Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 29-03-2011) 20-04-2011, n. 15809 Custodia cautelare in carcere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Tribunale del riesame di Catania, annullava l’ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa nei confronti di B. A., limitatamente al delitto di porto illegale di arma, mentre la confermava per i reati di tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso e sequestro di persona. Preliminarmente richiamava per relationem l’ordinanza applicativa in relazione alla ricostruzione dei fatti e agli elementi di prova relativi alla responsabilità dell’indagato, il quale era intervenuto in una controversia avente ad oggetto una rivendicazioni di natura economica; la controversia era di origine e importo incerti, e i correi avevano adottato minacce e violenza per indurre A.A. a riacquistare l’azienda per la somma di Euro 135.000, mentre egli si era impegnato a pagarne non più di Euro 70000 a titolo di avviamento, per il fatto che si erano rilevati debiti non denunciati per un importo non certo.

Il tribunale rilevava che dopo vari tentativi di composizione della controversia, il titolare del credito aveva fatto intervenire tre soggetti, tra i quali l’attuale indagato, i quali avevano prelevato a forza la vittima sotto casa e l’avevano trascinata in un garage e qui avevano ottenuto la promessa di consegnare almeno Euro 90000; in tale occasione il B. aveva cercato anche di impossessarsi a titolo di acconto dell’auto dell’ A.. Si era poi verificato un secondo incontro per la consegna delle cambiali, al quale la vittima aveva fatto intervenire anche le forze dell’ordine che potevano verificare come A. fosse stato costretto a fermare l’auto tramite uno speronamento. Una volta allontanatosi era stato raggiunto dal B. che lo aveva bloccato e gli aveva dato due schiaffi perchè aveva fatto intervenire le forze dell’ordine ed aveva cercato ancora una volta di appropriarsi della sua auto. Le dichiarazioni della persona offesa apparivano del tutto attendibili non solo perchè riscontrate dagli accertamenti di P.G. che avevano assistito ad una parte dell’episodio, ma anche per i riscontri provenienti dai risultati delle intercettazioni telefoniche dalle quali era emerso che la persona offesa aveva raccontato i fatti alla convivente e gli indagati raccontavano l’evoluzione dei rapporti con A. in modo conforme a quanto denunciato. Il tribunale riteneva che nei fatti si potesse ravvisare la tentata estorsione in quanto l’intervento dei tre soggetti indagati poteva avere solo una connotazione di minaccia e violenza, tenuto conto della loro personalità, e non certamente un contenuto di mediazione. Infatti il discrimine tra l’estorsione e l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni emergeva con evidenza nel fatto che la forza intimidatoria fatta valere con pervicacia andava al di là di ogni ragionevole intento di far valere il proprio diritto e la coartazione risultava finalizzata a conseguire di per se un profitto ingiusto. L’intervento di tre individui che nulla avevano a che fare con il rapporto economico, all’esclusivo scopo di indurre A. a versare del denaro, in presenza di una evidente incertezza del credito e soprattutto del suo ammontare, le modalità di esazione, le pressioni, le minacce e il concorso di più soggetti potevano inquadrarsi nel reato di tentata estorsione.

Sussisteva inoltre il metodo mafioso in quanto gli agenti avevano agito con metodo mafioso, evocando nella persona offesa la sussistenza del sodalizio mafioso, generando un clima di omertà e prospettando la sussistenza di un conflitto tra famiglie mafiose.

Sussistevano le esigenze del concreto pericolo di reiterazione tenuto conto del fatto che si trattava di soggetto gravato da gravi precedenti penali, che aveva agito mentre si trovava sottoposto a misura di prevenzione personale, e che i fatti contestati erano particolarmente gravi; non sussisteva quindi la possibilità di applicare il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89.

Avverso la decisione presentava ricorso l’indagato e deduceva violazione di legge in relazione alla configurazione del delitto di tentata estorsione in quanto non aveva alcun interesse personale nella vicenda e non poteva conseguire alcun ingiusto profitto, visto che la stessa persona offesa aveva riconosciuto di avere un debito nei confronti dell’ Am.; non sussisteva alcuna pretesa ingiusta ed anzi il debitore era stato autorizzato ad effettuare un piano di rientro rateale, ma soprattutto l’indagato non avrebbe percepito nulla per la sua opera di intermediazione.

