della non menzione, con declaratoria di inammissibilità dei restanti motivi di ricorso.

7.8 I.L..

7.8.1 I ricorsi (del 3/6 e 5/6 2010) proposti nell’interesse di I.L. – direttore del distretto sanitario di base di Bagheria, imputato dei reati di truffa aggravata continuata in concorso con A.M. – sono inammissibili sia perchè reiterativi di analoghe prospettazioni idoneamente considerate dal giudice di merito, sia perchè proponenti una ricostruzione di fatti diversamente e compiutamente valutati dalla Corte territoriale.

Al riguardo deve essere operato un necessario rinvio alle considerazioni prima esposte con riferimento alle analoghe doglianze contenute nel ricorso di A.M. specialmente con riferimento alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di truffa e con riguardo anche ai rimborsi in favore di pazienti non residenti nella provincia di Palermo.

Deve, inoltre, rilevarsi che i giudici di merito hanno considerato, con valutazione non censurabile sotto il profilo della logicità, che la prova della personale responsabilità del ricorrente in ordine al delitto di truffa è nella costante e ripetuta attestazione da parte dello I. di avere effettuato i dovuti controlli sanitari ed amministrativi sulle richieste di rimborso provenienti dalle cliniche dell’ A. senza che mai detti controlli fossero effettuati, omettendo dolosamente di rilevare che per ogni paziente venivano effettuate più richieste.

Non si è trattato di semplice connivenza, ma di una vera e propria collaborazione tra lo I. e l’ A., stante la disposizione conferita al subordinato medico G. di sottoscrivere tutte le ricette attestanti la necessità della prosecuzione dei trattamenti radioterapici, richieste strumentali alla consumazione della truffa.

Altro dato probatorio, debitamente apprezzato dal giudice di merito, elemento che unisce le responsabilità del ricorrente con quelle dell’ A. è costituito dall’avere lo I. prontamente comunicato al predetto l’intervento dei Nas nei mesi di giugno e settembre 2003.

I giudici del merito hanno, inoltre, non illogicamente considerato la predisposizione di tariffe superiori di dieci volte a quelle normalmente praticate nel momento del passaggio dalla assistenza indiretta a quella del convenzionamento.

E’ evidente, poi, che non può essere dedotto travisamento del fatto solo perchè altri funzionari della ASL, quali la L.B. A., siano stati corrotti dall’ A., essendo questa circostanza estranea alla consumazione del delitto la cui parte offesa non è certo un singolo funzionario.

Inoltre, il motivo inerente il diniego di nuova perizia – motivo proposto come mancata assunzione di prova decisiva – è inammissibile, in quanto costituisce principio di legittimità che la perizia, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non è compreso nel concetto di prova decisiva.

Conseguentemente deve negarsi che l’accertamento peritale possa ricondursi al concetto di prova decisiva, la cui mancata assunzione costituisce motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. d) (Cass. 4^, 22.1.07 n. 14130, rv. 236191; Cass. 6^, 12.2.03 n. 17629, rv. 226809; Cass. 6^, 17.1.97 n. 275, rv. 206894;

Cass. 5^, 21.6.97 n. 6074, rv. 208090).

Ciò senza considerare che non possono essere oggetto di censura per mancata assunzione di prova decisiva le prove sollecitate al giudice ex art. 507 c.p.p. (Cass. 3^, n. 24259 del 27.5.2010, rv. 247290;

Cass. 1, n. 16772 del 15.4.2010, rv. 246972), ovvero richieste nel corso del giudizio di appello, non trattandosi di prova sopravvenuta o che non poteva essere richiesta in primo grado.

Non è, comunque, superfluo ricordare che la documentazione richiesta dal ricorrente è stata acquisita con il sequestro presso il distretto di Bagheria, non essendo state le pratiche dolosamente trasmesse alla ASL di Palermo proprio per evitare controlli.

