Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo
1. K.M. veniva tratto in arresto il 23 settembre 2009 in flagranza del reato di cui all’art. 110 cod. pen. e D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1-bis, e, all’esito della convalida, gli veniva applicata la misura della custodia cautelare in carcere. Nei suoi confronti si procedeva con rito direttissimo e lo stesso veniva condannato, in primo grado, alla pena di anni due di reclusione ed Euro 4.000 di multa, poi ridotta dalla Corte di appello di Bologna ad anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro 3.000 di multa, con sentenza del 18 giugno 2010.
Successivamente, il 31 agosto 2010, il difensore dell’imputato presentava istanza di revoca della misura cautelare, lamentando la violazione del principio di proporzionalità di cui all’art. 275 c.p.p., comma 2, in ragione dell’entità della carcerazione cautelare fino a quel momento sofferta dal proprio assistito ed ormai corrispondente a circa i tre quarti della pena applicata all’esito del giudizio d’appello. In data 2 settembre 2010 la Corte di appello rigettava l’istanza, limitandosi a rilevare come, nonostante il protrarsi della custodia, non potevano ritenersi attenuate le esigenze cautelari evidenziate nel provvedimento genetico della misura.
Il 6 settembre 2010 il difensore del K. impugnava l’ordinanza di rigetto ai sensi dell’art. 310 cod. proc. pen., e, con decisione assunta il 22 settembre 2010, il Tribunale di Bologna, accogliendo l’appello, disponeva la revoca della misura cautelare ed ordinava l’immediata liberazione dell’imputato.
L’ordinanza del Tribunale evidenziava come il provvedimento di rigetto non avesse affrontato la questione, sollevata dall’istante, circa la sopravvenuta mancanza di proporzione tra la protrazione dello stato custodiale e l’entità della pena inflitta all’esito del giudizio d’appello. Questione che, invece, i giudici della libertà ritenevano fondata, ribadendo in tal senso un orientamento consolidato presso il Tribunale bolognese.
In particolare, l’ordinanza sottolineava come avverso la condanna pendesse ricorso per cassazione, apparendo peraltro improbabile che il grado di legittimità potesse esaurirsi prima che l’imputato espiasse in custodia cautelare l’intera pena applicatigli, venendosi così a determinare una situazione che, secondo i giudici bolognesi, sarebbe stata in contrasto con "la ratto sottesa al canone di proporzione" posto dall’art. 275 cod. proc. pen., comma 2.
Del resto, sempre secondo il provvedimento impugnato, la necessità di rapportare la valutazione sulla legittimità della protrazione della custodia cautelare anche all’entità della pena in concreto già inflitta, sarebbe stato imposto dalla stessa disposizione da ultima menzionata; nè l’ambito di operatività di tale indicazione normativa avrebbe potuto essere circoscritto a quello dell’applicazione iniziale della misura, atteso che l’art. 299 cod. proc. pen. a sua volta impone al giudice cautelare la costante verifica della proporzionalità della misura già in esecuzione rispetto alla pena irroganda. D’altra parte, la regola in esame rappresenterebbe l’attuazione della direttiva n. 59 della legge- delega del codice di rito, la quale, nell’affermare il principio di proporzionalità, espressamente fa riferimento alla sproporzione sopravvenuta tra misura e pena irroganda.
Sotto altro profilo, i giudici bolognesi hanno precisato anche che l’individuato canone di proporzionalità opera in maniera autonoma e prioritaria rispetto agli altri parametri che concorrono a definire la legittimità dell’intervento cautelare, ed in particolare rispetto ai termini fissati dall’art. 303 cod. proc. pen. nonchè al principio di adeguatezza.
Ciò premesso, il Tribunale ha ritenuto di poter ancorare la valutazione di proporzionalità ad un criterio aritmetico da ricavarsi "orientativamente" dal limite massimo posto alla custodia cautelare dall’art. 304 cod. proc. pen., comma 6 e cioè quello dei due terzi della pena edittale prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza. Peraltro, l’ordinanza si è premurata di precisare come il rinvio alla regola aritmetica posta dalla norma da ultima menzionata assuma un valore, per l’appunto, meramente "orientativo", dovendosi comunque prendere in considerazione ulteriori parametri, come ad esempio quello dei prevedibili tempi in cui la condanna possa assumere il carattere della definitività, ovvero quello della consistenza della frazione di pena residua da espiare In caso di revoca della custodia cautelare.
La tesi accolta, secondo l’ordinanza impugnata, non sarebbe poi contraddetta dalla regola posta dall’art. 300 cod. proc. pen., comma 4 secondo cui la misura custodiate perde efficacia se al momento della pronunzia della sentenza di condanna anche non definitiva il presofferto cautelare non è inferiore alla pena inflitta. Infatti, tale disposizione assumerebbe la veste di norma di chiusura, in grado di rimediare a posteriori alla frustrazione del canone di proporzionalità, allorquando la pena irrogata si sia attestata su livelli inferiori a quelli previsti o prevedibili.
Infine, a sostegno della soluzione adottata, il Tribunale ha richiamato un orientamento di legittimità che ha valorizzato i principi affermati nell’ordinanza impugnata, pur ricordando come esso risulti contrastato da altro indirizzo della Corte.
2. Avverso l’ordinanza del Tribunale di Bologna ha presentato ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale medesimo, il quale prospetta, come unico motivo, l’erronea applicazione della legge processuale penale in riferimento al disposto dell’art. 275 c.p.p., comma 2, art. 299 c.p.p., comma 2, artt. 303 e 304 cod. proc. pen..
Il ricorrente non mette in dubbio l’operatività di un autonomo canone di proporzione tanto nella fase di adozione della misura cautelare quanto nel corso della sua esecuzione, ma contesta che dal sistema normativo di riferimento possa trarsi una regola in grado di generare in maniera automatica il presupposto per la revoca della stessa misura, a prescindere da ogni valutazione sulla persistenza delle esigenze cautelari ed in ragione esclusivamente della proporzione tra presofferto cautelare ed entità della pena irroganda.
In particolare, il ricorrente evidenzia come automatismi di questo tipo siano effettivamente contemplati dalla legge processuale, risultando però sempre modulati sulla durata del processo o, alternativamente, sulla pena edittale prevista per il reato contestato o ritenuto nella progressione dei gradi di giudizio e, dunque, mai sull’entità della pena irroganda. Ed ancor più specificamente nel ricorso si sottolinea come proprio l’art. 304 cod. proc. pen., comma 6 – norma che in qualche modo il provvedimento impugnato ha utilizzato come paradigma di riferimento per mutuare la regola di diritto applicata nel caso concreto – nel configurare, per l’appunto, una rigida proporzione aritmetica tra durata massima della custodia cautelare e pena, faccia espresso riferimento a quella astratta e non a quella irrogata in concreto nello sviluppo dinamico del processo.
D’altra parte, ha sottolineato il ricorrente, la possibilità di commutare il rapporto tra pena edittale e presofferto cautelare in quello tra quest’ultimo e pena irroganda sarebbe stata esplorata e scartata dalla Corte costituzionale con la ordinanza n. 397 del 2000, evidenziandosi il carattere manipolativo di tale opzione, in grado di tradursi nell’indiscriminato abbattimento dei termini cautelari massimi e di fase posti dal legislatore.
A riprova di quanto sostenuto, il ricorso evidenzia, poi, come la legge processuale in un caso (quello disciplinato nell’art. 300 cod. proc. pen., comma 4) effettivamente crei un collegamento tra presofferto cautelare e pena applicata in concreto, ma senza fare riferimento alcuno al canone di proporzione, limitandosi solamente "ad istituire un raccordo automatico tra la pronuncia di una sentenza di condanna e la sorte della misura ancora in essere" per l’eventualità che il presofferto cautelare già risulti pari o superiore all’entità della sanzione irrogata.
3. Con ordinanza del 15 dicembre 2010, la Quarta Sezione, cui il ricorso era stato assegnato, ha rimesso alle Sezioni unite la questione, registrando come in proposito si siano formati nella giurisprudenza della Corte due orientamenti contrastanti.
Il primo, osservano i giudici rimettenti, risulta numericamente più consistente, e perviene alla conclusione di ritenere che la revoca o la sostituzione della misura custodiale non possano essere decise esclusivamente sulla base della proporzione tra il presofferto cautelare e l’entità della pena già inflitta o che appare prevedibile venga irrogata. Elemento quest’ultimo che certamente non può essere trascurato nella ponderazione della vicenda cautelare, ma che non può assorbire aprioristicamente ogni altra valutazione sulle circostanze eventualmente esistenti a sostegno della persistenza del periculum libertatis.
L’altro indirizzo seguito dalla Corte, prosegue l’ordinanza di rimessione, nel rilevare che ai sensi dell’art. 300 c.p.p., comma 4 la custodia cautelare non può risultare maggiore della pena inflitta in concreto, ritiene invece non irragionevole il ricorso a criteri ispirati al canone di proporzione in forza dei quali può prescindersi dalla persistenza delle esigenze cautelari una volta che il presofferto abbia superato determinate percentuali del trattamento sanzionatorio stabilito con la condanna.
4. Il presidente aggiunto, con decreto in data 30 dicembre 2010, ha assegnato il ricorso alle Sezioni unite, fissando per la sua trattazione l’odierna udienza.
5. Il difensore dell’imputato ha da ultimo presentato memoria, nella quale ha preliminarmente dedotto la inammissibilità del ricorso proposto dal pubblico ministero. Si osserva, infatti, che, essendo stata dedotta nella sostanza la violazione dell’art. 303 cod. proc. pen., non si tratterebbe di norma prevista a pena di nullità, inammissibilità o inutilizzabilità; sicchè si verterebbe in una ipotesi di violazione di legge irrilevante, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c). Quanto al merito della questione, si osserva che l’art. 275 c.p.p., comma 2 fissa due criteri, cui va ancorato il principio di proporzionalità, fra loro autonomi: mentre, infatti, il parametro della gravità del comportamento antigiuridico incide sull’apprezzamento in fase genetica della misura, la sanzione irrogabile opera anche nelle fasi successive della vicenda cautelare.
Il principio di proporzionalità non potrà dunque essere interpretato come criterio meramente sussidiario rispetto a quelli che giustificano l’applicazione o il mantenimento delle misure.
Pertanto, se per applicare le misure occorrono le esigenze cautelari e la proporzionalità, anche per mantenerle, ove venga meno la proporzionalità, le dette esigenze non potranno di per sè bastare, giacchè, altrimenti, la cautela si atteggerebbe ad anticipazione della pena. In tale cornice, dunque, il limite dei due terzi del massimo della pena, previsto dall’art. 304 c.p.p., comma 6, può fungere da paradigma tendenziale, nel quadro degli interventi discrezionali del giudice, diversi da quelli di tipo automatico, quali quelli previsti in tema di durata massima della custodia cautelare. A questo riguardo, si sottolinea come la autonomia del criterio di proporzionalità lo renda distinguibile dal tema dei limiti di durata della custodia cautelare, posto che la relativa materia non può ritenersi regolata in via esclusiva dalla disciplina che presiede alla scansione dei relativi termini, giacchè, altrimenti, non avrebbe senso il combinato disposto dell’art. 275 c.p.p., comma 2, e art. 299 c.p.p., commi 1 e 2, dai quali emerge la necessità di operare un costante "monitoraggio sulla proporzionalità della misura rispetto alla gravità del fatto ed alla relativa sanzione, indipendentemente dal verificarsi o meno dei meccanismi di perenzione ex lege", che rappresentano null’altro che norme di chiusura del sistema, secondo la logica di una extrema ratio.
Motivi della decisione
1. Deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità del ricorso formulata dal difensore dell’imputato nella memoria da ultimo depositata. Tale eccezione, come già accennato nella narrativa in fatto, si fonda sul rilievo per il quale in tanto è possibile dedurre il vizio di violazione di norme processuali di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c), in quanto si tratti di norme stabilite a pena di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità o di decadenza. Poichè, dunque – deduce la difesa – le disposizioni della cui violazione il pubblico ministero si duole non determinano le conseguenze caducatorie previste dall’indicato parametro codicistico, il ricorso risulterebbe proposto per motivi non consentiti, incorrendo, di conseguenza, nella sanzione della inammissibilità.
L’assunto è, però, destituito di fondamento. Anche a voler prescindere, infatti, dall’autonomo risalto che assume la possibilità di proporre ricorso per cassazione "per violazione di legge" avverso tutti i provvedimenti inerenti la libertà personale, a norma dell’art. 111 Cost., addirittura previsto come unico "caso" di ricorso in tema di misure cautelari reali (art. 325 c.p.p., comma 1) e di misure di prevenzione (v. al riguardo, Corte cost. sentenza n. 321 del 2004), è assorbente rilevare che, nel caso di specie, il pubblico ministero ha sostanzialmente posto a fulcro delle proprie doglianze la carente disamina e, dunque, la mancanza di motivazione, in ordine alla sussistenza o meno delle esigenze cautelari. Un vizio, dunque, pacificamente sussumibile nel novero di quelli denunciabili a norma dell’art. 606 cod. proc. pen..
2. Nel merito, il quesito sul quale queste Sezioni unite sono chiamate a pronunciarsi è se il principio di proporzionalità di cui all’art. 275 c.p.p., comma 2 imponga la revoca della misura della custodia cautelare, a prescindere dalla permanenza di esigenze cautelari, ove la durata della custodia già sofferta abbia raggiunto il limite di due terzi della pena inflitta con sentenza di condanna.
Sul punto, la giurisprudenza assolutamente prevalente si è espressa, in numerosissime occasioni, in senso contrario alla tesi fatta propria dal Tribunale di Bologna, facendo essenzialmente leva su una lettura coordinata e sistematica del quadro normativo coinvolto e rappresentato, essenzialmente, dal combinarsi dei principi enucleabili dagli artt. 275, 299, 303 e 304 cod. proc. pen..
Si rileva, anzitutto, come al giudice che procede sia sempre imposta una valutazione globale e complessiva della vicenda cautelare, che si radica su una serie di parametri di apprezzamento, di natura tanto oggettiva che soggettiva. Nel novero di tali parametri si iscrive anche il principio di proporzionalità, il quale – secondo la quasi totalità delle pronunce che si collocano in tale filone interpretativo – è destinato a spiegare i suoi effetti tanto nella fase genetica della applicazione della misura, che nel suo aspetto funzionale della relativa protrazione. Procedere, dunque, ad una valutazione rigida del rapporto di proporzionalità della durata della misura con la entità della pena inflitta, evocando a criterio di ragguaglio il limite dei due terzi della pena inflitta, sulla falsariga del limite finale della durata della custodia cautelare, sancito dall’art. 304 c.p.p., comma 6, equivarrebbe a frustrare la disciplina dei termini scandita dagli artt. 303 e 304 cod. proc. pen., introducendo arbitrariamente nel sistema un meccanismo di automatica estinzione della custodia cautelare che finirebbe per obliterare totalmente la esigenza, postulata dal codice di rito, di un apprezzamento non parcellizzato dell’intero iter cautelare, nel cui ambito non può non ricomprendersi, anche, l’apprezzamento in concreto dei pericola in libertate che dovessero in ipotesi residuare.
La dimensione temporale della misura in rapporto alla pena inflitta, non è, quindi, un parametro inconferente ai fini della decisione sul mantenimento della misura stessa, posto che il canone della proporzionalità, di cui all’art. 275 c.p.p., comma 2, entra in causa proprio agli effetti di tale scrutinio. Ciò che, invece, tale orientamento decisamente respinge, è la possibilità di desumere dal sistema un principio in forza del quale, al raggiungimento di una rigida e predeterminata proporzione tra durata della custodia e quantum di pena inflitta, la restrizione della libertà personale debba comunque cessare, a prescindere da qualsiasi apprezzamento delle esigenze cautelari (tra le numerosissime pronunce in tal senso v. Sez. 1, n. 9233, del 3/2/2009, dep. 2/3/2009, Zochiami; Sez. 5, n. 21195, del 12/2/2009, dep. 20/5/2009, Occhipinti; Sez. 2, n. 531 del 12/12/2008, dep. 9/1/2009, Zaki; Sez. 4, n. 35713 del 10/7/2007, dep. 28/9/2007, Mohamed; Sez. 2, n. 35587 del 7/6/2007, dep. 26/9/2007, Khelifi).
Il diverso orientamento trae invece origine dalla affermazione secondo la quale l’art. 275 c.p.p., comma 2, e art. 299 c.p.p., comma 2, attuativi della direttiva di cui all’art. 2, n. 59, della Legge- Delega sul codice di procedura penale, fissano un principio, per così dire, autosufficiente, nella parte in cui stabiliscono che il giudice è chiamato a valutare la ragionevolezza del permanere della limitazione della libertà personale derivante dall’applicazione della misura cautelare, in relazione al prevedibile risultato finale del processo. Al giudice, pertanto, sarebbe innanzi tutto richiesto di effettuare una prognosi, ovviamente provvisoria e circoscritta negli effetti, in ordine alla sanzione che potrà essere inflitta in caso di condanna, e, in secondo luogo, di valutare se, tenuto conto della presumibile decisione finale e della durata che la misura cautelare ha già avuto, sia proporzionato – e, dunque, ragionevole – il protrarsi della stessa. In tale prospettiva, si è affermato, il difetto di proporzione sarà tanto più certo, quanto più la specifica situazione risulterà prossima ai parametri indicati dall’art. 304 c.p.p., comma 4, (nel testo allora vigente: Sez. 6, n. 1227, del 29/3/1995, dep. 15.5.1995, Ragaglia).
All’interno di tale filone interpretativo si sono poi iscritte altre pronunce, nella sostanza non dissonanti dagli approdi ermeneutici cui è pervenuto il provvedimento impugnato, anche se, peraltro, in nessuna di esse risulta affermato il principio – enunciato dai giudici a quibus – secondo il quale la custodia cautelare deve cessare quando dal suo inizio sia decorso un periodo pari ad almeno due terzi della pena in concreto inflitta (v. Sez. 2, n. 35179 del 3/7/2008, dep. 11/9/2008, Kanibat; Sez. 5, n. 36685 dell’11/7/2007, dep. 5/10/2007, Mandakie; Sez. 5, n. 36670 del 26/6/2007, dep. 5/10/2007, Gajdo).
3. Il perimetro dei valori costituzionali entro i quali può trovare soluzione il quesito sottoposto all’esame di queste Sezioni unite e che ovviamente illumina il percorso argomentativo da seguire, è stato nitidamente tracciato dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale, da ultimo, si è espressa in termini di univoca chiarezza, ai fini che qui interessano, nella sentenza n. 265 del 2010. Il tema dell’an e del quomodo delle misure limitative della libertà personale ruota, infatti, tutto attorno a due parametri in apparente frizione logica fra loro: da un lato, il principio di inviolabilità della libertà personale, con i relativi corollari di tipicità, riserva di legge, giurisdizionalità e limitazione temporale che ne assistono le eccezionali deroghe, sancito dall’art. 13 Cost., e, dall’altro, il principio di presunzione di non colpevolezza, previsto dall’art. 27, comma 2, della medesima Carta.
L’apparente contraddizione tra una previsione espressa che legittima la privazione massima della libertà personale attraverso la "carcerazione preventiva", per sua natura destinata ad operare prima ed a prescindere dalla condanna definitiva, e la regola per la quale nessuna anticipazione di pena può ritenersi costituzionalmente compatibile con il principio che presume la persona "non colpevole" fino alla pronuncia della condanna irrevocabile, si risolve proprio – ha sottolineato la giurisprudenza costituzionale – assegnando a questo secondo principio il valore di limite che, in negativo, contrassegna la legittimità della limitazione della libertà personale ante iudicium.
Dunque, tanto l’applicazione quanto il mantenimento delle misure cautelari personali non può in nessun caso fondarsi esclusivamente su una prognosi di colpevolezza, nè mirare a soddisfare le finalità tipiche della pena – pur nelle sue ben note connotazioni di polifunzionalità – nè, infine, essere o risultare in itinere priva di un suo specifico e circoscritto "scopo", cronologicamente e funzionalmente correlato allo svolgimento del processo. Il necessario raccordo che deve sussistere tra la misura e la funzione cautelare che le è propria, comporta, poi – sul versante del quomodo attraverso il quale si realizza la compressione della libertà personale – che questa abbia luogo secondo un paradigma di rigorosa gradualità, così da riservare alla più intensa limitazione della libertà, attuata mediante le misure di tipo custodiale – "fisicamente" simmetriche rispetto alle pene detentive, e, dunque, da tenere nettamente distinte sul piano funzionale – il carattere residuale di extrema ratio. "Questo principio – ha d’altra parte sottolineato la stessa Corte costituzionale – è stato affermato in termini netti anche dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale, in riferimento alla previsione dell’art. 5, paragrafo 3, della Convenzione, la carcerazione preventiva deve apparire come la soluzione estrema che si giustifica solamente allorchè tutte le altre opzioni disponibili si rivelino insufficienti (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia, e 8 novembre 2007, Lelievre contro Belgio)".
Da qui, la logica che sostiene i principi enunciati nella direttiva n. 59 della Legge-Delega 16 febbraio 1987, n. 81, sul nuovo codice di procedura penale, ed il recepimento, all’interno del sistema delle cautele (art. 275 c.p.p., comma 2) del duplice e concorrente canone della adeguatezza, in forza del quale il giudice deve parametrare la specifica idoneità della misura a fronteggiare le esigenze cautelari che si ravvisano nel caso concreto, secondo il paradigma di gradualità di cui si è detto, ed il criterio di proporzionalità, per il quale ogni misura deve essere proporzionata "all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata". L’aspetto qualificante che caratterizza il sistema appena delineato e che lo rende conforme a Costituzione, è dunque quello – ha sottolineato ancora la Corte costituzionale – di rifuggire da qualsiasi elemento che introduca al suo interno fattori che ne compromettano la flessibilità, attraverso automatismi o presunzioni.
"Esso esige, invece, che le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piana individualizzazione della coercizione cautelare" (v. la già citata sentenza n. 265 del 2010). Ed è del tutto evidente che i postulati della flessibilità e della individualizzazione che caratterizzano l’intera dinamica delle misure restrittive della libertà, non possono che assumere connotazioni "bidirezionali", nel senso di precludere tendenzialmente qualsiasi automatismo – che inibisca la verifica del caso concreto – non soltanto in chiave, per così dire, repressiva, ma anche sul versante "liberatorio." 4. Dai rilievi dianzi svolti è già dunque possibile trarre alcuni significativi corollari. La vicenda cautelare, anzitutto, presuppone una visione unitaria e diacronica dei presupposti che la legittimano, nel senso che le condizioni cui l’ordinamento subordina l’applicabilità di una determinata misura devono sussistere non soltanto all’atto della applicazione del provvedimento cautelare, ma anche per tutta la durata della relativa applicazione. Adeguatezza e proporzionalità devono quindi assistere la misura – "quella" specifica misura – non soltanto nella fase genetica, ma per l’intero arco della sua "vita" nel processo, giacchè, ove così non fosse, si assisterebbe ad una compressione della libertà personale qualitativamente o quantitativamente inadeguata alla funzione che essa deve soddisfare: con evidente compromissione del quadro costituzionale di cui si è innanzi detto.
Ciò basta, dunque, a sgombrare subito il campo da quell’orientamento minoritario, secondo il quale la valutazione sulla proporzionalità della custodia cautelare alla pena irrogata o irrogabile andrebbe operata esclusivamente nel momento applicativo della misura e non anche successivamente, nel corso della sua esecuzione, escludendosi, dunque, che la misura stessa possa essere revocata quando sia trascorso un termine ritenuto congruo dal giudice (Sez. 6, n. 33859 del 10/7/2008, dep. 25/8/2008, Hicham; nonchè, pur se in modo del tutto incidentale, Sez. 3, n. 38748 dell’11/7/2003, dep. 14/10/2003, Nako).
E’ ben vero che a favore di tale soluzione, per così dire drastica, è stato evocato, quale argomento testuale indubbiamente suggestivo, il disposto dell’art. 299 c.p.p., comma 2, ove è stabilito che, nella ipotesi in cui venga meno il requisito della proporzionalità tra la misura cautelare e l’entità del fatto o della sanzione che si ritiene possa essere irrogata, il giudice è facoltizzato ad operare la sostituzione in mitius della misura, mentre non è testualmente prevista la possibilità della relativa revoca. Ma si tratta di argomento sistematicamente flebile, sia perchè contrastato dal tenore della direttiva 59 della Legge-Delega (al cui espresso tenore deve, come è noto, conformarsi la lettura della disposizione delegata, altrimenti contra constitutionem) secondo la quale si sancisce la "previsione della sostituzione o della revoca della misura della custodia cautelare in carcere, qualora l’ulteriore protrarsi di questa risulti non proporzionata alla entità del fatto ed alla sanzione che si ritiene possa essere irrogata"; sia perchè in contrasto con la logica del "minor sacrificio possibile" per la libertà personale, che informa, come si è accennato, non soltanto la "statica" del sistema cautelare, ma anche la relativa "dinamica";
sia, infine, perchè in antitesi con la stessa tradizione del principio che viene qui in discorso. Sull’onda, infatti, di una importante Raccomandazione (R/80-11) adottata il 27 giugno 1980 dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa in tema di detention provisoire, nella quale fu espressamente stabilito che la carcerazione preventiva non potesse essere disposta se la privazione della libertà fosse risultata sproporzionata in rapporto alla natura del reato contestato ed alla pena prevista per tale reato, il legislatore riformulò l’art. 277-bis del codice abrogato con la L. n. 398 del 1984, art. 9 attraverso una previsione che, nella prospettiva di mitigare i casi di cattura obbligatoria e di divieto di libertà provvisoria, introduceva il principio per il quale il giudice potesse astenersi dall’emettere il provvedimento coercitivo e concedere la libertà provvisoria allorchè la ulteriore custodia in carcere fosse risultata "non proporzionata all’entità del fatto e all’entità della sanzione che si rit(eneva) po(tesse) essere irrogata con la sentenza di condanna, considerata la custodia già sofferta". La proporzionalità, dunque, come canone di commisurazione della "ragionevolezza" della compressione della libertà personale, non soltanto al momento della scelta "se"emettere una misura cautelare e "quale" misura concretamente prescegliere, ma anche nel corso della relativa applicazione, in rapporto alla durata della privazione della libertà già subita, ancora una volta da orientare non soltanto sul quomodo, ma anche sull’an della coercizione.
