Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-07-2011, n. 15945 Licenziamento disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello de L’Aquila, con sentenza depositata in data 11.1.2008, in accoglimento dell’appello proposto dalla spa ATR Composites s.p.a avverso la sentenza de Tribunale di Teramo ed, in riforma di quest’ultima, respingeva la domanda di P. A., avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento irrogatogli per l’assenza ingiustificata protrattasi oltre i quattro giorni.

Sosteneva la Corte territoriale che l’assenza ingiustificata di cui alla contestazione era quella determinata dal provvedimento di carcerazione cautelare del P., per reati di associazione a delinquere e traffico internazionale di stupefacenti, adottato il 7- 10.5.2004, come era dato evincere dalle espressioni utilizzate nella lettera, ove si faceva riferimento al disagio procurato alla società da tale assenza, per l’organizzazione del lavoro del reparto, stante l’imprevedibilità della sua durata.

Lo strumento disciplinare utilizzato per irrogare il licenziamento per giustificato motivo oggettivo non costituiva ostacolo – a dire della Corte territoriale – per una diversa qualificazione del licenziamento stesso, rimanendo inalterati i fatti posti a suo fondamento. Rilevava, ancora, che la carcerazione preventiva del lavoratore per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro non costituiva inadempimento agli obblighi contrattuati e, quindi, non configurava una giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, che, in quanto riferibili ad un comportamento lato sensu colpevole, rendevano necessario il ricorso al procedimento disciplinare, ma integravano una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione, che rendeva necessario valutare la persistenza nel datore di un apprezzabile interesse a ricevere le ulteriori prestazioni alla stregua di criteri oggettivi, riconducibili a quelli fissati dall’ultima parte della L. n. 604 del 1966, art. 3.

Propone ricorso per cassazione il P., affidando l’impugnazione a tre motivi.

Resiste, con controricorso, la società, che ha, altresì, depositato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Con il primo dei motivi di ricorso, il P. denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1324 e 1362 c.c., in rapporto alla L. n. 300 del 1970, art. 7 ed alla L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), sostenendo che era stato disapplicato il canone legale di interpretazione degli atti e negozi giuridici unilaterali ed, in particolare, il criterio letterale, avendo il giudice del merito disconosciuto la diversa dichiarata volontà datoriale di avviare un procedimento disciplinare, degradando detta volontà alla mera utilizzazione, per un eccesso prudenziale, di uno strumento disciplinare non per i fini propri di cui all’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, ma per fini del tutto diversi dalla incolpazione, non rinvenibili nella lettera di contestazione e nella successiva lettera di licenziamento.

Secondo quanto argomentato dal ricorrente, deve ritenersi estranea all’intento dichiarato la volontà di contestare l’impossibilità della prestazione da parte del P., giacchè tale impossibilità della prestazione lavorativa costituiva solo il lamentato effetto della contestata assenza ingiustificata, prolungata oltre i quattro giorni consecutivi e, peraltro, la disposta sospensione, da collegarsi alla indicata gravità degli addebiti, avrebbe avuto l’effetto di prolungare ed aggravare il fatto addebitato della impossibilità della prestazione. Nessun cenno vi era, poi, nella contestazione, alla carcerazione subita. A conclusione della parte argomentativa dell’esposto motivo, il P. formula specifico quesito, domandando se costituisca violazione del canone ermeneutico legale di cui all’art. 1362 c.c., interpretare una lettera di contestazione, quale quella in oggetto, nel senso di una mera utilizzazione di uno strumento disciplinare per irrogare un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, in contrasto con criteri di logica e ragionevolezza e con l’intento dichiarato della società di valutare in termini di condotta colpevole l’addebito contestato.

Con il secondo motivo, il P. lamenta la contraddittorietà della motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5), riassumendo i termini della questione posta nel quesito, ove domanda se ha o non irrogato la società datrice un licenziamento disciplinare per fatto colposo consistente nell’assenza ingiustificata, ovvero se ha o non irrogato, invece, un licenziamento per giustificato motivo oggettivo per sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa.

