Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole
FATTO E DIRITTO
1. Con sentenza 20 giugno 2008 la Corte di appello di Catania confermava la decisione del locale Tribunale che aveva affermato la penale responsabilità di M.M. in ordine al delitto di cui all’art. 572 c.p., addebitatogli perchè, in tempi diversi, maltrattava la figlia P.C. percuotendola, schiaffeggiandola ripetutamente senza giustificato motivo e facendole mancare i mezzi di sostentamento, determinandole in tal modo un abituale stato di sofferenza fisica e morale.
Rilevava la Corte territoriale che la deposizione della persona offesa era da ritenere assolutamente attendibile e tale da giustificare l’affermazione di responsabilità, nonostante talune imprecisioni, non in grado di compromettere la tenuta della decisione di condanna e senza che potesse rilevare il mancato ricorso da parte della P.C. a visite mediche per far constatare le percosse e le lesioni subite.
2. Ricorre per cassazione la M. la quale, dopo aver riprodotto l’atto di appello anche per comprovare l’omessa totale risposta della sentenza impugnata alle censure a suo tempo avanzate, lamenta mancanza e manifesta illogicità della motivazione nonchè inosservanza delle regole concernenti la valutazione della prova.
Più in particolare, quel che si addebita alla sentenza impugnata è di non avere in alcun modo verificato la credibilità della testimonianza della persona offesa, circa il contegno violento e vessatorio della M., nonostante nessuna conferma delle dichiarazioni della P. sia pervenuta dal testimoniale raccolto che, anzi, sembrerebbe smentire le accuse. Si allude, più in particolare alle deposizioni della nonna materna C.R. presso la quale la persona offesa abitava (e che, secondo la P., avrebbe assistito a numerosi atti di violenza), dello zio che viveva con la P. per gran parte del giorno, dalla maestra e delle compagne di scuola che la frequentavano quotidianamente.
Il ricorso è fondato.
3. Va rammentato che nella nozione di "maltrattamenti" rientrano i fatti lesivi della integrità fisica e del patrimonio morale del soggetto passivo, che rendano abitualmente dolorose le relazioni familiari, manifestatisi mediante le sofferenze morali che determinano uno stato di avvilimento o con atti o parole che offendono il decoro e la dignità della persona, ovvero con violenze capaci di produrre sensazioni dolorose ancorchè tali da non lasciare traccia (Sez. 6^, 16 ottobre 1990, Mengo; Sez. 6^, 22 dicembre 1992, Sortini). Non è necessario, quindi, per la configurabilità del in esame un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto (Sez. 6^, 6 novembre 1991, Faranda), perchè il reato è caratterizzato da un’ unità significante costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall’ unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze; ad integrare l’abitualità della condotta non è necessario che la stessa venga posta in essere in un tempo prolungato, essendo sufficiente la ripetizione degli atti vessatori, come sopra caratterizzati ed "unificati", anche se per un limitato periodo di tempo (Sez. 5^, 9 gennaio 1992, Giay). Pur se il lasso di tempo, ancorchè limitato, è tuttavia utile alla realizzazione della ripetizione di atti vessatori idonea a determinare la sofferenza fisica o morale continuativa della parte offesa (Sez. 6^, 9 dicembre 1992, Gelati); anche se – pare opportuno rimarcarlo – uno degli indici obiettivi è rappresentato proprio dalla seriazione di atti che contrassegna, di norma l’abitualità.
Per la configurabilità del reato non è richiesta una totale soggezione della vittima all’autore in quanto la norma, nel reprimere l’abituale attentato alla dignità e al decoro della persona, tutela la normale tollerabilità della convivenza (Sez. 6^, 4 marzo 1996, Gazzetto). Tanto che nello schema del delitto di maltrattamenti in famiglia non rientrano soltanto le percosse, le lesioni, le ingiurie, le minacce e le privazioni e le umiliazioni imposte alla vittima, ma anche gli atti di disprezzo e di offesa alla sua dignità, che si risolvano in vere e proprie sofferenze morali, senza che assuma rilievo il fatto che gli atti lesivi si siano alternati con periodi di normalità e che siano stati, a volte, cagionati da motivi contingenti, poichè, data la natura abituale del delitto l’intervallo di tempo tra una serie e l’altra di episodi lesivi non fa venir meno l’esistenza dell’ illecito (Sez. 6^, 7 giugno 1996, Vitiello). Si è parlato anche di atti di sopraffazione sistematica tali da rendere particolarmente dolorosa la stessa convivenza;
l’elemento psichico, poi si concretizza in modo unitario ed uniforme così da evidenziare nell’ agente l’intenzione di avvilire e sopraffare la vittima e deve ricondurre ad unità i vari episodi di aggressione alla sfera morale e materiale di quest’ ultima, pur non rilevando, data la natura abituale del reato, che durante il lasso di tempo considerato siano riscontrabili nella condotta dell’ agente periodi di normalità e di accordo con il soggetto passivo (Sez. 6^, 26 giugno 1996, Lombardo; Sez. 6^, 1 febbraio 1999, Valente).
L’oggetto giuridico non è costituito, dunque, solo dall’ interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti, ma anche dalla difesa dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate nell’art. 572 c.p., interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di un rapporto fondato su vincoli familiari; tuttavia, deve escludersi che la compromissione del bene protetto si verifichi in presenza di semplici fatti che ledono ovvero mettono in pericolo l’incolumità personale, la libertà o l’onore di una persona della famiglia, essendo necessario, per la configurabilità del reato, che tali fatti siano la componente di una più ampia ed unitaria condotta abituale, idonea ad imporre un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile (Sez. 6^, 27 maggio 2003, Caruso; Sez. VI, 4 dicembre 2003, Camiscia).
Il fatto che con il verbo "maltrattare" il legislatore abbia utilizzato un espressione polidesignante (compresiva sia della condotta tipica sia dell’ elemento soggettivo del reato) non esime il Collegio dal prendere in esame i profili più strettamente legati all’elemento psicologico.
Sul punto la giurisprudenza è costante nel senso che per la sussistenza dell’ elemento soggettivo del reato di cui all’art. 572 c.p. non è necessario che l’agente abbia perseguito particolari finalità nè il pravo proposito di infliggere alla vittima sofferenze fisiche o morali senza plausibile motivo, essendo invece sufficiente il dolo generico cioè la coscienza e volontà di sottoporre il soggetto passivo a tali sofferenze in modo continuo ed abituale (Sez. 6^, 3 luglio 1990, Soru); non è, quindi, richiesto un comportamento vessatorio continuo ed ininterrotto; essendo l’elemento unificatore dei singoli episodi costituito da un dolo unitario, e pressochè programmatico, che abbraccia e fonde le diverse azioni;
esso consiste nell’ inclinazione della volontà ad una condotta oppressiva e prevaricatrice che, nella reiterazione dei maltrattamenti, si va via via realizzando e confermando, in modo che il colpevole accetta di compiere le singole sopraffazioni con la consapevolezza di persistere in una attività illecita, posta in essere già altre volte (Sez. 6^, 6 novembre 1991, Faranda); esso è, perciò costituito da una condotta abituale che si estrinseca con più atti, delittuosi o no, che determinano sofferenze fisiche o morali, realizzati in momenti successivi ma collegati da un nesso di abitualità ed avvinti nel loro svolgimento dall’ unica intenzione criminosa di ledere l’integrità fisica o il patrimonio morale del soggetto passivo, cioè, in sintesi, di infliggere abitualmente tali sofferenze (Sez. 5^, 9 gennaio 1992, Giay). Si è insistito, più in particolare, sull’ unitarietà del dolo, in modo da non confonderlo con la coscienza e volontà di ciascun frammento della condotta, tanto da negare che l’elemento psicologico debba scaturire da uno specifico programma criminoso rigorosamente finalizzato alla realizzazione del risultato effettivamente raggiunto (l’espressione "quasi programmatica" viene perciò intesa come mero obiter); vale a dire, non occorre che debba essere fin dall’ inizio presente una rappresentazione della serie degli episodi; quel che la legge impone, infatti, è che sussista la coscienza e volontà di commettere una serie di fatti lesivi della integrità fisica e della libertà o del decoro della persona offesa in modo abituale. Un intento, dunque, riferibile alla continuità del complesso e perfettamente compatibile con la struttura abituale del reato, attestata ad un comportamento che solo progressivamente è in grado di realizzare il risultato; la conseguenza è che il momento soggettivo che travalica le singole parti della condotta e che esprime il dolo del delitto di maltrattamenti può ben realizzarsi in modo graduale, venendo esso a costituire il dato unificatore di ciascuna delle componenti oggettive (Sez. 6^, 17 ottobre 1994, Fiorillo; Sez. 6^, 14 luglio 2003, Miola;
