Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 15-03-2011) 26-04-2011, n. 16371 Aggravanti comuni danno rilevante

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.G. è stato sorpreso sul marciapiede antistante di un esercizio commerciale dalla commessa di quel negozio di abbigliamento sito in Palermo, mentre usciva dall’esercizio con capi di vestiario di cui era impossessato e che non aveva pagato.

All’esito di giudizio abbreviato, il Tribunale di Palermo lo condannò il 7.1.2009 quale responsabile di tentato furto aggravato ( artt. 56, 624, 625 c.p., n. 7) e la Corte d’Appello palermitana ha confermato il 10.3.2010 la prima sentenza.

Ricorre la difesa del P. sulla base dei seguenti motivi:

– errata applicazione della legge penale e contraddittorietà della motivazione nell’avere qualificato come tentativo l’azione del ricorrente in ragione della sorveglianza presente al negozio sulla merce che, quindi, non era più esposta alla pubblica fede la merce (ancorchè non adeguatamente sorvegliata dal titolare);

– errata applicazione della legge penale per avere ritenuto estensibile al tentativo di reato la circostanza aggravante propria della fattispecie consumata.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile.

Il primo motivo è manifestamente infondato.

Esso si giova della benevola configurazione giudiziale del fatto che, in sè, avrebbe potuto ritenersi consumato per la fuoriuscita del bene dalla sfera di vigilanza del possessore (la merce era stata occultata in una busta e le casse dell’emporio erano state superate ed, anzi, l’imputato era fuoriuscito dai relativi locali commerciali), qualificazione tuttavia qui irredimibile, risolvendosi in una reformatio in pejus, non essendovi impugnazione della pubblica accusa.

Ciononostante, nella prospettiva accolta dai giudici di merito, la motivazione riesce puntuale e logica: la sorveglianza a cui allude la Corte d’Appello è quella non continuativa, ma occasionale ed a campione.

Profilo che è compatibile con la esposizione alla pubblica fede della merce. Invero, questa Corte ha costantemente affermato che sussiste l’aggravante di cui all’art. 625 c.p., comma 1, n. 7 – sub specie di esposizione della cosa per necessità o per destinazione alla pubblica fede – nel caso in cui il soggetto attivo si impossessi della merce sottratta dagli scaffali di un esercizio commerciale, in presenza di una sorveglianza soltanto saltuaria da parte del detentore della res o di altri per conto di quest’ultimo, nella specie gli addetti alle vendite, in quanto tali, incaricati anche di servire i clienti. Infatti al fine dell’esclusione dell’aggravante dell’esposizione alla pubblica fede non è sufficiente che il fatto avvenga occasionalmente nel momento in cui la persona offesa ne abbia diretta percezione ma è necessario che la situazione sia tale per cui, salvo imprevisti, detta percezione sia pressochè inevitabile (cfr. da ultimo, Cass. pen., sez. 5^, 22 gennaio 2010, Addyani, Ced Cass., rv. 246159).

Anche il successivo mezzo è del tutto privo di interesse.

Il tentativo è reato autonomo rispetto a quello consumato, ma è pur sempre ad esso collegato strutturalmente e ideologicamente, sicchè alla relativa fattispecie debbono applicarsi le aggravanti che trovano ragione d’essere attraverso la valutazione dell’idoneità degli atti e dei mezzi rapportata alla fattispecie consumata, valutazione che permette di individuare, unitamente al proposito criminoso, le modalità dell’azione per realizzarlo. Pertanto, non vi è dubbio che il fatto furtivo, rimasto alla fase del delitto tentato, possa qualificarsi con le stesse modalità (ovviamente compatibili con detta fase) proprie del reato consumato.

I motivi sub 3 e 4 sono inammissibili, perchè o non devoluti al giudice d’appello ovvero non conferenti con l’attuale vicenda: il motivo sub 3 invoca l’attenuante di cui all’art. 62 c.p., n. 4, obiettivamente incompatibile, con l’importo di Euro 343; disconnesso anche dal contenuto della decisione impugnata poichè evoca un inesistente di giudizio di rinvio da annullamento dalla Cassazione.

Dalla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna al pagamento delle spese del procedimento ed anche al versamento della somma a favore della Cassa per le Ammende che si ritiene equo fissare in Euro 1.000,00.
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè al versamento della somma di Euro 1.000 in favore della Cassa delle Ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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