Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 24-03-2011) 27-04-2011, n. 16455

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. S.V., T.C., C.V., V. A.V., R.V. e B.F. ricorrono avverso la sentenza del 21 dicembre 2009, con cui la Corte di Appello di Catanzaro, in riforma di quella resa dal Tribunale di Crotone, in data 2 febbraio 2007, dichiarava non doversi procedere nei loro confronti perchè estinte le imputazioni loro rispettivamente ascritte ai capi A, B, C, D ter, F bis, G e G ter, P per prescrizione, con conferma delle statuizioni civili, e confermava le condanne pronunciate per il delitti di cui al F nei confronti di S.V., vicepresidente della Provincia di (OMISSIS), e di T.C., presidente della detta provincia, per i delitti di cui al capo O e Z quater, con il concorso di B.F., con conseguente rideterminazione delle pene; assolveva gli imputati dalle rimanenti imputazioni con ampia formula.

I fatti che vedevano coinvolti i nominati esponenti politici, imprenditori, funzionari della amministrazione e comuni cittadini, in relazione ai quali sono stati proposti gli odierni ricorsi, venivano ricostruiti per distinti episodi nel seguente modo:

1. Ristrutturazione del (OMISSIS): lo S. aveva intimato in tono perentorio al funzionario arch. L., che temeva di perdere i suoi incarichi all’interno della amministrazione, che l’appalto per la sostituzione delle porte interne dell’edificio scolastico doveva essere affidato alla ditta Leto ed il funzionario aveva proceduto anche a simulare una parvenza di licitazione, accettando delle buste presentate solo nominalmente da varie ditte, in realtà portate a mano dal solo Le., che aveva concordato le offerte con gli altri imprenditori in modo da risultare vincitore.

(capi F – concussione- F bis).

2. Il concorso per geometri: la vicenda riguarda il T., lo S., il C. e V.A.V.; i prime due, avevano ottenuto anticipatamente le tracce di un concorso per la assunzione di 13 geometri alla Provincia; l’ing. C. aveva svolto le tracce che erano state girate dallo S. ad alcuni candidati, tra cui V.D., figlio di un consigliere provinciale; successivamente al candidato, ammesso agli orali, altro imputato, V.A.V. aveva fatto pervenire le domande che gli sarebbero state poste in sede di esame orale; (si tratta dei reati di truffa e rivelazione dei segreti di ufficio capi g e g ter).

3. Vicenda Ta.: Il T. aveva indotto D. L., che si era aggiudicato dei lavori di ristrutturazione per conto della Provincia ad assumere l’operaio Ta., ed altresì costretto il funzionario della provincia, arch. L. a farsi latore presso l’imprenditore della volontà concussiva, cosi ponendo in essere "delitti di cui all’art. 317 c.p. (capo O) e art. 611 c.p. (capo P).

4. La fornitura di materiale informatico: l’imprenditore R. V. aveva fornito materiale difforme da quello indicato nel bando di gara e nel contratto ad esso susseguente; il T. aveva istigato il funzionario L. ad accettare la merce anche se non rispondente al dettame del bando, così commettendo frode nell’esecuzione dello stesso (capi S,T); successivamente, il presidente della provincia aveva imposto al L. di non risolvere il contratto ed a richiedere una nuova fornitura, così che il R. aveva guadagnato ulteriori somme (capo U).

5. La fornitura del servizio di assistenza informatica: il T. e B.F., quale presidente della commissione di gara, al fine di far ottenere al R. la aggiudicazione del servizio sopra detto, avevano raccolto le offerte di altre due ditte, in realtà mai presentate dalle stesse, ma portate a mano dal R. e ne avevano anticipatamente aperto le buste, in modo da consentire al detto imprenditore di risultare vincitore. (capi 2 bis, ter e qiunquies, in esso assorbito il quater).

I nominati condannati hanno proposto i ricorsi che saranno di seguito esaminati: S.V., a mezzo dei difensori, con il primo motivo, eccepisce la violazione dell’art. 521 c.p.p., a causa della ritenuta concussione in luogo della estorsione contestata al capo F:

mette in evidenza che la estorsione prevede una condotta di coercizione, che non è stata riscontrata, posto che si è ritenuto dai giudici di merito integrata l’ipotesi diversa di "concussione per induzione", condotta alternativa alla prima, e di fatto collegata nella pronuncia, anche, alla concussione ambientale, sicchè il ricorrente non è stato in grado di articolare adeguati mezzi di prova, come sarebbe stato possibile se si fosse fatto ricorso all’esatto strumento processuale di cui all’art. 521 c.p.p.; con il secondo motivo, viene denunciata, per illogicità e mancanza della motivazione, la sentenza, per non avere risposto ai motivi specifici in ordine alla credibilità dei dichiaranti Le. e L., ed alla loro comunanza di interessi economici, sicchè le condizioni ambientali non erano, affatto, tali da non consentire al L. di opporsi all’operato dello S., da cui, peraltro, entrambi, in altre occasioni, avevano sollecitato e ottenuto illeciti favori.

T.C., ha denunciato vizio ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) in relazione al capo O della rubrica, già indicato come vicenda T.: sarebbe del tutto illogica la affermazione di responsabilità, centrata sulle dichiarazioni dell’arch. L., che si sarebbe fatto latore di esplicite minacce di ritorsioni ai danni del D., per la mancata assunzione del lavoratore, in mancanza della riscontro in ordine alla esistenza di una promessa in tal senso da parte del concusso, anteriore o posteriore all’ordine impartito dal T. al L. di mettersi in contatto con l’imprenditore, avvenuto in data (OMISSIS); del resto, anche il D. non aveva mai riferito, nel corso delle sue dichiarazioni, di avere avuto il timore di incorrere in penali contrattuali in caso di mancata obbedienza. Il punto nodale, che, a dire del ricorrente, sarebbe stato possibile risolvere con la trascrizione della conversazione avuta dal L. con l’imputato il (OMISSIS), negata tuttavia ingiustificatamente, sarebbe quello, non affrontato dalla Corte, della effettiva dazione o promessa, conseguente ad una condotta concussiva, non risultante ex actis; viceversa sarebbe evidente che il D., forse anche suggestionato, abbia in corso di giudizio, e quindi successivamente ai fatti, elaborato una personale convinzione sulla pressione subita, non accompagnata, però, negli atti da una esplicita promessa di assunzione del disoccupato. Anzi, egli avrebbe assunto una posizione di non espresso rifiuto inidonea ad integrare la fattispecie ex art. 317 c.p.p.; in subordine al più sarebbe ravvisarle una ipotesi tentata, con conseguente necessità di rideterminazione della pena.

Con il secondo motivo, i difensori eccepiscono, anche in relazione alla vicenda R., (capo U) che, illogicamente, la sentenza non ha valorizzato la testimonianza del teste a difesa, R.M., da cui emergeva la inconsapevolezza in ordine alle difformità della fornitura, privilegiando quella dell’arch. L., malgrado costui non avesse riferito di un ordine perentorio di accettare, comunque, il materiale; in definitiva la corte distrettuale si era tal senso orientata in base a delle mere deduzioni, senza tener conto della personalità del L., che non voleva scontentare i politici per favorire la crescita della sua carriera all’interno della amministrazione provinciale. Tanto più che il L. si era limitato non a promettere o fare quanto chiesto, ma a non opporre un esplicito rifiuto. Con il terzo motivo, relativo al falso contestato al capo z-quinquies, viene messo in evidenza dalla difesa la illogicità, pure valorizzata in sentenza, del comportamento del P.U che avrebbe apposto la sua firma sull’atto pur consapevole della falsità dello stesso, comportamento che invece scagionava il T., poichè una simile ingenuità era da attribuire a mero errore ed escludeva, dunque, il dolo del falso. C.V. propone a mezzo dei difensori i seguenti motivi: illogicità e contraddittorietà della sentenza, poichè non essendo stata addebitata anche ai componenti della commissione esaminatrice la consegna, prima della prova, dell’elaborato allo S., non vi è la prova che costui, venutone in possesso, lo abbia, poi, passato all’imputato. Viceversa, in atti sarebbe dimostrato che il compito venne elaborato nelle ore precedenti l’inizio della prova, che per tale motivo avvenne in ritardo. Nè sul punto sarebbe utile l’interrogatorio reso dal C. al PM, come ritenuto dalla corte, in quanto non contenente ammissioni. Con un secondo motivo, i difensori deducono che, in violazione dell’art. 403 c.p.p., sono state utilizzate le dichiarazioni rese in sede di incidente probatorio dai testi L. e D.M. e da altri imputati.

Eccepiscono che la escussione a dibattimento dei primi due dichiaranti, avvenuta a sensi dell’art. 507 c.p.p. non consentiva di utilizzare quelle in precedenza rese, sicchè non emergeva alcuna prova del suo coinvolgimento nei fatti de quibus. Con il terzo motivo, viene sottolineato che la corte distrettuale non ha adeguatamente risposto alle denunciate violazioni del diritto di difesa, verificatesi con la adozione delle ordinanze dibattimentali del 12 marzo 2004, dell’8 giugno 2006, e del 15 dicembre 205, concernenti attività istruttorie, su cui risultati si era basata la affermazione di responsabilità. In ultimo, mettono in evidenza che il comportamento dell’ingegnere, che pur potendo vincere il concorso, vi avrebbe rinunciato, favorendo un terzo, dimostrerebbe la incongruenza dell’ipotesi accusatoria.

V.A.V.: i difensori con il primo motivo di ricorso denunciano violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. E, poichè la corte distrettuale non avrebbe potuto pronunciare la estinzione dei reati per prescrizione, stante il difetto di prova sulla sua responsabilità, basata sulle dichiarazioni, prive di riscontro, di L. e D.M., testi che per l’analoga posizione del Li., presidente della commissione di esame, sono stati ritenuti peraltro insufficienti per la affermazione di colpevolezza di costui. Sottolineano, in primo luogo, come il teste Le. abbia di fatto escluso il passaggio da parte dell’odierno imputato al candidato delle effettive domande che gli sarebbero state poste, anche perchè la commissione aveva elaborato un complesso meccanismo, con buste chiuse contenenti per aree tematiche) quesiti, che ne rendeva praticamente impossibile la preventiva comunicazione. In conseguenza, le sole dichiarazioni del teste assistito non erano valutabili per difetto di riscontro; inoltre, senza il concorso dei componenti della commissione, due non imputati ed il terzo assolto, non era configurabile l’apporto del V., concorrente extraneus.

Con un secondo motivo, il V. denuncia mancanza di motivazione ed erronea applicazione dell’art. 640 c.p. per mancata dimostrazione del danno subito dalla quale effetto diretto ed immediato del raggiro subito.

R.V., con il primo motivo, denuncia il difetto della motivazione della pronuncia e violazione di legge in tema di applicazione dell’art. 479 c.p., in quanto il R. era solo il beneficiario dell’atto, ma non vi era alcuna prova che egli ne fosse l’istigatore o avesse rafforzato il proposito criminoso dei p.u.; la corte avrebbe desunto il dolo dalla sua partecipazione al reato di turbativa degli incanti, forzando i fatti. Con il secondo motivo, la difesa sottolinea che, comunque, era mal ravvisata la aggravante di cui all’art. 476 c.p.p., comma 2, peraltro mai contestata all’imputato, che aveva impedito la declaratoria di estinzione per prescrizione.

B.F. deduce che la pronuncia è affetta da un vizio di fondo, ossia dall’avere ritenuto che alla trattativa privata – procedura prescelta per il servizio informatico – si applicasse la disciplina della licitazione privata, con la conseguenza che, invece, la falsità non è configurabile, poichè la PA non aveva altro obbligo che indicare il fatto di dover svolgere il servizio. In altre parole, quanto attestato nel verbale del 3 giugno 1997 è un surplus omettibile, in quanto la menzione o meno di altre buste e del momento della loro apertura non incide sulla regolarità della procedura, consistente nella formalizzazione del nome del fornitore prescelto.

Con un secondo motivo esclude che sussista la aggravante di cui all’art. 476 c.p., comma 2, non essendo il verbale incriminato atto destinato a fare fede fino a querela.
Motivi della decisione

1. E’ da disporre la annullamento della impugnata decisione per essersi estinto per prescrizione il reato di cui all’art. 479 c.p. nei confronti di T., B. e R., per il quale è da escludere l’aggravante di cui all’art. 476 c.p., comma 2.

In relazione alle dette posizioni ed ai motivi di ricorso proposti dai nominati imputati, vale osservare che tutti e tre gli imputati svolgono considerazioni fra loro sovrapponibili in materia di falso, sicchè è possibile procederne ad un esame congiunto.

In punto di responsabilità, è da mettere in rilievo che non sono in atti, nè tantomeno sono sviluppate censure, elementi che mettano in evidenza la insussistenza del fatto contestato al capo Z quinquies della epigrafe à sensi dell’art. 129 c.p.p.; la pronuncia impugnata ha esplorato tutte le versioni alternative, in senso favorevole agli imputati, escludendo con ragionamento, esatto in diritto ed adeguato in fatto alle risultanze processuali, che difettasse il dolo sia nel R., estraneus al reato, di cui ha individuato il ruolo di istigatore, stante il suo interesse alla aggiudicazione della gara, sia nei due p.u. T. e B. coinvolti in forza delle esplicite dichiarazioni accusatorie del L., munite di riscontri oggettivi.

Nè ha pregio alcuno il rilievo mosso dal B. in ordine alla inconfigurabilità dei falsi, posto che la PA avrebbe agito iure privatorum,; è principio acquisito che, anche in assenza di formalità per la scelta del contraente, la PA, mediante i suoi funzionari, non può sottrarsi ai propri doveri di buona e corretta amministrazione e di trasparenza, specie considerando che anche la trattativa privata nella specie era una procedura autoregolamentata dalla amministrazione, mediante forme procedimentali attuative di un meccanismo selettivo delle offerte.

E’ però da escludere – e la questione rileva ai fini delle statuizioni civili – che nella fattispecie in esame, sussista la aggravante di cui all’art. 476 c.p., comma 2: e ciò per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, l’elemento di fatto integrante l’aggravante di cui all’art. 476 c.p., comma 2 – ossia l’essere caduta la condotta su atto di fede privilegiata, non risulta specificatamente indicato e contestato nell’imputazione. La corte distrettuale lo ha desunto, implicitamente, poichè la determina di n. 231 del 4.9.1997 faceva riferimento nel suo corpo al falso verbale di aggiudicazione della gara ed ha perciò ritenuto integrata per relationem la aggravante. Ora, tale richiamo non basta a conferire specificità alla contestazione, in modo da consentire la difesa dell’imputato.

Se è vero che in tema di correlazione tra accusa e sentenza la indicazione non corretta o mancante delle norme di legge violate assume rilievo secondario ai fini della contestazione del fatto (o dell’aggravante), ove il capo d’imputazione ne contenga tutti gli elementi naturalistici, oggettivi o soggettivi, che rilevano ai fini della tipicità del reato, anche circostanziato, nel caso in esame, non è indicato in che consista il valore fidefaciente della determina; il ragionamento seguito dalla corte è comunque errato, dato che non vale ad attribuire al detto atto, ricognitivo dell’aggiudicazione, fede privilegiata il richiamo in seno allo stesso del verbale di gara, quasi sia possibile una proprietà transitiva. Invero, è il solo verbale di gara quello attestante la liceità della procedura – nella specie mancante – ossia quello destinato ad provare fino a querela di falso i fatti che il pubblico ufficiale afferma essere avvenuti alla sua presenza o essere stati da lui compiuti. Pertanto, solo per tale falso era possibile la configurazione della forma aggravata e non anche per la successiva determina, la cui falsificazione integra la forma semplice ex art. 479 c.p..

Ne consegue che in virtù della nuova formulazione degli art. 157 e 161 c.p., che sono da applicare nel caso in esame, ricorrendo le condizioni di cui alla L. n. 251 del 2005, art. 10, commi 2 e 3, il termine prescrizionale ordinario è di anni 6 da incrementare di un quarto: pertanto, il falso commesso il (OMISSIS), si è estinto in data 3 marzo 2005, in data anteriore alla pronuncia di primo grado.

Consegue che in relazione a tale capo sono da revocare le statuizioni emesse a favore della parte civile per difetto delle condizioni ex art. 578 c.p.p..

Il venir meno di tale pronuncia, comporta la eliminazione della relativa pena, cui questa corte può procedere, ex art. 620 c.p.p., lett. e, nei confronti dell’imputato T., i cui rimanenti motivi di ricorso sono da rigettare. Infatti, con la seconda doglianza, il cui esame si collega logicamente al fatto di falso, ora esaminato, il T., infondatamente, oppone la sua inconsapevolezza sia in ordine alle difformità delle forniture informatiche sia in ordine alla mancanza di induzione e costrizione sul dipendente provinciale L. che renderebbe non configurabile la concussione di cui al capo U. Invero, dalla puntuale e dettagliata ricostruzione dei fatti compiuta dai giudici di merito, emerge che a) il T. era consapevole della difformità della fornitura operata dalla ditta del R., risultante da numerosi documenti interni alla p.a. e conosciuti dall’imputato, nella sua qualità, ben prima che esse fossero oggetto di un colloquio con fratello dell’imprenditore, R.M., la cui testimonianza è stata esaminata e ritenuta, pertanto, irrilevante; b) egli ha forzato la accettazione da parte del L., convocandolo e ingiungendogli di chiudere la trattativa, pena la possibile assunzione di provvedimenti negativi sulla carriera del funzionario; c) la paura della ritorsione era logicamente desumibile non solo dalle specifiche dichiarazioni in tal senso del L., che aveva confermato la minaccia diretta di trasferimento indirizzatagli in caso di mancata obbedienza, ma anche dal generale clima esistente all’interno della provincia, nel senso che il T., abusando della posizione di preminenza, coartava la volontà dei funzionari. Ne era riscontro il racconto di altro teste, certo Ma., che aveva avvisato il L. dei pericoli che lo stesso correva nell’accontentare il T., segno evidente che il L. si era trovato in una condizione di pressione, cui non si era potuto sottrarre, nonostante la consapevolezza dei rischi cui andava incontro.

Tanto basta ad integrare il delitto in esame, atteso che è indiscutibile che la posizione di preminenza del T. ha influito in senso costrittivo sulla libera formazione della volontà del funzionario, che si è determinato al compimento dell’atto (illecito) richiestogli, soggiacendo all’ingiusta pretesa del primo solo, per evitare un pregiudizio maggiore.

Ciò posto, si osserva che le doglianze mosse dal ricorrente in ordine all’affidabilità del L., sulle sue spinte interne e personali a favorire i politici e sui difetti nella valutazione delle testimonianze, si risolvono, al di là della formale prospettazione di vizi motivazionali, in inammissibili censure avverso apprezzamenti squisitamente di merito espressi dal giudice di appello, come tali insindacabili in sede di legittimità. Esula, infatti, dai poteri attribuiti alla Corte di Cassazione quello di procedere ad una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza e attendibilità delle fonti di prova.

Ciò vale anche per la ed vicenda Ta., che il T. contesta in punto di fatto, proponendo una rilettura a sè favorevole delle sequenze temporali della vicenda e delle testimonianze correlate al suo intervento.

