Cass. pen., sez. I 28-05-2009 (08-05-2009), n. 22373 – Pres. SILVESTRI Giovanni – A.C. ISTITUTI DI PREVENZIONE E DI PENA

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole

FATTO
1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale di sorveglianza di Torino ha respinto la domanda di rinvio della esecuzione della pena e di detenzione domiciliare avanzata da A.C., detenuto in espiazione di ergastolo.
2. Ricorre l’interessato a mezzo dei difensori, avvocati ROSSOMANDO Antonio e PICCIRILLO Francesco, e chiede l’annullamento del provvedimento.
Premesse le complesse vicende detentive e morbose dell’ A. denunzia che l’ordinanza impugnata sarebbe affetta perlomeno da tre macroscopici vizi concernenti:
2.1.a. l’inquadramento della malattia, arbitrariamente definita dal Tribunale "un disturbo dell’adattamento" e, più avanti, afferente "alle condizioni meramente psichiche del soggetto" o mera "ipoflessione dell’umore", capace di indurre episodicamente "disturbi dell’alimentazione" non segnalati tuttavia allo stato, assumendo così che lo stato del ricorrente lasciava integre le sue capacità intellettive, che era "irrilevante il rischio di suicidio prospettato dai sanitari come conseguenza del suo male" perchè esso andava riferito alla "capacità di autodeterminazione … non inficiata da danni cerebrali", che non era ravvisabile "un deperimento del quadro organico generale", che il ricorrente si alimentava in modo congruo e non mostrava deficit di sofferenza fisica; così travisando i risultati peritali, secondo cui il ricorrente era affetto invece da "depressione maggiore ricorrente", e doveva escludersi il "mero disturbo dell’adattamento" (p. 9 perizia F.), che il ricorrente era poco collaborante per l’astenia, non era in grado di reggere la stazione eretta (era oramai da anni sulla sedie a rotelle) presentava condizioni generali scadute con ipotonia e ipertrofia muscolare diffuse, che l’alimentazione era sì "regolare" ma non affatto congrua (il ricorrente dagli 85 chili di peso iniziale era sceso a 52 chili nel (OMISSIS)) persistendo disturbi del comportamento alimentare;
2.1.b. la reversibilità o guaribilità della malattia quali condizioni del differimento della esecuzione della pena (contro sez. 1^, n. 2080 del 7.7.1994);
2.2. l’incompatibilità con il regime detentivo, arbitrariamente avendo il Tribunale affermato che in nessun passo della perizia s’affermava la inidoneità dell’ospedale (OMISSIS) o del reparto sanitario del carcere di (OMISSIS) al trattamento del detenuto; così travisando la relazione peritale, per la quale la inidoneità delle strutture sanitarie intramurarie costituiva il presupposto delle indicazioni terapeutiche lì non somministrabili formulate; e senza considerare che l’Ospedale (OMISSIS) aveva sempre dimesso il detenuto segnalando l’esigenza di strutture più adeguate e il ricorrente era stato riportato nello stesso carcere che l’aveva sistematicamente trasferito al (OMISSIS) nei momenti acuti;
2.3. il principio di umanità della pena, giacchè il Tribunale, pur riconoscendo la scemata pericolosità dell’ A., faceva leva sulla presunzione di permanenza del vincolo associativo ipotizzando una riviviscenza della sua capacità criminale per effetto di un miglioramento, anche parziale, della sua situazione sanitaria; così in ultima analisi affermando la necessità o utilità della conservazione del grave quadro patologico – e del supplemento di afflittività della pena – quale strumento "di contrasto della pericolosità sociale, non attuale" e dunque in funzione di prevenzione generale.
DIRITTO
1. Il ricorso appare, nei termini che si diranno, fondato.
1.1. Il Tribunale ha richiamato la perizia disposta dalla Corte d’appello di Napoli, sulla cui base la stessa Corte aveva concesso all’ A. gli arresti domiciliari, premettendo che in essa si evidenziava che il ricorrente era affetto da una "depressione maggiore ricorrente con alterazioni dell’appetito, del peso, del sonno e dell’attività psicomotoria" e si segnalava "la utilità del collocamento dell’ A. in un ambiente più confortevole del carcere in cui eseguire una psicoterapia finalizzata al miglioramento del quadro".
Ha osservato che dalla perizia emergeva che l’A. era affetto "da disturbo inquadrabile come sindrome depressiva ricorrente (con marcato orientamento del tono dell’umore verso la polarità depressiva e perdita del normale interesse per le attività della vita ad andamento ciclico e crisi acute di durata quindicinale) dovuta principalmente ad una palese fragilità della struttura di personalità del paziente che gli impediva di tollerare con maturità e serenità l’evento altamente frustrante e a restrizione in carcere … divenuta, in conseguenza delle vicissitudini processuali … ormai stabile e cronica da anni, trasformandosi in un disturbo depressivo maggiore ricorrente senza recupero interepisodico completo".
E ha concluso sostenendo che la patologia era "inquadrabile in un disturbo dell’adattamento, più che non in una vera e propria patologia psichiatrica" dato che erano "assenti sintomi psicotici di rilievo". Tuttavia, come rimarca la difesa, la perizia diceva in realtà il contrario, e cioè che la patologia non era inquadrabile in un mero disturbo dell’adattamento.
Movendo quindi da siffatta ridefinizione della patologia del ricorrente, il Tribunale ha ritenuto la adeguatezza, in concreto, delle cure che il ricorrente poteva ricevere in ambiente carcerario, assumendo che dalla perizia non emergeva in realtà alcuna specifica "controindicazione" alla permanenza presso i centri medici specializzati del carcere di (OMISSIS); senza spiegare come tale assunto fosse conciliabile con le conclusioni peritali (non dichiaratamente disattese) nè con il provvedimento di concessione degli arresti domiciliari adottato da altra Autorità giudiziaria sulla loro scorta.
Sicchè va rimarcato che il Tribunale ben poteva ritenere non convincenti i giudizi espressi nella perizia disposta in altro procedimento, ma avrebbe dovuto allora – atteso il livello squisitamente tecnico dell’indagine medico legale richiesta – disporne di nuova, munendosi del parere e delle relazioni di esperti della materia. Quel che è certo è che non gli era consentito interpolare l’elaborato a sua disposizione e trarne conclusioni difformi sulla base di una lettura non corrispondente al testo.
1.2. Entrambe le richieste del ricorrente (di differimento pena e di detenzione domiciliare) sono state quindi respinte sulla base del rilievo, in diritto, che la concessione del rinvio della esecuzione della pena costituisce "rimedio estremo, da concedere ai condannato solo nell’ipotesi in cui ogni altra soluzione si sia rivelata inadeguata a salvaguardarne la salute e vi sia un concreto, prevedibile e incontestabile rischio di sopravvivenza del soggetto nell’ambito del regime restrittivo carcerario". Ma l’affermazione non è corretta.
E’ infatti principio consolidato – derivante dalla necessità (ex art. 27 Cost., comma 3 e art. 3 Convenzione EDU) che la pena non si risolva in un trattamento inumano o degradante – che lo stato di salute incompatibile con il regime carcerario, idoneo a giustificare il differimento dell’esecuzione della pena per infermità fisica o la applicazione della detenzione domiciliare, non è solo la patologia implicante un pericolo per la vita, andando comunque considerato contrario al senso di umanità ogni stato morboso o scadimento fisico capace di determinare una situazione di esistenza al di sotto di quella soglia di dignità che pure in carcere si richiede debba essere rispettata (una sofferenza e un’afflizione di tali intensità da eccedere il livello che deriva inevitabilmente da una pena legittima, come dice la Corte EDU). Anche la mancanza di cure mediche appropriate, e più in generale la detenzione in condizioni inadeguate in rapporto alla gravità di una malattia che potrebbe avere altrove assistenza idonea, può pertanto in linea di principio costituire un trattamento contrario al senso di umanità.
Erroneamente quindi il Tribunale ha limitato la sua valutazione alla esistenza di un pericolo di morte come conseguenza della degenerazione dello stato di malattia.
1.3. Ma certamente la censura più grave merita, in tale contesto, la conclusione secondo cui: "le condizioni psico – fisiche del soggetto non sembrano così gravi da rendere necessaria la sua scarcerazione, non potendo essere elemento dirimente il rischio di suicidio prospettato dai sanitari come conseguenza del suo male, essendo azione connessa alla capacità di autodeterminarsi del reo, che è rimasta integra e non appare inficiata da danni cerebrali di altra natura …": di difficile lettura e comunque inaccettabile.
I soggetti deputati alla vigilanza sulla esecuzione della pena nel rispetto dei canoni prima richiamati sono onerati da una posizione di garanzia nei confronti di coloro che sono affidati alla loro custodia e sono tenuti a fare quanto in loro potere per evitare il compimento di atti autolesivi. Il suicidio in carcere non può ritenersi rischio consentito.
L’affermazione poi che, in assenza di "danni cerebrali d’altra natura", l’ipotesi di un tale atto debba ricondursi alla libera autoderminazione in soggetto riconosciuto affetto da sindrome depressiva maggiore, ricorrente e cronicizzata, non risulta fondata su alcuna legge scientifica.
2. L’ordinanza impugnata deve dunque essere annullata con rinvio al Tribunale di sorveglianza di Torino perchè proceda a nuovo esame dando conto dei risultati raggiunti in punto di natura e gravità delle condizioni di salute del ricorrente sulla base di cognizioni scientifiche correttamente formulate e considerando l’intera gamma degli strumenti, anche eventualmente di controllo, che l’ordinamento pone a disposizione per ovviare alle incompatibilità quota vitam e quoad valetudinem mediante un ragionevole bilanciamento di esigenze retributive e special – preventive da un lato, istanze umanitarie dall’altro.
P.Q.M.
Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di sorveglianza di Torino.

Testo non ufficiale. La sola stampa del dispositivo ufficiale ha carattere legale.

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