Sez. 6^, 11 dicembre 2003, Bonsignore). La valutazione di tale componente soggettiva di difficile connotazione esterna, è rimessa necessariamente al prudente apprezzamento del giudice di merito il quale però, proprio per tale ragione, deve fornire del suo convincimento una motivazione priva di vizi logici e ancorata a dati di fatto che costituiscano chiara manifestazione della intima volizione dell’imputato (Sez. 6^, 8 febbraio 1995, Santoro). Il movente, a sua volta, non esclude il dolo, alla cui nozione è estraneo, ma lo evidenzia, rivelando la comunanza del nesso psicologico fra i ripetuti e numerosi atti lesivi (Sez. 6^, 2 febbraio 1996, Tosi; Sez. 6^, 22 febbraio 1994, Pirozzi). Ancora, il reato di cui all’art. 572 c.p. consiste nella sottoposizione dei familiari ad una serie di atti di vessazione continui e tali da cagionare sofferenze, privazioni, umiliazioni, le quali costituiscono fonte di un disagio continuo ed incompatibile con normali condizioni di vita; i singoli episodi, che costituiscono un comportamento abituale, rendono manifesta l’esistenza di un programma criminoso relativo al complesso dei fatti, animato da una volontà unitaria di vessare il soggetto passivo (Sez. 6^, 4 dicembre 2003, Camiscia).
Anche se non pare inopportuno rilevare che (come ha osservato la parte più attenta della giurisprudenza di questa Corte, sulla base della silloge sopra riportata) il reato appare contrassegnato, di norma, da una progressione anche psicologica che prende sempre più maggiore consistenza fino a tradursi nell’ intenzione di maltrattare.
Non necessariamente, dunque, un programma ab inizio ma la consapevolezza, nella memoria della lesione della personalità del soggetto passivo che, man mano si realizza la volontà di realizzarla; fermo restando che l’unità dell’ elemento soggettivo è da intendersi, meglio, come entità che trascende i singoli atti ciascuno dei quali può anche non integrare un’ ipotesi di reato;
così usando alla lettera l’espressione "maltrattare". 4. Questa Corte ha avuto più volte occasione di precisare che la deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova, purchè venga sottoposta ad indagine positiva circa la sua attendibilità. Non mancando di rilevare come, alle dichiarazioni indizianti della persona offesa non si applicano le regole di giudizio di cui ai commi terzo e quarto dell’art. 192 c.p.p., che postulano la presenza di riscontri esterni. Ha rimarcato però come, atteso l’interesse di cui essa è portatrice, più rigorosa deve essere la valutazione ai fini del controllo della sua credibilità rispetto al generico vaglio cui vanno sottoposte le dichiarazioni di ogni testimone ed opportuno appare il riscontro in altri elementi probatori. Ulteriormente rilevando che le dichiarazioni del testimone, che sia anche persona offesa dal reato per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltre che avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati; con la conseguenza che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o imputati di reati connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone (Sez. 6^, 24 febbraio 1997, Orsini).
Ferma restando la validità di tali, principi, costituenti ormai ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte Suprema, appare evidente che il procedimento di verifica della credibilità della persona offesa deve essere oggetto di ancor più attenta analisi nei casi in cui ad essa si contrapponga un assetto dimostrativo che se (ma solo formalmente) può apparire neutro, renda perplessa la stessa valutazione degli elementi probatori perchè essi nel contesto descrittivo palesato dalla persona offesa dal reato si impongono come momenti che, pur dovendo confermare le dette dichiarazioni, divengono produttivi di fatti preclusivi di una simile scelta dimostrativa.
Si allude, più in particolare alla descrizione di episodi di violenza, quali quelli narrati dalla P. che dovevano necessariamente risultare sia alle persone conviventi (la nonna e lo zia) sia a quelle che avevano occasione di frequentarla quotidianamente (la maestra e le compagne di scuola). Sempre ferma la possibilità per il giudice di merito di fondare la colpevolezza sulla base delle sole dichiarazioni della persona offesa ma esternando, in tal caso, la massima di esperienza utilizzata in grado di relegare a congettura i fatti ostativi della affermazione di responsabilità puntigliosamente enunciati dalla P..
