Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 18-03-2011) 20-04-2011, n. 15710

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annullamento dell’impugnata sentenza in virtù dei motivi di cui ai ricorsi.
Svolgimento del processo

Con sentenza 27.6.08 il Tribunale di Rimini condannava a pene varie:

– B.D., M.F. e P.M.D. per associazione per delinquere di tipo mafioso operante in Emilia- Romagna dal 1999 soprattutto nel settore del gioco d’azzardo (capo 1 della rubrica);

– L.G. per partecipazione alla suddetta associazione per delinquere di tipo mafioso, nonchè per estorsione, danneggiamento, detenzione e porto illegali di un’arma da guerra, tentata estorsione, favoreggiamento personale – delitti tutti aggravati L. n. 203 del 1991, ex art. 7 -, oltre che per plurimi reati di gioco d’azzardo aggravati ex art. 719 c.p., nn. 1 e 3 e detenzione e porto in luogo pubblico di un’arma comune da sparo (capi 1, 5, 6, 7, 11, 12, 16, 17, 18 e 19 della rubrica);

– C.P. per favoreggiamento personale e falso materiale (capi 14 e 15), esclusa per tali delitti la contestata aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7.

Con sentenza 23.11.09 la Corte d’Appello di Bologna, applicata al P. la diminuente del rito abbreviato il cui accesso era stato erroneamente negato in prime cure, gli riduceva la pena ad anni 4 e mesi 8 di reclusione, escludendo a suo carico la pena accessoria dell’interdizione legale durante l’esecuzione della pena e sostituendo l’interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella di anni 5. Confermava nel resto la pronuncia di primo grado.

Il processo era nato da indagini, inizialmente denominate con il nome convenzionale di "(OMISSIS)", che dopo l’omicidio di G. G. – esponente della malavita romagnola che voleva proporsi come garante e tutore delle attività delle bische, omicidio oggetto di sentenza della Corte d’Assise di Ravenna – avevano fatto emergere la gestione di case da gioco d’azzardo nelle province di Rimini, Ravenna, Forlì e Bologna da parte di criminalità organizzata di provenienza calabrese facente capo a Ma.Sa. e M. F., gruppo a sua volta espressione del potenziale intimidatorio derivante dalla più vasta compagine di impronta mafiosa riconducibile al pregiudicato calabrese P.M. D., al quale il sodalizio del Ma. versava con regolare cadenza mensile cospicue somme di denaro in contanti. Proprio dal clan mafioso del P. era giunto a Rimini un altro malavitoso calabrese, M.F., il che aveva contribuito a conferire maggiore pericolosità al gruppo del Ma..

Ricorrevano il B., il C., il M., il L. e il P. contro detta sentenza, di cui chiedevano l’annullamento per i motivi qui di seguito riassunti nei limiti prescritti dall’art. 173 disp. att. c.p.p., comma 1.

Il B., collaboratore di giustizia dal 2007, lamentava:

1.1. vizio di motivazione nella parte in cui la sua penale responsabilità era stata desunta dal tenore di quattro intercettazioni telefoniche avutesi fra il 3 e il 12.12.2003 e dalle dichiarazioni confessorie in cui aveva ammesso di aver fatto parte della cosca di ‘ndrangheta calabrese facente capo alla famiglia Vrenna-Corigliano-Bonaventura: tali elementi – ad avviso del ricorrente – dimostravano non già la sua partecipazione all’associazione per delinquere di tipo mafioso promossa in Emilia- Romagna da Ma.Sa. e altri (capo 1 della rubrica), ma solo una – per altro occasionale – attività lavorativa da lui svolta nel 2001 per circa tre mesi alle dipendenze del Ma. medesimo, cui lo legavano le comuni origini crotonesi e rapporti di mera amicizia personale; in tale attività il B., lungi dal riscuotere il "pizzo", si era limitato ad incassare le vincite dei giochi d’azzardo nei circoli gestiti direttamente dal Ma.;

escludeva di aver fatto da trait d’union tra la presunta associazione per delinquere di tipo mafioso e quella facente capo al P. e al M. in Calabria;

1.2. erroneo diniego, motivato solo dai precedenti penali, delle attenuanti generiche, che pur riteneva di meritare grazie al contributo da lui fornito nel corso di varie vicende processuali;

1.3. per la stessa ragione si rivelava ingiustificata la misura di sicurezza della libertà vigilata, confermata dalla Corte territoriale nonostante la già concessagli attenuante del D.L. n. 152 del 1991, art. 8;

1.4. mancata applicazione della continuazione rispetto al reato p. e p. D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 per il quale aveva riportato condanna con sentenza n. 3/02 del Tribunale di Crotone, fatto da ritenersi rientrante nel più ampio disegno criminoso caratterizzante il delitto p. e p. ex art. 416 bis c.p. oggetto del presente processo.

Nel ricorso a firma del L. e in quello – di analogo contenuto – a firma del suo difensore avv. Piccolo si deduceva:

1.5. vizio di motivazione perchè, motivando per relationem con riferimento alla statuizione di prime cure e comunque in maniera apparente, l’impugnata sentenza aveva ignorato o non convincentemente confutato le argomentazioni difensive sulle asserite modalità mafiose delle condotte contestate al L. e sulla qualificazione giuridica dell’associazione di cui al capo 1, atteso che nessuno dei testimoni, neppure il teste de relato Pu., aveva affermato che i calabresi di Riccione fossero notoriamente dei mafiosi o che comunque agissero con modalità di sopraffazione e intimidazione;