In ordine alle fatture, il giudice di merito ha debitamente considerato la deposizione testimoniale del maresciallo d.p. e dell’amministratore giudiziario dott. da.: il primo ha riferito sulla frammentazione delle fatture e sull’esorbitante aumento delle tariffe medie per paziente procedendo anche ad una elencazione esemplificativa dei rimborsi liquidati per ciascun paziente, elencazione emblematica dell’accertato delitto che non poteva essere posto in essere senza la diretta complicità del ricorrente.

Il secondo, in ordine alla decuplicazione delle richieste di rimborso ed al ritorno, con la sua dirigenza, a valori simili agli anni precedenti il 2000, pur coprendo i costi di gestione e mantenendo gli stessi livelli quantitativi e qualitativi di prestazioni ai pazienti assistiti.

Va, in definitiva, affermato che l’indagine di merito è stata completa in quanto con l’informativa dei Nas è stato riferito che i Carabinieri hanno esaminato oltre 6.000 pratiche di rimborso e, quindi, pressochè la totalità delle pratiche di assistenza indiretta riferibili alle strutture sanitarie dell’ A..

Tutte le doglianze proposte per negare la sussistenza del dolo si sostanziano in affermazioni assertive di negazione degli accertamenti del giudice di merito.

L’apparente proposizione di doglianze legate a presunti vizi di motivazione rappresenta una riproposizione di medesime questioni di fatto superate dalle argomentazioni esaminate anche con il riferimento al ricorso dell’ A..

Il dolo si desume dalla natura infida dei meccanismi ingannatori predisposti dallo I. in concorso con A., essendo ininfluente la consapevolezza di ogni concorrente di tutti gli atti posti in essere dagli altri compartecipi anche come conseguenza degli sviluppi del piano criminoso.

E’, quindi, irrilevante la conoscenza da parte dello I. dell’intero agire di A., essendo sufficiente che l’imputato, come da sua ammissione, fosse consapevole del fenomeno di frammentazione e proliferazione delle richieste di rimborso, e che partecipò attivamente all’azione truffaldina, predisponendo i ruoli banca, come richiesti dalle due strutture private, dando disposizione agli impiegati che in ciascun ruolo non comparisse due volte lo stesso nominativo di paziente.

Manifestamente infondati sono, conclusivamente, sia i primi quattro motivi del ricorso del 3 giugno 2010 che il primo dei motivi del successivo ricorso del 5 giugno.

7.8.2 Del tutto infondato è il quinto motivo del ricorso del 3 giugno con cui si deduce la violazione degli artt. 81 e 640 c.p..

Invero, è del tutto corretto ritenere il reato come continuato, essendo i comportamenti integranti la truffa pacificamente diretti a costituire ingiusti profitti in favore di due soggetti giuridici differenti (società Villa (OMISSIS) s.r.l. e società A.T.M. (OMISSIS) s.r.l.).

Non si tratta quindi – come pretestuosamente ritiene la difesa – "di un solo reato" e, quindi, non andava applicato alcun aumento della pena ai sensi dell’art. 81 c.p., bensì di due distinte ipotesi di truffa (debitamente contestate) e ritenute dai Giudici del merito, con adeguata motivazione, essendo state commesse in esecuzione di un medesimo disegno criminoso.

7.8.3 Non possono, ancora, essere dedotte doglianze in ordine alla sussistenza dell’aggravante del danno di particolare entità (6^ motivo del ricorso del 3 giugno) e, quindi, in ordine alla quantificazione della sanzione, poichè è lo stesso ricorrente a riconoscere che il danno ammonta a milioni di Euro, mentre non ha rilievo l’omesso accertamento di diretti profitti ricavati dal ricorrente in conseguenza del delitto posto in essere.

7.8.4 Manifestamente infondato è, infine, il secondo motivo del ricorso del 5 giugno relativo alla concessione delle attenuanti generiche che sono state correttamente negate dal Giudice del merito in considerazione della estrema gravità dei fatti commessi ed accertati ed il grave coinvolgimento negli stessi di un rappresentante delle istituzioni con reiterato e costante tradimento della stessa istituzione pubblica di appartenenza.