5. Il ricorso si fonda in realtà essenzialmente sul difetto di motivazione circa la ricostruzione della vicenda, sotto il profilo della manifesta illogicità. Illogicità manifesta degli argomenti della decisione nella parte in cui, mediante inferenze di massime di esperienze assertive e prive di una plausibile giustificazione è stata affermata l’assoluta attendibilità della P..
6. Le Sezioni unite di questa Corte hanno ritenuto che non possa essere incluso nell’ area del vizio della motivazione il sindacato sulle "massime di esperienza" utilizzate dal giudice di merito. Con ciò, in certo senso, ripercorrendo le cadenze argomentative tracciate da un’ autorevole dottrina la quale aveva puntualizzato come, per consentire che il controllo di legittimità sulla motivazione – non irrompa a sindacare il merito del giudizio, è necessario e sufficiente che la Corte accerti soltanto se la motivazione rispecchi la struttura legale, cioè espliciti i fatti probatori, le massime di esperienza e le conclusioni. Il tutto in omaggio al principio che ravvisa nella Corte di cassazione il giudice che verifica la ritualità del procedimento probatorio e non del suo risultato. Una tesi recentemente ribadita allorchè si è affermato che il controllo della Corte di Cassazione sui vizi di motivazione della sentenza di merito, sotto il profilo della manifesta illogicità, non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza delle quali il giudice abbia fatto uso nella ricostruzione del fatto; purchè la valutazione delle risultanze processuali sia stata compiuta secondo rigorosi criteri di metodo e con l’osservanza dei canoni logici che presiedono alla forma del ragionamento probatorio e la motivazione fornisca una spiegazione plausibile e logicamente corretta delle scelte operate. Ne consegue che la doglianza di illogicità può essere proposta quando il ragionamento non si basi realmente su una massima di esperienza e valorizzi piuttosto una congettura.
Una significativa convergenza si riscontra tra tali tracciati ermeneutici e quelli percorsi dalla giurisprudenza civile, costante nel senso che in sede di legittimità, il controllo della motivazione in fatto si compendia nel verificare che il discorso giustificativo svolto dal giudice di merito presenti i requisiti minimi dell’ argomentazione (fatto probatorio massima di esperienza – fatto accertato), mentre non è consentito alla Corte sostituire una diversa massima di esperienza a quella utilizzata da detto giudice, la quale può essere disattesa, non quando l’inferenza probatoria non sia da essa necessitata, ma solo quando non sia neppure minimamente sorretta o sia addirittura smentita, avendosi, in tal caso, una mera apparenza del discorso giustificativo; precisandosi che non ogni vizio logico può condurre al controllo della Corte di Cassazione, ma solo quello incidente su elementi determinanti ai fini dell’individuazione della disciplina giuridica della fattispecie;
cosicchè, la nozione di "punto decisivo" della controversia coincide con quella di fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo del diritto in contestazione (cfr., ex plurimis, Cass. civ., Sez. L, 24 ottobre 2000, n. 13984).
6.1. Le puntualizzazioni giurisprudenziali sopra ricordate potrebbero sembrare, per la verità, non troppo persuasive, solo riflettendo sul fatto che esse pervengono, in omaggio al principio di "completezza", alla conclusione che, perchè la motivazione risulti inattaccabile in cassazione, devono essere enunciate tutte le massime di esperienza utilizzate e, dunque, pure quelle assolutamente indiscutibili; senza contare che, mentre, da un lato, non sarebbe ragionevole l’indicazione delle massime di esperienza ove non ne fossa consentito (sia pure entro i ristretti limiti indicati dal combinato disposto dell’art. 192 c.p.p., comma 1, e art. 606 c.p.p., lett. e), e purchè ci si trovi in presenza di vere e proprie massime di esperienza) il loro sindacato, dall’ altro lato, non sembra consentito accedere alla conclusione che l’indicazione di una massima di esperienza discutibile debba necessariamente comportare l’annullamento della decisione in quanto affetta da manifesta illogicità. 6.2. Come massime di comune esperienza vengono comunemente intese quelle definizioni o quei giudizi ipotetici di contenuto generale, indipendenti dal caso concreto sul quale il giudice è chiamato a decidere, acquisiti con l’esperienza, ma autonomi rispetto ai singoli casi dalla osservazione dei quali sono dedotti ed oltre i quali devono valere per nuovi casi (Sez. 5^, 18 dicembre 1969, Lanzarotti).