1.6. inutilizzabilità della deposizione dei testi interessati dal decreto di archiviazione n. 14461/00, r.g.n.r. 8681/01 emesso l’8.10.04 dal GIP del Tribunale di Bologna nell’ambito della cd. operazione (OMISSIS), essendo stati sentiti come puri e semplici testimoni malgrado il divieto di cui all’art. 197 c.p.p. in quanto ex indagati per un reato collegato ai sensi dell’art. 371 c.p.p., comma 2, lett. b);

1.7. inutilizzabilità, per violazione degli artt. 63 e 210 c.p.p., delle dichiarazioni dei testi D.S. e Pu. in quanto sentiti senza l’assistenza del difensore pur essendo imputati in procedimento connesso: a riguardo il ricorrente negava che fosse solo astrattamente ipotizzabile un mero collegamento investigativo con l’omicidio G. e lo svolgimento del gioco d’azzardo;

1.8. violazione degli artt. 62, 63 e 512 c.p.p. per essere state illegittimamente acquisite le dichiarazioni del teste D. S. nonostante che questi, al momento di renderle, fosse affetto da AIDS conclamata, il che lasciava ragionevolmente prevedere che sarebbe ben presto deceduto;

1.9. violazione del principio di correlazione fra l’accusa e la sentenza nella parte in cui quest’ultima aveva utilizzato l’episodio relativo all’omicidio G. – estraneo al processo ed oggetto, invece, di sentenza emessa dall’A.G. ravennate – per ricostruire le responsabilità ascritte agli imputati; risultava altresì violato l’art. 238 bis c.p.p. perchè si trattava di sentenza non ancora definitiva, sicchè l’omicidio G. non poteva considerarsi come prova del requisito della mafiosità;

1.10. travisamento della deposizione dei testi Ca., N., Pu. e Ba.;

1.11. vizio di motivazione sui delitti di cui ai capi 5, 6 e 7 della rubrica (relativi all’episodio di estorsione ai danni del "Circolo ricreativo (OMISSIS)"), non avendo la Corte territoriale dato conto – se non con motivazione apparente e per relationem rispetto a quella di primo grado – del pur dedotto contrasto fra quanto risultante dalla sentenza della Corte d’Assise di Ravenna e la deposizione del teste R.; ne discendeva la mancanza di qualsiasi prova del ritenuto mandato del Ma. al L. affinchè commettesse l’estorsione e i reati satellite di cui ai capi suddetti;

1.12. circa il delitto di cui al capo 12 (favoreggiamento della latitanza del M.), l’impugnata sentenza era incorsa in un’erronea interpretazione delle intercettazioni ambientali di colloqui fra il Ma. e il M., in cui quest’ultimo – in realtà – millantava presunti accordi intervenuti con il P.;

1.13. la motivazione della gravata pronuncia risultava altresì viziata in ordine ai reati di cui ai capi 19 e 20 della rubrica, perchè accomunava tra loro fatti completamente diversi sul rilievo che il ferimento del L. da parte di soggetti campani (di cui alla sentenza (OMISSIS)) non riguardava vicende relative allo sfruttamento del gioco d’azzardo nè coinvolgeva il Ma. e i calabresi di Riccione;

1.14. inutilizzabilità erga omnes delle dichiarazioni del Bo., che era stato sentito come puro e semplice teste pur risultando imputato in procedimento connesso e/o collegato ex art. 210 c.p.p.; per lui sussisteva, quindi, l’incompatibilità con l’ufficio di testimone prevista dall’art. 197 c.p.p.;

1.15. per altro, la credibilità intrinseca ed estrinseca del Bo. era stata espressamente esclusa dalla Corte di Assise di Ravenna; inoltre, la gravata pronuncia era da censurarsi laddove aveva erroneamente ritenuto convergenti le dichiarazioni del B. e del Bo.;

1.16. vizio di motivazione nella parte in cui l’impugnata sentenza aveva ritenuto che il gruppo Masellis fosse una propaggine della famiglia mafiosa facente capo al P.: in realtà il Ma. era entrato autonomamente nel settore del gioco d’azzardo;

1.17. la gravata pronuncia era del pari viziata laddove aveva ravvisato una pretesa attività di protezione dei circoli, da escludersi – invece – alla luce di una esatta lettura degli esiti delle intercettazioni telefoniche;

1.18. sempre in ordine all’asserita esistenza di associazione di tipo mafioso, non risultava che il Ma. avesse mai speso il nome dei P. o dei V. nella gestione diretta (a Riccione) ed indiretta (a Rimini e Bologna) dei circoli e mancavano i reati satellite che avrebbero dovuto qualificare l’associazione medesima, dovendosi escludere attività di taglio estorsivo da parte del Ma. e del L.. Nel ricorso a firma dell’altro difensore del L. (avv. Pitali) si lamentava:

1.19. vizio di motivazione dell’impugnata sentenza nella parte in cui aveva ravvisato il carattere mafioso dell’associazione per delinquere di cui al capo 1 soltanto sulla presunzione di mafiosità dedotta dal contesto socio-culturale di riferimento dei calabresi operanti a Riccione, nonostante che nessuno dei collaboratori di giustizia avesse parlato di affiliazioni di sorta del gruppo Masellis ad una qualche ‘ndrina calabrese; nè a tal fine poteva valere il tono scherzoso della conversazione intercorsa tra il Ma. e il L. o le dichiarazioni del Bo., giudicate inattendibili dalla Corte di Assise di Ravenna;

1.20. per analoghe ragioni mancava la prova dell’aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7;

1.21. quanto all’episodio del 14.8.99 ai danni del Circolo ricreativo (OMISSIS) di Ravenna (capi 5, 6 e 7), unica teste oculare era stata la teste S., che però non era stata in grado di riconoscere nessuno dei due soggetti che, a bordo di una moto, avevano esploso dei colpi di arma da fuoco all’indirizzo delle autovetture in sosta di fronte al circolo predetto; nè detta teste aveva visto un mitra o quale fosse la direzione degli spari;

