Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 10-03-2011) 27-04-2011, n. 16432 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

l P.G., Dott. D’ANGELO Giovanni, che ha chiesto rigettarsi il ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con sentenza del 12.1.2010 la Corte di Appello di Napoli confermava la sentenza del GUP presso il Tribunale di Torre Annunziata del 10.3.2009, con la quale M.V., con la diminuente per la scelta del rito, era stato condannato alla pena di anni 7 di reclusione ed Euro 60.000,00 di multa per il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 "poichè deteneva all’interno di un deposito di commercializzazione dei fiori denominato ME.VI.FLOR. di cui è titolare, ad evidente fine di spaccio, sostanza stupefacente di tipo hashish, in nove panetti, per un quantitativo pari a 9 Kg circa con un contenuto di principio attivo pari al 2,5%".

La Corte territoriale riteneva infondate tutte le doglianze difensive.

Stante la scelta del rito, era utilizzabile tutto il materiale acquisito. In particolare la riproduzione in forma narrativa delle dichiarazioni rese dall’indagato nell’immediatezza del fatto non rientrava tra le nullità patologiche, per cui esse (anche se il loro contenuto era stato trasfuso in un verbale redatto successivamente) erano pienamente utilizzabili.

Quanto al "merito", riteneva la Corte che dagli atti emergesse pacificamente che il M. aveva la disponibilità esclusiva del locale, dove era stata rinvenuta la sostanza stupefacente, sia perchè ivi svolgeva l’attività lavorativa, sia perchè egli aveva le chiavi dell’ingresso principale (come da lui stesso dichiarato, non erano praticabili altri accessi, essendo il portoncino secondario chiuso e privo di chiavi), sia infine perchè, all’atto dell’intervento degli operanti, tutti i balconi e le serrande erano chiusi, tanto che per accedervi fu necessario aprire la porta con le chiavi fornite dal titolare.

Risultando pacificamente una condotta quantomeno di compartecipazione, non poteva certamente parlarsi di favoreggiamento reale.

Infine, riteneva la Corte territoriale di condividere il metro valutativo del giudice di primo grado sia in ordine alla determinazione della pena che al diniego delle circostanze attenuanti generi che.

2) Ricorre per cassazione M.V., a mezzo del difensore, denunciando con il primo motivo la violazione di legge in relazione all’art. 192, comma 2, art. 350, commi 5 e 6, artt. 191, 357, 134 e ss, art. 350, comma 1 o 2, art. 533, art. 546, lett. e) in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, nonchè l’apparenza, manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione.

Erroneamente la Corte territoriale ha ricondotto le dichiarazioni rese dall’indagato nell’alveo dell’art. 350 c.p.p., comma 7. Tali dichiarazioni, invece, andavano ricondotte alla previsione di cui all’art. 350 c.p.p., comma 5 e pertanto erano inutilizzabili ex art. 350, comma 6 anche in sede di giudizio abbreviato (trattandosi di inutilizzabilità patologica). La conferma si ricava dal fatto che agli atti non si rinviene il verbale delle dichiarazioni medesime.

I giudici di merito, invece di utilizzare i verbali di perquisizione, di arresto e la comunicazione della notizia di reato, hanno recepito acriticamente le notizie emergenti dalla informativa trasmessa solo successivamente a seguito della delega di indagini del P.M.. Le dichiarazioni dell’indagato trasfuse in detta informativa sona in ogni caso inutilizzabili, nè tali dichiarazioni potevano formare oggetto di testimonianza.

La Corte territoriale, con motivazione apparente, ha ritenuto provata l’esclusiva disponibilità in capo al M. del locale deposito, senza tener conto dei rilievi contenuti nell’atto di appello in ordine alla disponibilità (puntualmente confermata dai soggetti indicati dal difensore) anche da parte di altri delle chiavi di accesso al locale. La Corte, inoltre, ha omesso di esaminare e valutare là consulenza tecnica di parte in ordine all’agevole accessibilità nel locale; nè ha tenuto conto del comportamento dell’imputato, incompatibile con l’ipotesi accusatola; nè, infine, ha applicato correttamente i criteri dettati in tema di valutazione della prova indiziaria. Denuncia, altresì, la violazione di legge in relazione all’art. 603 c.p.p., nonchè l’apparenza e comunque la manifesta illogicità della motivazione, avendo i giudici di merito, apoditticamente e senza tener conto dei rilievi difensivi, ritenuto non necessari gli approfondimenti istruttori richiesti.

Denuncia, ancora, la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione agli artt. 378 e 379 c.p.p..