Infine, con il terzo motivo, i ricorrente denunzia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. e della L. n. 604 del 1966, artt. 2 e 3, nonchè del principio della immodificabilità ed immutabilità delle motivazioni del licenziamento, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3. Assume che, con evidente salto di qualità correlato a situazioni non omogenee nè contestate congiuntamente od in via alternativa, la Corte territoriale ha dirottato la propria valutazione sulla rilevanza di fatti del tutto estranei alla contestazione e non ritenuti a base del recesso, con pretesa di sostituire al licenziamento disciplinare irrogato quello diverso per motivazioni, natura e fattori giustificativi, in contrasto con i principi in tema di immutabilità della contestazione ed in violazione dei diritti del dipendente, la cui difesa è stata logicamente impostata sul paradigma della contestazione. Pone, a conclusione, quesito di diritto, domandando se costituisca violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., e dei principi di cui in epigrafe qualificare e/o convertire un licenziamento disciplinare intimato per assenza ingiustificata in licenziamento per giustificato motivo oggettivo, per impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, determinata da carcerazione preventiva del dipendente.

I tre motivi di ricorso, per l’evidente connessione, vanno trattati congiuntamente.

E’ opportuno riportare i termini della lettera di contestazione del 10-13.6.2004, che il ricorrente assume interpretata in modo non conforme ai canoni ermeneutici cui deve attenersi il procedimento di interpretazione degli atti unilaterali.

In tale lettera la società faceva pervenire al ricorrente la seguente comunicazione "ai sensi e per gli effetti di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 e dell’art. 24 Disciplina Generale del vigente CCNL per addetti alla piccola e media industria metalmeccanica privata, Le contestiamo quanto segue:

Impossibilità a ricevere la Sua prestazione di lavoro a causa della Sua assenza ingiustificata prolungata oltre i n. 4 giorni consecutivi nel periodo 27 maggio – 10 giugno 04, che sta determinando problemi organizzativi e produttivi al suo reparto, in occasione di punte di intensa attività lavorativa derivanti da commesse.

Prima di valutare disciplinarmente quanto sopra, attendiamo di esaminare le giustificazioni che vorrà presentare, al qua fine concediamo il termine di n. 5 giorni dalla data di ricevimento della presente contestazione. Considerata la gravità degli addebiti e che la loro fondatezza renderebbe impossibile la prosecuzione, anche in via provvisoria, del rapporto di lavoro. Ella, pur mantenendo il diritto alla retribuzione, viene sospesa, con effetto immediato, dal servizio, fino all’esito del procedimento disciplinare".

Orbene, il ricorrente assume che il contenuto di tale atto era inequivocabilmente ne senso della comunicazione al dipendente di un addebito disciplinarmente rilevante, come tale idoneo a giustificare l’applicazione della normativa disciplinare di cui all’art. 7 dello Statuto dei lavoratori ed inidoneo a manifestare una diversa volontà datoriale, incompatibile con lo strumento disciplinare utilizzato.

Va premesso che, in tema di negozio giuridico, poichè le norme sull’interpretazione dei contratti ( art. 1362 cod. civ., e segg.) si applicano agli atti unilaterali con il limite della compatibilità, non può aversi riguardo, nei negozi unilaterali, alla comune intenzione delle parti, che non esiste, ma deve indagarsi l’intento proprio del soggetto che ha posto in essere il negozio, senza che possa farsi ricorso, per determinarlo, alla valutazione del comportamento dei destinatari dell’atto stesso (cfr., tra le altre, Cass. 20 gennaio 2009 n. 1387).