Le massime di esperienza vengono così definite quali giudizi che sono assunti dal giudice nell’ esercizio del suo libero convincimento, ma che vincolano le conclusioni da adottare (Sez. 1^, 26 novembre 1962, Giacalone). Ed è singolare constatare come la coessenzialità della verifica della massime di esperienza rispetto al principio del libero convincimento finisca con l’esaltarsi, pur in presenza di puntuali canoni valutativi espressi dalla legge (si pensi, a tutte le regole enunciate dall’art. 192 c.p.p.), proprio nel regime del codice del 1988; non essendosi mancato di precisare come il libero convincimento, che si estrinseca nel momento della valutazione della prova, nel processo indiziario è il corretto risultato di un’ operazione logico – induttiva attraverso la quale la massima di esperienza nel sillogismo normativamente imposto dall’art. 192 c.p.p., comma 2, si pone come premessa maggiore, l’indizio è la premessa minore e la conclusione è costituita – nel suo divenire, per cristallizzarsi definitivamente – dalla prova del fatto, cui si giunge (stante la naturale inadeguatezza degli indizi) se questi siano gravi (vale a dire, resistenti alle obiezioni e perciò convincenti), precisi (e cioè non suscettibili di diversa interpretazione, per lo meno altrettanto verosimile) e concordanti (vale a dire, non contrastanti tra loro o con altri elementi certi;
così, Sez. 1^, 14 marzo 1995, Signori).
6.3. Nonostante l’impossibilità di sindacato sulle massime di esperienza, non sempre la loro utilizzazione appare designata da un alone di asettica neutralità.
Pur non essendosi mancato di rilevare che non è consentito in sede di legittimità sostituire ad una proposizione probatoria, che sia fondata su fatti specifici e su massime di esperienza ad essi collegate, altra disposizione di diversa forza persuasiva (Sez. 5^, 14 aprile 1987, Gelli), non è infrequente l’esigenza che la massima di esperienza da utilizzare debba essere "appropriata" (Sez. 1^, 28 marzo 1969, De Pascale; v. analogamente, per una massima di esperienza adottata dal giudice di merito e ritenuta esorbitante rispetto a cautele già imposte dalla legge, Sez. 4^, 24 novembre 1988, Fontanin), ovvero "plausibile" (Sez. 1^, 4 febbraio 1988, Barbella), tanto che la massima non riconosciuta come tale da tutti e generalmente accettata finirebbe per contrastare con il principio di logicità (Sez. 1^, 22 maggio 1989, Barranca; Sez. 6^, 21 giugno 1990, Cordi) o con il senso comune (Sez. 2^, 21 dicembre 1993, Modesto).
Frequente è, poi, il collegamento delle massime di esperienza (che, definite come regulae iuris, preesistono al giudizio; Sez. 4^, 27 maggio 1993, Rech), alle prove ed. indiziarie, discriminandosi, sul punto, tra gli elementi di prova necessari e sufficienti per affermare la responsabilità dell’ imputato e quelli legittimanti la misura cautelare coercitiva (cfr. Sez. 1^, 21 maggio 1990, Bencini;
Sez. 15 ottobre 1990, Sepe; Sez. 1^, 18 marzo 1992, Russo; Sez. 1^, 22 giugno 1992, Bono; Sez. 1^, 23 novembre 1992, Bottaro; Sez. 3^, 12 agosto 1993, Alberino).
6.4. Non si è mancato di discriminare la massima di esperienza dalla congettura. Nel primo caso il dato è stato già, o viene comunque, sottoposto a verifica empirica e quindi la massima può essere formulata sulla scorta dell’id quod plerumque accidit, mentre nel secondo caso tale verifica non vi è stata e non può esservi, ed essa resta affidata ad un nuovo calcolo di possibilità, tanto che la massima rimane insuscettibile di verifica empirica e, quindi, di dimostrazione (Sez. 1^, 22 ottobre 1990, Grilli). In tali termini dovrebbe dunque leggersi l’indirizzo giurisprudenziale che preclude alla Corte di cassazione il sindacato sulle massime di esperienza.