Infine, denuncia la violazione di legge ed il vizio di motivazione in relazione agli artt. 62 bis e 133 c.p..

3) Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.

3.1) Va preliminarmente esaminata l’eccezione di inutilizzabilità sollevata con il primo motivo di ricorso.

Questa Corte, con la sentenza a sezioni unite del 21.6.2000 n. 16 – Tammaro, ha affermato che "il giudizio abbreviato costituisce un procedimento a prova contratta, alla cui base è identificabile un patteggiamento negoziale sul rito, a mezzo del quale le parti accettano che la regiudicanda sia definita all’udienza preliminare alla stregua degli atti di indagine già acquisti e rinunciano a chiedere ulteriori mezzi di prova, così consentendo di attribuire agli elementi raccolti nel corso delle indagini preliminari quel valore probatorio di cui essi sono normalmente sprovvisti nel giudizio che si svolge invece nelle forme ordinarie del dibattimento.

Tuttavia tale negozio processuale di tipo abdicativo può avere ad oggetto esclusivamente i poteri che rientrano nella sfera di disponibilità degli interessati, ma resta privo di negativa incidenza sul potere-dovere del giudice di essere, anche in quel giudizio speciale, garante della legalità del procedimento probatorio. Ne consegue che in esso, mentre non rilevano nè l’inutilizzabilità cosiddetta fisiologica della prova, cioè quella coessenziale ai peculiari connotati del processo accusatorio, in virtù dei quali il giudice non può utilizzare prove, pure assunte secundum legem, ma diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’art. 526 c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all’art. 514 c.p.p. (in quanto in tal caso il vizio sanzione dell’atto probatorio è neutralizzato dalla scelta negoziale delle parti, di tipo abdicativo), nè le ipotesi di inutilizzabilità relativa stabilite dalla legge in via esclusiva con riferimento alla fase dibattimentale, va attribuita piena rilevanza alla categoria sanzionatoria dell’inutilizzabilità cosiddetta "patologica", inerente, cioè, agli atti probatori assunti "contra legem", la cui utilizzazione è vietata in modo assoluto non solo nel dibattimento, ma in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, nonchè le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito".

La giurisprudenza successiva ha costantemente ribadita che "nel giudizio abbreviato sono rilevabili e deducibili solo le nullità di carattere assoluto e le inutilizzabilità cosiddette patologiche. Ne consegue che l’irritualità nell’acquisizione dell’atto probatorio è neutralizzata dalla scelta negoziale delle parti di tipo abicativo, che fa assurgere a dignità di prova gli atti di indagine compiuti senza rispetto delle forme di rito" (Cass. sez. 3 n. 29240 del 9.6.2005; conf. Cass. sez. 6 n. 14099 del 30.1.2007; Cass. sez. 3 n. 39407 del 26.9.2007).

3.1.1) Le dichiarazioni spontanee rese dalla persona nei cui confronti vengono svolte te indagini non sono utilizzabili nel dibattimento.

Pacificamente, quindi, esse possono essere prese in considerazione nel giudizio abbreviato per la natura dello stesso, caratterizzato dallo svolgimento allo stato degli atti. "L’imputato, nell’accettare questo procedimento speciale, da un lato rinuncia ad avvalersi delle regole ordinarie e dall’altro però ottiene un trattamento premiale attraverso l’applicazione della diminuente. Ne deriva che il giudice può utilizzare tutti gli atti legittimamente confluiti nel fascicolo del P.M. e quindi anche le dichiarazioni rese dall’indagato in assenza del suo difensore…". "La richiesta di tale giudizio, infatti, implica la rinuncia a sollevare eccezioni sulla ritualità degli atti in base ai quali è documentato, anche se trattasi di atti compiuti dalla polizia giudiziaria che non sarebbero di per sè utilizzabili in eventuale accertamento dibattimentale" (cfr. ex multis Cass. sez. 4, 19.2.1997 n. 1554).

3.1.2) Lo stesso ricorrente non contesta tali principi; assume però che le dichiarazioni, rese dal M., non essendo state verbalizzate, siano riconducibili alla previsione di cui all’art. 350 c.p.p., comma 5 e, quindi, siano affette da inutilizzabilità (patologica) ex art. 350 c.p.p., comma 6.

