Cass. civ. Sez. III, Sent., 21-07-2011, n. 15991 Nesso di causalità Responsabilità civile Responsabilità professionale Sanità

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.S. e C.T., in proprio e come genitori esercenti potestà sul figlio A., convennero in giudizio dinanzi al tribunale di Roma la Casa Generalizia Fatebenefratelli, chiedendone la condanna al risarcimento dei danni subiti dal minore in conseguenza di condotte negligenti e imprudenti tenute dal personale medico chiamato ad assistere sia l’attrice al momento del parto, sia il neonato (al quale sarebbe stata poi riconosciuta una invalidità permanente nella misura del 100%) subito dopo la nascita.

Nella contumacia dell’ente convenuto, il giudice di primo grado accolse la domanda, riconoscendo al minore un risarcimento pari ad Euro 1.473.592, ed ai genitori in proprio quello di Euro 100.970.

La corte di appello di Roma, investita del gravame principale proposto dall’ente ospedaliere, lo rigettò (accogliendo invece quello incidentale dei coniugi C. in punto di liquidazione delle spese processuali di primo grado).

La sentenza è stata impugnata dalla Casa Generalizia con ricorso per cassazione sorretto da 3 motivi.

Resistono con controricorso C.T. e C.S..
Motivi della decisione

Il ricorso è fondato nei limiti di cui si dirà.

Con il primo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1176, comma 2, artt. 1218, 1223, 2043, 2236, 2697 c.c., artt. 40 e 41 c.p.; omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su fatti controversi e decisivi per il giudizio.

Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto:

Dica la Corte se, nella valutazione della condotta del medico ospedaliero, sia possibile pervenire ad un’imputazione, oltre il ragionevole dubbio, della responsabilità esclusiva per negligenza a causa del danno occorso al paziente pretermettendo una precisa e motivata valutazione singulatim dell’efficienza causale di tutte le concause naturali dell’evento così come documentate e provate nel corso del giudizio di merito.

Quanto al censurato vizio di motivazione, il fatto controverso verrà sintetizzato dalla difesa della ricorrente, giusta disposto dell’art. 366 bis c.p.c., nella valutazione e quantificazione dell’efficienza causale delle concause naturali dell’evento occorso al piccolo C.A..

Con il secondo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1176 comma 2, 1218, 2043, 2236, 2697 c.c.. Omissione di motivazione.

Il motivo trova la sua sintesi nel seguente quesito di diritto:

Dica la Corte se, in tema di responsabilità medica, ai fini dell’accertamento del nesso di causalità giuridica, il giudice del merito, facendo applicazione di una seria legge di prevedibilità scientifica, debba scrutinare la possibile dipendenza dell’evento lesivo dai suoi antecedenti fattuali e valutare, in questo contesto, l’incidenza del factum superveniens rappresentato dalla dedotta condotta omissiva dei sanitari, accertando altresì se risulti specularmente improbabile, anche se solo possibile, che la predetta condotta omissiva sia stata causa dell’evento, senza che sia lecito procedere ad una compensatio culpae cum causa.

I motivi, che possono essere esaminati congiuntamente attesane la intrinseca connessione, sono meritevoli di accoglimento, sia pur entro i rigorosi limiti di cui di qui a breve si dirà.

Va in premessa esclusa la correttezza del ragionamento giuridico che si dipana per lunghi tratti del primo motivo di ricorso nella parte in cui (specie a f. 18) viene evocata, in guisa di criterio causale operante ed applicabile nel campo della responsabilità civile, la regula iuris, predicata dalla sezioni unite penali di questa corte, dell’alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica, onde "il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento lesivo comportano l’esito assolutorio del giudizio" (Cass. ss. uu. penali n. 30328 del 2002).