1.22. quanto alla tentata estorsione ai danni di b.i. di cui al capo 11 dell’editto accusatorio, i giudici del merito avevano fondato il giudizio di penale responsabilità su due conversazioni telefoniche intercettate: nella prima, intercorsa fra il L. e la moglie della persona offesa, costei non aveva neppure compreso chi fosse il proprio interlocutore, mentre nella seconda il L. non aveva proferito verbo, nè si comprendeva per quale ragione il b. gli avesse domandato se si trattava di un affare e se c’era da guadagnarvi;

1.23. erroneamente erano state negate le attenuanti dell’art. 62 bis c.p. sol per i precedenti penali del L., senza considerare nella loro interezza tutti gli elementi oggettivi e soggettivi di cui all’art. 133 c.p. e le esigenze retributive e rieducative del trattamento sanzionatorio.

Il P. lamentava:

1.24. violazione dell’art. 438 c.p.p. nella parte in cui la Corte territoriale, una volta riconosciutogli il diritto ad accedere al rito abbreviato che erroneamente gli era stato negato in prime cure, invece di applicare la relativa diminuente avrebbe dovuto dichiarare la nullità dell’intero giudizio e rinviare gli atti al primo giudice;

1.25. mancata derubricazione del reato di cui all’art. 416 bis c.p. in quello di cui all’art. 416 c.p.: il carattere mafioso dell’associazione era stato dedotto da un precedente processo che non aveva ad oggetto associazioni di tipo mafioso (e nel quale il ricorrente era stato condannato solo per il reato p. e p. dall’art. 416 c.p.), nonchè da quanto emerso nel processo per l’omicidio G., che non vedeva il P. nemmeno come imputato;

1.26. vizio di motivazione per omessa valutazione critica, anche attraverso giudizio complessivo, delle prove a carico del P. consistenti nelle dichiarazioni dei collaboratori B., Co., e Mo., rispetto alle quali la Corte territoriale si era limitata a condividere le argomentazioni esposte dal Tribunale di Rimini;

1.27. erroneo diniego del regime della continuazione rispetto ai reati di cui alle precedenti condanne riportate dal ricorrente nei processi cd. (OMISSIS) svoltisi a Milano e nel processo cd.

(OMISSIS) celebrato a Firenze; si trattava di reati della stessa natura, commessi in luoghi limitrofi, in tempi ravvicinati e riconducibili proprio all’associazione criminale in oggetto;

1.28. omessa motivazione sulla misura di sicurezza dell’assegnazione a una casa di lavoro, a tal fine non potendo bastare la "camera criminale" del ricorrente (come si leggeva a pag. 76 dell’impugnata sentenza).

Il C. deduceva che:

1.29. una volta esclusa l’aggravante della L. n. 203 del 1991, art. 7, risultavano ormai inutilizzabili, ai sensi dell’art. 271 c.p.p., comma 1, le intercettazioni che lo coinvolgevano;

1.30. non risultava accertato il dolo specifico del delitto di favoreggiamento contestato al capo 14: infatti, poichè la condotta era consistita solo nell’aver procurato al M. una carta d’identità contraffatta, non poteva escludersi che la consegna del documento da parte del C. fosse avvenuta per altre future esigenze diverse da quelle di favorire la latitanza del M. medesimo; mancava, altresì, l’elemento oggettivo del reato, vista l’inidoneità del documento – valutata con prognosi postuma ex ante – ad impedire le ricerche del fuggiasco;

1.31. quanto alla contraffazione della carta d’identità, poteva essere opera non del C., ma di terza persona rimasta sconosciuta.

Il M. si doleva:

1.32. della valutazione di attendibilità intrinseca ed estrinseca relativa ai collaboratori B. e Bo., quest’ultimo ritenuto inattendibile dalla Corte d’Assise di Ravenna;

1.33. del diniego delle attenuanti dell’art. 62 bis c.p., giustificato in ragione dei precedenti penali del ricorrente senza che, però, fosse stata tenuta nella giusta considerazione la sua breve permanenza all’interno del sodalizio criminale di cui al capo 1 della rubrica.
Motivi della decisione

Il ricorso del B..

2.1. – Il motivo che precede sub 1.1. si colloca di fuori del novero di quelli spendibili ex art. 606 c.p.p., in esso sostanzialmente spiegandosi censure di merito per sollecitare un nuovo apprezzamento in punto di fatto di risultanze processuali su cui la motivazione dell’impugnata sentenza è immune da vizi logico-giuridici.

Premesso che, essendosi in presenza di una doppia pronuncia conforme, le motivazioni delle due sentenze di merito vanno ad integrarsi reciprocamente, saldandosi in un unico complesso argomentativo (cfr.

Cass. Sez. 2^ n. 5606 del 10.1.2007, dep. 8.2.2007; Cass. Sez. 1^ n. 8868 del 26.6.2000, dep. 8.8.2000; v. altresì, nello stesso senso, le sentenze n. 10163/02, rv. 221116; n. 8868/2000, rv. 216906; n. 2136/99, rv. 213766; n. 5112/94, rv. 198487; n. 4700/94, rv. 197497;

n. 4562/94, rv. 197335 e numerose altre), si tenga presente che la partecipazione del ricorrente al sodalizio malavitoso è stata ricavata dal tenore di intercettazioni telefoniche e dal rilievo che nei circa tre mesi in cui, nel corso del 2001, era rimasto ospite a Riccione del Ma., lungi dall’esserne un mero "dipendente" il B. aveva agito per suo conto anche come trait d’union con il P., al fine di trasferirgli parte dei proventi realizzati con l’illecita gestione delle bische.