B. era stato contattato dall’amico di infanzia affinchè intervenisse per ottenere il pagamento promettendogli, nella sua qualità di esponente politico, un futuro lavoro; riteneva di non fare nulla di male, visto che aveva agito alla luce del sole; le pressioni da lui esercitate rientravano nella norma ed era notorio nel sud di Italia che le transazioni creditorie avvenissero tramite l’intermediazione di amici. Le accuse della parte lesa non erano credibili tutte le volte che ipotizzavano comportamenti violenti e non erano suffragate da riscontri obiettivi, non potendo le intercettazioni costituire prova indiziaria se non corroborate da riscontri fattuali, quali ad esempio certificati medici, testimonianze.

Presentava un memoria con la quale deduceva violazione di legge in relazione al riconoscimento dell’aggravante del metodo mafioso, visto che era stato assolto nei due processi nei quali era imputato per partecipazione ad associazione mafiosa e che non vi era prova alcuna di condotte evocative di intimidazioni derivanti dal vincolo associativo; deduceva poi che nei fatti contestati al capo D non poteva individuarsi la tentata estorsione ma solo la violenza privata.

Nella vicenda poi non era riscontrabile alcun metodo mafioso, nè ci si era avvalsi del metus mafioso; infatti nessuno si era presentato come esponente mafioso, B. era stato assolto dall’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa e lo stesso giudice della prevenzione ne aveva dato atto.

Non sussistevano neppure le esigenze cautelari del concreto pericolo di reiterazione in quanto B. aveva tenuto un’ottima condotta, si era dato a stabile lavoro e frequentava il SERT, per cui sussistevano tutte le condizioni per applicare nei suoi confronti la misura di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89.

La Corte ritiene che il ricorso debba essere accolto limitatamente alla contestata aggravante di cui alla L. n. 203 del 1991, art. 7 e all’omesso esame della fattispecie di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89. Correttamente il tribunale ha ravvisato nel comportamento dell’indagato la tentata estorsione e non l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni, in quanto la condotta minacciosa, estrinsecatasi anche in un sequestro di persone e in atti di violenza fisica, trascendeva il ragionevole intento di far valere un preteso diritto, con la conseguenza che la coartazione in se della volontà aveva assunto i caratteri dell’ingiustizia (Sez. 6, 28 ottobre 2010 n. 41365, rv. 248736). Nel caso di specie poi a tale comportamento deve aggiungersi anche l’assoluta indeterminatezze della pretesa economica e il dubbio sulla sua esigibilità in sede giudiziaria.

L’imputato inoltre era stato scelto solo per i suoi trascorsi criminali e non certo perchè potesse svolgere una vera attività di intermediazione, non avendo alcuna professionalità in materia. Sulle modalità dell’azione le parole della persona offesa risultavano suffragata dagli accertamenti di P.G. e dall’esito di intercettazioni. In relazione alla sussistenza dell’aggravante del metodo mafioso l’ordinanza si era limitata ad affermare che l’indagato aveva agito con metodo mafioso, evocando nella persona offesa la sussistenza del sodalizio mafioso, generando un clima di omertà e prospettando la sussistenza di un conflitto tra famiglie mafiose. Deve osservarsi che la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’aggravante può sussistere indipendentemente dall’appartenenza del soggetto ad una compagine mafiosa, qualora siano posti in essere comportamenti idonei ad esercitare la particolare coartazione psicologica tipica dell’organizzazione criminale evocata anche se non collegata all’indagato (Sez. 6, 2 aprile 2007 n. 21342, rv. 236628); e ancora che l’aggravante ricorre se si riscontra che la condotta minacciosa, oltre che ad essere obiettivamente idonea a coartare la volontà del soggetto passivo, sia espressione di una capacità persuasiva idonea a determinare una condizione di assoggettamento e omertà (Sez. 5, 17 aprile 2009 n. 28442, rv. 244333). Ne discende che in sede di rinvio dovrà essere riesaminata la condotta tenuta dall’indagato allo scopo di individuare ed isolare aspetti che siano altro rispetto alla minaccia e violenza necessari per configurare la tentata estorsione e che facciano riferimento alle parole eventualmente pronunciate, evocative della forza intimidatrice dell’associazione, alla posizione personale dell’indagato, conosciuta dalla parte lesa e perciò idonea a determinare una condizione di assoggettamento, all’atteggiamento complessivamente tenuto idoneo a esprimere una capacità persuasiva ulteriore rispetto alla esplicita minaccia.

Qualora all’esito del nuovo esame si ritenga sussistere l’aggravante, dovrà in sede di rinvio riesaminarsi la questione inerente l’applicazione al caso di specie del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89 (Sez. 1, 17 febbraio 2010 n. 9109, rv. 246371).

Il D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89 stabilisce che il regime di favore per il tossicodipendente, che vuole sottoporsi ad un programma di recupero, opera nel caso di commissione di tutti i reati, ad eccezione di quelli contemplati nell’art. 4 bis O.P. per i quali quindi valgono le regole ordinarie, anche se si tratta di tossicodipententi; il comma 4 della norma introduce però una eccezione alla eccezione per i delitti consumati di cui agli artt. 628 e 629 c.p. e aggiunge che in relazione a questi ultimi reati, pur ricompresi nell’art. 4 bis O.P., continua ad operare il regime di favore per tossicodipendenti " purchè non siano ravvisabili collegamenti con la criminalità organizzata".

Nella sua complessa costruzione la norma crea un regime di favore per l’imputato tossicodipendente che commetta quei due tipi di delitti contro il patrimonio ricompresi nell’art. 4 bis O.P. ma considerati tipici; evidente quindi che l’eccezione all’eccezione non possa che valere anche per la fattispecie tentata, che esprime in se una minore pericolosità sociale. Esaminando la fattispecie sotto altro profilo, deve rilevarsi che tra i delitti individuati dall’art. 4 bis O.P. ve ne sono alcuni individuati solo in base al titolo, ma vi sono anche tutti quelli commessi "avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo (art. 416 bis c.p.) ovvero al fine di agevolare l’attività della stessa associazione" senza alcuna distinzione in relazione al titolo di reato. La giurisprudenza di legittimità sul punto ha affermato, con giurisprudenza del tutto uniforme, che quando l’art. 4 bis O.P. fa riferimento ai delitti commessi avvalendosi del metodo mafioso, la norma si riferisce indistintamente a delitti consumati o tentati in quanto anche quelli rimasti allo stadio di tentativo punibile sono tecnicamente delitti, a differenza dì quanto accade per quei delitti individuati sulla base di norme incriminatrici per i quali se non espressamente previsto il divieto non opera anche per il tentativo (Sez. 1, 22 aprile 2004 n. 23505, rv. 228134).

Ritiene il collegio che il corretto coordinamento tra l’art. 4 bis O.P. e le regole particolari previste per i tossicodipendenti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89, presuppone che venga svolta una indagine fattuale per verificare se l’uso del metodo mafioso raffiguri anche il collegamento con la criminalità organizzata, non essendo del tutto arbitrario ipotizzare che l’uso di tale metodo avvenga per millanteria o per altri motivi; inoltre nel caso particolare in cui il delitto commesso sia uno di quelli che costituisce eccezione alla regola e cioè i reati consumati o tentati di rapina ed estorsione, che si debba anche accertare l’attualità del collegamento con la criminalità organizzata.

Ne consegue che, nel caso di specie, solo qualora sia provato questo collegamento e la sua attualità, diventerà operante la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, non superabile con deduzioni sul venir meno delle esigenze cautelari, in quanto l’attuale formulazione di detta norma richiama ai fini della presunzione tutti i delitti previsti dall’art. 51 c.p.p., comma 3 bis e quater tra i quali sono compresi i "delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p.".

Il giudice di rinvio dovrà pertanto applicare i sopra indicati principi di diritto svolgendo un indagine fattuale onde individuare l’esatta normativa applicabile al caso di specie.
P.Q.M.

La Corte annulla l’ordinanza impugnata limitatamente al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 e al diniego della misura di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 89 e rinvia per nuovo esame su detti punti al Tribunale di Catania.

Rigetta nel resto il ricorso.

Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell’istituto penitenziario, ai sensi dell’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 bis.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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