Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 29-03-2011) 20-04-2011, n. 15816 Misure cautelari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Tribunale del riesame di Napoli confermava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti di D.L.C. in relazione all’omicidio di R.A., con connessi reati in materia di armi. Ricostruiva l’ambito nel quale era maturato il fatto di sangue, particolarmente increscioso, in quanto aveva attinto per mero errore una persona che non aveva nulla a che fare con la faida in corso tra il clan Di Lauro e gli scissionisti, ma era un lavorante del negozio di proprietà della vittima designata, rea di essere parente di uno degli scissionisti.

Venivano individuati gli esecutori materiali come appartenenti al clan Di Lauro, ma il procedimento veniva archiviato per mancanza di gravi indizi fino a quando diveniva collaboratore di giustizia C.C..

Costui riferiva che, subito dopo l’arresto di D.L.C., capo indiscusso dell’omonima cosca, lui era entrato a far parte di detto clan ed aveva partecipato ad un incontro al vertice dove era stato appunto deciso l’omicidio del P., titolare del negozio dove lavorava la vittima. Raccontava che quel giorno all’incontro avevano partecipato due soggetti, affiliati al clan Di Lauro, che avevano in mano un biglietto proveniente da D.L.C. dove erano elencati i nominativi di coloro che dovevano essere uccisi;

aveva poi assistito alla organizzazione dell’omicidio, all’uscita dei killer, e aveva saputo, al ritorno, che vi era stato un tragico errore di persona.

Aggiungeva che per i presenti era certo che il foglietto con i nominativi delle vittime, proveniva da C..

Vi erano ampie prove del fatto che C. fosse il capo della famiglia viste le decisioni di merito che gli avevano riconosciuto tale ruolo.

Vi erano poi riscontri alle affermazioni del C. in relazione alle modalità di esecuzione del fatto omicidiario, consistenti anche in appostamenti di P.G. che avevano consentito di individuare uno degli esecutori materiali, come appartenente al clan Di Lauro.

Ulteriore riscontro era costituito dalle dichiarazioni di altro collaboratore Pr.An., il quale aveva riferito che si era recato insieme ad altri due da D.L.M., fratello di C., e costui aveva loro chiesto di uccidere altre persone perchè altrimenti, se dopo l’arresto di C. tutto si fermava, era facile dire che era stato lui ad averli ordinati.

Il collaboratore Pr.Ma. aveva poi riferito de relato, da altri due detenuti, uno dei quali fratello di C., che C. aveva ordinato l’omicidio di P. e che si era verificato l’errore di persona già descritto.

Sussistevano quindi i gravi indizi di colpevolezza e i riscontri individualizzanti richiesti dalla legge anche in tema di misure cautelari. Sussisteva la presunzione in materia cautelare di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, stante il concreto pericolo di reiterazione.

Avverso la decisione presentava ricorso l’indagato il quale, previo lungo excursus sullo stato della giurisprudenza di legittimità sul punto, deduceva difetto di motivazione sui gravi indizi, osservando che l’unica fonte di prova era costituita dalle dichiarazioni di C., il quale aveva affermato che al momento dell’omicidio era entrato a far parte del clan Capasso da pochi giorni e quindi appare impensabile che potesse già essere ammesso a partecipare a riunioni così importanti. Comunque la sua dichiarazione non consentiva di accertare che effettivamente in quella riunione vi fosse un biglietto con i nomi voluti da C., bensì solo che alcuni dicevano di avere un biglietto con i nomi delle persone da uccidere preveniente da C., e quindi potrebbe anche essersi trattato di una sua deduzione. Inverosimile era anche la sua affermazione che i convenuti riferissero che tra i nomi vi era anche quello del parente di P. che lavorava in un centro di telefonia, per la sua genericità. Il collaboratore Pr.An. poi aveva attribuito analoga responsabilità a D.L.M. e quindi non poteva costituire riscontro alle dichiarazioni di C.. Mancava ogni esame della attendibilità intrinseca ed estrinseca dei collaboratori ed in particolare di C., le affermazioni contenute in sentenza erano frutto di interpretazioni e deduzioni che certo non potevano costituire gravi indizi ai fini della misura cautelare.

La Corte ritiene che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile in quanto si limita ad offrire una diversa ricostruzione dei fatti, con riferimenti a principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità senza far riferimento ai fatti concreti.

I gravi indizi sono costituiti dalle dichiarazioni del collaboratore C., la cui attendibilità intrinseca proviene dalle modalità della sua collaborazione e dall’esattezza dei riferimenti fattuali inerenti agli episodi criminosi raccontati; tali dichiarazioni per l’attuale indagato non sono de relato ma frutto di percezione diretta in quanto egli aveva partecipato alla riunione nella quale era stato deciso l’omicidio in questione ed aveva ascoltato e visto un biglietto con un elenco di nomi indicati da C. come vittime della faida. C. a quel tempo era stato arrestato solo tre giorni prima e quindi aveva avuto la possibilità materiale di affidare ai suoi sicari l’elenco dei nomi delle persone da uccidere.

Tale dichiarazione risulta riscontrata de relato da analoga dichiarazione di Pr.Ma. che aveva saputo in carcere dal fratello di C. che quest’ultimo aveva ordinato quell’omicidio e che si era verificato un errore nell’esecuzione.

Ulteriore riscontro alla credibilità estrinseca di C. era dato dalla circostanza che, quanto da lui riferito sulle modalità di esecuzione dell’omicidio e sugli autori materiali, aveva trovato ampi riscontri negli stessi accertamenti di P.G. che avevano individuato l’esecutore materiale sul luogo del fatto. Ulteriore riscontro individualizzante emergeva dalle dichiarazioni di Pr.

A. che aveva partecipato con altri ad un incontro con D.L. M., divenuto reggente dopo l’arresto di C., nel quale era stato loro chiesto di continuare con gli omicidi per evitare che tutte le colpe ricadessero su C., dando per scontato che esisteva un elenco di vittime designate; in quella stessa occasione coloro che avevano in mano l’elenco di C. avevano fatto riferimento al parente di P..

Il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle ammende.
P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000 alla Cassa delle ammende.

Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *