T.A.R. Lazio Roma Sez. III, Sent., 18-04-2011, n. 3351 Silenzio-rifiuto della Pubblica Amministrazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

pecificato nel verbale;
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il ricorrente, nato il 26.8.1946, prospetta di essere ricercatore confermato presso l’Università degli Studi "La Sapienza" di Roma, con la qualifica di professore aggregato, ai sensi dell’art 1 comma 11 della legge n° 230 del 4112005.

Egli ha presentato un’istanza all’Università, datata 8 aprile 2008, per il mantenimento in servizio fino al settantesimo anno di età, quale professore di materie cliniche, ai sensi del combinato disposto dell’art 1 comma 18 e dell’art. 1 comma 11 della legge n° 230 del 2005.

Assumendo essersi al riguardo formato silenzio rifiuto, ha impugnato lo stesso con il ricorso introduttivo depositato il 16.4.2009, ai sensi dell’art. 21 bis della legge n. 1034/1971.

Peraltro, successivamente, con nota del 14.5.2009, l’Università ha respinto la domanda del ricorrente, rilevando che i professori ordinari e associati vengono collocati a riposo a 70 anni; che per i professori che insegnano materie cliniche anche l’attività assistenziale è mantenuta fino al 70° anno; che il titolo di professore aggregato di cui al comma 11 dell’art 1 della legge n° 230 del 2005 non modifica lo status giuridico dei ricercatori né modifica il loro ruolo in quello di professori.

Detto provvedimento è stato impugnato dall’interessato con motivi aggiunti depositati il 20.7.2009, per cui nella specie la causa, pur inizialmente iscritta nel ruolo della camera di consiglio del 19.1.2011, è stata trattata, lo stesso giorno, in pubblica udienza (ove è stata trattenuta per la decisione), in applicazione dell’art. 117 comma 5 del D.Lgs. n. 104/2010, ai sensi del quale, infatti, "se nel corso del giudizio", riguardante il silenzio della P.A., "sopravviene" (come appunto nel caso di cui trattasi) "il provvedimento espresso, o un atto connesso con l’oggetto della controversia, questo può essere impugnato anche con motivi aggiunti, nei termini e con il rito previsto per il nuovo provvedimento, e l’intero giudizio prosegue con tale rito".

Posto quanto sopra, l’impugnativa del silenzio rifiuto è improcedibile, per sopravvenuto difetto di interesse, essendo intervenuto, nelle more del giudizio, un atto lesivo espresso (peraltro contestato con i motivi aggiunti), e pertanto ritenendo il Collegio di poter soprassedere dall’esame e dalla valorizzazione dei profili di iniziale inammissibilità del ricorso contro il silenzio stesso, derivanti dal fatto che il ricorrente, al di là dell’impugnativa del silenzio rifiuto (come, d’altra parte, dell’atto espresso di cui in epigrafe, di diniego di trattenimento in servizio), ha di fatto azionato il proprio diritto a rimanere in servizio fino al settantesimo anno di età, affermando di essere professore aggregato (art. 1 comma 11 della legge n. 230/05) e di avere quindi titolo all’applicazione dell’art. 1 comma 18 della legge stessa.

Tanto premesso rileva il Collegio che avverso il diniego del 15.5.2009 sono stati formulati i seguenti profili di censura:

difetto di motivazione, insufficienza, incompletezza ed illogicità della motivazione;

violazione e o falsa applicazione degli artt. 1 commi 11, 18 e 19 della legge n° 230 del 2005; 1,30,31,32,33,34,50 del d.p.r. n° 382 del 1980; dell’art 12 della legge n° 241 del 1990; violazione dell’art 3 della Costituzione; eccesso di potere per travisamento ed erronea valutazione di fatti e sviamento dal fine tipico; ingiustizia manifesta.

L’azione esercitata non è suscettibile di accoglimento.

Non sussiste anzitutto alcun difetto di motivazione, dal momento che la decisione assunta dall’Università e l’esplicitazione dell’iter logico seguito discendono direttamente dal dettato delle norme richiamate. Il riferimento alle stesse è largamente sufficiente, infatti, a fondare il provvedimento impugnato e la relativa motivazione.

Ed invero, in ordine al conferente quadro normativo, rileva il Collegio che ai sensi del comma 11 della legge n° 230 del 2005 ai ricercatori, agli assistenti del ruolo ad esaurimento e ai tecnici laureati di cui all’articolo 50 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, che hanno svolto tre anni di insegnamento ai sensi dell’articolo 12 della legge 19 novembre 1990, n. 341, nonché ai professori incaricati stabilizzati, sono affidati, con il loro consenso e fermo restando il rispettivo inquadramento e trattamento giuridico ed economico, corsi e moduli curriculari compatibilmente con la programmazione didattica definita dai competenti organi accademici nonché compiti di tutorato e di didattica integrativa. Ad essi è attribuito il titolo di professore aggregato per il periodo di durata degli stessi corsi e moduli.

Tale norma è stata peraltro abrogata dalla legge n° 240 del 30122010, che l’ha riformulata (art 6 comma 4 della legge n° 240 del 2010), aggiungendo che il titolo di professore aggregato spetta per l’anno accademico in cui essi svolgono tali corsi e moduli. Il titolo è conservato altresì nei periodi di congedo straordinario per motivi di studio di cui il ricercatore usufruisce nell’anno successivo a quello in cui ha svolto tali corsi e moduli.

La norma del 2010 ha previsto, altresì, che ciascuna università, nei limiti delle disponibilità di bilancio e sulla base di criteri e modalità stabiliti con proprio regolamento, determini la retribuzione aggiuntiva dei ricercatori di ruolo ai quali, con il loro consenso, sono affidati moduli o corsi curriculari.

Da tali disposizioni normative (ed in primis dalla stessa legge n. 230/2005) risulta chiaramente che il ricercatore universitario, pur avendo il titolo di professore aggregato ai fini della rilevanza della funzione docente, rilevanza a cui la legge Gelmini collega ora un particolare aspetto di incidenza anche sulla retribuzione, mantiene il proprio status giuridico ed economico, che resta ancora disciplinato dal d.p.r. n° 382 del 1980.

Anzi, la espressa previsione contenuta nella legge n° 240 del maggior compenso da parte delle Università è essa stessa conferma della circostanza che non vi è stata alcuna equiparazione dei ricercatori universitari ai professori ordinari e associati.

Bisogna, altresì, evidenziare che sia la legge n° 230 del 2005 sia la legge n° 240 del 2010, mantengono in tutte le altre norme la distinzione tra professori ordinari e associati e ricercatori la prima, tra professori e ricercatori la seconda.

Da tale contesto normativo deriva che alcuna equiparazione si può ritenere operata da tali norme tra ricercatori e professori in ordine allo status giuridico ed economico, con le conseguenze che ne derivano anche in relazione al limite di età di cessazione dal servizio.

Come è noto, tale regime è allo stato regolato dal comma 19 della legge n° 230 del 2005, che prevede che i professori, i ricercatori universitari e gli assistenti ordinari del ruolo ad esaurimento in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge conservino lo stato giuridico e il trattamento economico in godimento, ivi compreso l’assegno aggiuntivo di tempo pieno.

I professori possono optare per il regime di cui all’articolo 1 L. n. 230/05 e con salvaguardia dell’anzianità acquisita.

La sezione ha già più volte affermato che per i professori ordinari ed associati l’esercizio dell’opzione di cui alla seconda parte del comma 19 sopra citato comporta l’applicazione del nuovo regime di cui al comma 17 della legge n° 230 del 2005, per cui "per i professori ordinari e associati nominati secondo le disposizioni della presente legge il limite massimo di età per il collocamento a riposo è determinato al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno" (TAR Lazio, III n. 33196 del 2010).

L’unica norma della legge Gelmini, che riguarda il collocamento a riposo, ovvero l’art 25 che limita l’applicazione del prolungamento biennale del servizio di cui all’art. 16 d. lgs. n. 503 del 1992, espressamente si riferisce sia ai professori universitari che ai ricercatori.

In mancanza di alcuna specifica altra indicazione (anche nella stessa L. n. 230/2005), per i ricercatori è quindi tuttora vigente il limite di età previsto dal d.p.r. n° 382 del 1980, il cui articolo 34 prevede che i ricercatori confermati permangano nel ruolo fino al compimento del sessantacinquesimo anno di età. Essi sono collocati a riposo a decorrere dall’inizio dell’anno accademico successivo alla data di compimento del predetto limite di età.

Per i ricercatori non è infatti applicabile il nuovo regime della legge Moratti, in quanto sia detta norma (comma 17) sia la successiva del comma 19 (secondo periodo) si riferiscono solo ai professori ordinari e associati.

Che la categoria dei professori aggregati costituisca una categoria particolare di personale appartenente al ruolo dei ricercatori, certamente non compresa nell’ambito dei professori universitari in senso proprio è stato del resto ribadito di recente dal Consiglio di Stato, avendo lo stesso affermato che il professore aggregato è un ricercatore (o assistente del ruolo ad esaurimento o tecnico laureato o professore incaricato stabilizzato) cui, ai sensi dell’art. 1, comma 11, della legge 4 novembre 2005, n. 230, e ricorrendone le condizioni indicate dalla norma, viene attribuito il titolo di professore aggregato per il solo periodo di durata del corso o modulo curricolare svolto, fermo restando, peraltro, il rispettivo inquadramento e trattamento giuridico ed economico. Non si tratta, quindi, di una nuova e diversa categoria docente, assimilata o assimilabile, per accesso alla carriera e funzioni, a quella dei professori universitari, ma, più semplicemente, di un titolo specificamente attribuito in presenza dell’espletamento, e per il solo periodo di espletamento, da parte di dette categorie di personale, di compiti didattici individuati dalla norma, ma senza alcun effetto sul piano giuridico ed economico e, quindi, dell’assimilazione alla categoria dei professori universitari in senso proprio (Consiglio di Stato n° 9439 del 27 dicembre 2010).