Il ricorso dello I. deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

7.9 P.S..

7.9.1 Il primo motivo di ricorso proposto nell’interesse di P.S. – dipendente dell’A.S.L n 6 di Palermo con la qualifica di collaboratore amministrativo, ed imputato del reato ex art. 318 c.p. – è manifestamente infondato.

Innanzitutto, la maggior parte delle doglianze difensive si risolvono in non consentite censure in punto di fatto le quali, pertanto, non intaccano la ampia, corretta e convincente motivazione della Corte territoriale che ha cosi argomentato: "Il P. è stato condannato alla pena di mesi nove di reclusione in quanto ritenuto responsabile del delitto di corruzione consumato nei suoi confronti dall’ A. che ne avrebbe retribuito illecitamente le prestazioni svolte quale dipendente dello stesso distretto sanitario di Bagheria, ove lavoravano anche I.L. e G.M., in particolare versando una somma pari a 15.000.000 delle vecchie lire.

Parallelamente, l’ A. veniva ritenuto colpevole della corruzione attiva contestata al medesimo".

In proposito, i Giudici di merito, a fondamento dell’affermazione di responsabilità del prevenuto, hanno posto elementi probatori ricavati "dall’analisi delle dichiarazioni accusatorie confessorie rese dall’ A. il quale ammetteva di aver versato somme di denaro contante al P. che aveva avanzato, in più occasioni, richieste in tal senso all’imprenditore, finalizzate a sovvenzionare altre attività private, quale la gestione di una piccola spiaggia privata, svolte da parte del pubblico dipendente" (pagg. 608 – 609 sent. 2^ grado).

Inoltre, del tutto logica e convincente è l’ulteriore considerazione della Corte di merito che ha fondatamente escluso che gli importi ammontanti a ben 15.000.000 di lire, consegnato in più riprese, potessero essere considerati come donazione di valore così modico da farle ritenere del tutto sganciate da un rapporto di sinallagma tra atto di ufficio e donazione; viceversa, secondo il logico argomentare della Corte territoriale "era pacificamente emerso all’esito dell’attività istruttoria dibattimentale che l’ A., perseguendo un ben preciso schema operativo, era solito corrompere quei pubblici ufficiali ( R., Ci., G., P., L. B. che, o potevano fornirgli notizie riservate o che avevano un ben preciso ruolo nei procedimenti amministrativi che riguardavano le sue attività imprenditoriali.

E proprio in questo contesto è emerso che diffuse pratiche corruttive venivano poste in essere da A. nei riguardi di tutti coloro i quali ricoprivano una posizione tale da poter eventualmente sindacare gli artefizi posti in essere nei rimborsi delle prestazioni radioterapiche" (v. pag. 612 sent. impugnata).

Tanto è stato incontestabilmente accertato dalla Corte territoriale che ha rilevato l’interesse dell’ A. per l’opera del P. nel vedersi prontamente compilati i prospetti riepilogativi contenenti i nominativi dei pazienti per i quali era avanzata richiesta di rimborso presso la ASL 6, in modo rapido e tale da non consentire, all’ente incaricato di effettuare i pagamenti, di accertare la presenza di nominativi ripetuti, che avrebbero potuto mettere in allarme i rispettivi funzionari, fatto che costituisce l’oggetto delle truffe conseguenti a plurime fatturazioni della stessa prestazione.

L’imputato ha riconosciuto in sede di interrogatorio al P.M. – acquisito agli atti del giudizio ai sensi dell’art. 513 c.p.p. – di avere avuto dal direttore sanitario dott. I.L. l’incarico di inserire i nominativi dei pazienti senza ripetere nello stesso elenco il medesimo nominativo per più di una volta, con ciò dimostrando di essere perfettamente a conoscenza dell’artifizio posto in essere dal privato e diretto a trarre in inganno la parte pubblica chiamata a retribuire la prestazione sanitaria fornita a titolo di assistenza indiretta per la quale pure prestava servizio.

Manifestamente infondate sono, poi, le ulteriori doglianze secondo cui "L’organo giudicante di 2^ grado ha errato nella qualificazione del fatto di reato in relazione alla qualità soggettiva dell’imputato quale pubblico ufficiale ed, in particolare, come incaricato di pubblico servizio".

Nella fattispecie vale, invero, il principio di legittimità che statuisce in merito alla configurabilità del delitto di corruzione non essere determinante il fatto che l’atto d’ufficio o contrario ai doveri d’ufficio sia ricompreso nell’ambito delle specifiche mansioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio, ma è necessario e sufficiente che si tratti di un atto rientrante nelle competenze dell’ufficio cui il soggetto appartiene ed in relazione al quale egli eserciti, o possa esercitare, una qualche forma di ingerenza, sia pure di mero fatto (Cass. 6^, 2.3.2010 n. 20502, depositata 28.5.2010, rv. 247373).

E’ stato, poi, debitamente escluso, in punto di fatto, che il ricorrente sia stato un operatore meramente manuale, (effettuava, infatti, controlli a campione sui pazienti e si recava presso le cliniche a verificare la correttezza della documentazione).

Lo stesso, in concreto, influenzò il procedimento amministrativo nella qualità di incaricato di pubblico servizio con mansioni di fatto di complemento ed integrative delle funzioni pubbliche attribuite alle autorità sanitarie, essendo il P. titolare di attività con esercizio di poteri discrezionali, che contribuì ad evitare effettivi controlli sulla regolarità delle richieste di rimborsi.

7.9.2 Le doglianze in ordine alla omessa concessione di attenuanti generiche, (contenute nel secondo motivo di ricorso), sono manifestamente infondate in quanto il giudizio relativo alla concedibilità di dette attenuanti deve ritenersi esaurientemente compiuto con il porre in risalto anche una sola delle circostanze suscettibili di valutazione.

Nel caso specifico la motivazione è stata esposta con riguardo alle concrete modalità del reato ed alle connotazioni del fatto giudicato ("mercimonio del pubblico servizio operato dall’imputato), e con riferimento alla entità della pena, ("determinata in misura prossima al minimo edittale"), non essendo il giudice comunque tenuto a considerare in maniera analitica i singoli elementi di cui all’art. 133 c.p. esponendo per ciascuno di questi le rispettive ragioni che lo hanno indotto a formulare il proprio conclusivo giudizio (Cass. 2^, 2.9.00 n. 9387, rv. 216924).

7.9.3 Del tutto infondate sono le censure in ordine al decorso del termine di prescrizione, (anch’esse contenute nel secondo motivo di ricorso) in quanto il reato e le dazioni sono state accertate quali poste in essere "in perfetta coincidenza con il periodo di tempo nel quale questi (il P.) si occupava delle sue (di A.) pratiche" (v. sentenza di primo grado pag. 1560), epoca che si estende, come contestato nel capo di accusa, al mese di ottobre 2003, con la conseguente irrilevanza del momento di entrata in circolazione dell’Euro al posto della lira, che, peraltro, ha continuato a circolare contemporaneamente alla nuova moneta.

Il ricorso del P. deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile.

7.10 CA.AN..

7.10.1 Le doglianze proposte nell’interesse di Ca.An. – imputato del reato ex art. 318 c.p., titolare della omonima impresa individuale e coniuge di L.B.A., responsabile dell’ufficio di assistenza indiretta presso la A.S.L. n 6 di Palermo – sono manifestamente infondate in quanto reiterano acriticamente i motivi di appello e si risolvono in una non consentita rivalutazione del fatto avendo il giudice di merito accertato che le dichiarazioni accusatorie dell’ A. hanno avuto conferma nella assunzione della figlia del Ca. e della L.B.A., (nei cui confronti è stato dichiarato non doversi procedere per morte dell’imputata), presso una delle cliniche del chiamante in correità, nonchè nella inesistenza di causale per la fattura falsamente emessa dall’odierno ricorrente per lavori inesistenti.

La Corte territoriale ha, non illogicamente, considerato l’unitarietà della condotta dei due imputati e le loro congiunte finalistiche azioni tese ad agevolare le liquidazioni in favore del corruttore A., dopo che la L.B. aveva, nella qualità sopra indicata, in un primo tempo, frapposto ostacoli alla rapida liquidazione delle prestazioni sanitarie.

