Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 10-03-2011) 20-04-2011, n. 15666

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 27.2.2009, la Corte Suprema di Cassazione ha annullato l’ordinanza pronunciata dalla Corte d’appello di Catanzaro il 21.12.2007, limitatamente alla misura dell’indennizzo liquidata in favore di I.E., disponendo la trasmissione degli atti alla stessa Corte per un nuovo giudizio.

La Corte d’ Appello di Catanzaro, decidendo sull’istanza formulata dal citato I.E., con ordinanza del 21.12.2007, aveva liquidato in favore dell’istante la somma di Euro 183.300,00 a titolo di riparazione per l’ingiusta detenzione subita da questi per 780 giorni di restrizione in carcere, ritenendo che la liquidazione andasse effettuata in relazione alla durata della privazione della libertà personale secondo il cosiddetto criterio aritmetico "non risultando dedotti ulteriori aggravi dovuti alle condizioni personali dell’istante, riconducibili con certezza allo stato detentivo" ed evidenziando che "la documentazione sulla perdita del posto di lavoro prodotta soltanto in udienza non corrispondeva ad alcuna indicazione nella domanda originaria e, pertanto – applicando in materia i principi processualcivilistici della corrispondenza tra pronunciato e petitum (art. 99 c.p.c.) – non l’aveva esaminata.

Avverso tale ordinanza lo I. ha proposto ricorso, in accoglimento del quale, la Corte Suprema di Cassazione, con sentenza del 27.2.2009, ha annullato l’ordinanza citata limitatamente alla misura dell’indennizzo ed ha rinviato per un nuovo esame allo stesso giudice territoriale. In particolare, la Corte Suprema di Cassazione, nel ritenere fondato il ricorso, dopo aver premesso che, in tema di equa riparazione per l’ingiusta detenzione, la giurisprudenza di legittimità ha enucleato un canone base per la liquidazione del danno, ha rilevato che l’ordinanza in esame aveva determinato un indennizzo che corrispondeva astrattamente ad una corretta applicazione del criterio aritmetico sopra indicato; ma aveva omesso di ponderare se tale valutazione potesse essere modificata dalla considerazione di specifici profili di danno dedotti. In proposito aveva puntualizzato che la dedotta tardività della documentazione era censurabile perchè, da un lato, nella domanda si era fatto riferimento ai danni derivanti dalla detenzione sul piano lavorativo e, dall’altro, che il giudice poteva attivare i propri poteri ufficiosi ai fini dell’accertamento di fatti rilevanti o sollecitare le parti alle opportune produzioni. Pertanto non era incompatibile con la stessa procedura la produzione di documenti in udienza.

La Corte del rinvio,dopo avere esaminato la documentazione prodotta dall’istante,confermava la precedente valutazione osservando che la documentazione prodotta non era idonea a dimostrare ulteriori conseguenze pregiudizievoli patrimoniali concretamente patite dallo I. a causa dell’ingiusta detenzione sofferta. In proposito premetteva che la documentazione prodotta era costituita dall’atto di sospensione cautelare per assenze ingiustificate disposta nei confronti del ricorrente oltre che da alcune missive intercorse tra il suo difensore e il legale della ditta datrice di lavoro del medesimo;che dal complesso di detta documentazione, emergeva soltanto una sospensione cautelare per assenze ingiustificate e un chiarimento da parte del ricorrente che tali assenze dipendevano dallo stato di detenzione conseguente a un procedimento penale iniziato nei suoi confronti. Tanto premesso rilevava che, secondo la giurisprudenza delle sezioni civili della Corte Suprema di cassazione, "la sospensione cautelare dal servizio del lavoratore sottoposto a procedimento penale non ha natura disciplinare ma cautelare, essendo una misura provvisoria finalizzata ad impedire che, in pendenza di procedimento penale, la permanenza in servizio del dipendente inquisito possa tradursi in un pregiudizio dell’immagine e del prestigio dell’amministrazione di appartenenza. Pertanto nel caso in cui il procedimento penale instaurato nei confronti del pubblico dipendente si concluda con formula non assolutoria e la sanzione disciplinare non assorba il periodo di sospensione cautelare patita, all’impiegato spetta la "restitutio in integrum" per il periodo di sospensione cautelare sofferta in eccedenza, con deduzione dei periodi di tempo corrispondenti all’irrogata pena detentiva inflitta" (Cass. Civ. n. 19169 del 2006). Pertanto l’atto di sospensione cautelare dal servizio e le missive prodotti dallo I. non provavano che la suddetta persona non avesse percepito la retribuzione; ma soprattutto non era stata fornita alcuna prova che la vicenda in esame si fosse conclusa con la perdita del lavoro da parte dell’istante, il quale, a seguito dell’assoluzione, doveva essere reintegrato nel posto anteriormente ricoperto.