La difesa ricorrente richiede ancora l’applicazione dell’art 1 comma 18 della legge n° 230 del 2005, per cui i professori di materie cliniche in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge mantengono le proprie funzioni assistenziali e primariali, inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca ad esse complementari, fino al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età.

Ritiene il Collegio che tale norma non sia applicabile al caso di specie.

La norma fa riferimento alla qualifica di professore.

Non vi è alcuna ragione né testuale né logica per riferirla anche ai ricercatori universitari.

Come sopra evidenziato, tutto il testo normativo della legge Moratti distingue le posizioni dei professori, anche ordinari e associati, e dei ricercatori universitari, salvo attribuire a questi ultimi la qualifica di professore aggregato, ma solo per il periodo in cui svolgono i corsi, qualifica che, quindi, non incide sul mutamento dello status giuridico, rilevante per il collocamento a riposo.

Soprattutto la norma del comma 18 dell’art. 1 deve essere letta, come già affermato dalla sezione, in combinato disposto con i commi 19 e 17 del medesimo art 1, con il che trova una spiegazione logica anche il riferimento generico alla qualifica di professori, senza la distinzione tra ordinari e associati.

Il comma 17 ha equiparato i professori ordinari e associati ai fini del collocamento a riposo prevedendo, per quelli nominati in base alla legge Moratti, per tutti il limite di settanta anni di età, senza collocamento fuori ruolo.

Il comma 19 ha previsto che tale nuovo regime possa essere applicato ai professori già in servizio che ne facciano richiesta.

La ratio del comma 18 è allora quella di affermare che i professori ordinari e associati, che rimangano in servizio fino a settanta anni, fino al collocamento a riposo mantengano anche le funzioni assistenziali, per le quali, in mancanza di tale espressa normativa, poteva valere la norma generale dell’art 15 nonies del d.lgs n° 502 del 1992 che prevede per i dirigenti medici del SSN il collocamento a riposo al sessantacinquesimo anno di età e, per il personale medico universitario, il collocamento a riposo "assistenziale".

Il comma 18, quindi, non incide sulla disciplina del limite di età, ma consente, a coloro che restano in servizio in base ad una norma che già espressamente lo prevede, il mantenimento delle funzioni assistenziali.

La giurisprudenza anche della sezione (pronunciandosi sull’eventuale raggiungimento del settanduesimo anno di età a seguito del prolungamento biennale del servizio) ha già interpretato la norma del comma 18 come non avente alcun contenuto innovativo rispetto al limite di età per il collocamento a riposo. Il comma 18 dell’art. 1 della L. n. 230/2005 non ha voluto disciplinare ex novo in alcun modo l’individuazione dell’età per il collocamento a riposo dei professori in materie cliniche, sia ordinari che associati, essendosi limitato a prevedere solamente la tipologia delle funzioni che tali docenti possono espletare; in sostanza la norma risulta assolutamente neutra sotto l’aspetto in questione, non avendo alcuna portata innovativa (Tar Lazio III n° 3575 del 2008).

L’art. 1 l. n. 230 del 2005 stabilisce, infatti, che i professori di materie cliniche in servizio alla data di entrata in vigore della legge "mantengono" le proprie funzioni assistenziali e primariali, inscindibili da quelle di insegnamento e ricerca e ad esse complementari, fino al termine dell’anno accademico nel quale si è compiuto il settantesimo anno di età, senza consentire per tali professori il recupero di posizioni ormai cessate in virtù della previgente disciplina o l’acquisizione di nuove funzioni (Consiglio Stato, sez. VI, 04 ottobre 2007, n. 5119).

Ne deriva che il comma 18 dell’art. 1 della legge Moratti presuppone già il limite di età di settanta anni per il collocamento a riposo, senza disciplinarlo ex novo.

Conseguentemente, la pretesa del ricorrente non può essere accolta.

In base alle esposte considerazioni, i motivi aggiunti (ferma restando l’improcedibilità del ricorso introduttivo) sono quindi infondati e devono essere respinti.

In considerazione della particolarità della questione (ed anche in relazione a talune oscillazioni giurisprudenziali della Sezione) sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese processuali.
P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (Sezione Terza)

definitivamente pronunciando sul ricorso e i motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, dichiara improcedibile il ricorso introduttivo e respinge i motivi aggiunti.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *