Cons. Stato Sez. V, Sent., 27-04-2011, n. 2466 Amministrazione Pubblica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

A) – La T. B. s.r.l., premetteva che con atto 12.12.2003 aveva proposto ricorso innanzi al Tribunale civile di Rovigo, per l’ accertamento del suo diritto al pagamento delle somme dovutele a titolo di risarcimento dei danni e per la conseguente condanna dell’A.u.l.s.s. n. 18 al pagamento in suo favore della somma di Euro 490.840, 68, oltre ad interessi legali e rivalutazione monetaria dalla data di maturazione del diritto e fino al saldo.

Con sentenza n. 351/2005, in parziale accoglimento della domanda, detto Tribunale civile aveva condannato l’A.u.l.s.s. n. 18 al pagamento in favore di T. B. di una somma corrispondente a 48 mensilità del canone di locazione.

Avverso tale decisione aveva interposto appello l’A.u.l.s.s.. n. 18 di Rovigo, ribadendo l’eccezione di difetto di giurisdizione civile e chiedendo, nel merito, il rigetto della domanda.

La Corte d’appello di Venezia aveva respinto detto gravame, ritenendo che con il contratto di locazione del novembre 1996 non fosse stato attribuito ai locali in questione, né soggettivamente, né oggettivamente, il connotato del bene patrimoniale disponibile, con correlativa sussistenza della giurisdizione ordinaria.

Avverso la sentenza della Corte d’appello aveva proposto ricorso per cassazione l’A.u.l.s.s. n. 18 di Rovigo.

Con sentenza 15381/2009, depositata in data 1°.7.2009, la Corte di cassazione, in accoglimento dei motivi dell’A.u.l.s.s., aveva riconosciuto sussistente la giurisdizione amministrativa, donde la riassunzione del giudizio dinanzi al T.a.r. di Venezia, per:

– violazione degli artt. 29 e 31, legge n. 392/1978, dell’art. 2043, c.c., e dell’art. 21 sexies, legge n. 241/1990, nonché eccesso di potere per disparità di trattamento e travisamento dei fatti.

Nel 1996 l’A.u.l.s.s. n. 18 Rovigo, a seguito di gara pubblica, aveva stipulato un contratto con cui aveva concesso in locazione alla società T. B. l’unità immobiliare in questione, con un tipico negozio di locazione commerciale della durata di anni sei, rinnovabili, con decorrenza dall’1.12.1996, pattuendo un canone mensile.

Alla fine dei primi sei anni, la cui scadenza era prevista per l’1.12.2002, con nota 5 novembre 2001, l’Azienda aveva comunicato alla società la disdetta del contratto di locazione, intendendo adibire i locali ad attività tendenti al conseguimento delle proprie finalità istituzionali.

Alla disdetta era poi seguita la formale intimazione giudiziale, convalidata dal Tribunale civile di Rovigo.

La T. B., non costituitasi in giudizio, aveva consegnato i locali alla scadenza naturale del contratto, in data 1°.12.2002.

B) – Successivamente l’Azienda, in forza di delib. n. 1134 del 29 novembre 2002, aveva affidato la gestione del bar, in comodato gratuito, alla Cooperativa Quadrifoglio di Rovigo, sino all’espletamento delle procedure per l’assegnazione a mezzo asta pubblica.

Con deliberazione n. 376 del 30 luglio 2003, l’Azienda aveva indetto un’asta pubblica, per l’aggiudicazione della concessione finalizzata alla gestione delle attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande e per la gestione di un servizio di distribuzione di bevande ed alimenti confezionati, mediante distributori automatici siti negli appositi locali, negli Ospedali di Rovigo e Trecenta.

Nel novembre 2003, il locale era stato affidato in concessione per l’esercizio, sempre dell’attività di bar, ad altra ditta commerciale concorrente della T. B..

La p.a., richiamando le proprie finalità istituzionali ed avviando una procedura di sfratto, aveva ingenerato così nella T. B. il ragionevole convincimento che i locali da essa occupati dovessero essere destinati ad altre e diverse attività, rispetto a quella precedente, salvo poi mantenere l’attività di bar affidandola, nelle more della gara d’asta, a soggetto concorrente delle stessa T. B., così rivelando la sua vera volontà.

Secondo la Cassazione (cfr. sentenza n. 15381/2009), il rapporto intercorso tra l’impresa e l’Azienda avrebbe potuto trovare titolo solo in un atto concessorio e l’atto, con il quale l’Azienda aveva affidato alla T. B. la gestione del servizio, all’interno di un ospedale pubblico, era, al di là della figura della locazione, una concessione amministrativa, per cui il contratto 5.11.1996 avrebbe dovuto essere interpretato come una concessione amministrativa, nonostante la sua palese impostazione privatistica.

La diversa visuale non avrebbe eliminato, comunque, l’illiceità del comportamento della p.a. e la sua responsabilità risarcitoria.

Il contratto aveva durata di 6 anni, rinnovabile per altri 6 anni, a partire dal 1° dicembre 1996; con l’espresso richiamo all’art. 28, legge n. 392/1978, la p.a. concedente avrebbe espressamente inteso limitare le possibilità di ripensamento – alla scadenza del primo termine – alle sole ragioni di una necessità sopravvenuta dell’A.u.l.s.s. di disporre dei locali adibiti a bar per scopi precipui dell’ente: il secondo periodo di 6 anni avrebbe rappresentato una prosecuzione del contratto originario e non un suo rinnovo, mentre il testo contrattuale avrebbe potuto anche essere interpretato come un’unica concessione di 12 anni, con una condizione risolutiva esercitatile alla fine dei primi sei.

C) – L’atto adottato dalla p.a. nel 2002, di fronte al testo della concessione adottata in favore della T. B., non avrebbe potuto che essere interpretato come revoca di una concessione in vigore, ma la revoca di una concessione da parte della p.a. non avrebbe potuto essere rimessa ad una scelta libera ed arbitraria dell’ente contraente, poiché l’azione di superamento dell’accordo con il privato, da parte della p.a., avrebbe dovuto essere sorretta da evidenti esigenze pubblicistiche legittimanti necessariamente il sacrificio del privato.

Nella specie, l’Azienda avrebbe agito in violazione dei canoni di ragionevolezza ed imparzialità, ledendo l’affidamento creato in T. B..

Asserire che quanto sancito dalla legge n. 392/1978 non avrebbe potuto trovare applicazione nella specie, dato che non si sarebbe trattato di un contratto di locazione, ma di una concessione amministrativa, sarebbe stato inconcepibile, posto che la legge in questione sarebbe stata espressamente richiamata nel testo della convenzione, così integrata.

Correlativamente, la T. B. si sarebbe vista immotivamente privata della gestione di un’attività altamente lucrativa.

L’assoggettabilità della p.a. alla disciplina sostanziale privatistica avrebbe implicato che, anche dovendo ricorrere al giudice amministrativo, alcuni aspetti del rapporto giuridico intercorso restassero disciplinati dal diritto civile, con correlativa responsabilità contrattuale o, se non altro, per violazione dell’art. 2043, c.c., e dei fondamentali canoni di correttezza e buona fede, oltre che di ragionevolezza ed imparzialità: donde l’applicabilità del criterio di liquidazione del danno individuato dagli artt. 29 e 31, legge n. 392/1978 (equo canone), la cui quantificazione sarebbe risultata vincolante per il suo richiamo espresso nel contratto, come fonte normativa interna al rapporto sottostante.

Il contratto si sarebbe automaticamente rinnovato per altri sei anni e per tale periodo la T. B. avrebbe lucrato i proventi dell’attività.

L’incasso del 2001 sarebbe stato pari a Lire 538.178.115, mentre l’incasso del 2002 fino al 30.11.2002 sarebbe stato di Euro 230.551,80: sei anni di mancato rispetto della vigenza contrattuale avrebbero, comunque, causato una perdita ingente di guadagni.

Si costituiva in giudizio l’intimata p.a., eccependo preliminarmente l’inammissibilità e l’infondatezza del ricorso.

I primi giudici lo accoglievano parzialmente, poiché la Cassazione aveva affermato che il rapporto intercorso tra le parti, a prescindere da come denominato e concretamente disciplinato, dovesse essere considerato un rapporto concessorio di diritto pubblico, senza peraltro ritenere che la concreta disciplina (civilistica) che le parti avevano dato al sostanziale rapporto concessorio fosse da considerarsi nulla o, comunque illegittima: donde il vaglio della vicenda in esame considerando il rapporto intercorso tra le parti come concessorio, ferma restando la disciplina che le parti gli avevano dato, essendosi la Cassazione pronunciata solo sulla giurisdizione e non sul merito del medesimo, considerato disciplinabile secondo le norme sulla locazione.

D) – La pronuncia del Tribunale territoriale veniva, poi, impugnata dall’A.u.l.s.s. n. 18 soccombente (la cui istanza cautelare veniva, poi, riunita al merito, dopo il negativo decreto monocratico precautelare n. 5396/2010) per difetto di motivazione circa quanto sancito per le domande nuove, inammissibili e prescritte (come quella risarcitoria aquiliana, accolta in parte – per euro 180.000,00 – su incomprensibile massima parametrazione ad asseriti patti contrattuali violati) formulate dalla T. B. (astenutasi dall’impugnare gli atti ritenuti lesivi e dal partecipare alla nuova gara indetta con un ipotizzabile ritardo inferiore al mese – ma di un anno secondo la T. B. – con i quali comportamenti avrebbe potuto forse azzerare i danni sofferti) in sede di riassunzione dinanzi al T.a.r. del Veneto, che non avrebbe precisato la domanda accolta (principale secondo equo canone o subordinata secondo criteri risarcitori) né le norme applicate, in assenza di indicazioni nella sentenza delle sezioni unite civili della Cassazione circa il regime disciplinante il discusso rapporto concessorio (particolarmente improntato alla cura degli interessi pubblici, al contrario della calmieratrice locazione ad equo canone, con connessa inapplicabilità del rinvio pattizio agli artt. 28, 29 e 31, legge n. 392/1978, come pure del mancato rinnovo negoziale al fenomeno della revocata concessione amministrativa), nella prospettiva dell’assegnazione in comodato gratuito – sempre per uso bar – dei citati locali alla concorrente Cooperativa Quadrifoglio e tanto più che l’art. 31, legge n. 392/1978, rinviava alle attività di cui all’art. 27 e non all’art. 29 (in ogni caso, richiamato dalla p.a. nel suo atto di disdettarevoca), relativo a pubblici apparati che non utilizzino tempestivamente, per le loro finalità istituzionali, i locali affrancati (come ipotizzerebbe la T. B.) e, nella specie, interni alla struttura immobiliare ospedaliera.

La T. B. (in liquidazione) si costituiva in giudizio ed eccepiva doversi rispettare l’art. 1372, c.c. (per la forza di legge del contratto di locazione proseguito e non rinnovato: cfr. C.S., sezione V, dec. n. 1615/2009, dec. n. 279/2009, dec. n. 9302/2003 e dec. n. 1327/2000), in relazione ad una sola domanda, proposta in sede di giurisdizione amministrativa esclusiva ed articolata in due profili (responsabilità negoziale o aquiliana), a proposito della quale proponeva pure appello incidentale contro la disposta dimidiazione dell’importo accordato di fronte ad un atto paritetico e non autoritativo e, quindi, suscettibile di azione di accertamento nel termine prescrizionale e non decadenziale (cfr. Cass. civ., sezione III, sent. n. 5672/2004), per violazione dell’art. 31, legge n. 392/1978, dell’art. 1, legge n. 241/1990, e dell’art. 1227, c.c., nonché difetto di motivazione e contraddittorietà, essendosi comunque liquidato un risarcimento molto inferiore al mancato guadagno complessivo per sei anni di attività non svolta, con l’aggiunta della perdita di avviamento, prospettabile anche per locali siti all’interno della struttura ospedaliera di riferimento (cfr. Corte cost., sent. n. 264/1992).

L’A.u.l.s.s. si costituiva in giudizio e resisteva all’appello incidentale della T. B., che depositava memoria semplicemente richiamante le pregresse argomentazioni difensive, cui replicava l’Azienda n. 18, ridimensionando le pretese risarcitorie avanzate dall’impresa, appellata ed appellante incidentale, mediante richiamo agli incassi non depurati delle spese di vario genere ed alla perdita di avviamento, non ipotizzabile per esercizi attivi in locali ricompresi in strutture pubbliche, ex artt. 34 e 35, legge n. 392/1978, cit., applicabile pure ai pubblici apparati (cfr. Cass. civ., sez. III, sent. n. 15752/2000), come la T. B. poneva in luce nella sua memoria conclusiva.