Quanto al tenore delle suddette intercettazioni telefoniche, basti ricordare che la giurisprudenza di questa Corte Suprema – da cui non si ravvisa ragione di discostarsi – costantemente statuisce che l’interpretazione del linguaggio adoperato nel corso di colloqui intercettati, anche quando esso sia criptico o cifrato, resta questione di mero fatto, sottratta al giudizio di legittimità se la valutazione compiuta dai Giudici del merito risulta logica in rapporto alle massime di esperienza utilizzate (cfr., ad es., Cass. Sez. 6^ n. 17619 dell’8.1.2008, dep. 30.4.2008; Cass. Sez. 6^ n. 15396 dell’11.12.2007, dep. 11.4.2008; Cass. Sez. 6^ n. 35680 del 10.6.2005, dep. 4.10.2005; Cass. Sez. 4^ n. 117 del 28.10.2005, dep. 5.1.2006; Casse. Sez. 5^ n. 3643 del 14.7.97, dep. 19.9.2007).

A sua volta il controllo delle massime di esperienza non può spingersi fino a sindacarne la scelta, che è compito del giudice di merito, dovendosi limitare questa S.C. a verificare che egli non abbia confuso con massime di esperienza quelle che sono, invece, delle mere congetture.

Le massime di esperienza sono definizioni o giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla cui osservazione sono dedotti ed oltre i quali devono valere; tali massime sono adoperabili come criteri di inferenza, vale a dire come premesse maggiori dei sillogismi giudiziali di cui alle regole di valutazione della prova sancite dall’art. 192 c.p.p., comma 2.

Costituisce, invece, una mera congettura, in quanto tale inidonea ai fini del sillogismo giudiziario, tanto l’ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica, quanto la pretesa regola generale che risulti priva, però, di qualunque pur minima plausibilità (cfr. Cass. Sez. 6^, n. 15897 del 15 aprile 2009; Cass. Sez. 6^ n. 16532 del 13.2.07, dep. 24.4.07, rv. 237145).

Ciò detto, si noti che nel caso di specie il ricorso non evidenzia l’uso di inesistenti massime di esperienza nè violazione di regole inferenziali, ma si limita a segnalare soltanto possibili difformi valutazioni degli elementi raccolti, il che costituisce compito precipuo del giudice del merito, non di quello di legittimità. 2.2. – Il motivo che precede sub 1.2. è infondato, nota essendo in giurisprudenza la diversità dei presupposti fra le attenuanti dell’art. 62 bis c.p. e quella del D.L. n. 152 del 1991, art. 8.

Infatti, questa Corte Suprema ha più volte statuito che il riconoscimento della circostanza attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8, fondata su un’utilità obiettiva consistente nel proficuo contributo dal collaboratore fornito alle indagini ovvero nell’essere state evitate conseguenze ulteriori all’attività delittuosa, non implica necessariamente, data la diversità dei rispettivi presupposti, il riconoscimento delle attenuanti dell’art. 62 bis c.p., fondate su una globale valutazione della gravità del fatto e della capacità a delinquere del colpevole (cfr. Cass. Sez. 1^ n. 14527 del 3.2.2006, dep. 27.4.2006, rv. 233938; Cass. Sez. 1^ n. 26003 del 21.5.2003, dep. 18.6.2003, rv. 224995; Cass. Sez. 1^ n. 43241 del 7.11.2001, dep. 30.11.2001, rv. 220295; Cass. Sez. 1^ n. 2137 del 5.11.98, dep. 19.2.99, rv. 212531).

Analogamente avviene, d’altronde, anche nel rapporto fra le attenuanti generiche e quella della collaborazione di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 7 e art. 74, comma 7, in quanto diversi sono i presupposti logico-giuridici delle prime e della seconda, premiando queste ultime la condotta di un soggetto che può anche avere una personalità negativa ed essersi comportato processualmente in modo non lineare, tanto da non meritare le circostanze previste dall’art. 62 bis c.p. (cfr. Cass. Sez. 4^ n. 12613 del 4.10.95, dep. 28.12.95, rv. 203136).

2.3. – Anche il motivo che precede sub 1.3. è infondato, giacchè ex art. 417 c.p. la condanna per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p. comporta sempre l’applicazione di una misura di sicurezza.

La norma non prevede deroghe neppure in caso di avvenuta concessione dell’attenuante del D.L. n. 152 del 1991, art. 8: d’altronde, quest’ultima si riferisce all’oggettivo contributo fornito alle indagini, mentre la misura di sicurezza concerne la personalità del reo, che malgrado la collaborazione ben può presentare ancora profili di pericolosità. 2.4. – Il motivo che precede sub 1.4. è meramente assertivo, perchè non chiarisce le ragioni che avrebbero dovuto indurre i giudici del merito a riconoscere la continuazione fra il delitto p. e p. D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73 oggetto della sentenza n. 3/02 di condanna emessa a carico del B. dal Tribunale di Crotone e il reato associativo per cui oggi è processo, rispetto al quale – per altro – appare eterogeneo (considerato che l’associazione descritta al capo 1 della rubrica non operava nel settore dello spaccio di sostanze stupefacenti).

Per di più, la continuazione tra reato associativo e reati-fine o reati-mezzo non è automaticamente ravvisabile, essendo pur sempre necessario che questi ultimi siano già stati programmati al momento della costituzione del sodalizio criminoso (cfr. Cass. Sez. 1 n. 8451 del 21.1.09, dep. 25.2.09; Cass. Sez. 1^ n. 12639 del 28.3.2006, dep. 10.4.2006; Cass. n. 44606/05, rv. 232797; Cass. n. 15889/04, rv.

228874; Cass. n. 6530/99, rv. 212348; Cass. n. 2960/99, rv. 214555;

Cass. n. 3960/97, rv. 208833).

Il ricorso del L..

2.5. – Il motivo che precede sub 1.5., nel quale ci si duole di una non convincente confutazione delle argomentazioni difensive svolte in grado d’appello, sollecita soltanto una non consentita terza lettura delle risultanze processuali, che i giudici del merito hanno valutato con motivazione congrua e scevra da contraddizioni od illogicità manifeste.

In particolare, dalla combinata lettura della motivazione delle pronunce di primo e secondo grado emerge che il carattere mafioso dell’associazione per delinquere di cui al capo 1 della rubrica è stato correttamente dedotto dai suoi forti legami con cosche della ‘ndrangheta calabrese, in termini sia di provenienza dei singoli affiliati sia di dirette cointeressenze economiche (come si è già accennato, il P. riceveva dal Ma., con regolare cadenza mensile, cospicue somme di denaro in contanti ricavate dalla gestione delle bische), dal clima e dalle azioni di intimidazione e sopraffazione ai danni di soggetti esterni che si trovavano ad incrociare gli interessi del gruppo malavitoso, dall’estensione del controllo dell’associazione anche ad altri circoli ove si praticava il gioco d’azzardo, acquisendovi partecipazioni oppure imponendovi regole, orari e limitazioni, in modo da governare con metodi illeciti e violenti un intero settore economico in un’area geografica abbastanza estesa (le province di Rimini, Ravenna, Forlì e Bologna), attività culminata con l’eliminazione fisica di un potenziale concorrente del gruppo del Ma., come G.G..

Nè tali conclusioni devono necessariamente accompagnarsi a conformi dichiarazioni di testi e/o collaboratori di giustizia che esplicitamente qualifichino come mafiosa una data associazione per delinquere, a tanto bastando i caratteri oggettivamente riconoscibili della fattispecie delineata dall’art. 416 bis c.p. come sopra sintetizzati.

In breve, il carattere mafioso dell’associazione per cui è processo non è stato accertato, dai giudici di primo e secondo grado, in via presuntiva attraverso rinvio a meri contesti socio-culturali di provenienza degli affiliati, ma risulta suffragato da adeguato impianto motivazionale agganciato ai precisi rapporti economici con una ‘ndria calabrese e a fatti specifici, con diffusa analisi – circolo per circolo – delle azioni mediante le quali la consorteria criminale spadroneggiava nel settore del gioco d’azzardo, ordinando anche se e quando i circoli dovessero restare aperti, quali persone vi potessero essere ammesse e quali giochi vi si dovessero praticare.

2.6. – I motivi che precedono sub 1.6, 1.7. e 1.14., tutti concernenti asserite inutilizzabilità dedotte dal L. non in appello, ma solo con il ricorso per cassazione, risultano preclusi.

Infatti, per costante giurisprudenza di questa S.C., la regola per cui l’inutilizzabilità può essere rilevata in ogni stato e grado del procedimento deve essere raccordata alla norma che limita la cognizione della Corte di cassazione, oltre i confini del devolutimi, alle sole questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento sul fatto.

Invero, l’art. 609 cpv. c.p.p., in forza del quale possono superarsi i limiti del devolutum e dell’ordinaria progressione dell’impugnazione, oltre che per le violazioni di legge non deducibili in grado d’appello, anche per le questioni rilevabili d’ufficio in ogni stato e grado del processo, deve raccordarsi con la natura propria del giudizio di legittimità che, in coerenza con il sistema (v. anche art. 311 cpv. c.p.p. e art. 569 c.p.p., comma 3), non tollera diretti apprezzamenti fattuali sostitutivi della sede naturale.

In breve, non possono essere proposte per la prima volta, nel giudizio di legittimità, questioni di inutilizzabilità la cui valutazione richieda accertamenti di merito, che – proprio perchè tali – devono essere necessariamente sollecitati nel grado di appello (cfr. Cass. Sez. 6^ n. 37767 del 21.9.10, dep. 22.10.10; Cass. Sez. 6^ n. 12175 del 21.1.05, dep. 29.3.05; Cass. Sez. 5^ n. 9360 del 24.4.98, dep. 13.8.98).

Invece, nei motivi in oggetto si allegano connessioni tra procedimenti o collegamenti fra reati la cui verifica in concreto presupporrebbe un apprezzamento in punto di fatto tra le imputazioni inerenti al processo per l’omicidio del G. e le indagini della cd. operazione (OMISSIS) – da un lato – e, dall’altro, le imputazioni oggetto del presente processo, delibazione da svolgersi mediante accesso diretto agli atti e loro valutazione per stabilire altresì il tipo di connessione potenzialmente rilevante.

2.7. – Per analoghe ragioni è precluso anche il motivo che precede sub 1.8. Infatti, premesso che la valutazione dell’imprevedibilità dell’evento, che rende impossibile la ripetizione dell’atto precedentemente assunto e che ne legittima la lettura ai sensi dell’art. 512 c.p.p., è demandata in via esclusiva al giudice di merito, che in proposito deve formulare una "prognosi postuma" (cfr.