La falsa fattura è stata coerentemente considerata come emessa a giustificazione di dazioni ed utilità richieste ed ottenute sin dal 1997. 7.10.2 Ne consegue che il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Coerente è, anche l’esclusione della diversa qualificazione del riconosciuto delitto dal momento che la L.B. partecipò, anche nel 2002, alla transazione tra la ASL e l’ A. per rilevantissimi importi, con ciò avendo il giudice di merito debitamente ritenuto provata la ricezione di utilità al fine specifico di porre in essere determinati atti del proprio ufficio, utilità consistenti nella ricezione della somma di L. 100.000.000 di cui parte in contanti e parte con assegno di L. 50.000.000, intestato ad una ditta di esso Ca. e, a seguito di ciò, costui aveva emesso una fattura per operazioni inesistenti.

In sintesi, l’ A. assumeva, su evidente sollecitazione dell’imputata (deceduta) e del marito, la figlia della L.B. ed iniziava, poi, ad effettuare in favore della stessa una serie di versamenti di somme di denaro nel tempo terminate nel 2002 con quel pagamento di una fattura per operazioni inesistenti il cui riscontro è fornito proprio dall’acquisizione degli atti del processo dell’assegno bancario rilasciato dall’ A. in favore dell’impresa del Ca..

Logica e convincente è la considerazione del Giudice di merito secondo cui "tale atteggiamento dell’imputato non poteva considerarsi un caso posto che, come già si è in precedenza visto nei casi G. e P., egli aveva effettuato condotte corruttive nei confronti di tutti quei soggetti che erano coinvolti nella procedura amministrativa di liquidazione delle plurime fatture emesse dalle sue cliniche, e, ciò all’evidente fine di oliare detto procedimento ed ottenerne al contempo quel consenso e favore che avrebbe impedito, per almeno un triennio, di scoprire una truffa ai danni dell’A.S.L. n. 6 che aveva causato profitti illeciti di diecine e diecine di milioni di Euro" (pag. 616 sent. 2^ grado).

7.10.3 Ne consegue che sono manifestamente infondati tutti gli ulteriori motivi proposti, motivi, peraltro, che si risolvono in valutazioni di merito e di mero fatto, assolutamente inammissibili in questa sede di legittimità.

Il ricorso del Ca. deve, quindi, essere dichiarato inammissibile.

7.11 G.M..

7.11.1 Il ricorso proposto nell’interesse di G.M. – funzionario medico del Distretto Sanitario di base di Bagheria, imputato del reato ex art. 318 c.p., dichiarato estinto per prescrizione – è inammissibile.

Le sezioni unite della Corte (S.U. 28.5.09 n. 35490, rv. 244274) hanno confermato la giurisprudenza costante la quale statuisce che, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129 c.p.p., comma 2 soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento.

Deve, pertanto, confermarsi il giudizio della Corte territoriale che, a fronte di elementi evidenzianti la colpevolezza del ricorrente, (e, ovviamente, in assenza di prove evidenti di innocenza), ha dichiarato l’improcedibilità per prescrizione.

Al riguardo va evidenziata la logica e convincente motivazione della Corte di merito la quale ha correttamente osservato che "l’avvenuta esecuzione di lavori di ristrutturazione in una abitazione di proprietà, non retribuiti ed eseguiti da un’impresa dell’ A., contemporaneamente o comunque contestualmente al rilascio di prescrizioni mediche attestanti la necessità della prosecuzione delle cure radioterapiche per pazienti clienti dello stesso imprenditore, sono circostanze ben sufficienti a dimostrare la riconducibilità della condotta alla ipotesi corruttiva posto che si è in presenza di un rapporto sinallagmatico tra privato corruttore e pubblico ufficiale corrotto e non può trovare giustificazione alternativa.

