Cass. civ. Sez. V, Sent., 22-07-2011, n. 16087 Redditi d’impresa

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

A seguito di una verifica fiscale eseguita dalla Guardia di Finanza nei confronti di S.A., titolare di un’agenzia di assicurazioni e di un distributore di carburante, conclusasi con p.v.c. del 5.6.1998 che rilevava consistenti attività di finanziamento da ritenersi estranee alle attività imprenditoriali dichiarate dal contribuente, veniva emesso a carico del medesimo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 38 un avviso di accertamento con il quale si contestavano gli ulteriori redditi provenienti dalla presunta attività di intermediazione finanziaria per l’anno 1992.

Avverso tale atto proponeva ricorso il S. contestando potersi qualificare reddito da capitale quello accertato, e deducendo pertanto l’illegittimità dell’ atto impositivo per aver egli definito il reddito d’impresa ai sensi del D.L. n. 564 del 1994, art. 3 per il 1992.

Il giudice adito rigettava il ricorso, il contribuente proponeva gravame ma la C.T.R. della Sardegna con sentenza n. 238/9/06, depositata il 21.11.2006 e non notificata, rigettava l’appello e confermava l’impugnata sentenza.

Per la cassazione della sentenza di secondo grado proponeva ricorso il S. articolando tre motivi, successivamente sostenuti anche con il deposito di memoria aggiunta.

L’Agenzia delle Entrate resisteva con controricorso.
Motivi della decisione

Preliminarmente rileva la Corte che dalla sentenza impugnata emerge che "in esito alla verifica fiscale condotta dalla Guardia di Finanza anche con controlli bancari, è risultata l’esistenza di 46 tra conticorrenti, libretti e depositi titoli e sono stati individuati 68 soggetti, persone fisiche, imprenditori e società, partecipi di operazioni finanziarie anche per importi elevati, di cui non esiste traccia nella contabilità della ditta. Le persone interessate, sentite dalla Guardia di Finanza, hanno in genere dichiarato di avere fatto ricorso al S. per finanziamenti che, per cause varie, non potevano ottenere in banca. Sono risultati in particolare versamenti per L. 2.576.245.847 e effetti presentati allo sconto per L. 783.646.980".

E’ su tali premesse in fatto che risulta emesso l’atto impositivo in contestazione, impugnato dal contribuente che, senza negare l’attività di finanziamento attribuitagli, la prospetta però come ricompresa nell’attività d’impresa ufficialmente svolta, anche perchè rivolta a favorire la stessa clientela, con il duplice auspicato risultato di far risultare i redditi in questione non imponibili D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 45 e comunque non ulteriormente accertabili essendo stato il reddito d’impresa definito per l’anno 1992 con adesione L. n. 656 del 1994, ex art. 3.

Con i motivi di ricorso articolati deduce infatti il ricorrente i seguenti vizi:

1. insufficiente motivazione in ordine alla qualificazione del reddito accertato, come proveniente da capitale, anzichè come reddito d’impresa connesso alla attività di assicuratore e distributore di carburante;

2. la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 45, L. n. 656 del 1994, art. 3 e D.P.R. n. 177 del 1995, art. 8, comma 2 per aver il giudice di merito ritenuto autonomamente tassabili come reddito da capitale i proventi dell’attività di finanziamento accertata, nonostante la contraria previsione di cui alla prima delle norme innanzi citate;

3. la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 51, L. n. 656 del 1994, art. 3 e D.P.R. n. 177 del 1995, art. 8, comma 2 per essere comunque l’accertamento dei maggiori redditi per l’anno in questione preclusi all’Ufficio dalla definizione dei redditi stessi con adesione.

Le doglianze così riassunte possono essere congiuntamente esaminate in considerazione della loro intima connessione, e risultano senza dubbio infondate.

Come già innanzi rilevato l’accertamento impugnato si fonda su una pluralità di elementi indiziari attentamente valutati dal giudice tributario e costituiti dalla rilevazione di 46 rapporti bancari estranei alle attività imprenditoriali ufficialmente svolte dal ricorrente; di ben 68 soggetti beneficiari dell’attività di finanziamento, a loro volta diversi dai clienti dell’attività "ufficiale" del S.; di operazioni di finanziamento per rilevantissimi importi.

Il giudice di merito, sulla base della circostanze di fatto innanzi evidenziate, ha con ampia e convincente motivazione, assolutamente immune da vizi logici, illustrato in maniera più che esauriente le ragioni per le quali doveva ritenersi che le numerose e spesso assai consistenti operazioni emerse dalla verifica "non siano coerenti in alcun modo all’attività di assicurazione e neppure a quella di distribuzione al minuto di carburante" svolta dal contribuente, "rispondendo invece a quelle che sono le cadenze ordinarie di un’attività finanziaria", così da indurre a escludere che l’attività di finanziamento accertata potesse configurare "una semplice ramificazione di altra affatto diversa attività d’impresa", come avrebbe invece voluto far intendere il contribuente.

La valutazione al riguardo espressa dalla CTR, proprio perchè sostenuta da congrua motivazione, è sottratta al vaglio del giudice di legittimità. D’altronde le critiche in proposito esposte in ricorso nessun rilievo possono assumere in questa sede, anche perchè:

a) Il profilo della "coerenza" risulta correttamente richiamato dalla CTR con riferimento alla natura dell’attività di finanziamento accertata, rispetto a quella delle altre attività d’impresa svolte dal contribuente, e pertanto prescinde da valutazioni in termini strettamente quantitativi delle operazioni accertate, alle quale invece si fa riferimento in ricorso;

b) La disponibilità di rilevanti somme in contanti, quali proventi delle diverse attività imprenditoriali svolte dal S., risultano ininfluenti ai fini della controversia, e comunque non ogni deduzione difensiva deve necessariamente trovare puntuale risposta nella motivazione del giudice di merito, essendo sufficiente ad escludere il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 che egli dia conto delle ragioni di fatto e di diritto sulle quali si fonda il suo convincimento;

c) Il richiamo ai provvedimenti intervenuti in sede penale risulta operato in ricorso senza nessun puntuale riferimento alle modalità e al momento in cui essi sarebbero stati invocati dinanzi al giudice tributario, ed inoltre in termini assolutamente generici, la qual cosa assume ancor più negativo rilievo perchè, indipendentemente dal fatto che nel caso di specie neanche sembrerebbe trattarsi di provvedimenti che abbiano acquisito autorità di giudicato (circostanza quest’ultima del tutto inconcepibile per il decreto di archiviazione adottato dal GIP presso il Tribunale di Tempio Pausania per il delitto di cui alla L. n. 516 del 1982, art. 1 e non dedotta per la sentenza di assoluzione dal reato di esercizio abusivo di attività finanziaria che sarebbe stata pronunciata da quello stesso Tribunale), le pronunce penali comunque nessuna efficacia automatica possono mai assumere nel giudizio tributario, essendo rimesse alla valutazione del giudice competente in questa materia, per la qual cosa risulta quanto mai necessario che la parte interessata deduca espressamente e specificamente sotto quali profili esse possano assumere rilievo nel successivo giudizio tributario, ipotesi questa non realizzatasi nel caso di specie;

d) Le dichiarazioni favorevoli al contribuente rese da alcuni dei beneficiari delle attività di finanziamento dallo stesso svolte, non valgono ad escludere la valenza di quanto da altri dichiarato in ordine ai contenuti dei loro personali rapporti, e posto a fondamento dell’accertamento prima e della sentenza di merito successivamente.

In questi termini ricostruiti i fatti, unitamente all’infondatezza della prima doglianza inequivocabilmente ne consegue l’insussistenza anche dei vizi dedotti con il secondo e il terzo motivo di ricorso, essendo rimasto accertato trattarsi di redditi prodotti nell’esercizio di attività diversa da quella d’impresa ufficialmente svolta dal contribuente e per la quale vi fu accertamento con adesione. A tal riguardo, e con specifico riferimento agli effetti della definizione con adesione del reddito per l’anno 1992, giova osservare, a ulteriore conforto di quanto già in proposito affermato dal giudice tributario nella vicenda in esame, che il D.P.R. n. 177 del 1995 ha previsto sostanzialmente un meccanismo premiale imperniato su di un accordo destinato a prendere le mossa proprio dall’attività d’impresa o di lavoro autonomo dichiarata dal contribuente, cui doveva essere inviata una proposta con l’indicazione dei maggiori imponibili determinati con riguardo al settore economico di appartenenza.

Se su tale proposta si raggiungeva un’intesa, il reddito d’impresa o di lavoro autonomo rimaneva così fissato senza possibilità di rideterminazioni o ripensamenti da parte del contribuente o dell’Ufficio, cui era inibito, a decorrere dalla data del pagamento, l’esercizio dei poteri di controllo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 32 e 33, del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 51, 52 e 53.

Il ricorrente ha, come si è visto, sostenuto che l’effetto preclusivo sopra indicato non riguardava soltanto l’attività ufficialmente dichiarata, ma qualunque attività d’impresa o di lavoro autonomo svolta, indipendentemente dalle modalità del suo svolgimento.

La tesi non può essere condivisa perchè trattandosi d’istituto di natura pattizia, impostato sulla libera e consapevole accettazione degli eventuali vantaggi o svantaggi, la normativa in questione deve essere letta con riferimento a quanto in concreto ha costituito oggetto della trattativa, e cioè alla materia su cui si era formato il consenso, perchè soltanto rispetto ad essa l’Ufficio era stato in grado di valutare la convenienza dell’operazione e di assumersene perciò il rischio.

Ne deriva che l’attività dichiarata dal contribuente e presa in considerazione dall’ufficio ai fini della quantificazione dei maggiori imponibili deve ritenersi costituisse non soltanto la premessa, ma anche il limite dell’accordo, nel senso che il divieto di successive modifiche o accertamenti riguardava soltanto il reddito ad essa ricollegabile e non quello derivato da ulteriori e diverse attività, neanche dichiarate ufficialmente dal contribuente.

Il ricorso deve pertanto essere rigettato. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, non possono che seguire la soccombenza.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 5.700.00 di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese prenotate a debito.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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