Questa corte regolatrice ha difatti avuto modo di affermare (Cass. 21619/07; Cass. ss. uu. 576/2008 nonchè, nella sostanza, Cass. 4400/04) come la disomogenea morfologia e la disarmonica funzione del torto civile rispetto al reato consenta – e addirittura imponga – l’adozione di un diverso criterio di analisi della causalità materiale, quello, cioè, della probabilità relativa, criterio altrimenti definito del "più probabile che non", rettamente inteso come analisi specifica e puntuale di tutte le risultanze probatorie del singolo processo – nella sua dimensione di "unicità" non ripetibile), della singola vicenda di danno, della singola condotta causalmente efficiente alla produzione dell’evento, tutte a loro volta permeate di una non ripetibile unicità (di talchè la conseguente svalutazione della regola statistica e sovente di quella scientifica non appare un metagiuridico cedimento ad ideali aneliti riparatori cui dar respiro tout court in seno al processo, quanto piuttosto una attenta valorizzazione e valutazione della specificità del caso concreto, onde la concorrenza di cause di diversa incidenza probabilistica non conduca ipso facto alla aberrante regola del 50% plus unum, bensì alla compiuta valutazione dell’evidenza del probabile (così, esemplificando,se, in tema di danni da trasfusione di sangue infetto, le possibili concause appaiono plurime e quantificabili in misura di dieci, ciascuna con un’incidenza probabilistica pari al 3%, mentre la trasfusione attinge al grado di probabilità pari al 40%, non per questo la domanda risarcitoria sarà per ciò solo rigettata – o geneticamente trasmutata in risarcimento da chance perduta -, dovendo viceversa il giudice, secondo il suo prudente apprezzamento che trova la sua fonte nella disposizione di legge di cui all’art. 116 c.p.c., valutare la complessiva evidenza probatoria del caso concreto e addivenire, all’esito di tale giudizio comparativo, alla più corretta delle soluzioni possibili, pur nella non confortante consapevolezza della natura di malinconico ossimoro del sintagma "accertamento del nesso causale", la cui "incertezza" trova una assai felice rappresentazione nel verso virgiliano felix qui potuit rerum cognoscere causa …) -.

Non colgono parimenti nel segno le argomentazioni del primo e del secondo motivo di ricorso nella parte in cui affrontano il tema del concorso di cause e della conseguente valutazione dell’efficienza etiologica, nella produzione dell’evento, di ciascuna singola (e concorrente) concausa.

Il ragionamento probatorio proposto dalla difesa della ricorrente – di cui è esplicita traccia ed esplicita conferma in una recente pronuncia di questa corte regolatrice, la sentenza n. 975 del 2009 – si fonda su di una presunta concorrenza efficiente di eventi e di antecedenti fattuali da valutare in funzione di una più corretta e puntuale affermazione di responsabilità esclusiva dei sanitari, valutazione peraltro pretermessa da parte del giudice di appello proprio sotto l’aspetto di una più precisa e motivata analisi dell’efficienza etiologica di tutte le concause naturali dell’evento.

Il fondamento teorico sotteso a tale argomentazione, quello cioè dell’efficienza concausale del fortuito (in esso ricompresa la pregressa condizione del paziente, nella specie un neonato) non coglie nel segno sul piano della causalità materiale, onde al dictum della pronuncia del 2009 di questa stessa sezione il collegio ritiene di non poter dare, in parte qua, continuità, altra e diversa apparendo la questione della rilevanza delle concause nella diversa dimensione della causalità giuridica (pur evocata dal ricorrente nel quesito posto a conclusione del secondo motivo di doglianza).

Con la pronuncia 975/09, intervenuta a definizione di un complesso caso di responsabilità medica, questa corte ha difatti affrontato la questione del concorso fra causa naturale (nella specie, uno stato patologico pregresso del paziente) e causa umana, legittimando la possibilità per il giudice del merito, in sede di accertamento del nesso causale tra condotta ed evento, di procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all’uno o all’altra, eventualmente con criterio equitativo, con conseguente graduazione o riduzione proporzionale dell’obbligo risarcitorio del professionista, in evidente ed esplicita soluzione di continuità con un consolidato orientamento di questa giurisprudenza di legittimità (per tutte, Cass. 16 febbraio 2001, n. 2335), a mente del quale, in base ai principi di cui agli art. 40 e 41 c.p., "qualora le condizioni ambientali od i fattori naturali che caratterizzano la realtà fisica su cui incide il comportamento imputabile dell’uomo siano sufficienti a determinare l’evento di danno indipendentemente dal comportamento medesimo, l’autore dell’azione o della omissione resta sollevato, per intero, da ogni responsabilità dell’evento, non avendo posto in essere alcun antecedente dotato in concreto di efficienza causale; qualora, invece, quelle condizioni non possano dar luogo, senza l’apporto umano, all’evento di danno, l’autore del comportamento imputabile è responsabile per Intero di tutte le conseguenze da esso scaturenti secondo normalità, non potendo in tal caso operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità della sua colpa, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile". A tale orientamento il collegio intende tornare a dare ulteriore continuità, sia pur con le precisazioni che seguono.

Non pare condivisibile, in punto di diritto, il criterio -pur espressamente indicato da Cass. 975/09 al giudice del rinvio – alla luce del quale, ove l’indagine probabilistica sul nesso di causa tra condotta e danno non consenta di decidere la controversia per essersi l’evento prodotto per un concorso dñ caso fortuito (ritenuto tale la pregressa, grave situazione patologica del paziente che, di per sè sola, avrebbe potuto spiegare l’evento lesivo) e di causa umana (id est l’errore dei sanitari), sarebbe compito del giudice del merito procedere alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile all’uno o all’altra, eventualmente con criterio equitativo, e ciò in quanto "non si potrebbe più accogliere la soluzione della irrilevanza dei fattori naturali", onde l’eventuale incertezza della misura del concorso tra concause naturali e concause umane andrebbe superata attraverso il ricorso alla applicazione della norma di cui all’art. 1226 c.c. (senza alcuna distinzione fra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale).

Il modello di causalità – del tutto innovativo – che scaturisce da tale ricostruzione risulta, pertanto (in adesione con quanto pensosamente predicato da una recente quanto acuta dottrina), quello cd. equitativo-proporzionale, e volge con decisione al superamento della rigida regola dell’all-or-nothing in termini di giustizia sostanziale.

E’ convincimento di questo collegio che, con riferimento al caso di specie ed alle questioni poste dalla ricorrente, una nuova e più approfondita analisi della complessa tematica della rilevanza giuridica delle patologie preesistenti in tema di responsabilità medica appare (sicuramente) opportuna e (probabilmente) non più a lungo eludibile.

Premessa la inconferenza del richiamo agli artt. 1227 e 2055 c.c. (norme destinate a disciplinare il concorso tra concause imputabili), la riflessione prende le mosse dalla radicale trasposizione (operato con la sentenza 975/09) dell’eventuale rilevanza degli stati pregressi del danneggiato (a valenza concausale) dall’ambito dell’indagine diretta all’individuazione delle singole conseguenze risarcibili – più rettamente destinata a scorrere entro l’alveo della, causalità giuridica, (artt. 1223 e ss. c.c.) – alla precedente fase dell’accertamento del nesso di causalità materiale, così come prospettato ed allegato dagli attori, tra condotta addebitata ai sanitari ed evento di danno. Al giudice di merito, conseguentemente, già nella fase dell’accertamento del primo nesso di causa, sarebbe riservata la possibilità di procedere equitativamente, ex art. 1226 c.c., alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause e alla specifica identificazione della parte di danno rapportabile a ciascuna di esse.

Tale regola operazionale in tema di causalità civile non sembra legittimamente predicabile nè sotto il profilo morfologico nè sotto quello funzionale.

Non sotto l’aspetto morfologico, poichè il giudizio sul nesso di causalità materiale è limitato alla sua sussistenza/insussistenza, senza che siano date terze ipotesi, tantomeno in via equitativa:

diversa questione è quella della misura dell’incidenza di eventuali stati patologici pregressi sul danno risarcibile (questione che potrebbe, peraltro, astrattamente porsi anche a prescindere dalla relativa valenza con-causale nella determinazione dell’evento di danno), la cui analisi e la cui soluzione è riservata alla fase in cui si procede alla determinazione delle conseguenze risarcibili dell’evento dannoso ex artt. 1223 e ss. c.c..

Non sotto l’aspetto funzionale, poichè essa darebbe luogo ad inestricabili difficoltà di gestione dei territori di "causalità incerta": l’applicazione di una logica valutativa fondata sull’equitas pura alla dimensione della causalità materiale trasformerebbe, difatti, il (già impervio) giudizio probabilistico in un giudizio equitativo, onde le incertezze da risolversi "a monte" tramite l’indagine sulla sussistenza del primo rapporto causale secondo le regole dell’art. 41 c.p. verrebbero inevitabilmente inquinate dalla diversa analisi "a valle" volta alla selezione dei danni ingiusti risarcibili (e per di più, affidate al criterio equitativo, come mostra di ritenere il precedente di questa corte più volte citato, ove si legge che, qualora l’indagine sul rapporto causale tra condotta e danno non consentisse di decidere la controversia per un concorso tra concause umane e concause naturali, il giudice potrebbe risolvere la questione ricorrendo, appunto, a tale criterio), mentre, specularmente, le eventuali incertezze sul quantum debeatur verrebbero traslate sul (logicamente e cronologicamente preesistente) piano dell’an debeatur.

Il rapporto tra la condotta illecita (o il comportamento inadempiente) e l’evento (a sua volta produttivo di conseguenze dannose risarcibili) deve, viceversa, tornare a collocarsi sul tradizionale piano della causalità materiale secondo un modello funzionale all’imputazione della responsabilità civile così come delineato dal diritto positivo, onde l’impredicabilità di sue forme di frazionamento in considerazione di concause naturali, come confermato dalla previsione di cui all’art. 1227 c.c. (non meno che dall’art. 2055 c.c.), volto a disciplinare, quale unica legittima ipotesi di comparazione etiologicamente "efficiente", quella tra concausa imputabile al danneggiante e concausa ascrivibile, per dolo o colpa., al danneggiato (mentre il diritto penale riconosce una forma attenuata di responsabilità, ex art. 62 c.p., n. 5, alla sola ipotesi di concausa dolosa riconducibile al comportamento del soggetto passivo del reato).