Ricorre per cassazione l’interessato per mezzo del proprio difensore deducendo:

l’inosservanza del principio enunciato dalla Suprema Corte e la violazione degli artt. 314, 315 e 643 c.p.p. nonchè mancanza e contraddittorietà della motivazione sul punto. Sostiene che egli lavorava come autista alle dipendenze di una ditta privata e che a seguito della scarcerazione non aveva ripreso il proprio posto di lavoro perchè nel frattempo l’opera appaltata alla ditta per la quale lavorava era stata ultimata. Il profilo di danno sul punto andava accuratamente accertato sia con riferimento all’effettiva percezione della retribuzione che con riguardo all’epoca sino alla quale avrebbe potuto lavorare se non fosse stato detenuto. Si trattava secondo il ricorrente di argomenti probatori che solo attraverso l’attivazione dei poteri ufficiosi della corte potevano essere accertati In ogni caso l’incidenza negativa della carcerazione si sarebbe dovuta analizzare anche in relazione alla lesione del rapporto fiduciario intercorrente tra datore di lavoro e lavoratore subordinato.
Motivi della decisione

Il ricorso va accolto.

Nella fattispecie occorreva ed occorre accertare se l’interessato durante il periodo della detenzione non aveva percepito alcun compenso nonchè la durata del rapporto di lavoro se non fosse intervenuto l’arresto.

L’istante aveva dedotto che all’epoca dell’arresto lavorava come autista alle dipendenze della ditta F.C.LME e che al termine della custodia cautelare non aveva potuto riprendere l’attività perchè la ditta,presso la quale lavorava, aveva completato i lavori che gli erano stati appaltati.

La Corte ha respinto la domanda osservando che trattandosi di sospensione cautelare al lavoratore a seguito dell’assoluzione spettava comunque la "restituito in integrum" e che in ogni caso il lavoratore non aveva provato di avere perduto la retribuzione.

L’assunto non va condiviso E’ ben vero che a norma dell’art. 102 bis disp. att. c.p.p. il lavoratore subordinato licenziato dal posto di lavoro a seguito dell’adozione di una misura cautelare detentiva, ha diritto alla reintegrazione qualora venga pronunciata sentenza di assoluzione,di proscioglimento o di non luogo a procedere in suo favore, ma è altrettanto certo che tale disposizione opera allorchè il licenziamento sia stato determinato in stretto rapporto di causalità con la detenzione ossia che il recesso del datore di lavoro sia fondato esclusivamente sul fattore obiettivo dello status custodiae Da ciò consegue che la citata disposizione non può dare titolo alla reintegrazione nel posto di lavoro qualora il licenziamento risulti in via autonoma sulla base di elementi ulteriori rispetto alla mera assenza del lavoratore determinata dal provvedimento cautelare(Cass. Sez. 1 aprile 2003 Aglitti e Aeroporti Roma S.p.A. CED 561662, Cass. SL 6 giugno 2008 MA e Aeroporti Roma S.P.A. CED 603624).

Nella fattispecie,da un lato, il lavoratore non poteva essere riassunto perchè trattandosi di lavoro a tempo determinato, al momento della scarcerazione, la ditta presso cui prestava la sua attività di autista, non si trovava più nella zona, dall’altro, non risulta che il lavoratore sia stato licenziato proprio a causa dell’adozione della misura cautelare detentiva. Quindi l’indennizzo patrimoniale non poteva essere escluso in base al rilievo che sussisteva l’astratta possibilità della reintegrazione, ma occorreva accertare se in concreto tale reintegrazione si fosse verificata e la causa che aveva determinato il licenziamento.

Per quanto concerne la ripartizione dell’onere probatorio, occorre rilevare che in questa materia i principi processualcivilistici richiamati dalla Corte territoriale vanno integrati con la natura pubblicistica e solidaristica dell’istituto. Di conseguenza, fermo restando che, per quanto concerne la misura dell’indennizzo, è onere dell’istante allegare gli elementi per la sua concreta determinazione, è consentito al giudice di chiedere anche d’ufficio informazioni presso le pubbliche amministrazioni su atti o documenti in loro possesso ovvero di disporre,anche nei confronti del terzo, su istanza dell’interessato, l’ordine di esibizione di documenti (artt. 210 e 213 c.p.c.) utili ai fini della decisione.

Alla stregua delle considerazioni svolte il provvedimento impugnato va annullato con rinvio per un nuovo esame.

Il giudice del rinvio,avvalendosi eventualmente anche dei poteri istruttori innanzi indicati, dovrà accertare l’incidenza della misura cautelare sul licenziamento e stabilire in concreto se l’istante sia stato o no integrato nel posto di lavoro,nell’eventualità che non sia stato integrato determinare l’indennizzo tenendo conto che non si tratta di risarcimento integrale del danno ma di mero indennizzo ed applicando all’occorrenza il principio della compensatio lucri cum damno.
P.Q.M.

LA CORTE Letto l’art. 623 c.p.; Annulla L’ordinanza impugnata con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Catanzaro.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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