Ma questa Corte ha più volte affermato che le dichiarazioni spontanee dell’indagato rese a norma dell’art. 350 c.p.p., comma 7, raccolte dalla polizia giudiziaria ma non documentate in verbale nelle forme di cui all’art. 357, commi 2 e 3, ma soltanto annotate sommariamente in forma libera, non sono affette da alcuna ipotesi di inutilizzabilità generale di cui all’art. 191 c.p.p. ovvero di inutilizzabilità specifica, per cui possono essere utilizzate nella fase delle indagini preliminari (cfr. Cass. pen. sez. 1, n. 14980 del 22.1.2004; conf Cass. pen. sez. 4 n. 2073 del 3.9.1996)) e quindi anche nel giudizio abbreviato per le ragioni esposte in precedenza.

La utilizzabilità nella fase delle indagini preliminari di dichiarazioni spontanee anche se non verbalizzate (ma solo annotate dalla polizia giudiziaria e riportate nella informativa di reato) è stata ribadita anche dalla giurisprudenza più recente di questa Corte (cfr. Cass. pen. sez. 1, n. 15437 del 16.3.2010).

3.2) I giudici di merito, con motivazione adeguata ed immune da vizi logici, hanno poi ritenuto ampiamente provato che la sostanza stupefacente appartenesse al ricorrente.

Già il GUP aveva rilevato in proposito che non fosse revocabile in dubbio che il deposito commerciale, in cui era stata rinvenuta la droga, fosse nella disponibilità esclusiva dell’imputato. Fu infatti proprio il M. ad aprire la porta del deposito con le chiavi che aveva con sè. Esaminava poi il GUP dettagliatamente le dichiarazioni rese dai testi addotti dalla difesa, pervenendo alla conclusione che essi avevano avuto accesso al deposito in modo del tutto occasionale e, comunque, in epoca anteriore al fatto contestato. A parte il fatto, osservava il GUP, richiamando l’ordinanza del Tribunale del riesame, che era assolutamente inverosimile che "terze persone possano aver pensato di collocare nel deposito dell’imputato l’ingente quantitativo di sostanza stupefacente ivi rinvenuto all’insaputa di M.V. e dunque con il rischio, assolutamente concreto in considerazione del nascondiglio utilizzato (un carrello per il trasporto dei fiori e delle piante), che la droga potesse essere scoperta da terzi ed andare perduta" (cfr. sent. GUP).

In presenza di tale robusto apparato argomentativo la Corte territoriale, nel disattendere i rilievi difensivi contenuti nell’atto di appello, si è limitata, correttamente, a ribadire che la disponibilità del locale da parte del M. era confermata, oltre che dal fatto che egli ivi svolgeva in via esclusiva l’attività lavorativa, dal fatto che le condizioni dei luoghi rilevate nell’immediatezza non evidenziavano "una condizione di degrado o di vulnerabilità della struttura tanto che al controllo tutti i balconi e le serrande erano chiuse, tanto che fu necessario aprire la porta con le chiavi fornite dai titolare e fu accertato che il secondo ingresso era ben chiuso e non apribile per assenza di chiavi". Per contro gli altri soggetti, indicati come utilizzatori del locale, avevano avuto con lo stesso un contatto episodico. Tali elementi erano, quindi, assolutamente convergenti in ordine alla riferibilità della sostanza stupefacente al prevenuto anche a prescindere dalle ammissioni da lui rese spontaneamente (cd. prova di resistenza) in ordine alla esclusiva disponibilità del locale.

Il ricorrente ripropone in questa sede le medesime doglianze già esaminate e disattese, anche implicitamente, dai giudici di merito. A prescindere dalla situazione di degrado rilevata dai consulente di parte, i giudici hanno dato atto che il deposito era chiuso e non presentava forzature, tanto che fu necessario aspettare l’arrivo del M. che provvide ad aprire con le chiavi in suo possesso (irrilevante in proposito che lo stato dei luoghi sia stato rappresentato solo con la informativa del 4.10.2008, non risultando che esso abbia subito "modifiche"). In ordine alla disponibilità di chiavi da parte di altri soggetti, con valutazione di merito non censurabile, i giudici hanno osservato, in modo non illogico, che risultava assolutamente decisiva la circostanza che terzi non avrebbero di certo lasciato la droga in un locale in quel momento utilizzato (la circostanza è pacifica) dal M.. Quanto, infine, alla possibilità di occultamento, dalla ricostruzione dei giudici di merito risulta che in quel momento era in corso, attraverso perquisizioni ed accertamenti, l’attività di indagine ( M.V. non era presente presso la sua abitazione, per cui fu deciso di sorvegliare il deposito e di ricercare il predetto tra i posti vendita assegnati agli operatori commerciali floricoli – cfr. sent. Trib.). per cui non vi era alcun "margine di manovra". 3.3) In presenza degli elementi sopra evidenziati e potendo quindi il processo essere definito allo stato degli atti, correttamente la Corte territoriale ha ritenuto che non fosse necessario alcun ampliamento istruttoria.