In conclusione, ritiene questo collegio che l’attuale modello normativo della causalità civile sia tale da escludere tout court un’imputazione in via equitativa dell’evento dannoso sul piano della causalità materiale.

Diverso discorso può essere articolato – sulla premessa della duplicità di dimensioni della causalità civile (come analiticamente ricostruito da questa corte con la pronuncia n. 21619 del 2007 in tema di rapporti tra causalità ordinaria e causalità da chance perduta) attraverso le quali il giudice del merito può essere chiamato a considerare il rapporto tra illecito/inadempimento ed evento produttivo del danno lamentato – nell’esaminare la rilevanza degli stati pregressi della vittima sotto il (solo) profilo afferente alle singole conseguenze risarcibili.

Il piano probatorio su cui si colloca tanto la causalità ordinaria quanto quella da perdita di chance non deve prescindere, difatti, dalla considerazione di eventuali stati patologici pregressi della vittima o di altre sue personalissime condizioni (l’età, le abitudini di vita), poichè l’accertamento del nesso causale secondo il criterio della probabilità logica – che postula un giudizio (anche in via controfattuale) sulle varie prove acquisite – non può dirsi agnostico rispetto a vicende che possono avere contribuito alla situazione pregiudizievole lamentata dal danneggiato, mentre, sul piano concettuale, la stessa estensione dell’evento di danno oggetto dell’indagine sulla causalità materiale ben potrebbe essere determinata anche in considerazione di stati pregressi del danneggiato, come nel caso di un errore medico innestatosi su di una situazione patologica già in corso (onde l’evento di danno imputabile potrà configurarsi in termini di aggravamento della patologia già in via di sviluppo, ovvero – nella prospettiva della causalità da perdita di chance – in termini di privazione di possibilità di scongiurare un maggior pregiudizio rispetto a quello che sarebbe seguito nel caso di tempestivi interventi terapeutici).

Tale dimensione di analisi non può, peraltro, in alcun modo condurre, nella disamina della causalità materiale, ad operazioni di apporzionamento/frazionamento della responsabilità risarcitoria, men che meno facendo ricorso al criterio equitativo di cui all’art. 1226 c.c., onde, nel caso di specie, la misura dell’evento dannoso imputabile ai ritardi diagnostici e terapeutici dei sanitari rispetto alle patologie pregresse (patologie che non risultano oggetto di contestazione in seno al presente processo, discorrendo la stessa difesa delle parti resistenti di "preesistenti malformazioni di tipo congenito", con le quali avrebbero poi concorso, nel generare le gravissime compromissioni a livello nEurologico, "la prolungata sofferenza fetale e la mancata adozione di pratiche rianimatorie efficaci") è vicenda che non rileva al fini dell’imputazione della responsabilità, -a tal fine rilevando, viceversa, che la condotta illecita sia stata fonte dell’evento dannoso lamentato.

In tema di causalità materiale, pertanto (pur nella consapevolezza che, nel panorama degli ultimi anni, la più – pensosa dottrina ha avviato approfondite riflessioni critiche sul cd. "mito della causalità materiale" intesa come mera analisi fattuale, sempre di più cogliendosi segnali tali da indurre a ritenere che il relativo modello si stia progressivamente avviando verso la piena accettazione che anche la prima fase della causalità, sussunta nella sfera del rilevante giuridico, non sia più soltanto questione di ricostruzione dei fatti nel loro svolgersi fenomenologico, ma sempre ed anche vicenda "giuridica", cioè questione anche di diritto, e, più precisamente, vero e proprio ragionamento probatorio sui fatti, allegati e non, dimostrati e non, tanto da discorrersi ormai di "inarrestabile giuridicizzazione del nesso di causalità materiale"), la regula iuris che, ad oggi, il giudice di merito è chiamato ad applicare resta quella, codificata, secondo la quale la presenza di cause naturali che in teoria la possano escludere (onde l’incertezza sulla sua sussistenza) conduce ad un interrogativo che non può essere risolto in via equitativa, ovvero tramite il ricorso ad un modello di responsabilità proporzionale, bensì trovare risposta nel solo senso della sua sussistenza/insussistenza.

Sul piano operazionale, una siffatta situazione di incertezza andrà, in concreto, risolta dal giudice di merito a seconda che essa graviti nell’orbita della responsabilità aquiliana ovvero di quella contrattuale. In seno alla fattispecie di responsabilità disciplinata dagli artt. art. 2043 e ss. c.c., il giudice del merito valuterà comparativamente le prove addotte da ciascuna delle parti, gravando in tal caso l’onere probatorio comunque sul danneggiato (pur legittimando, caso per caso, tanto ragionamenti presuntivi quanto la regola della prossimità e disponibilità della fonte di prova);

Nella responsabilità contrattuale (o, comunque, nella responsabilità per inadempimento ex art. 1218 c.c.) il giudice, in ossequio alla diversa distribuzione degli oneri probatori, esaminerà, da un lato, l’allegazione, da parte del creditore/danneggiato, dell’idoneità della condotta (commissiva od omissiva) alla produzione dell’evento di danno, dall’altro, la eventuale prova positiva, fornita dal debitore/danneggiante, della causa non imputabile, e cioè di un fatto sufficientemente certo che inequivocabilmente escluda in radice il nesso etiologico.

In entrambe le forme di responsabilità, laddove la condotta sia idonea alla determinazione (anche solo parziale) dell’evento pregiudizievole lamentato (il mancato raggiungimento del risultato esigibile nel caso concreto), e sì prospetti una questione circa l’incidenza di una causa naturale, non possono che aversi due alternative: o è certo che il fattore naturale sia tale da escludere del tutto il nesso di causa, oppure sì deve ritenere che il danneggiante/debitore non abbia fornito la prova della causa non imputabile, con conseguente riconducibilità, in termini di responsabilità tout court, della lesione della salute o della vita alla condotta colpevole.

Va pertanto negato ingresso, sul piano giuridico, all’ipotesi che, a fronte di una sia pur minima incertezza sulla rilevanza di un’eventuale contributo concausale di un fattore naturale (qual che esso sia), possa legittimamente dipanarsi un ragionamento probatorio "semplificato" che conduca ipso facto ad un frazionamento della responsabilità, da compiersi addirittura in via equitativa (con conseguente, costante e proporzionale ridimensionamento del quantum risarcitorio).

Va del pari espunta dal novero delle ipotesi legittimamente predicabili in tema di causalità materiale quella secondo cui attraverso il principio equitativo andrebbe altresì esaminata e risolta la ipotesi di totale incertezza sulla rilevanza causale non solo del fattore naturale ma anche di quello umano, con la conseguenza di un’imputazione della responsabilità ancor più semplificata, ormai destinata a prescindere del tutto dall’accertamento probabilistico del nesso così come dall’osservanza, da parte di ciascuno dei contradditori, dei rispettivi oneri probatori. Va in definitiva affermato il principio di diritto secondo il quale il nesso di causalità materiale tra illecito (o prestazione contrattuale) ed evento dannoso deve ritenersi sussistente (a prescindere dalla esistenza ed entità delle pregresse situazioni patologiche aventi valore concausale e come tali prive di efficacia interruttiva del rapporto etiologico ex art. 41 c.p., ancorchè eventualmente preponderanti, secondo un principio ampiamente condiviso anche da altre giurisdizioni, da tempo predicative della cd. thin skull rule, in base alla quale se un uomo è stato negligentemente investito o in altro modo leso nel suo corpo non costituisce valida difesa contro l’azione risarcitoria avanzata dal danneggiato il sostenere che questi avrebbe riportato una lesione di minore entità, o addirittura nessuna lesione, se non avesse avuto un cranio inusitatamente sottile o un cuore inusitatamente debole), ovvero insussistente qualora le cause naturali di valenza liberatoria dimostrino efficacia esclusiva nella verificazione dell’evento, ovvero il debitore/danneggiante dimostri ancora l’effettiva adozione di tutte quelle misure atte a circoscrivere la possibilità di un’incidenza delle condizioni preesistenti sul raggiungimento del risultato favorevole al paziente ed esigibile nel caso concreto: id est la assoluta non imputabilità dell’evento di danno (poichè, se gli esiti negativi potenzialmente discendenti dal fattore naturale avrebbero potuto essere neutralizzati oppure circoscritti, la causa naturale, pur in astratto assorbente, scadrebbe a concausa come tale non rilevante ai fini dell’imputazione del fatto lesivo).

La corte, pertanto, nel riaffermare la bontà dell’orientamento tradizionale in subiecta materia, non può che concordare con quella dottrina secondo la quale tale soluzione comporta notevoli vantaggi in termini di efficienza sotto il profilo dei costi transattivi imposti dal processo, volta che un netto confine tra lecito ed illecito sul piano della causalità materiale attinge ad elevati gradi di certezza del giudizio risarcitorio, evitandone "zone grigie" entro la quale la responsabilità oscilli in varia misura percentuale, eliminando la possibilità di difese pretestuose, riducendo il rischio di eccessiva libertà da parte dei giudici nell’uso dello strumento equitativo. Sul piano fenomenologico, difatti, in ogni vicenda di danno ricorreranno inevitabilmente circostanze naturali e non imputabili, variabili indipendenti destinate ad influenzare anche non marginalmente la determinazione del quantum risarcitorio -luoghi, tempi, qualità e caratteristiche di persone e cose così che il dischiudere l’uscio del principio di proporzionalità trasmuterebbe ben presto nella ricerca di quelle circostanze via via modellata secondo un più o meno elevato grado di facilità nell’individuarle, circoscriverle, descriverne la portata e farle valere con successo in giudizio – con il rischio di rendere quest’ultimo sempre più complesso e dispendioso.

Eventuali correttivi alle tradizionali strutture del principio causale puro (principio, si ripete, puramente normativo dell’all-or- nothing), non richiedono nè consentono la formulazione di una regola contrapposta a quella da lungo tempo sancita da questa Corte, e non esigono nè postulano l’approdo ad una regola ispirata al modello della causalità proporzionale in salsa equitativa. Onde va riaffermato il principio secondo il quale, essendo la comparazione fra cause imputabili a colpa/inadempimento e cause naturali esclusivamente funzionale a stabilire, in seno all’accertamento della causalità materiale, la valenza assorbente delle une rispetto alle altre – non può operarsi una riduzione proporzionale in ragione della minore gravità dell’apporto causale (e non della colpa, come erroneamente e tralaticiamente affermato) del danneggiante, in quanto una comparazione del grado di incidenza eziologica di più cause concorrenti può instaurarsi soltanto tra una pluralità di comportamenti umani colpevoli, ma non tra una causa umana imputabile ed una concausa naturale non imputabile.

Diversa tematica risulta quella dei limiti della responsabilità del danneggiante/debitore sul piano della causalità giuridica, segnatamente nell’ipotesi di aggravamento di una patologia pregressa del paziente quale conseguenza della prestazione sanitaria.

Diversa questione risulta, in altri termini, quella per cui, ascritta, sul piano probabilistico, alla condotta del sanitario la responsabilità della determinazione dell’evento (tanto in termini di causalità ordinaria quanto di causalità da perdita di chance) sotto il profilo della causalità (o della concausalità) materiale, l’eventuale compresenza di concause naturali possa poi risultare oggetto di selezione dei pregiudizi risarcibili: se e quale sia, cioè, la misura e la rilevanza delle singole conseguenze direttamente riconducibili, o meno, al fatto lesivo della salute del paziente.

E’ convincimento del collegio che, su tale, diverso piano di analisi, che postula la preventiva e positiva disamina della questione della causalità materiale secondo il criterio operazionale dell’art. 41 c.p., non sempre risulti predicabile la irrilevanza tout court dello stato di salute pregresso del danneggiato.

La misura della sua eventuale incidenza sull’obbligazione risarcitoria andrà pertanto esaminata, con il necessario rigore operazionale, in un momento successivo e in un contesto probatorio diverso, volta che, accertata la causalità materiale (secondo una delle due dimensioni di analisi della causalità civile, quella ordinaria e quella da chance perduta), l’analisi del giudice di merito si concentri – come richiesto, nella sostanza, dall’odierno ricorrente, in parte qua, tanto con il primo quanto con il secondo motivo, che espressamente discorre ed evoca il concetto di causalità giuridica – sulle conseguenze dannose risarcibili (dirette e immediate, ex art. 1223) del fatto lesivo ormai definitivamente imputato al convenuto a titolo di piena responsabilità.

Non è precluso, in altri termini, al giudicante – una volta esaurita la fase dell’accertamento della responsabilità secondo la scansione diacronica del previo accertamento del nesso causale (secondo un giudizio probabilistico di tipo oggettivo) e della successiva indagine sulla colpa. (destinata ad una valutazione in termini di prevedibilità soggettiva pur se rapportata a standards ordinari di condotta attesane la dimensione "normativa" del relativo giudizio) – di procedere a risarcire i pregiudizi tutti (pecuniari e non) che sono seguiti al fatto lesivo su di un piano rigorosamente naturalistico, pregiudizi legittimamente destinati a determinarsi, secondo l’inquadramento classico della nozione di danno contra iusr sulla base del confronto fra le condizioni del danneggiato precedenti l’illecito, quelle successive alla lesione e quelle che si sarebbero verificate se non fosse intervenuto l’evento dannoso.

Emerge chiara, in tal guisa, la distinzione, non solo concettuale, tra l’imputazione dell’evento di danno – e, pertanto, della responsabilità civile – e l’imputazione funzionale alla individuazione/quantificazione delle singole conseguenze pregiudizievoli (una attenta dottrina offre, all’uopo, l’illuminante esempio dell’addebitare ad una struttura sanitaria la morte di un soggetto ovvero la privazione di possibilità di sopravvivenza per una ritardata diagnosi di una patologia tumorale – causalità materiale, ordinaria o da perdita di chance – e lo stabilire che la causazione della morte abbia comportato per la vittima, stante l’inevitabilità del decesso, la perdita di uno o più anni di vita o la privazione di determinate chance di vivere questi anni, con conseguenze sul quantum dei danni, pecuniari e non pecuniari, risarcibili iure proprio in capo ai congiunti).