Alla luce di tale principio e di quello secondo il quale i canoni legali di ermeneutica contrattuale sono governati da un principio di gerarchia in forza del quale i canoni strettamente interpretativi – tra i quali risulta prioritario il canone fondato sul significato letterale delle parole – prevalgono su quelli interpretativi integrativi, deve rilevarsi che il contenuto della missiva è stato interpretato in modo conforme al suddetto criterio, tenuto conto che in tema di interpretazione degli atti unilaterali – regolati, ai sensi dell’art. 1324 cod. civ., alla stregua dei contratti – vale il principio secondo il quale la interpretazione della volontà negoziale delle parti, compiuta dal giudice del merito, non è soggetta al sindacato di legittimità, quando sia stata condotta secondo le regole di ermeneutica fissate dall’art. 1362 cod. civ., e segg., e sia congruamente motivata.

Non può, invero, mancarsi di osservare che la Corte del merito, ha conferito rilevanza al tenore letterale dell’atto, laddove ha interpretato il riferimento a ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro ed a regolare funzionamento di essa per effetto dell’assenza dal reparto del ricorrente, come espressione della impossibilità sopravvenuta della prestazione, della quale non era possibile prevedere la fine, proprio in ragione dei motivi che avevano determinato l’assenza del lavoratore.

Solo il licenziamento intimato a motivo di una colpevole condotta del prestatore di lavoro, sia pur essa idonea a configurare la giusta causa di cui all’art. 2119 cod. civ., ha natura "ontologicamente" disciplinare ed implica, per tale ragione, la previa osservanza delle garanzie procedimentali di irrogazione stabilite dalla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7, la cui violazione, tuttavia, non comporta nullità dell’atto di recesso, ma lo rende ingiustificato, nel senso che il comportamento addebitato al dipendente, ma non fatto valere attraverso quel procedimento, non può, quand’anche effettivamente sussistente e rispondente alla nozione di giusta causa o giustificato motivo, essere addotto dal datore di lavoro per sottrarsi all’operatività della tutela apprestata dall’ordinamento nelle diverse situazioni (cfr. Cass. 12 aprile 2003 n. 5855). Ma, nel caso specifico, non può sostenersi la natura ontologica disciplinare del licenziamento, in quanto – come sottolineato dalla società – anche in sede di giustificazioni, il ricorrente aveva fatto presente che si era assentato perchè tratto in arresto, e, d’altronde, non emerge che sia stata oggetto di contestazione la sequenza e connessione temporale degli eventi, anche con riguardo alla loro incidenza sul rapporto di lavoro.

Orbene, è consolidato l’orientamento giurisprudenziale per cui la carcerazione del lavoratore per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro – sia essa preventiva o per esecuzione di pena – si traduce in un fatto oggettivo che determina l’impossibilità sopravvenuta parziale (ratione temporis) della prestazione lavorativa ex art. 1464 c.c., rispetto alla quale l’apprezzabile interesse del datore di lavoro a ricevere le ulteriori prestazioni del dipendente deve essere valutato con riferimento alle esigenze dell’impresa che configurano un giustificato motivo oggettivo; tale valutazione va compiuta ex ante, con riferimento alla durata pregressa o prevedibile della carcerazione e tenuto conto delle esigenze oggettive dell’impresa, delle dimensioni della stessa, del tipo di organizzazione tecnico- produttiva in essa attuato, della natura ed importanza delle mansioni del lavoratore detenuto, nonchè del già maturato periodo di sua assenza, della ragionevolmente prevedibile ulteriore durata della sua carcerazione, della possibilità di affidare temporaneamente ad altri le sue mansioni senza necessità di nuove assunzioni e, più in generale, di ogni altra circostanza rilevante ai fini della determinazione della misura della tollerabilità dell’assenza (cfr. Cass. 5 maggio 2003 n. 6803; Cass. 1.6.2009 n. 12721).