Cass. Sez. 2^ n. 6139 del 20.1.09, dep. 12.2.09; Cass. Sez. 2^ n. 12705 dell’11.11.98, dep. 2.12.98, e altre ancora), si noti che la mancata deduzione – da parte del L. in sede di appello – dell’asserita prevedibilità dell’evento ne ha impedito ogni verifica in sede di merito, verifica che non può ora chiedersi innanzi ai giudici di legittimità. 2.8. – Il motivo che precede sub 1.9. è infondato per l’assorbente rilievo che l’impugnata sentenza da espressamente atto (v. pag. 9) che le prove del processo relativo all’omicidio G. sono state acquisite con il consenso delle parti e che detta sentenza è poi passata in giudicato il 30.4.09 (v. pag. 55), vale a dire nelle more del giudizio di appello.

Nè si comprende in cosa consista la lamentata violazione del principio di correlazione fra l’accusa e la sentenza, giacchè i giudici del merito – lungi dal condannare il L. per un reato non contestatogli – si sono limitati a considerare l’omicidio G. come mero elemento di prova che, unito agli altri emersi, era tale da chiarire il contesto e il carattere mafioso (di molti) dei reati in oggetto.

2.9. – Ancora da disattendersi, sotto due profili, è il motivo che precede sub 1.10.

In primo luogo, il denunciato travisamento della deposizione dei testi Ca., N., Pu. e Ca. è pregiudizialmente inibito dal rilievo – ormai largamente prevalente nella giurisprudenza di questa Corte – che la novella dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006 consente la deduzione del vizio di travisamento della prova, in ipotesi di doppia pronuncia conforme, nel solo caso in cui il giudice di appello, al fine di rispondere alle censure contenute nell’atto di impugnazione, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice, ostandovi altrimenti il limite del devoluto, che non può essere superato ipotizzando recuperi in sede di legittimità (cfr. ad es. Cass. Sez. 2^ n. 24667 del 15.6.2007, dep. 21.6.2007; Cass. Sez. 2^ n. 5223 del 24.1.2007, dep. 7.2.2007;

Cass. Sez. 2^ n. 42353 del 12.12.2006, dep. 22.12.2006, e numerose altre).

In secondo, nel dedurre un travisamento della prova la parte deve necessariamente trascriverla od allegare in copia il documento in cui essa è consacrata (il che non è avvenuto nel caso di specie), evidenziando l’esatto passaggio in cui si annida il vizio:

diversamente, il ricorso non è autosufficiente (cfr., da ultimo, Cass. Sez. F n. 32362 del 19.8.10, dep. 26.8.10).

2.10.- I motivi che precedono sub 1.11., 1.12., 1.13., 1.15., 1.16., 1.17. e 1.18 sono estranei all’area dell’art. 606 c.p.p., poichè in essi si propongono soltanto differenti ricostruzioni di singoli episodi (come l’estorsione concernente il "Circolo ricreativo (OMISSIS)") con una verifica comparata tra risultanze processuali che esigerebbe un diretto approccio agli atti ed una loro valutazione incompatibili con il giudizio di legittimità, oppure diverse interpretazioni del tenore di intercettazioni ambientali o telefoniche (anche esse precluse innanzi a questa S.C., come sopra si è già avuto modo di rammentare) e delle connessioni esistenti fra plurime vicende.

Quanto alla ritenuta credibilità intrinseca ed estrinseca del collaboratore Bo.Lu., in contrasto con il difforme giudizio che si assume a riguardo reso dalla Corte di Assise di Ravenna nella sentenza concernente l’omicidio del G., si consideri che la mera diversità di giudizio sull’attendibilità d’un collaboratore da parte di diverse A.G., in separati processi, di per sè non menoma il tasso di logicità della motivazione nè integra violazione dei canoni di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4.

Invero, neppure l’accertata falsità di una chiamata in reità o correità su uno specifico fatto comporta, in modo automatico, l’aprioristica perdita di credibilità di tutto il compendio conoscitivo e narrativo proveniente dal collaboratore di giustizia (cfr., da ultimo, Cass. Sez. 6^ n. 20514 del 28.4.10, dep. 28.5.10):

è, infatti, principio giurisprudenziale pacifico e antico quello della scindibilità o frazionabilità delle dichiarazioni in tema di valutazione delle prove storiche (cfr., ex aliis, Cass. Sez. 2^ n. 10469 del 22.3.96, dep. 6.12.96, rv. 206491).

L’unico limite alla cd. valutazione frazionata di una prova dichiarativa è che non vi siano interferenze fattuali e logiche tra la parte del narrato ritenuta falsa o comunque non attendibile e le rimanenti parti reputate, invece, meritevoli di credito, interferenze che si verificano solo quando fra la prima parte e le altre esista un rapporto di causalità necessaria ovvero quando l’una costituisca imprescindibile antecedente logico dell’altra (cfr., ad es., Cass. Sez. 5^ n. 37327 del 15.7.08, dep. 1.10.08, rv. 241638; Cass. Sez. 4^ n. 12349 del 29.1.08, dep. 20.308, rv. 239300; Cass. Sez. 4^ n. 9450, del 24.1.08, dep. 3.3.08, rv. 239254; Cass. Sez. 3^ n. 40170 del 26.9.06, dep. 6.12.06, rv. 235575; Cass. Sez. 1 n. 24466 del 17.3.06, dep. 14.7.06, rv. 234412; Cass. Sez. 1^ n. 468 del 18.12.2000, dep. 19.1.01, rv. 217820).

Ma tale evenienza non ricorre nel caso di specie, trattandosi di processi e vicende diverse e non essendo state nemmeno allegate interferenze di sorta da parte del ricorrente.

Quanto all’asserita discrepanza fra le dichiarazioni del B. e quelle del Bo., è appena il caso di notare che potrebbe trattarsi, al più, di travisamento della prova dedotto in maniera non autosufficiente: in proposito si richiamano i rilievi sopra svolti sulle necessarie modalità di deduzione del vizio.

In ordine, poi, all’asserita autonomia del gruppo del Ma. dalla ‘ndrina facente capo al P., si è presenza di mere censure sulla ricostruzione del fatto che non incidono sulla logicità dell’impianto argomentativo dell’impugnata sentenza concernente il carattere mafioso dell’associazione di cui al capo 1 e, segnatamente, sui costanti rapporti fra il P. e il gruppo del Ma. e ciò a prescindere dal fatto che il secondo spendesse o meno il nome del primo.

Ogni ulteriore argomento in proposito fatto valere dal ricorrente scivola sul piano dell’accertamento in punto di fatto.

2.11. – Ancora infondato è il motivo che precede sub 1.19., alla stregua delle stesse argomentazioni sopra svolte circa il carattere mafioso dell’associazione di cui al capo 1 della rubrica e la difforme valutazione delle dichiarazioni del collaborante Bo. effettuata dall’impugnata sentenza rispetto a quanto in altra sede ritenuto dalla Corte di Assise di Ravenna.

2.12. – Il sopra accertato carattere mafioso dell’associazione di cui al capo 1 dell’editto accusatorio comporta il rigetto anche del motivo che precede sub 1.20., ricordata altresì la compatibilità dell’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 con i reati-fine commessi dagli appartenenti al sodalizio criminoso (cfr., ex aliis, Cass. Sez. 6^ n. 15483 del 26.2.09, dep. 9.4.09; Cass. S.U. n. 10 del 28.3.01, dep. 27.4.01).

2.13. – Sempre concernenti mere valutazioni in punto di fatto sono i motivi che precedono sub 1.21. e sub 1.22., basati sulla deposizione della teste S. (relativa all’episodio del 14.8.99 ai danni del "Circolo ricreativo (OMISSIS)" di Ravenna) e alla tentata estorsione ai danni di b.i. di cui al capo 11: circa la deposizione della teste S., si noti che l’impugnata sentenza non l’ha considerata decisiva, avendo basato l’affermazione di penale responsabilità dell’odierno ricorrente sul tenore di un colloquio, oggetto di intercettazione ambientale, svoltosi fra il Ma. e il L., coerente – oltre che con gli interessi del gruppo criminale – con quanto dichiarato dal Bo. in ordine ad una vicenda in cui, appunto, erano stati esplosi dei colpi di arma da fuoco all’indirizzo di un circolo.

Infine, anche sul reato di cui al capo 11 il ricorrente si limita a contestare l’interpretazione, data in sede di merito, delle conversazioni intercettate, il che esula dal novero delle doglianze suscettibili di essere fatte valere mediante ricorso per cassazione (come si è già detto).

2.14. – Va disatteso anche il motivo che precede sub 1.23., relativo al diniego delle attenuanti generiche, noto essendo in giurisprudenza che ai fini della determinazione della pena e dell’applicabilità delle circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. non è necessario che il giudice, nel riferirsi ai parametri di cui all’art. 133 c.p., li esamini tutti, essendo invece sufficiente che specifichi a quali di essi ha inteso fare riferimento (cfr. ad esempio Cass. Sez. 1^ n. 707 del 13.11.97, dep. 21.2.98; Cass. Sez. 1^ n. 8677 del 6.12.2000, dep. 28.2.2001 e numerose altre).

Ne consegue che, con il rinvio agli svariati precedenti penali e alla personalità del L., oltre che alla gravità dei fatti da lui commessi, l’impugnata sentenza ha adempiuto l’obbligo di motivare sul punto.

Il ricorso del P..

2.15. – Il motivo che precede sub 1.24. è infondato, atteso che per costante insegnamento giurisprudenziale l’illegittimo diniego del rito abbreviato non determina nullità alcuna, ma comporta semplicemente, ove in seguito sia ritenuta giustificata la relativa istanza, l’applicazione della diminuente dell’art. 442 c.p.p. in caso di condanna (cfr, da ultimo, Cass. Sez. 6^ n. 27505 del 28.4.09, dep. 6.7.09; in precedenza v. altresì Cass. S.U. n. 44711 del 27.10.04, dep. 18.11.04; Cass. Sez. 4^ n. 12222 del 19.6.06, dep. 23.3.07;

Cass. Sez. 1^ n. 3600 del 27.5.96, dep. 9.8.96; Cass. Sez. 1^ n. 6533 del 25.2.91, dep. 11.6.91), diminuente di cui il P. ha puntualmente fruito nell’impugnata sentenza.

Invero, una volta che si sia erroneamente proceduto al giudizio nelle forme ordinarie anzichè in quelle del rito abbreviato, la sentenza di condanna può appellarsi per illegittimità della pena inflitta (in quanto non decurtata della diminuente che sarebbe spettata ai sensi dell’art. 442 c.p.p.), ma senza che sia possibile il recupero del rito alternativo mediante regresso dalle forme ordinarie in cui si sia regolarmente svolto il giudizio e sia stata emessa la sentenza, non potendosene dichiarare la nullità al di fuori dei casi tassativi previsti dall’art. 604 c.p.p..

2.16. – Il motivo che precede sub 1.25. ripercorre a grandi linee le doglianze mosse dal L. con il motivo di cui al punto 1.5.:

anche in proposito va ribadito che la natura mafiosa dell’associazione per delinquere è stata desunta da plurimi elementi e non soltanto dall’omicidio G. e che tale vicenda – ancorchè estranea alle imputazioni di cui al presente processo – ben poteva valere, veicolata attraverso le acquisizioni ex artt. 238 e 238 bis c.p.p., a ricomporre il quadro complessivo del contesto mafioso in cui ha operato la consorteria di cui al capo 1 della rubrica.