La Corte distrettuale ha sottolineato che il L. si fece esplicito latore di minacce di ritorsioni in danno del D., che tardava ad assumere un operaio raccomandato dall’amministratore pubblico, e che, esplicitamente, l’imprenditore, appresa la notizia di possibili penali da applicare alla esecuzione del contratto in corso, aveva acconsentito, promettendo la assunzione di una sola persona. Ha risolto il nodo, prospettato nei motivi di gravame e meramente ripreso in questa sede, del momento in cui è avvenuta la promessa, collegando logicamente la risultanze della testimonianza del L. secondo cui l’imputato, dopo aver appreso che il D. non aveva assunto nessuno dei raccomandati il 7 dicembre 2000, gli intimò di adottare tutte le misure, con la testimonianza di costui, che chiaramente aveva affermato di aver ricevuto varie richieste e telefonate in tal senso, tutte prospettanti conseguenze negative in caso di mancata obbedienza;

inoltre, ad ulteriore riscontro, ha messo in evidenza che da un colloquio telefonico, intercettato il 18 dicembre, si desumeva la avvenuta promessa, poichè o stesso T. confermava all’operaio interessato, l’intenzione manifestata dal D. di procedere alla instaurazione del rapporto di lavoro, dopo le festività natalizie. Coordinando la sequenza, la Corte ha individuato il momento in cui il D. acconsentì alle pressioni, come sicuramente successivo alle minacce di applicazione di penali, a nulla rilevando che la assunzione di fatto non venne mai completata.

E’ invero sufficiente per la concussione che il privato sia indotto a promettere quanto chiesto, a nulla rilevando che egli abbia riserve mentali in ordine al momento della esecuzione, posto che quel che rileva è la esplicita assunzione dell’obbligo, come nella specie formai mente assicurato, che ha determinato la piena integrazione del reato nella forma consumata e non nella tentata, come in ultimo sostenuto dal ricorrente. In tema di concussione, il reato si perfeziona con la promessa che normalmente precede il compimento dell’atto. Il tempo in cui avviene il pagamento del danaro o la dazione di utilità non ha quindi alcun valore sintomatico. Anzi il fatto che il pubblico funzionario infedele accetti che la concreta realizzazione del suo disegno sia posticipata rispetto al compimento dell’atto eventualmente illecito, dimostra che vi è una assoluta sicurezza della completa soggezione psicologica del soggetto passivo, piuttosto, che una situazione paritaria in cui liberamente si da e si riceve: in questo caso il pubblico funzionario infedele non potrebbe, infatti, temere che il privato, ottenuto quanto voluto, trovi conveniente non adempiere ad una obbligazione che ha caratteristiche di illiceità e che quindi non lo vincola in alcun modo. A fronte di tale quadro, poi, non hanno rilievo le ulteriori doglianze, che si snodano su notazioni di merito, riguardanti le interpretazioni dei colloqui e delle dichiarazioni, non intraducibili in questa sede, e tendenti ad inferire che il D. mantenne una posizione di "non esplicito rifiuto" alle pretese, che come sopra messo in evidenza, la corte ha ragionatamente ed esaustivamente escluso.

In conclusione, escluso il reato di falso, la pena inflitta al T. va rideterminata in anni quattro e mesi tre di reclusione detraendo da quella ritenuta in secondo grado quella di mesi tre di reclusione, relativa all’aumento ex art. 81 c.p. operato in relazione al delitto sub Z quinquies della imputazione, dato il rigetto degli altri motivi.

2. Parimenti infondato è il ricorso proposto da S.V., incentrato sulla erroneità della ritenuta concussione, in luogo della fattispecie estorsiva originariamente contestata.

E’ da rammentare che la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza sussiste solo quando, nella ricostruzione del fatto posta a fondamento della decisione, la struttura dell’imputazione sia modificata quanto alla condotta, al nesso causale ed all’elemento soggettivo del reato, al punto che, per effetto delle divergenze introdotte, la difesa apprestata dall’imputato non abbia potuto utilmente sostenere la propria estraneità ai fatti criminosi globalmente considerati.

Nel delitto di concussione, l’attività di induzione non è vincolata a forme tassative, rilevando a tal fine ogni comportamento del pubblico ufficiale che sia comunque caratterizzato da un abuso dei poteri che valga ad esercitare una pressione psicologica sulla vittima, in forza della quale quest’ultima si convinca della necessità di dare o promettere denaro od altra utilità per evitare conseguenze dannose.

E’ stato affermato che " nella nozione di concussione per "induzione" va ricompresa qualsiasi condotta capace di creare nel privato uno stato di soggezione psicologica che lo porti ad agire nel senso voluto dall’agente, che può assumere svariate forme (quali l’inganno, la persuasione, la suggestione, l’allusione, il silenzio o l’ostruzionismo, anche variamente ed opportunamente combinati tra loro), in considerazione anche del diverso contesto in cui i soggetti si muovono e la loro maggiore o minore conoscenza di certi moduli operativi e dei relativi codici di comunicazione" Ancora sappiamo che la condotta costrittiva o, ancor più, quella induttiva, può estrinsecarsi semplicemente in una pressione psicologica sul soggetto passivo a sottostare a una ingiusta richiesta (v. Cass., sez. 6, u.p. 19 gennaio 1998, Pancheri; Cass., sez. 6, u.p. 22 dicembre 1997, Lucari). E se è da riconoscere che lo stato di timore della persona concussa ricorre nella maggior parte delle fattispecie concrete ricollegabili al reato in esame, tale stato non è compreso tra gli elementi costitutivi del reato, poichè è l’oggettivo condizionamento della libertà morale della persona offesa, e non l’effetto psicologico che eventualmente da esso consegue, a configurarsi come parte integrante della fattispecie criminosa (Cass., sez. 3, c.c. 31 agosto 1993, Romano). In altri termini, chi è costretto o indotto a dare o a promettere indebitamente una utilità in conseguenza dell’abuso della qualità o dei poteri da parte del pubblico ufficiale non necessariamente versa in uno stato soggettivo di timore; potendo determinarsi al comportamento richiesto per mero calcolo economico, attuale o futuro, o per altra valutazione utilitaristica. In forza delle considerazione sopra esposte, deve trarsi la conclusione che la differenza tra il reato ex art. 317 c.p. e quello ex art. 629 c.p. non sta nella minaccia, che, anche, in tale ultimo delitto può essere implicita, ricavabile cioè dall’ingiustizia della richiesta, dalla personalità dell’agente, dalle circostanze ambientali, dalla posizione del soggetto passivo, ma nell’essere l’effetto della stessa, ossia la soggezione del soggetto passivo, derivato dalla posizione di preminenza di pubblico ufficiale, il quale fa, appunto, leva sulla medesima per persuadere il privato alla dazione o alla promessa, al fine di evitare un male peggiore. E nel caso in esame è ciò che è appunto avvenuto, secondo la puntuale ricostruzione offerta dai giudici di merito:

l’arch. L. ha patito un forte condizionamento derivato dal fatto che egli avrebbe potuto perdere il servizio se non avesse accontentato S.; si tratta di una minaccia implicita desunta dal tenore della frase in cui lo S. rammenta al funzionario di avere il merito di aver trovato i soldi per finanziare l’edilizia scolastica e fa l’elenco delle aziende da chiamare per l’impiego dei capitali recuperati, con l’evidente e neanche tanto sottinteso rimando alla sua posizione all’interno della Provincia e la sua volontà di dirigere l’affare, senza che il funzionario frapponesse ostacoli; e tale conclusione, in ordine al pressante condizionamento esercitato dagli eletti sulla apparato amministrativo della Provincia e sulle carriere dei dipendenti, trova, secondo i giudici di merito, con ragionamento privo di salti logici, conforto e riscontro nelle dichiarazioni del teste D.M. sul clima esistente all’interno dell’ente e nelle tenore delle conversazioni intercettate, attinenti ad analoghe vicende, ed attestanti una diffusa e pervasiva intromissione degli amministratori "poltic" nella gestione delle gare ed appalti.

Il ricorrente, nel porre al centro del suo ricorso, l’enunciazione della sovrapponibilità della condotta di costrizione per entrambi i reati e non quella di induzione, non ha tenuto conto che solo la eventuale condotta di induzione per inganno si differenzia sostanzialmente dall’estorsione, mentre nel caso di induzione per persuasione la condotta in quanto contente un atteggiamento di minaccia, esplicita od implicita, materialmente può integrare entrambe le fattispecie criminose, con conseguente possibilità di diversa qualificazione, senza violazione dell’art. 521 c.p.p..

Parimenti, non può trovare accoglimento il motivo con cui il ricorrente si duole della radicale illogicità dell’impianto motivazionale, che in realtà si traduce in una rilettura dei dati probatori e nella formulazioni di ipotesi a sè favorevoli, che in presenza di un adeguato iter argomentativo, non sono valutabili in sede di legittimità. La corte, poi, ha dato risposta ai punti di perplessità, di illogicità e contraddittorietà indicati dallo S. con i motivi di appello, con ragionamenti che non presentano manifesti errori o aporie, sicchè deve ribadirsi che le osservazioni sulla sintonia tra il L. ed il favorito Le. ovvero la valutazione delle condizioni ambientali in cui i protagonisti della vicenda si muovevano non rientrano nel perimetro del sindacato di legittimità, risolvendosi in censure tendenti ad una inammissibile rivalutazione dei fatti.

3. Il ricorso del C. non ha fondamento.

I delitti ascritti al ricorrente sono stati dichiarati tutti prescritti e tuttavia, in presenza della statuizioni civili di condanna, i motivi di impugnazione proposti dall’imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi dare conferma alla condanna (anche solo generica) al risarcimento del danno, in ragione della mancanza di prova dell’innocenza degli imputati, secondo quanto previsto dall’art. 129 c.p.p., comma 2.

Tanto premesso, è, comunque, da rilevare che il ricorrente formula osservazioni che non colgono nel segno, sia sotto il profilo della denunciata illogicità della motivazione, in punto di responsabilità, sia sotto il profilo delle eccepite violazioni della legge processuale. Nell’ordine logico delle questioni, è preliminare l’esame delle asserita violazione del contraddittorio in ordine alla acquisizione degli incidenti probatori. La dedotta inutilizzabilità non trova affatto riscontro nell’iter procedurale seguito dai giudice di merito, immune da censure.

E’ da osservare che nessuna delle testimonianze raccolte negli incidenti probatori, cui la difesa del C. non aveva partecipato, è stata utilizzata in dibattimento; tale dato di fatto, esplicitamente riportato, nelle sentenze di merito, non viene confutato, ma messo – piuttosto confusamente – in correlazione all’esercizio ex art. 507 c.p.p. del potere istruttorio esercitato dal Tribunale, non condiviso, con argomentazioni che però non si rivolgono alla motivazione adottata sulla necessità delle disposte audizioni, ma ne contestano i risultati. Ora è da ribadire che in relazione al fine primario ed ineludibile del processo penale, ossia la ricerca della ricerca della verità, stante il principio di legalità cui è improntato l’ordinamento e quello di obbligatorietà dell’azione penale, il giudice ha l’obbligo di ricorrere al potere che l’art. 507 c.p.p., gli conferisce in ordine all’acquisizione anche d’ufficio di mezzi di prova, quando ciò sia indispensabile per decidere, non essendo rimessa alla sua mera discrezionalità la scelta tra disporre i necessari accertamenti e prosciogliere o condannare l’imputato. Pertanto, una volta espressa la necessità della integrazione, peraltro non sindacabile, la parte non ha nemmeno l’interesse (giuridico) a dolersi dell’avvenuta integrazione ex art. 507 c.p.p..

Meno che mai in questa sede il ricorrente può rivisitare, – con ciò affrontando anche il primo motivo di gravame- con argomentazioni di puro merito, le risultanze delle testimonianze e proporre una diversa interpretazione dei fatti, dovendo, invece, le sue censure dirigersi non sui risultati del giudizio valutativo, ma sul metodo seguito dal giudice per pervenire alle sue conclusioni, censurabile peraltro solo se manchevole, incompleto o palesemente illogico. Un siffatto negativo apprezzamento non può essere espresso nei confronti della impugnata decisione, che ha affrontato linearmente la vicenda che ha coinvolto il C., rilevando esattamente che la assoluzione del presidente della commissione, scaturita da insufficienza della prova, non avevano influenza sulla responsabilità degli altri coimputati;

nè rientra tra i compiti di questa Corte operare raffronti tra posizioni indipendenti, essendo, peraltro, il quadro accusatorio nei confronti dell’odierno ricorrente composto da ulteriori plurime dichiarazioni testimoniali, tra di loro riscontrate, come esplicitato nelle sentenze di merito.

Le insanabile contraddizioni logiche che il C. ha denunciato sono state affrontate e risolte adeguatamente dalla Corte, che ha spiegato quali siano stati i ruoli svolti dai singoli imputati, come il C. si sia inserito due volte nella serie delle azioni poste in essere per favorire il candidato, e per la risoluzione delle tracce di possibili quesiti del compito scritto e per la confezione di domande da porre all’esame orale, e che tale dato era confermato da plurime e convergenti testimonianze, nonchè dalle sue stesse ammissioni. Quanto alle ulteriori lagnanze relative alla riduzione della lista testimoniale operata dai primi giudici (ordinanze emessa l’8 giugno 2005), è da rammentare che il diritto alla prova riconosciuto alle parti implica la corrispondente attribuzione del potere di escludere le prove manifestamente superflue ed irrilevanti, secondo una verifica di esclusiva competenza del giudice di merito che sfugge al sindacato di legittimità ove abbia formato oggetto di apposita motivazione immune da vizi logici e giuridici. (Sez. U, Sentenza n. 15208 del 25/02/2010).

I rilievi formulati, peraltro genericamente, laddove il ricorrente avrebbe dovuto specificare quantomeno l’incidenza delle testimonianze escluse sul tema probatorio, non tengono conto della adeguata e diffusa motivazione adottata dai giudici di merito, il cui giudizio di superfluità venne espresso per la irrilevanza di alcune tematiche, sviluppate con la prova da escutere, rispetto le imputazioni ed la completezza della istruttoria svolta, con argomentazioni, che come già cennato, il C. non si è curato di contrastare dialetticamente.

4. Anche il ricorso di V.A.V. è da rigettare.

Vale per il V. la considerazione preliminare che pur in presenza della causa estintiva, essendo stato ritenuto il valido decorso del termine massimo di prescrizione, le censure sono da esaminare ai fini della conferma delle statuizioni civili.

Ora, la impugnata sentenza appare del tutto immune dai denunciati vizi di contraddittorietà ed illogicità, che secondo il ricorrente, riguardano la valutazione delle dichiarazioni accusatorie del coimputati L. e D.M..

Il V. oppone che il significato delle testimonianze rese da costoro è ben diverso, non avendo affatto valore di conferma della ipotesi accusatoria ed inoltre è smentito dalle dichiarazioni degli altri testimoni, componenti della commissione esaminatrice e dalla mancanza anche di una ragione giustificatrice del suo illecito comportamento.

Le censure si risolvono nella sollecitazione ad una valutazione del materiale probatorio diversa da quella operata dalla Corte d’appello, preclusa in questa sede di legittimità.

Il Giudice distrettuale, infatti, si è espressamente confrontato con le deduzioni difensive in relazione al delitto di truffa, di cui ha dato congruo conto (pag. 49 e ss della sentenza impugnata), disattendendole con motivazione specifica: ha osservato che la chiamata in reità dei due accusatori era caratterizzata da convergenza e riscontrata dal tenore di un colloquio, in cui il candidato V.D. esplicitava la sua condizione di favorito e le dinamiche dell’aiuto da apprestargli, con specifico riferimento anche al contributo dell’ A., ossia del ricorrente. La deduzione, poi, che essendo il ricorrente extraneus alla commissione non avrebbe potuto rivelare alcun segreto sui lavori della stessa, se non per il tramite del Presidente, della cui assoluzione si è detto, è stata ragionevolmente confutata, considerando che in base alle dichiarazioni dei testi non era escluso che le domande degli orali circolassero anticipatamente per effetto di divulgazioni di notizie provenienti dalla stessa commissione, anche se non ne era stato individuato il responsabile, bastando al risolvere il dubbio la considerazione che comunque il V.D. conosceva i quesiti, fornitigli dal nominato A.. Si tratta di apprezzamenti congrui ai dati esposti, articolati anche in relazione alle specifiche deduzioni difensive (con una puntuale precisazione delle ragioni per cui la assoluzione del presidente della commissione non era contraddittoria rispetto la posizione del V., pag. 50), valutati, con motivazione non apparente ed immune da vizi logici e perciò sottratti all’esame di questa corte.

E’ ancora palesemente privo di fondamento il secondo motivo di gravame, relativo alla erronea applicazione dell’art. 640 c.p. per mancanza di danno patrimoniale.

La condanna generica al risarcimento dei danni, quale mera declaratoria iuris, non esige alcuna indagine in ordine all’effettiva esistenza, alla specifica fonte o alla reale estensione del danno risarcibile, ma postula soltanto l’accertamento della potenziale capacità lesiva dell’illecito penale, inteso nel suo complesso, e della probabile esistenza di un nesso di causalità tra questo ed il pregiudizio lamentato, salva restando, nel giudizio di liquidazione del quantum, la facoltà del giudice civile di individuare, nell’ambito del fatto virtualmente dannoso accertato in sede penale, l’esistenza stessa, la concreta matrice e la effettiva entità del danno, astretto da rapporto eziologico con il fatto illecito.

In relazione a tale principio, ed essendo appunto il riconoscimento del risarcimento avvenuto con riferimento all’an, il motivo esula da quelli proponibili in sede di legittimità, giacchè finalizzato alla mera contestazione dell’effettività delle spese ed esborsi sostenuti dalla amministrazione per l’espletamento della procedura, ossia sul contenuto concreto del danno economico, che il V. dovrà contestare innanzi al giudice civile competente.

In conseguenza del rigetto, i ricorrenti S., C. e V. sono da condannare al pagamento delle spese processuali; essi ed il T. vanno altresì condannati alla rifusione delle spese di difesa sostenute dalle parti civili nel seguente modo, in relazione alla imputazione di cui si è fatto loro carico:

S., C., V. e T. in favore della Provincia di Crotone, per complessivi Euro 3600, e in favore di P., per complessivi Euro 2600;

S., C., e V. in favore di M., liquidate in complessivi Euro 2.400, oltre I.V.A. e C.P.A., per tutte le sopra dette parti civili.
P.Q.M.

Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di T., B. e R. in ordine al delitto di cui all’art. 479 c.p., esclusa l’aggravante di cui all’art. 476 c.p., comma 2, perchè estinto per prescrizione e annulla le relative statuizioni civili.

Ridetermina la pena nella misura di anni quattro e mesi tre di reclusione nei confronti di T., del quale rigetta nel resto il ricorso.

Rigetta i ricorsi di S., C. e V., che condanna al pagamento delle spese processuali.

Condanna altresì alla rifusione delle spese di difesa sostenute dalle parti civili:

S., C., V. e T. in favore della Provincia di Crotone, liquidate in complessivi Euro 3600, e in favore di P., liquidate in complessivi Euro 2600;

S., C. e V. in favore di M., liquidate in complessivi Euro 2.400, oltre I.V.A. e C.P.A., per tutte.

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