La questione può così approdare ad appagante soluzione – del tutto conforme al diritto, sia positivo che giurisprudenziale – volta che essa postuli l’analisi (da condurre con rigoroso rispetto delle evidenze probatorie del caso concreto) delle conseguenze dannose dell’evento in termini di se e di quanto di differenze in negativo che il fatto lesivo – ormai definitivamente imputato al debitore – abbia cagionato in capo alla vittima, tenuto conto delle sue condizioni precedenti all’evento pregiudizievole e degli stati in cui si sarebbe venuto a trovare se l’evento in parola non fosse intervenuto.

Così individuata e risolta la problematica degli stati pregressi del danneggiato, è peraltro necessario che il giudice del merito (e con lui e per lui il consulente d’ufficio, cui andranno formulati, all’uopo, specifici e rigorosi quesiti) distingua tra le varie, possibili ipotesi di conseguenze dannose irrisarcibili, dovendosi sterilizzare il rischio che situazioni inter se distantibus e fra loro del tutto dissonanti possano viceversa risultare oggetto di trattamento e soluzioni risarcitorie omogenee.

Deve pertanto (come osserva ancora una attenta dottrina) operarsi una netta differenziazione fra situazioni tra loro eterogenee, quali:

da un canto, quelle in cui il danneggiato, prima dell’evento, risulti portatore di una mera "predisposizione" ovvero di uno "stato di vulnerabilità" (stati preesistenti non necessariamente patologici o invalidanti, ciò che risulta ancor più frequente nel delicato universo dei danni psichici), ma l’evidenza probatoria del processo non consenta, in proposito, di superare la soglia della mera ipotesi, e comunque appaia indimostrabile la circostanza che, a prescindere dalla causa imputabile, la situazione pregressa sarebbe comunque, anche in assenza dall’evento di danno, risultata modificativa in senso patologico-invalidante della situazione del soggetto: in tal caso, il giudice non procederà ad alcuna diminuzione del quantum debeatur, atteso che un’opposta soluzione condurrebbe ad affermare l’intollerabile principio per cui persone che, per loro disgrazia (e non già per colpa imputabile ex art. 1227 c.c. o per fatto addebitabile a terzi) siano, per natura e per vicissitudini di vita più vulnerabili di altre, dovrebbero irragionevolmente appagarsi di una tutela risarcitoria minore rispetto a quella riservata agli altri consociati affetti da "normalità";

– dall’altro, quelle in cui il danneggiato già presenti, prima dell’evento dannoso, una reale e conclamata patologia, tale (in base a prova da fornirsi dal danneggiante, anche attraverso la documentazione di quella complessa vicenda relazionale che conduce al cd. consenso informato) da rendere le conseguenze dell’evento rigorosamente configurabilì, sul piano probabilistico, alla stregua di un aggravamento dello stato patologico pregresso (o della perdita di chance di evitare o differire la degenerazione della situazione preesistente): in tal caso, la valutazione del quantum risarcitorio, con un suo eventuale adeguamento alla situazione de qua, deve ritenersi astrattamente legittimo, pur se l’eventuale riduzione del risarcimento dovrà seguire un iter ben preciso, non potendosi nè ipotizzarne una automatica riduzione, nè una quantificazione secondo un criterio strettamente proporzionale, espresso, cioè, in termini strettamente percentualistici della conseguenza naturale rispetto alla conseguenza dannosa imputabile.

Il ventaglio delle possibili ipotesi, e delle possibili conseguenze in termini risarcitori, potrebbe, allora (in consonanza con quanto opinato dalla dottrina specialistica che si è occupata funditus dell’argomento) risultare il seguente:

– il danneggiato, affetto da una patologia pregressa ed irreversibile dagli effetti già invalidanti, subisce un’ulteriore vulnus alle sue condizioni di salute: in questa ipotesi il danno risarcibile sarà determinato considerando sia la differenza tra lo stato di invalidità complessivamente presentato dal danneggiato dopo l’intervento medico e lo stato patologico pregresso, sia la situazione che si sarebbe determinata se non fosse intervenuto il fatto lesivo imputabile (commissivo od omissivo), ferme restando le valutazioni del singolo caso sul piano di eventuali ripercussioni esistenziali e/o economiche sulla vita del danneggiato;

– il danneggiato, affetto da patologie prive di effetti invalidanti, subisce una menomazione della sua salute con conseguenze invalidanti:

in questa ipotesi, il giudice di merito dovrà determinarsi nel senso dell’irrilevanza dello stato patologico pregresso, salva rigorosa dimostrazione che gli effetti invalidanti si sarebbero comunque verificati a prescindere dalla concausa imputabile;