All’esito della pubblica udienza di discussione la vertenza passava in decisione.
Motivi della decisione

L’appello è infondato e va respinto, dovendosi condividere le argomentazioni prospettate dai primi giudici e come di seguito riassumibili.

I) – Il fatto che entrambe le parti avessero dato vita ad un inconsapevole rapporto concessorio, con la convinzione di redigere un contratto civilistico, avrebbe dovuto ritenersi irrilevante; nella realtà giuridica sarebbe stato creato un rapporto concessorio, seppur disciplinato in modo civilistico, ma la relativa regolamentazione, (in difetto d’incompatibilità assoluta delle clausole poste con la disciplina pubblicistica dell’istituto della concessione), non avrebbe potuto che rimanere ferma, essendo ormai un principio universalmente accettato quello per cui le pubbliche amministrazioni devono procedere utilizzando strumenti privatistici, finché ciò sia possibile, e ricorrendo alle risorse pubblicistiche soltanto nei casi di assoluta necessità (v. legge n. 241/1990, legge n. 15/2005 e s.m.i.): donde la configurabilità di un rapporto concessorio locatizio disciplinato internamente in base alle norme vigenti in materia di equo canone (v. legge n. 392/1978), come pure l’inconfigurabilità di un recesso civilistico, ricostruibile alla stregua di un provvedimento amministrativo di sostanziale revoca, inficiato dalle dedotte censure di eccesso di potere per violazione dei doveri d’imparzialità, buona amministrazione e, in particolare, del principio dell’affidamento, nonché da una traccia di scarsa correttezza, laddove sarebbe stata motivata la disdetta (rectius: revoca) con l’intenzione di destinare i locali "ad attività tendenti al conseguimento delle proprie finalità istituzionali", mentre nella realtà i locali stessi erano stati destinati al medesimo uso di bar.

II) – La mancata impugnazione della discussa revoca non avrebbe potuto escludere, in effetti, l’ammissibilità dell’azione di risarcimento danni e ciò alla luce del principio giurisprudenziale secondo cui l’azione risarcitoria per il ristoro dei danni derivanti da provvedimenti illegittimi può essere proposta anche indipendentemente dalla tempestiva impugnazione dei provvedimenti stessi, purché nel rispetto del termine di prescrizione del diritto al risarcimento del danno conseguente alla riscontrata illegittimità di una atto autoritativo, risultando comunque salvi gli effetti sostanziali conseguenti all’instaurazione del giudizio davanti al giudice privo di giurisdizione (cfr. Cass. civ., sez. un., sent. 22 febbraio 2007 n. 4109).

L’azione per il risarcimento dei danni risultava pertanto ammissibile, mentre, per l’importo richiesto, appariva sussistente l’elemento soggettivo della colpa, alla luce dell’evidenziata non linearità del comportamento della p.a., salva l’esigenza di ridimensionarne l’ammontare proprio per non trattarsi di un recesso civilistico ma di un atto autoritativo di revoca di un provvedimento concessorio, concepito e strutturato anche con la partecipazione rilevante della società T. B., che non aveva impugnato il suddetto atto di revoca né il nuovo bando di gara e non aveva preso parte a quest’ultima: elementi tutti integranti una certa qual sua cooperazione alla produzione del danno, con la conseguente applicabilità dell’art. 1227, c.c., e la connessa dimidiazione equitativa del danno liquidabile (e non quantificabile mediante c.t.u.), ferma restando pure l’applicazione dell’art. 31, legge n. 392/1978 (pacificamente operativo anche per gli enti pubblici), ma non del suo art. 34 (comportante ulteriori 18 mensilità), non richiamato nel contratto ed anzi escluso dal successivo art. 35 (così, in definitiva: 24 mensilità, con rivalutazione ed interessi legali come per legge).
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione V, respinge l’appello principale dell’A.u.l.s.s. n. 18 di Rovigo e dichiara improcedibile quello incidentale della T. B..

Condanna l’Azienda n. 18 di Rovigo appellante principale a rifondere all’impresa T. B. appellata spese ed onorari del giudizio di secondo grado, liquidati in complessivi euro cinquemila/00, oltre ai dovuti accessori di legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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