Risulterebbe, quindi, palesemente regressivo rispetto alla stessa storia dell’istituto della proporzionalità un sistema che, in presenza di una misura divenuta appunto "sproporzionata", consentisse al giudice soltanto di affievolirne l’incidenza sulla libertà (sostituendola con altra meno grave o disponendone l’applicazione con modalità meno gravose), ma non di rimuoverla in toto. D’altra parte, se è indubitabile che, ove nel corso del procedimento muti in senso sfavorevole all’imputato il giudizio prognostico circa il quantum di pena irrogabile in caso di condanna, sia senz’altro consentita l’applicazione ex novo di una misura cautelare, non v’è ragione alcuna per ritenere preclusa l’ipotesi reciproca, ammettendo, dunque, la revocabilità di qualsiasi misura, ove lo scrutinio del caso conduca a ritenere funzionalmente superfluo il perdurare della cautela, in rapporto al "tipo" di condanna che si prevede verrà pronunciata.
5. Adeguatezza e proporzionalità, peraltro, non sono parametri autodefiniti ed indipendenti, giacchè, entrambi, si riflettono – proprio perchè iscritti nel panorama delle scelte circa l’an ed il quomodo della cautela – sulla esistenza e sulla qualità delle specifiche esigenze che possono ravvisarsi tanto all’esordio che nel divenire della vicenda cautelare. E’ ben vero che l’origine storica del principio di proporzionalità – di cui si è già fatto cenno – tradisce il suo intimo raccordo con l’istituto della "carcerazione preventiva" e con la finalità di impedire che la custodia ante iudicium possa comunque rivelarsi inutiliter data, alla luce della non eseguibilità della condanna, o quando risulti aver integralmente consumato la quantità di pena irrogabile o irrogata. Ed è altrettanto vero, come è stato osservato, che la funzione del principio risulti nel nuovo codice non poco sminuita, alla stregua della corposa gamma di presidi che mirano, appunto, ad impedire una "sproporzionata" applicazione o mantenimento della misura in rapporto alla condanna che si prevede possa essere inflitta, quali quelli delineati dall’art. 273 c.p.p., comma 2, art. 275 c.p.p., comma 2- bis, art. 280 c.p.p., comma 2, art. 299 c.p.p., comma 2, e art. 300 cod. proc. pen.. Ma tutto ciò non toglie che i criteri di commisurazione delle misure cautelari tracciati dall’art. 275 c.p.p., comma 2, non possono far perdere di vista quella che è l’essenza cautelare delle misure e che ne giustifica l’applicabilità al lume dei già ricordati principi costituzionali: vale a dire l’inderogabile necessità che ogni misura – per non essere indebita anticipazione di pena – soddisfi funzionalmente una delle esigenze tassativamente previste dall’art. 274 cod. proc. pen..
In tale cornice, quindi, adeguatezza e proporzionalità rappresentano paradigmi di apprezzamento che si chiariscono solo nel quadro delle specifiche esigenze cautelari ravvisabili nel caso concreto e nel momento in cui lo scrutinio di adeguatezza e proporzionalità viene ad essere compiuto. Ove si postulasse, infatti, come il Tribunale a quo mostra di ritenere, che l’ipotetico raggiungimento del limite della proporzionalità sconti ex se l’automatica (e perciò stesso inammissibile, per quel che si è detto) dissoluzione delle esigenze cautelari che potessero comunque residuare, ne deriverebbe che l’altrettanto automatico venir meno della cautela, risulterebbe del tutto privo di "causa normativa", posto che -nel quadro del sistema, come positivamente delineato – il permanere intonso delle condizioni di applicabilità della misura (ivi compresi, evidentemente, i relativi limiti di durata) non soltanto legittima, ma impone il relativo mantenimento.
D’altra parte, che il canone della proporzionalità non possa essere semplicisticamente risolto sulla base di una supposta, quanto arbitraria, verifica di tipo aritmetico tra la durata della misura e l’entità della pena che in via di prognosi potrà essere applicata all’esito del giudizio, è dimostrato dalla circostanza che il legislatore colloca – in termini perfettamente simmetrici ed equivalenti ai fini del relativo scrutinio – accanto alla "entità della sanzione", anche la "entità del fatto": a sottolineare, quindi, come sia imposta una verifica non soltanto quantitativa ma anche qualitativa del fatto e, dunque, delle esigenze che la relativa gravità può continuare a far emergere.