Questa Corte ha costantemente affermato che "nel processo celebrato con il rito abbreviato, l’imputato rinunzia definitivamente al diritto di assumere prove diverse da quelle già acquisite agli atti o richieste come condizione a cui subordinare il giudizio allo stato degli atti ai sensi dell’art. 438 c.p.p., comma 5. I poteri del giudice di assumere gli elementi necessari ai fini della decisione ( art. 411 c.p.p., comma 5), di disporre in appello la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ( art. 603 c.p.p., comma 3) sono poteri officiosi, che prescindono dall’iniziativa dell’imputato, non presuppongano una facoltà processuale di quest’ultimo e vanno esercitati solo quando emerga un’assoluta esigenza probatoria" (cfr.

Cass. pen. sez. 3 n. 12853 del 13.2.2003). E’ stato ribadito anche successivamente che "a seguito della nuova formulazione dell’art. 438 c.p.p., deve ritenersi possibile la richiesta di rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale da parte dell’imputato che abbia subordinato la richiesta di accedere al rito abbreviato ad una specifica integrazione probatoria, mentre chi abbia richiesto il rito abbreviato alla stato degli atti può solo sollecitare il giudice di appello all’esercizio dei potere di ufficio di cui all’art. 603 c.p.p., comma 3" (cfr. Cass. pen. sez. 3 n. 15296 del 2.3.2004; conf.

Cass. pen. sez. 4 n. 15573 del 20.12.2005).

3.4) Ineceppibilmente la Corte territoriale ha ritenuto che non fosse in alcun modo configurabile nella fattispecie in esame il reato di favoreggiamento personale o reale.

Il reato di favoreggiamento non è, infatti, configurabile con riferimento al delitto di illecita detenzione di sostanza stupefacente in costanza di detta detenzione, dal momento che, in ogni caso, nei reati permanenti qualunque agevolazione dei colpevole, prima che la condotta di questi sia cessata, si risolve inevitabilmente in un concorso, quanto meno a carattere morale (cfr.

Cass. pen. sez. 4 n. 12915 dell’8.3.2006; conf. Cass. sez. 4 n. 39267 del 25.9.2008).

3.5) Quanto al trattamento sanzionatorio è indubitabile e pacificamente riconosciuto che non sia necessaria una analitica valutazione di tutti gli elementi, favorevoli o sfavorevoli, dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, essendo sufficiente la indicazione degli elementi ritenuti decisivi e rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri.

La Corte territoriale, sia pure con motivazione stringata, ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche a cagione del precedente penale specifico (con condanna ad anni sei di reclusione per un fatto analogo) e della gravità del fatto (il quantitativo della sostanza rinvenuta era sintomatico dell’inserimento del prevenuto in pericolosi circuiti criminali). Ha,quindi,ritenuto assolutamente prevalenti tali elementi per negare l’invocato beneficio. Il preminente e decisivo rilievo accordato all’elemento considerato implica il superamento di eventuali altri elementi, suscettibili di opposta e diversa significazione, i quali restano implicitamente disattesi e superati. Sicchè (tinche in sede di impugnazione il giudice di secondo grado può trascurare le deduzioni specificamente esposte nei motivi di gravame quando abbia individuato, tra gli elementi di cui all’art. 133 c.p. quelli di rilevanza decisiva ai fini della connotazione negativa della personalità dell’imputato e le deduzioni dell’appellante siano palesemente estranee o destituite di fondamento (cfr. Cass. pen. sez. 1 n. 6200 del 3.3.1992). L’obbligo della motivazione non è certamente disatteso quando non siano state prese in considerazione tutte le prospettazioni difensive, a condizione però che in una valutazione complessiva il giudice abbia dato la prevalenza a considerazioni di maggior rilievo, disattendendo implicitamente le altre. E la motivazione, fondata sulle sole ragioni preponderanti della decisione non può, purchè congrua e non contraddittoria, essere sindacata in cassazione neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell’interesse dell’imputato (cfr. Cass. pen. sez. 6 n. 7707 del 4.12.2003). La Corte territoriale quindi, con motivazione adeguata, ha correttamente esercitato il potere discrezionale nella determinazione della pena, negando le circostanze attenuanti generiche e ritenendo pienamente giustificata e quindi non suscettibile di alcuna riduzione la pena inflitta in primo grado.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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