Al proposito è sufficiente ricordare come detti favoritismi dell’ A. si inquadrano in quel contesto di diffusa corruttela dallo stesso posto in essere, ed anche ammesso palesemente nel corso del suo esame, nei confronti di tutti i pubblici funzionari o dipendenti pubblici chiamati ad esercitare attività connesse a quelle delle cliniche private dello stesso sicchè, ritenere assente il rapporto sinallagmatico sarebbe affermazione contrastante con i complessivi elementi di prova acquisiti all’esito dell’istruzione di 1^ grado".

Ha aggiunto opportunamente la Corte territoriale che la "tesi difensiva dell’avvenuto regolare pagamento delle opere di ristrutturazione nell’abitazione di campagna del G. non ha trovato alcuna conferma essendo stata anzi decisamente smentita proprio dagli operai che detti lavori portarono a termine.

Inoltre, detta impostazione difensiva non risulta confermata dall’acquisizione di alcun mezzo di pagamento (assegno, bonifico o altro) apparendo certamente poco credibile che l’intero importo dei lavori venne tutto consegnato in denaro contante e ciò, non al responsabile dell’impresa o al geometra della stessa o a qualsiasi altro rappresentante, bensì al capo-mastro che aveva sovrinteso alla ristrutturazione"(pagg. 607 – 608 sent. 2^ grado).

Corretta è, infine, la qualifica di pubblico ufficiale attribuita dalla Corte al G. in quanto il prevenuto ha svolto la sua attività avvalendosi di poteri pubblicistici di certificazione, che si estrinsecano nella diagnosi e nella correlativa prescrizione di esami e prestazioni alla cui erogazione il cittadino ha diritto presso strutture pubbliche, ovvero presso strutture private convenzionate (Cass. 6^, 22.2.07 n. 35836, rv. 238439).

Ne consegue la manifesta infondatezza dei motivi di ricorso (violazione dell’art. 318 c.p.; mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione; violazione dell’art. 318 c.p. in ordine alla configurazione della qualità di pubblico ufficiale).

Il ricorso del G. deve, quindi, essere dichiarato inammissibile.

Al rigetto dei ricorsi di Cu.Sa. e V.G. consegue la condanna degli stessi al pagamento delle spese processuali, condanna estesa ai prevenuti nei cui confronti è stata dichiarata la inammissibilità dei ricorsi.

Questi ultimi devono essere condannati anche al pagamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dai rispettivi ricorsi, si determina equitativamente in Euro 1.000,00 ciascuno.

Gli imputati A.M. e I.L. devono essere, inoltre, condannati alla rifusione in solido delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile Azienda Provinciale Sanitaria di Palermo e l’ A., anche, a quelle sostenute dalla parte civile Comune di Bagheria.

Dette spese vendono liquidate, come da dispositivo, tenendo presente l’entità del danno e l’impegno professionale difensivo espletato anche con il deposito di memorie.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente a R. G., limitatamente ai delitti di favoreggiamento a lui ascritti ai capi S, T, V della rubrica perchè estinti per prescrizione, eliminando le relative pene irrogate in continuazione. Ridetermina la pena inflitta al R. in anni 7 mesi 5 e giorni 10 di reclusione.

Rigetta nel resto il ricorso del R..

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata relativamente a Ro.

R. limitatamente alla omessa concessione della non menzione della condanna nel certificato penale, beneficio che concede.

Dichiara inammissibile nel resto il ricorso del Ro..

Rigetta i ricorsi di Cu.Sa. e V.G., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Dichiara inammissibili i ricorsi di A.M., I. L., P.S., Ca.An., B. G.A., C.A. e G.M., che condanna al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento di Euro 1.000,00 alla Cassa delle Ammende.

Condanna A.M. alla rifusione in favore della parte civile Comune di Bagheria delle spese sostenute nel presente grado di giudizio che si liquidano in complessivi Euro 15.000,00, oltre spese generali, IVA e CPA; condanna lo stesso A., in solido con I.L., alla rifusione delle spese sostenute dalla Azienda Sanitaria Provinciale di Palermo nel presente grado di giudizio che si liquidano in complessivi Euro 25.000,00 oltre spese generali,

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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