– il danneggiato, già affetto da uno stato di invalidità potenzialmente non idoneo (di per sè e nell’immediatezza) a produrre esiti mortali, decede in conseguenza dell’intervento medico (commissivo od omissivo): in tal caso lo stato di invalidità pregresso non potrà rilevare quanto ai danni risarcibili iure proprio ai congiunti, mentre potrebbe condurre ad una riduzione del quantum dei pregiudizi risarcibili iure successionis, sempre che il danneggiante fornisca la prova che la conseguenza dannosa dell’evento (nella specie, la morte) sia stata cagionata anche dal pregresso stato di invalidità;

– il danneggiato, già in condizioni invalidanti idonee a condurlo alla morte a prescindere da eventuali condotte di terzi, decede a seguito dell’intervento (commissivo od omissivo): la risarcibilità iure proprio del danno patrimoniale e non patrimoniale – riconosciuto ai congiunti potrà subire un ridimensionamento in considerazione del verosimile arco temporale in cui i congiunti avrebbero potuto ancora godere, sia sul piano affettivo che economico, del rapporto con il soggetto anzitempo deceduto. Alla luce delle considerazioni che precedono, i motivi vanno accolti limitatamente alla loro prospettazione di una omessa valutazione, sul piano della causalità giuridica -quella materiale essendo stata definitivamente e correttamente accertata dal giudice di merito secondo i parametri dianzi descritti – dell’eventuale, possibile incidenza dello stato di salute intrauterino del neonato sulle conseguenze dannose risentite dopo la nascita in conseguenza della colpevole condotta dei sanitari sì come correttamente e definitivamente accertata in sede di merito.

Con il terzo motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2043, 1218, art. 1176, comma 2, art. 2697 c.c..

Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: Dica la corte adita se l’ente ospedaliere, gestore di un servizio pubblico sanitario, risponde a titolo di responsabilità contrattuale per i danni asseritamente subiti da un privato a causa dell’esecuzione della prestazione medica da parte di un proprio dipendente e se a questi fini il danneggiato debba provare che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie) sia derivato dalla condotta dei sanitari sulla base di un serio e ragionevole criterio di probabilità scientifica supportato dal riscontro di idonee e concrete circostanze di fatto.

Il motivo è palesemente infondato (oltre che, nella sostanza, carente di interesse, essendo il regime probatorio della responsabilità extracontrattuale ben più gravoso per il danneggiato, se a quel titolo di responsabilità la corte di appello avesse realmente fatto riferimento, onde l’indiscutibile vantaggio processuale che ne sarebbe derivato alla ricorrente), poichè la corte capitolina, al di là di un generico riferimento al danno aquiliano contenuto in sentenza al folio 7, del tutto privo di attinenza con il caso di specie, ha poi correttamente e condivisibilmente condotto l’analisi della vicenda processuale sul piano della responsabilità contrattuale, ritenendo correttamente e condivisibilmente soddisfatto l’onere probatorio gravante sui coniugi C. con motivazione che, del tutto esente da vizi logico- giuridici, non può che ricevere, in questa sede, integrale conferma.

Il ricorso è pertanto accolto per quanto di ragione, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio del procedimento ad altro giudice, che si designa nella corte di appello di Roma in altra composizione, e che si atterrà al principio di diritto che segue:

Qualora la produzione di un evento dannoso, quale una gravissima patologia neonatale (concretatasi, nella specie, in una invalidità permanente del 100%), possa apparire riconducibile, sotto il profilo eziologico, alla concomitanza della condotta del sanitario e del fattore naturale rappresentato dalla pregressa situazione patologica del danneggiato (la quale non sia legata all’anzidetta condotta da un nesso di dipendenza causale), il giudice, accertata, sul piano della, causalità materiale (correttamente intesa come relazione tra la condotta e l’evento di danno,giusta disposto dell’art. 1221 c.c., comma 1), l’efficienza etiologica della condotta rispetto all’evento in applicazione della regola di cui all’art. 41 c.p. (a mente della quale il concorso di cause preesistenti, simultanee o sopravvenute, anche se indipendenti dall’azione del colpevole, non esclude il rapporto di causalità fra l’azione e l’omissione e l’evento), così ascrivendo l’evento di danno interamente all’autore della condotta illecita, può poi procedere, eventualmente anche con criteri equitativi, alla valutazione della diversa efficienza delle varie concause sul piano della causalità giuridica (correttamente intesa come relazione tra l’evento di danno e le singole conseguenze dannose risarcibili all’esito prodottesi) onde ascrivere all’autore della condotta, responsabile tout court sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non ricomprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili etiologicamente alìevento di danno bensì determinate dal fortuito, come tale inteso la pregressa situazione patologica del danneggiato non etiologicamente riconducibile, a sua volta, a negligenza, imprudenza, imperizia del sanitario.
P.Q.M.

La corte accoglie il ricorso nei sensi e nei limiti di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla corte di appello di Roma in altra composizione.

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