Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 25-03-2011) 02-05-2011, n. 16769 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) La Corte d’Appello di Catania, con sentenza 4 maggio 2010, ha parzialmente confermato la sentenza 3 aprile 2002 del Tribunale della medesima Città che aveva condannato C.O. e P. G. alla pena di anni nove di reclusione ed Euro 30.000,00 di multa ciascuno per vari episodi di acquisto, detenzione e spaccio, riferibili ad un traffico illecito di sostanze stupefacenti nel quale i predetti erano rimasti coinvolti tra il (OMISSIS).

La Corte ha confermato l’affermazione di responsabilità di entrambi gli imputati e ha ridotto la pena loro inflitta dal primo giudice rideterminandola in anni otto e mesi sei di reclusione ed Euro 28.000,00 ciascuno.

2) Contro la sentenza di secondo grado entrambi gli imputati hanno proposto ricorso.

Con il ricorso da lui proposto C.O. ha dedotto la violazione dell’art. 521 c.p.p., comma 2. Il ricorrente ricorda di essere stato tratto a giudizio per il delitto associativo di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 e precisa che, all’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale lo aveva assolto da tale reato e aveva trasmesso gli atti al pubblico ministero ritenendo che si trattasse di fatto diverso rispetto a quello contestato.

Questa sentenza non era stata impugnata; il pubblico ministero aveva successivamente esercitato l’azione penale nei suoi confronti per i delitti di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 per i quali è intervenuta la condanna confermata dalla sentenza oggi impugnata. Ma, secondo il ricorrente, non avrebbe potuto il pubblico ministero esercitare l’azione penale per questi reati perchè ciò era precluso dall’assoluzione pronunziata nella prima fase del giudizio (ne bis in idem).

3) Anche P.C. ha proposto ricorso contro la sentenza della Corte catanese deducendo, con il primo motivo, censure analoghe a quelle contenute nel ricorso C..

Con il secondo motivo si deduce invece il vizio di mancanza di motivazione essendosi, la sentenza impugnata, limitata a fare riferimento ai precedenti dell’imputato senza prendere in considerazione lo stato tossicomanico del ricorrente nè l’ottimo comportamento processuale.

Con il terzo motivo si deducono invece il vizio di motivazione e quello di violazione di legge in merito alla determinazione della pena per non aver tenuto conto, la sentenza impugnata, della modifica legislativa che ha ridotto i minimi edittali per il delitto in esame.

4) I ricorsi sono infondati e devono conseguentemente essere rigettati.

E’ anzitutto infondato il motivo, comune ai due ricorrenti, con il quale si eccepisce, in buona sostanza, l’esistenza di un giudicato o di una preclusione che non avrebbe consentito al pubblico ministero di esercitare l’azione penale per i reati riferiti a vari episodi di acquisto, detenzione per uso di terzi e spaccio di sostanze stupefacenti.

L’esame della sentenza 27 marzo 1999 del Tribunale di Catania consente di affermare che, malgrado l’improprio richiamo che la sentenza, nella motivazione, fa all’art. 521 c.p.p., comma 2, in realtà la decisione non ravvisa per nulla l’esistenza di un fatto diverso rispetto a quello descritto nell’imputazione (l’ipotesi associativa) – per il quale pronunzia sentenza di assoluzione in quanto ritiene che non sia provata l’esistenza della stabile organizzazione – ma ritiene che dagli atti siano emersi episodi di acquisto detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti che non erano stati contestati agli imputati e dispone quindi la trasmissione di copia degli atti al pubblico ministero.

Che si tratti di un erroneo richiamo alla disciplina prevista dall’art. 521, comma 2 è poi confermato dalla circostanza che, nel dispositivo, la trasmissione degli atti al pubblico ministero viene disposta "per le determinazioni di competenza" e non perchè il fatto risulti diverso.

Ne consegue che è impropriamente richiamata nei ricorsi la giurisprudenza di legittimità riguardante casi nei quali i giudici di merito avevano contemporaneamente pronunziato sentenza di assoluzione e disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell’art. 521, comma 2 (si vedano le sentenze Cass., sez. 1, 15 giugno 2010 n. 27212, Kane, rv. 247714; sez. 5, 22 aprile 2010 n. 34555, Colazzo, rv. 248161; sez. 5, 21 ottobre 2008 n. 595, Anzalone, rv. 242543).

In questi casi la Corte di cassazione ha ritenuto che il giudice dovesse limitarsi a disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero senza pronunziare sentenza di assoluzione che sarebbe divenuta preclusiva di un ulteriore esercizio dell’azione penale;

conseguenza che si sarebbe verificata perchè il fatto, pur diverso rispetto a quello contestato, era però unico.

L’art. 521 c.p.p., comma 2 richiede infatti che si tratti di un unico fatto che però nel giudizio risulti diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio; ma si deve trarre del medesimo fatto storico di cui alla contestazione e non di fatti estranei alla medesima ed emersi nel giudizio per i quali non può ritenersi applicabile la norma indicata proprio perchè si tratta di fatti estranei alla contestazione.

Se invece nel corso del giudizio emergono fatti diversi ed estranei all’imputazione contestata correttamente il giudice provvede sul fatto contestato e dispone la trasmissione degli atti al pubblico ministero perchè eserciti l’azione penale per questi fatti non solo diversi ma storicamente estranei all’originaria imputazione.

