Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 18-03-2011) 27-04-2011, n. 16452

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Z.A. veniva condannato alla pena dell’ammenda, con sentenza in data 12 giugno 2008, dal Tribunale di Udine in composizione monocratica per il reato di illecita gestione di rifiuti non pericolosi di cui al D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 51, comma 1, lett. a) in quanto, senza la prescritta autorizzazione, conferiva in un cantiere mc 30,963 di rifiuti misti di costruzione e demolizione, provenienti da altri cantieri, con codice CER 170101, mc 1.700 di ghiaia (CER 170501) provenienti da altri cantieri riutilizzando così il materiale senza la prescritta autorizzazione preventiva dell’ARPA e per aver fatto fuoriuscire, dal medesimo cantiere, mc 1.732,16 di materiale da scavo (CER 170501) senza bolle di conferimento in discarica nè autorizzazione al riutilizzo.

Avverso tale decisione il predetto proponeva appello, convertito in ricorso per cassazione in quanto riferito a sentenza di condanna alla sola pena pecuniaria.

Riassunta la vicenda, osservava, con riferimento alla contestazione relativa allo smaltimento di 30,963 mc di inerti, che tali materiali erano presenti in loco ancor prima dell’inizio dei lavori in quanto abbandonati da terzi, tanto che non era stato dimostrata in alcun modo la presenza in cantiere.

Inoltre, la circostanza, valorizzata dal giudice, che i rifiuti erano stati rinvenuti al centro dell’area ove era in corso la movimentazione di terreno parzialmente coperti di terra e, pertanto, evidentemente destinati ad essere definitivamente smaltiti sul posto, si risolveva in una mera supposizione priva di riscontro.

Al contrario, la condotta posta in essere doveva inquadrarsi come deposito temporaneo in ordine al quale non era ancora scaduto il termine trimestrale fissato dalla norma.

In merito all’asporto di mc 1.742,16 di terre da scavo osservava che i calcoli e le valutazioni effettuate avevano mero valore indiziario ed erano privi di adeguato supporto scientifico e, come tali, del tutto opinabili, con la conseguenza che non potevano ritenersi idonee a sostenere una pronuncia di condanna.

In ordine al conferimento di mc 1.700 di ghiaia rilevava che detta attività non poteva qualificarsi come quella di recupero mediante riduzione volumetrica con impianto mobile per il quale era autorizzato, cosicchè non era dovuta la comunicazione prevista dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 28, comma 7.

Assumeva che era erronea anche la qualificazione della ghiaia come rifiuto, in quanto non corrispondente alla nozione delineata dal D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 6 e dalla giurisprudenza comunitaria, nonchè dall’interpretazione autentica fornita dal D.L. n. 138 del 2002. Egli, infatti, non voleva disfarsi della ghiaia ma intendeva utilizzarla unitamente ad altra acquistata da terzi ed aveva trasportato detto materiale con regolari documenti come qualsiasi altro prodotto.

Osservava inoltre che l’autorizzazione ed il controllo dell’ARPA, richiesto per le terre e rocce da scavo dalle disposizioni richiamate in sentenza, riguardava i soltanto i materiali in qualche modo inquinati dei quali, pertanto, il detentore doveva necessariamente disfarsi e non anche il materiale naturale.

Deduceva, infine, la mancanza dell’elemento soggettivo, essendosi comportato secondo la normale prassi dell’epoca ed avendo fatto affidamento sulla concessione edilizia regolarmente rilasciata per gli interventi da eseguirsi nel cantiere.

Insisteva pertanto per l’accoglimento dell’impugnazione.
Motivi della decisione

I motivi posti a sostegno dell’impugnazione sono infondati.

Occorre preliminarmente osservare, trattandosi di impugnazione proposta mediante l’utilizzazione di un mezzo diverso da quello prescritto e, per tali ragioni, qualificata come ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 568 c.p.p., comma 5, che la stessa andrà apprezzata entro i limiti imposti dall’art. 606 c.p.p. in ordine ai motivi deducibili in sede di legittimità.

Ciò posto, deve rilevarsi che del tutto erronea appare la asserita riconducibilità del quantitativo di rifiuti pari a mc 30,963 alla nozione di deposito temporaneo.

Invero nell’atto di gravame si assume, in un primo tempo, che detti rifiuti erano presenti sul posto ancor prima dell’intervento della società del ricorrente perchè abbandonati da terzi, per poi affermare che la collocazione degli stessi non era conseguente ad alcuna attività di gestione trattandosi, al contrario, di deposito temporaneo.

A tale proposito occorre rammentare che la giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, è orientata nel ritenere che l’onere della prova in ordine al verificarsi delle condizioni fissate per la liceità del deposito temporaneo grava sul produttore dei rifiuti in considerazione della natura eccezionale e derogatoria del deposito temporaneo rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti (Sez. 3 n. 15680, 23 aprile 2010; Sez. 3 n. 21587, 17 marzo 2004;. Sez. 3 n. 30647, 15 giugno 2004).

Prescindendo dal fatto che tale prova non risulta in alcun modo fornita dallo Z., va rilevato anche che l’affermazione circa la presenza dei rifiuti sul posto, perchè abbandonati da terzi, si pone in evidente contrasto con due necessari requisiti richiesti dalla legge per il deposito temporaneo.

Invero, l’art. 6, lett. m) vigente all’epoca dei fatti e richiamato nell’impugnazione stabiliva (come del resto le disposizioni attualmente in vigore) che il raggruppamento dei rifiuti avvenisse nel luogo di produzione dei rifiuti medesimi e che il deposito temporaneo avesse ad oggetto rifiuti propri, non potendo riguardare, come si desume dal tenore della disposizione, rifiuti prodotti da terzi.

Mancavano dunque i requisiti di legge per la realizzazione del deposito temporaneo e nessuna allegazione probatoria in tal senso è stata fornita dall’interessato, mentre depone in senso diametralmente opposto il dato oggettivo, accertato in sentenza, delle modalità di collocazione dei rifiuti al centro dell’area interessata dai lavori e della loro parziale copertura con terra.

Per quanto riguarda, invece, la vicenda relativa all’asporto di mc 1742,16 di terre e rocce, deve rilevarsi che l’atto di gravame muove sul punto censure in fatto, insindacabili in questa sede di legittimità, avendo il giudice di prime cure fornito una motivazione sorretta da logico e coerente apparato argomentativo, esteso a tutti gli elementi offerti dal processo, e si risolve in una sostanziale sollecitazione ad una rilettura del quadro probatorio, alla stregua di una diversa ricostruzione del fatto e, con essa, al riesame nel merito della sentenza impugnata.

Infondate appaiono, inoltre, le argomentazioni poste a sostegno dell’impugnazione nella parte riguardante il conferimento di mc 1700 di ghiaia.

Anche sul punto risulta non contestato che la ghiaia proveniva dall’attività di scavo di altri cantieri della società della quale lo Z. era legale rappresentante.

Inoltre, il D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 7, comma 3, lett. b) vigente all’epoca, considerava come rifiuti speciali "I rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonchè i rifiuti pericolosi che derivano dalle attività di scavo" mentre il successivo art. 8, comma 1, lett. f bis) escludeva dal novero dei rifiuti "le terre e le rocce da scavo destinate all’effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, con esclusione di materiali provenienti da siti inquinati e da bonifiche con concentrazione di inquinanti superiore ai limiti di accettabilità stabiliti dalle norme vigenti".

La L. 21 dicembre 2001, n. 443, come modificata dalla L. 31 ottobre 2003, n. 306 ha disposto (con l’art. 1, comma 17) che "il comma 3, lett. b), dell’art. 7 ed il comma 1, lett. f-bis) del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 8, si interpretano nel senso che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, non costituiscono rifiuti e sono, perciò, escluse dall’ambito di applicazione del medesimo decreto legislativo solo nel caso in cui, anche quando contaminate, durante il ciclo produttivo, da sostanze inquinanti derivanti dalle attività di escavazione, perforazione e costruzione siano utilizzate, senza trasformazioni preliminari, secondo le modalità previste nel progetto sottoposto a VIA ovvero, qualora non sottoposto a VIA, secondo le modalità previste nel progetto approvato dall’autorità amministrativa competente previo parere dell’ARPA, semprechè la composizione media dell’intera massa non presenti una concentrazione di inquinanti superiore ai limiti massimi previsti dalle norme vigenti".

Anche per tali ipotesi vale il principio, in precedenza ricordato, circa l’onere della prova nel caso in cui venga invocata, in tema di rifiuti, l’applicazione di disposizioni di favore che derogano ai principi generali, rientrando, tra queste, anche quelle in tema di terre e rocce da scavo.

Ciò posto, deve rilevarsi come, alla luce delle disposizioni richiamate ed in ragione della oggettiva provenienza da altri cantieri dello Z., la ghiaia poteva senz’altro qualificarsi come rifiuto e, in quanto terra e roccia da scavo, era legittimamente riutilizzabile per reinterri o riempimenti e, conseguentemente, sarebbe stata sottratta alla relativa disciplina, in presenza di determinate condizioni.

Tali condizioni, contrariamente a quanto affermato nell’impugnazione, dovevano essere sempre rispettate, non essendo limitate ai soli materiali in qualche modo inquinati o contaminati, come si ricava dal tenore stesso della disposizione contenuta nella L. n. 443 del 2001, laddove viene utilizzata l’espressione "anche quando contaminate…".

Lo scopo del legislatore è, peraltro, ovvio ed è stato correttamente colto anche dal giudice di prime cure il quale ha evidenziato come con la disposizione richiamata sia stata avvertita l’esigenza di tracciare l’utilizzazione dei materiali di scavo.

Il mancato rispetto di tali condizioni configurava pertanto un’ipotesi di gestione illecita di rifiuti.

Del tutto infondate appaiono, infine, le deduzioni in merito al difetto dell’elemento soggettivo del reato, in considerazione della circostanza che lo Z. era soggetto professionalmente inserito in una specifica attività e fornito di specifica autorizzazione alla gestione di rifiuti e, in quanto tale, soggetto all’obbligo di una adeguata informazione circa le disposizioni che regolano la particolare materia.

L’impugnazione deve essere pertanto respinta con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente la pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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