6.5. In presenza di una massima di esperienza il dato è stato già sottoposto a verifica empirica e, quindi, la massima può essere formulata sulla scorta dell’id quod plerumque accidit; se si è in presenza di una congettura – ci si trova di fronte, cioè, ad un’ ipotesi non fondata sull’id quod plerumque accidit, insuscettibile di verifica empirica – tale possibilità manca e la massima diviene insuscettibile di verifica empirica e, quindi, di dimostrazione.
Dunque, le massime di esperienza – diversamente dalle congetture – trovano ingresso, nella concatenazione logica dei vari sillogismi in cui si sostanzia la motivazione, dato che esse rappresentano quei postulati empirici che accreditano l’efficacia dimostrativa dei singoli fatti. La motivazione non esaurisce il suo valore designante nella mera indicazione dei fatti che, secondo il giudice di merito, comprovano il verificarsi di un accadimento costituente reato e la riferibilità di esso ad un autore. Dalla sua funzione di garanzia, costituzionalmente presidiata, discende che a tale indicazione deve accompagnarsi l’esternazione del canone logico utilizzato, così da consentire alla parte il sindacato proprio sulla logicità e coerenza della motivazione stessa. Il controllo sulla motivazione è, infatti, volto a verificare se il giudice abbia indicato le ragioni del convincimento che si è formato e se queste ultime siano plausibili in quanto fondate su tutto il materiale probatorio (c.d. principio di correttezza) in modo che le conclusioni risultino il frutto di sillogismi logicamente ineccepibili e di massime di esperienza riconosciute come tali da chiunque e generalmente accettate (c.d. principio di logicità). E ciò secondo una regola costante nella giurisprudenza di questa Corte Suprema in base alla quale una circostanza (premessa minore), sussunta nella massima di esperienza (premessa maggiore) consente di trarre una deduzione che logicamente costituisce verità. A ciò aggiungasi che soltanto se gli elementi acquisiti, nonostante isolatamente possano, in tutto o in parte, risultare polidesignanti, valutati nel loro insieme divengano univoci, perchè confluiscono in una ricostruzione unitaria del fatto da dimostrare, precludendo qualsiasi ricostruzione alternativa, il giudizio logico espresso nella motivazione è da qualificare corretto, tanto da far convergere il procedimento logico verso un risultato contrassegnato da coerenza e ragionevolezza. Se la premessa maggiore è essa stessa ipotetica considerati tutti i dati di qualificazione enunciati dall’impugnata ordinanza, mentre, per un verso, diviene con essi non combinabile la premessa minore, ne resta, per un altro verso, direttamente coinvolta la conclusione (Sez. Fer., 12 agosto 1996, Pacifico; v. Sez. 2^, 16 settembre 2003, Caruso).
D’altro canto, nella valutazione probatoria – cosi come, secondo la più moderna epistemologia, in ogni procedimento di accertamento (scientifico, storico, etc.) – è corretto e legittimo fare ricorso alla verosimiglianza ed alle massime di esperienza, ma, affinchè il giudizio di verosimiglianza conferisca al dato preso in esame valore di prova, è necessario che si possa escludere plausibilmente ogni alternativa spiegazione che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile; ove così non sia, il suddetto dato si pone semplicemente come indizio da valutare insieme a tutti gli altri elementi risultanti dagli atti (Sez. 1^, 21 ottobre 2004, Sala).
7. Alla stregua dei criteri interpretativi sopra enunciati la sentenza impugnata appare manifestamente carente, in primo luogo, nella individuazione del criteri di inferenza in grado di rassicurare sulla credibilità della P. anche alla luce dei rilievi difensivi circa l’assenza di qualsivoglia elemento di conferma del testimoniale raccolto che parrebbe, anzi contrastare le accuse rivolte dalla persona offesa nei confronti della madre.
Appare inoltre assolutamente carente un analitico esame, sempre in base ai criteri interpretativi sopra considerati, non soltanto della condotta concretamente ascrivibile all’imputata e della sua riconducibilità al precetto di cui all’art. 572 c.p., ma anche ogni analisi – un vizio che designa tanto la sentenza di primo grado tanto la sentenza di appello – dell’elemento soggettivo del reato addebitato.
La sentenza impugnata deve essere, dunque, annullata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello che si conformerà ai principi di diritto sopra diffusamente esposti da questa Corte.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata e rinvia ad altra Sezione della Corte di appello di Catania per nuovo giudizio.
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