6. Per altro verso, a svelare l’erroneità dell’approdo ermeneutico cui perviene il Tribunale di Bologna, sta la scelta di "commisurazione" del principio di proporzionalità, la quale, anzichè essere raccordata al giudizio "triadico" che faccia leva sul tipo della misura applicata, sulla relativa durata in rapporto alla pena irrogata ed alla gravità del fatto, e sulle esigenze che – alla luce del bilanciato apprezzamento dei diversi parametri coinvolti – appaiono concretamente residuare nel caso di specie, finisce per evocare, eccentricamente, il criterio dei due terzi del massimo della pena temporanea prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza, di cui all’art. 304 cod. proc. pen., comma 6. La proporzionalità, come parametro di apprezzamento, è, infatti, principio tendenziale, che non sopporta automatismi aritmetici, sia perchè, ove così fosse, sarebbe chiamato ad operare soltanto in chiave di durata della misura (surrogando, contra ius, la disciplina dei termini di cui agli artt. 303 e 304 cod. proc. pen.) e non anche in fase di prima applicazione, sia perchè, concettualmente, il sindacato sulla "proporzione" non può non refluire sulle esigenze cautelari e viceversa. Se, per disposto costituzionale, al legislatore è fatto obbligo di prevedere dei termini di durata massima dei provvedimenti che limitano la libertà personale, è del tutto evidente che ove si ravvisino (in ipotesi anche al massimo grado) le condizioni e le esigenze che impongono il permanere della misura cautelare, risulterebbe addirittura contraddittorio rispetto alla garanzia costituzionale circa i limiti massimi di durata, un sistema che consentisse provvedimenti liberatori automatici anticipati (e senza "causa" cautelare) rispetto al relativo spirare.
Sotto altro profilo, non è neppure senza significato la circostanza che la Corte costituzionale, nel dichiarare la manifesta infondatezza di una questione di legittimità costituzionale dell’art. 304 c.p.p., comma 6, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., nella parte in cui tale norma non prevede che la durata massima della custodia cautelare non possa comunque superare i due terzi della pena concretamente irrogata, allorchè questa risulti non modificabile in peius, ha osservato come, nella specie, la richiesta del giudice a quo fosse orientata ad ottenere una sentenza manipolativa che avrebbe mutato "completamente il significato del limite finale dei due terzi della pena, trasformandolo in un correttivo verso il basso dei termini di fase complessivi, svincolato da ogni evento anomalo di sfondamento, e tale da comportare, in concreto, un drastico abbattimento dei termini stessi" (v. la ordinanza n. 397 del 2000, citata anche dal ricorrente). Il che sta evidentemente a dimostrare come un analogo risultato non possa certamente essere raggiunto semplicemente attraverso una opzione di tipo interpretativo, come al contrario mostra di reputare il Tribunale di Bologna.
7. Tutto ciò non toglie, peraltro, che l’intero sviluppo della vicenda cautelare debba essere sottoposto a costante ed attenta verifica circa la effettiva rispondenza dei tempi e dei modi di limitazione della libertà personale al quadro delle specifiche esigenze, dinamicamente apprezzabili, proprio alla stregua dei criteri di adeguatezza e proporzionalità, posto che, se, da un lato, l’approssimarsi di un limite temporale di applicazione della misura custodiale a quello della pena espianda non può risolversi nella automatica perenzione della misura stessa, è peraltro elemento da apprezzare con ogni cautela, proprio sul versante della quantità e qualità delle esigenze che residuano nel caso di specie e sulla correlativa adeguatezza della misura in corso di applicazione.
Può, dunque, conclusivamente affermarsi che il principio di proporzionalità, al pari di quello di adeguatezza di cui all’art. 275 c.p.p., comma 2, opera come parametro di commisurazione delle misure cautelari alle specifiche esigenze ravvisabili nel caso concreto, tanto al momento della scelta e della adozione del provvedimento coercitivo, che per tutta la durata dello stesso, imponendo una costante verifica della perdurante idoneità di quella specifica misura a fronteggiare le esigenze che concretamente permangano o residuino, secondo il principio della minor compressione possibile della libertà personale.
8. Considerato, dunque, che, nel caso in esame, il Tribunale di Bologna ha completamente trascurato di valutare se nella specie ricorrano o meno esigenze cautelari, il provvedimento impugnato deve essere annullato con rinvio per nuovo esame sul punto.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale di Bologna.
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