2.17. – Ancora integrante censura in punto di fatto è la doglianza espressa nel motivo che precede sub 1.26.: per altro, non è esatto sostenere che i giudici del merito abbiano omesso di valutare criticamente nel loro complesso le dichiarazioni dei collaboratori B., Co. e Mo., avendo – invece – messo in risalto la coerenza del narrato proveniente dal primo e dal terzo (in relazione alla gestione delle bische e agli accordi di spartizione dei relativi utili) e l’inidoneità delle dichiarazioni del secondo ad escludere la penale responsabilità del ricorrente, suffragata da numerose intercettazioni – specificamente individuate – aventi ad oggetto i flussi di denaro che, provento delle attività illecite del gruppo Masellis, finivano al P., sia durante la sua carcerazione che dopo, al punto da evidenziare un vero e proprio vincolo di subordinazione nei suoi confronti.

2.18. – Il motivo che precede sub 1.27. è meramente assertivo, non chiarendo natura e circostanze topico-temporali dei reati, oggetto di separati giudizi, rispetto ai quali viene invocato il regime dell’art. 81 cpv. c.p., di guisa che sul punto il ricorso si palesa non autosufficiente.

2.19. – Il motivo che precede sub 1.28. è infondato, ben potendo bastare – per giustificare l’applicazione al P. della misura di sicurezza dell’assegnazione a una casa di lavoro – il sintetico riferimento (v. pag. 76 dell’impugnata sentenza) alla sua "carriera criminale" (la giurisprudenza si è da lungo tempo pronunciata circa la potenziale sufficienza, in tema di misure di sicurezza, di una motivazione ancorata ai precedenti penali del reo: cfr. Cass. Sez. 4^ n. 535 del 23.11.88, dep. 19.1.89), soprattutto se letto nel quadro di una ben più ampia motivazione che, diffusamente esaminando la posizione dell’odierno ricorrente, ne ha evidenziato la posizione apicale in seno all’associazione di tipo mafioso.

Il ricorso del C..

2.20. – Il motivo che precede sub 1.29., avanzato nel ricorso del C., è infondato.

Invero, rimangono utilizzabili i risultati delle intercettazioni disposte in riferimento ad un titolo di reato che le consenta, anche quando l’imputazione venga successivamente modificata e il giudizio di colpevolezza emesso per una fattispecie di reato per cui non sarebbe stato possibile autorizzarle (in proposito la giurisprudenza di questa S.C. è da tempo consolidata: cfr., ex aliis, Cass. Sez. 1^ n. 24163 del 19.5.10, dep. 23.6.10; Cass. Sez. 1^ n. 19852 del 20.2.09, dep. 11.5.09; Cass. Sez. 1^ n. 50001 del 27.11.09, dep. 30.12.09; Cass. Sez. 6^ n. 50072 del 20.10.09, dep. 31.12.09).

A maggior ragione ciò valga in un caso come quello in esame, in cui, ferma restando la qualificazione giuridica del reato, è solo venuta meno – all’esito del giudizio di primo grado – l’aggravante del D.L. n. 152 del 1991, art. 7 originariamente contestata in relazione ai capi 14 e 15 ascritti al C..

2.21. – Le censure espresse ai punti 1.30. e 1.31. esorbitano dall’ambito dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e): infatti, affinchè sia ravvisabile una manifesta illogicità argomentativa denunciabile per cassazione non basta rappresentare la mera possibilità di ipotesi alternative – magari altrettanto logiche in via congetturale – rispetto a quella ritenuta in sentenza (a riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è antica e consolidata: cfr. Cass. Sez. 1^ n. 12496 del 21.9.99, dep. 4.11.99; Cass. Sez. 1^ n. 1685 del 19.3.98, dep. 4.5.98; Cass. Sez. 1^ n. 7252 del 17.3.99, dep. 8.6.99;

Cass. Sez. 1^ n. 13528 dell’11.11.98, dep. 22.12.98; Cass. Sez. 1^ n. 5285 del 23.3.98, dep. 6.5.98; Cass. S.U. n. 6402 del 30.4.97, dep. 2.7.97; Cass. S.U. n. 16 del 19.6.96, dep. 22.10.96; Cass. Sez. 1^ n. 1213 del 17.1.84, dep. 11.2.84 e numerosissime altre).

Pertanto, non può in questa sede supporsi che la contraffazione del documento possa essere stata opera di terzi e/o che lo scopo precipuo perseguito dal C. nel fornire una carta d’identità contraffatta al M. fosse altro da quello di favorirne la latitanza.

Nè può sostenersi l’inidoneità del documento medesimo a vanificare le ricerche del fuggiasco, inidoneità che – proprio in quanto valutabile solo ex ante mediante prognosi postuma – postulerebbe un falso grossolano che, in realtà, nemmeno l’odierno ricorrente allega (e che, d’altro canto, non potrebbe essere accertato in sede di legittimità).

Il ricorso del M..

2.22. – La censura formulata nel motivo che precede sub 1.32. sostanzialmente ricalca quella, riportata al punto 1.15., avanzata dal L., alla cui motivazione si rinvia.

2.23 – Da ultimo, è infondata anche la doglianza che precede sub 1.33., atteso che i giudici del merito hanno adeguatamente motivato il diniego delle attenuanti generiche avuto riguardo ai gravi e innumerevoli precedenti penali del M. e al suo stato di latitanza. L’obiezione circa la sua breve permanenza all’interno del clan mafioso per cui è processo è volta soltanto ad una differente delibazione in fatto circa l’ipotetica ravvisabilità di spunti a favore del ricorrente, operazione non consentita in questa sede.

2.24. – In conclusione, tutti i ricorsi sono da rigettarsi. Ex art. 616 c.p.p. consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione Penale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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