Si è, in particolare, precisato che la carcerazione preventiva del lavoratore per fatti estranei allo svolgimento del rapporto di lavoro non costituisce inadempimento di obblighi contrattuali ma integra una fatto oggettivo determinante una sopravvenuta impossibilità temporanea della prestazione lavorativa, il che comporta che correttamente la Corte del merito ha rilevato che la fattispecie, per come configurata, in rapporto alle esigenze organizzative indicate nella lettera di contestazione ed alla impossibilità ivi palesata di far fronte alle stesse nell’assenza del dipendente addetto al reparto in cui si erano verificata un’intensificazione dell’attività lavorativa per effetto delle commesse esistenti, ha riguardo innegabilmente ad una giustificazione oggettiva, la cui sussistenza è in re ipsa, in quanto connessa ad una assenza di durata non prevedibile del lavoratore per fatti non soggettivi ma oggettivi, che non concretizzano inadempimento agli obblighi contrattuali, ma una ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione.

Che poi lo strumento disciplinare utilizzato sia normalmente estraneo alla ipotesi di licenziamento per g.m.o. non giustifica la riconducibilità del recesso, in forza di una dato solo formale – che, nella specie, non acquista rilevanza anche sostanziale – alla fattispecie del licenziamento per motivi soggettivi, che impone l’osservanza delle regole procedurali adottate nella fase disciplinare, atteso che ciò che rileva è la circostanza dell’assenza di un comportamento idoneo a realizzare un inadempimento agli obblighi contrattuali.

Quanto all’ultimo motivo di ricorso, deve convenirsi con il principio in esso richiamato che, per tutti i casi di assoggettamento del rapporto di lavoro a norme limitatrici del potere di recesso del datore di lavoro, vale il principio dell’immodificabilità delle ragioni comunicate come motivo del licenziamento, il quale opera come fondamentale garanzia giuridica per il lavoratore, che vedrebbe altrimenti frustrata la possibilità di contestare la risoluzione unilateralmente attuata dal datore. Ugualmente condivisibile è l’affermazione alla cui stregua corollario dell’indicato principio è quello che il datore di lavoro non può addurre a giustificazione del recesso fatti diversi da quelli già indicati nella motivazione enunciata al momento della intimazione del recesso medesimo, ma soltanto dedurre mere circostanze confermative o integrative che non mutino la oggettiva consistenza storica dei fatti anzidetti. Ma nello specifico è stato correttamente evidenziato che non si era verificata alcuna divaricazione rispetto alla iniziale configurazione della realtà fattuale descritta nella contestazione – neanche necessaria in un ambito attinente a licenziamento per g.m.o. – e posta a fondamento del recesso intimato al P. atteso che ciò che rileva è che la contestazione, riferita normalmente all’addebito nel procedimento disciplinare, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 7, comma 1, è corretta se ha ad oggetto i dati e gli aspetti essenziali del fatto materiale posto a fondamento del provvedimento sanzionatorio, così da garantire un’adeguata difesa dell’incolpato, l’immodificabilità della causa di licenziamento riguardando, quindi, solo gli elementi di fatto e non già la qualificazione dei medesimi, attività valutativa che appartiene in via esclusiva al giudice (cfr., in tal senso Cass. 16.11.2002 n. 16190).

In conclusione, la sentenza impugnata si sottrae a tutte le censure che le sono state mosse, per essere supportata da una motivazione congrua, priva di salti logici e per avere fatto corretta applicazione della normativa da applicare alla fattispecie in esame in quanto il giudice d’appello ha puntualmente ricostruito, in virtù di una corretta applicazione dei criteri ermeneutici in tema di interpretazione dei negozi giuridici unilaterali ed in tema di qualificazione degli elementi posti a fondamento del recesso datoriale, gli elementi che hanno caratterizzato la fattispecie esaminata. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.

Le spese di lite del presente giudizio sono regolate, nella misura indicata in dispositivo, in base al principio della soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il P. al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 40,00 per esborsi, Euro 2.000,00 per onorario, oltre spese generali, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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