Cass. civ. Sez. V, Sent., 29-07-2011, n. 16670 accertamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.L. e D.L., quali soci della Elle A. s.n.c., proposero ricorso avverso avviso di rettifica iva per l’anno 1995, emesso dall’Agenzia a carico della società sul presupposto della fatturazione di operazioni inesistenti e dell’indebita detrazione dell’iva correlativamente annotata.

Deceduto il D. e proseguita la causa ad iniziativa della P., l’adita commissione tributaria accolse il ricorso, con decisione, che, in esito all’appello dell’Agenzia, fu, tuttavia, riformata dalla commissione regionale, con decisione resa in camera di consiglio.

Nei suoi tratti essenziali, la decisione si articola: nel riscontro, in fatto, dell’inesistenza della operazioni certificate dalle fatture contestate; nel rilievo che idonea prova contraria non poteva essere ravvisata nella documentazione relativa agli asseriti pagamenti a mezzo assegni bancari e nella relativa contabilizzazione; nel richiamo alla giurisprudenza di questa Corte in tema di indetraibilità dell’iva annotata su fatture emesse per operazioni inesistenti.

Avverso la decisione di appello, P.L., nella qualità in epigrafe, ha proposto ricorso per cassazione in tre motivi.

L’Agenzia non si è costituita.
Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso – deducendo "violazione di norme del procedimento e nullità della sentenza ( art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 61 e all’art. 33, comma 1)" – la contribuente censura la decisione impugnata, per aver discusso l’appello in camera di consiglio, non dando seguito alla richiesta di discussione in pubblica udienza avanzata dall’Agenzia, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 33, nell’atto di appello notificato.

Posto che la stessa contribuente, qui ricorrente, riferisce che l’istanza disattesa era stata proposta dall’appellante Agenzia e non da essa appellata e che la discussione dell’appello avvenne in assenza dei difensori di entrambe le parti, la doglianza si rivela del tutto infondata.

Deve, invero, osservarsi che la trattazione del ricorso in camera di consiglio invece che in pubblica udienza, pur in presenza d’istanza in tal senso di una delle parti, comporta la nullità della sentenza che ne consegue soltanto ove si traduca in violazione del diritto di difesa o del contraddittorio (cfr. Cass. 10678/09 20852/05), cosa che certamente non può configurarsi nei confronti della parte che detta istanza non ha proposto se (come nel caso di specie) nemmeno l’altra è stata ammessa alla discussione.

Con il secondo motivo di ricorso – deducendo "nullità della sentenza ( art. 360 c.p.c., n. 4, in relazione al D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36 ..,)" – la contribuente deduce il difetto assoluto di motivazione.

La doglianza si rivela, in primo luogo, carente in prospettiva di autosufficienza, poichè non fornisce indicazione e descrizione degli atti e dei documenti da cui si possa desumere l’asserita incidenza della decisione impugnata su fatti diversi da quelli di causa (cfr.

Cass. 5660/10, 15808/08). Essa è, peraltro, infondata, giacchè la motivazione delle decisione impugnata esprime comunque, nei suoi tratti essenziali ed a prescindere dalle imprecisioni pur rilevabili, un chiaro, coerente e pertinente percorso argomentativo.

Con il terzo motivo di ricorso – deducendo "violazione di norme di diritto e omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su di un punto decisivo della controversia in relazione al D.P.R. 26/20/1972, n. 633, art. 19, in punto di detrazione dell’iva pagata e all’art. 2697 c.c., in punto onere della prova" – la contribuente lamenta che solo il malgoverno delle risultanze processuali e del criterio di cui all’art. 2697 c.c. ha indotto i giudici di appello ad escludere l’effettiva ricorrenza delle operazioni relative alle contestate fatture.

La doglianza si rivela censurabile sul piano dell’ammissibilità sia con riguardo all’introduzione di circostanze di fatto di cui non è traccia nella sentenza impugnata in assenza di indicazioni circa il se, il come e il dove dette circostanze sono state dedotte ed esaminate nelle pregresse fasi del giudizio (v. Cass. 20518/08, 14.590/05, 13.970/05) sia con riguardo a proposti sindacati in fatto non consentiti in sede di legittimità, ravvisabili nelle diffuse impugnative dell’avviso di rettifica originariamente opposto piuttosto che della sentenza impugnata.

La doglianza si rivela comunque infondata.

Essa si sostanzia, invero, essenzialmente: a) nel rilievo che l’affermata inesistenza di effettive operazioni con le società emittenti delle fatture contestate, pur in presenza di registrazione delle fatture medesime e di contabilizzazione dei correlativi mezzi di pagamento (assegni bancari), comporterebbe la violazione dell’ordinario criterio di distribuzione dell’onere della prova sancito dall’art. 2697 c.c., giacchè in base a detto criterio, a fronte dell’avvenuta documentazione del pagamento, sarebbe stato onere dell’Agenzia provare la restituzione degli importi correlativi;

b) nel richiamo di giurisprudenza della C.G. (sent. 12.1.2006 in C – 354/03 e 355/03), secondo cui il diritto di dedurre l’iva pagata a monte non è pregiudicato se, nella catena delle cessioni, un’operazione precedente o successiva a quella realizzata sia inficiata da frode all’imposta.

Entrambi i profili si rivelano privi di pregio.

Quanto al primo, occorre, invero, osservare, in linea di principio, che la giurisprudenza di questa Corte ha evidenziato che, qualora l’Amministrazione fornisca validi elementi, anche meramente presuntivi (purchè gravi, precisi e concordanti), atti ad asseverare la contabilizzazione di fatture emesse per operazioni inesistenti, con conseguente indebita deduzione dei costi ivi esposti e detrazione dell’iva correlativamente annotata, si configurano i presupposti per l’accertamento induttivo D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 1, (cfr. Cass. 10157/10, 22680/08, 1023/08) e diventa, pertanto, onere del contribuente dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni medesime (cfr. Cass. 15395/08, 2847/08, 21953/07, 1727/07).

Tanto premesso, deve rilevarsi, in concreto, che, dalla decisione dei giudici di appello, risulta oggetto di accertamento in fatto la ricorrenza di elementi affidabilmente asseveranti l’inesistenza delle prestazioni attestate dalla contestate fatture e che tale circostanza – di per sè idonea, in base alla richiamata giurisprudenza, a determinare il ribaltamento dell’onere della prova sul contribuente – non può considerarsi superata in funzione del riscontro della sola apparente regolarità contabile delle operazioni in rassegna (sotto il profilo della registrazione delle fatture e dell’annotazione dei mezzi di pagamento), che, a fini di dissimulazione, rappresenta una costante nella fatturazione di operazioni inesistenti (cfr. Cass. 15228/01, 28695/05, 951/09).

Quanto al secondo rilievo, va invece, a tacer d’altro, rilevato che la richiamata giurisprudenza della C.G. (secondo cui il diritto di dedurre l’iva pagata a monte non è necessariamente pregiudicato se, nella catena delle cessioni, un’operazione precedente o successiva a quella realizzata da un determinato soggetto sia inficiata da frode all’imposta) non risulta conferente rispetto al caso concreto (in cui, secondo l’accertamento in fatto della decisione impugnata non idoneamente contraddetto, l’inesistenza viene riferita a transazione direttamente coinvolgente la contribuente).

Alla stregua delle considerazioni che precedono, s’impone il rigetto del ricorso.

Stante l’assenza d’attività difensiva dell’Agenzia intimata, non vi è luogo a provvedere sulle spese.
P.Q.M.

La Corte: respinge il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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