Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 16-03-2011) 27-04-2011, n. 16444

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 24 marzo 2010, il Tribunale di Pordenone, in composizione monocratica, affermava la penale responsabilità di M.D., M.L. e F.V. per il reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, lett. a) e li condannava a pena pecuniaria.

I predetti erano accusati di avere, nelle loro rispettive qualità di proprietario committente e assuntore dei lavori per la realizzazione di strutture destinate ad allevamento di equini, effettuato operazioni di gestione di terre e rocce da scavo in assenza di titolo abilitativo perchè qualificabili come rifiuti in assenza delle condizioni prescritte dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, in quanto l’utilizzazione non era avvenuta in conformità con i progetti dell’autorità amministrativa, non essendo stato richiesto il parere preventivo dell’ARPA, non essendone stata previamente accertata la eventuale contaminazione, almeno per una parte e non essendo stata effettuata la comunicazione integrativa prevista dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, comma 7 come novellato dal D.Lgs. n. 4 del 2008.

Avverso tale provvedimento proponevano appello, poi convertito in ricorso per cassazione trattandosi di impugnazione relativa a sentenza di condanna alla sola pena pecuniaria e, conseguentemente, inappellabile.

Nell’atto di impugnazione deducevano che le terre e rocce da scavo non erano qualificabili come rifiuti, che non era dovuta alcuna comunicazione integrativa, che le stesse rientravano nel novero dei sottoprodotti e che non necessitavano di V.i.a. (valutazione di impatto ambientale).

Concludevano, pertanto, per la riforma della sentenza impugnata.
Motivi della decisione

Il ricorso è inammissibile perchè basato su motivi manifestamene infondati.

Va preliminarmente osservato che l’erronea presentazione di un atto di appello avverso una sentenza inappellabile ne ha determinato la conversione in ricorso per cassazione e come tale, pertanto, andrà trattato e deciso con la inevitabile e conseguente inammissibilità di tutte le doglianze riferibili a questioni di fatto, stante l’effetto devolutivo limitato di tale mezzo di impugnazione.

Ciò premesso, occorre ricordare che la disciplina delle "terre e rocce da scavo" è stata originariamente introdotta nell’ormai abrogato D.Lgs. n. 22 del 1997 e successivamente riproposta, con una nuova formulazione, nel D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 al duplice scopo, indicato nella relazione introduttiva, di recepire le indicazioni della Commissione Europea contenute in numerose procedure di infrazione avviate contro l’Italia e fornire prescrizioni operative utili per una corretta lettura della norma da parte degli organi deputati ai controlli.

Il D.Lgs. n. 4 del 2008 ha successivamente sostituito integralmente l’art. 186 prevedendo una disciplina più rigorosa.

Successive modifiche sono poi intervenute, ad opera del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convenite con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, del D.L. 30 dicembre 2008, n. 208, convertito con modificazioni dalla L. 27 febbraio 2009, n. 13 e, infine, dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205 che, all’art. 39, comma quarto ne ha disposto l’abrogazione dalla data di entrata in vigore del decreto ministeriale di cui all’art. 184-bis, comma 2 relativo alla adozione delle misure per stabilire criteri qualitativi e/o quantitativi da soddisfare affinchè specifiche tipologie di sostanze o oggetti siano considerati sottoprodotti e non rifiuti (decreto non ancora emanato).

La disciplina vigente all’epoca dei fatti per cui è processo prevedeva che le terre e rocce da scavo, anche di gallerie, potessero essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati alle seguenti condizioni:

– dovevano essere ottenute quali sottoprodotti. Tale previsione, contenuta nella prima parte dell’art. 186, individua preventivamente, in ragione della sua collocazione, l’origine dei materiali che, evidentemente, doveva costituire un presupposto necessario affinchè potesse procedersi alla verifica degli ulteriori requisiti per l’utilizzo delle terre e rocce da scavo;

– dovevano essere impiegate direttamente nell’ambito di opere o interventi preventivamente individuati e definiti;

– sin dalla fase della produzione doveva esservi certezza dell’integrale utilizzo;

– l’utilizzo integrale della parte destinata a riutilizzo doveva essere tecnicamente possibile senza necessità di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari per soddisfare i requisiti merceologici e di qualità ambientale idonei a garantire che il loro impiego non dia luogo ad emissioni e, più in generale, ad impatti ambientali qualitativamente e quantitativamente diversi da quelli ordinariamente consentiti ed autorizzati per il sito dove sono destinate ad essere utilizzate;

– doveva essere garantito un elevato livello di tutela ambientale;

– doveva essere accertato che non provenissero da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica ai sensi del titolo 5 della parte quarta del D.Lgs. n. 152 del 2006. Il comma 6 della disposizione precisava ulteriormente che la caratterizzazione dei siti contaminati e di quelli sottoposti ad interventi di bonifica doveva essere effettuata secondo le modalità previste dal Titolo 5, Parte quarta del decreto e che l’accertamento che le terre e rocce da scavo non provengano da tali siti doveva essere svolto a cura e spese del produttore e accertato dalle autorità competenti nell’ambito delle procedure previste dall’art. 186, commi 2, 3 e 4;

– le loro caratteristiche chimiche e chimico – fisiche dovevano essere tali che il loro impiego nel sito prescelto non determinasse rischi per la salute e per la qualità delle matrici ambientali interessate ed avvenisse nel rispetto delle norme di tutela delle acque superficiali e sotterranee, della flora, della fauna, degli habitat e delle aree naturali protette. In particolare doveva essere dimostrato che il materiale da utilizzare non era contaminato con riferimento alla destinazione d’uso del medesimo, nonchè la compatibilità di detto materiale con il sito di destinazione;

– la certezza del loro integrale utilizzo doveva essere dimostrata.

La norma prevedeva quindi, come del resto prevede tuttora, un complesso di requisiti che costituiscono condizione necessaria per l’applicazione alle terre e rocce da scavo della particolare disciplina fissata dall’art. 186.

In mancanza anche di una sola di tali condizioni, sono applicabili le disposizioni generali sulla gestione dei rifiuti come chiaramente indicato dal comma 5 del medesimo articolo.

Alle premesse generali contenute nell’art. 186, comma 1, seguono altre indicazioni che delimitano ulteriormente l’ambito di operatività della disciplina relativa alle terre e rocce da scavo.

Per quel che qui interessa, se la produzione di terre e rocce da scavo avviene nell’ambito della realizzazione di opere o attività non soggette a V.i.a. o A.i.a. e soggette a permesso di costruire o a denuncia di inizio attività, la sussistenza dei requisiti richiesti dall’art. 186, comma 1 ed i tempi dell’eventuale deposito in attesa di utilizzo, non superiori all’anno, devono essere dimostrati e verificati nell’ambito della procedura per il permesso di costruire, se dovuto, o secondo le modalità della dichiarazione di inizio di attività (DIA).

Veniva infine fissata, nel comma settimo, la disciplina transitoria.

Fatti salvi i casi in cui il riutilizzo delle terre e rocce da scavo sia previsto nell’ambito nel medesimo progetto, per i progetti di utilizzo già autorizzati e in corso di realizzazione prima dell’entrata in vigore della nuova disposizione (13 febbraio 2008), si poteva procedere al loro completamento, comunicando, entro novanta giorni, alle autorità competenti, il rispetto dei requisiti prescritti, nonchè le necessarie informazioni sul sito di destinazione, sulle condizioni e sulle modalità di utilizzo, nonchè sugli eventuali tempi del deposito in attesa di utilizzo che non possono essere superiori ad un anno. L’autorità competente poteva disporre indicazioni o prescrizioni entro i successivi sessanta giorni senza che ciò comporti necessità di ripetere procedure di VIA, o di AIA o di permesso di costruire o di DIA. Come emerge chiaramente dal tenore della disposizione in esame, quella delle terre e rocce da scavo è una disciplina che prevede l’applicazione di un diverso regime gestionale in condizioni di favore, con la conseguenza che l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza di tutte le condizioni di legge incombe comunque su colui che l’invoca.

Si tratta di un principio più volte affermato da questa Corte (Sez. 3, n. 9794, 8 marzo 2007; Sez. 3, n. 37280, 1 ottobre 2008; Sez. 3, n. 35138, 10 settembre 2009) che il Collegio condivide e dal quale non intende discostarsi.

Ciò posto, occorre rilevare che il giudice di prime cure, con valutazione in fatto non censurabile in questa sede, ha accertato che mancavano le condizioni per l’applicazione, nella fattispecie, della disciplina delle terre e rocce da scavo rilevando, in primo luogo, che non era stata effettuata nel termine di legge la comunicazione prevista dalla disciplina transitoria di cui al menzionato art. 186, comma 7, poichè quella prodotta era palesemente tardiva in quanto presentata dopo il sopralluogo della polizia giudiziaria sul cantiere.

Aggiungeva anche che altra dichiarazione, rinvenuta presso l’amministrazione comunale, non recava data certa perchè priva di numero di protocollo ed era comunque sottoscritta da soggetto diverso dall’interessato.

L’impugnato provvedimento svolge poi condivisibili argomentazioni in ordine alla esclusione della natura di sottoprodotto delle terre e rocce oggetto del procedimento, attraverso un’analisi del contenuto del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 183, lett. p) che allora ne specificava la nozione ed i requisiti ed osservando come non fosse certo il loro utilizzo integrale e predeterminato nell’ambito si interventi predefiniti.

Correttamente viene anche osservato che anche l’onere di dimostrare la natura di sottoprodotto dei materiali incombeva sugli imputati.

Tali argomentazioni non vengono minimamente intaccate dal contenuto dell’atto di impugnazione che, nelle parti che rilevano in questa sede di legittimità, si basa su considerazioni del tutto infondate.

Del tutto errata è, in particolare, l’affermazione secondo la quale nessuna comunicazione era dovuta per non essere le opere in corso di realizzazione soggette a V.i.a., poichè l’art. 186, comma 7 si riferisce tanto a tale tipologia di opere, di cui tratta il comma 2, quanto a quelle di cui al comma 3.

Altrettanto priva di consistenza è la affermazione circa la natura di sottoprodotto delle terre e rocce da scavo che resta una mera asserzione non dimostrata ed, anzi, palesemente smentita dalle argomentazioni puntualmente svolte dal giudice di prime cure.

Ne consegue la dichiarazione di inammissibilità e la condanna di ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè al versamento in favore della Cassa delle Ammende, di una somma determinata, equamente, in Euro 1.000,00 tenuto conto del fatto che non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità".(Corte Cost. 186/2000).
P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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