Ed è ciò che è avvenuto nel caso in esame: il Tribunale ha ritenuto che gli imputati, pur essendo emerso nel giudizio che si erano resi responsabili di episodi riferibili al traffico illecito di sostanze stupefacenti, non hanno potuto pronunziare condanna per questi fatti perchè non contestati e hanno disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero. La contestazione dell’ipotesi associativa non era un fatto diverso ma un’ipotesi di reato correttamente contestata per la quale, peraltro, le prove acquisite non erano sufficienti a pervenire ad un’affermazione di responsabilità.

Come appare evidente è ben diverso il caso del giudice che rileva come il fatto che sta giudicando sia diverso da quello che risulta dalla contestazione rispetto al caso in cui emergano nel giudizio ulteriori fatti che possano astrattamente costituire reato ma non siano stati contestati.

5) Inammissibile è il secondo motivo del ricorso proposto da P.C. e relativo al diniego di concessione delle attenuanti generiche.

Il trattamento sanzionatorio – comprensivo del riconoscimento delle circostanze attenuanti e della loro comparazione con le eventuali aggravanti e della concessione dei benefici della sospensione condizionale e della non menzione – rientra nelle attribuzioni esclusive del giudice di merito e così anche la determinazione della pena da infliggere in concreto che, per l’art. 132 c.p., è applicata discrezionalmente dal giudice che deve indicare i motivi che giustificano l’uso di tale potere.

In sede di legittimità è invece consentito esclusivamente valutare se il giudice, nell’uso del suo potere discrezionale, si sia attenuto a corretti criteri logico giuridici e abbia motivato adeguatamente il suo convincimento.

Nel caso in esame la sentenza impugnata si è attenuta ai criteri indicati facendo riferimento, per motivare il diniego sulla richiesta formulata, ai precedenti giudiziari e ciò appare sufficiente per i fini indicati anche perchè il ricorrente non contesta la valutazione (implicita) di gravità dei precedenti evidenziando circostanze da sole non sufficienti ad incrinare la valutazione della Corte di merito.

3) Il terzo motivo del ricorso proposto dall’imputato P. è infondato.

Il tema proposto riguarda gli effetti della modifica intervenuta – ad opera del D.L. 30 dicembre 2005, n. 272, art. 4 bis convertito nella L. 21 febbraio 2006, n. 49 – sulla disciplina sanzionatoria prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73.

Modifica che ha comportato la riduzione del minimo edittale detentivo (quello pecuniario è rimasto sostanzialmente invariato) da anni otto ad anni sei di reclusione.

Questa modifica, a parere di questa Corte, impone una riduzione della pena quando risulti che il giudice di merito abbia inteso applicare il minimo della pena indipendentemente dalla sua quantificazione. Se invece emerge dagli atti che il giudice ha ritenuto la pena inflitta adeguata alla gravità del fatto accertato è possibile confermare la pena inflitta dal primo giudice purchè il giudice di appello abbia fornito la sua valutazione di adeguata motivazione (si vedano Cass., sez. 4, 23 gennaio 2008 n. 15219, Guzman Avila, rv. 239807; 27 settembre 2007 n. 40287, Cutarelli, rv. 237887; 4 maggio 2007 n. 22526, Hasi, rv. 237019; sez. 2, 26 settembre 2006 n. 40382, Arici, rv. 235470).

Nel caso in esame il giudice di appello ha tenuto conto della modifica normativa, ha preso atto che il primo giudice non aveva calcolato la pena nel minimo e ha peraltro ridotto la pena inflitta agli imputati ma senza applicare il nuovo minimo; questa decisione deve ritenersi corretta perchè non esiste il diritto ad ottenere automaticamente ed integralmente, nel caso di modifica normativa sui minimi di pena, il trattamento di miglior favore tanto più nei casi in cui anche il primo giudice si sia discostato dai minimi edittali.

E’ del resto principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che – nel caso di riduzione del minimo edittale della pena per modifica normativa o dichiarazione di incostituzionalità – non debba comunque ritenersi violato il principio del divieto di reformatio in pejus se, applicato dal primo giudice il minimo edittale (il che peraltro non è avvenuto nel nostro caso), il giudice di appello abbia tenuto conto della modifica normativa applicando però una pena superiore al nuovo minimo (in questo senso v. Cass., sez. 6, 25 gennaio 1995 nn. 3577 e 3587, rv. nn. 200707 e 200709, entrambe in tema di minimo edittale per il reato di oltraggio oggetto di una parziale dichiarazione di incostituzionalità riferita proprio al minimo della pena edittale).

Questi principi sono stati di recente ribaditi, proprio in tema di riduzione del minimo edittale per i reati concernenti il traffico di sostanze stupefacenti, da Cass., sez. 6, il ottobre 2006 n. 37887, Duetto, rv. 235588, che ha condivisibilmente affermato che, nel caso della modifica di cui ci stiamo occupando, ove il nuovo giudice ritenga che il nuovo minimo edittale non sia adeguato alla gravità del fatto, ben può applicare una pena secondo una quantificazione intermedia tra il vecchio e il nuovo minimo edittale.

Questa conclusione si fonda anche sulla considerazione che il minimo precedentemente previsto poteva essere adeguato al caso giudicato, in applicazione dei criteri indicati nell’art. 133 c.p., ma il nuovo minimo potrebbe non esserlo.

4) Alle considerazioni in precedenza svolte consegue il rigetto dei ricorsi con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Quarta Penale, rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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