Cons. Stato Sez. IV, Sent., 03-05-2011, n. 2639 Edilizia e urbanistica Ricorso per revocazione Opere pubbliche

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il ricorrente agisce per la revocazione della sentenza di questa Sezione n. 2227 del 2009 deducendo, con l’atto introduttivo, evidenti e determinanti errori di fatto e, con il ricorso integrativo, motivi aggiunti di cui ai punti 1 e 3 dell’art. 395 c.p.c..

Dopo costituzione delle parti intimate e scambio di memorie e replica del ricorrente, il ricorso è stato posto in decisione all’udienza del 18.01.2011.

La decisione impugnata ha accolto i riuniti ricorsi proposti dal Comune di Reggio Calabria e dal Fallimento "I. P. s.r.l." avverso la sentenza con la quale il TAR per la Calabria aveva accolto la domanda del D. M. di annullamento degli atti con i quali il predetto Comune aveva revocato la concessione edilizia n. 39/1987 – rilasciata, per la costruzione di un complesso polifunzionale per attività sportive, tempo libero e residenza speciale, al medesimo D. M. e poi volturata all’acquirente di parte del terreno edificatorio società I. P. s.r.l., successivamente fallita -, ordinato la demolizione del complesso immobiliare realizzato (denominato Kalamon), indi acquisito al patrimonio pubblico detto immobile, del quale, nel frattempo, il D. M. aveva acquistato una quota indivisa del 25%.

La sentenza riferisce che il Tar aveva ritenuto la parziale e non totale difformità dell’opera e, comunque, che le variazioni non fossero da ritenere essenziali ed affermato che l’amministrazione avrebbe dovuto esprimersi compiutamente in ordine alla ritenuta inapplicabilità alla fattispecie dell’art. 34 D.P.R. 380/2001 in funzione della demolizione delle sole parti difformi; accoglie gli appelli condividendo, sulla base dell’esame e della valutazione delle emergenze delle consulenze tecniche versate in atti, la censura, ritenuta assorbente, con la quale si opponeva che, viceversa, si versava in un caso di totale difformità dell’opera dalla concessione ovvero di variazioni essenziali, con conseguente preclusione della applicabilità dell’art. 34 cit., recante la più favorevole disciplina degli interventi eseguiti in difformità parziale.

Con il ricorso introduttivo, il dr. D. M., rammentata la nozione di "errore di fatto" revocatorio quale definita dalla giurisprudenza (in argomento v., recentemente, Cons. Stato A.P. 17 maggio 2010, n. 2), afferma che la sentenza ne sia viziata:

a) nella parte in cui avrebbe ritenuto che i lavori sull’immobile fossero stati eseguiti dal D. M. stesso, a carico (anche) del quale è stata irrogata la sanzione, anziché da terzi, ossia materialmente dalla P. su richiesta del Ministero dell’Interno, per l’uso degli uffici della Direzione Investigativa Antimafia sede di Reggio Calabria, con la conseguenza che non è stata fatta applicazione del principio giurisprudenziale secondo il quale, ferma restando la sanzione della demolizione, l’acquisizione gratuita dell’area di sedime non può applicarsi a carico del proprietario ignaro dell’abuso od impossibilitato ad opporvisi;

b) nella parte in cui avrebbe ritenuto che le relazioni tecniche dimesse dalle controparti fossero redatte da CC.TT.UU. anziché da CC.TT.PP.

I motivi di revocazione ulteriormente dedotti coi motivi aggiunti attengono:

a) al preteso dolo della P. in danno del D. M., per non aver la prima segnalato ai giudici di essere stata lei stessa ad eseguire materialmente i lavori che hanno reso abusivo l’immobile, sulla base degli ordini impartiti da Ministero dell’Interno, D.I.A. e Prefettura di Reggio Calabria, così violando il dovere di lealtà ed impedendo che il giudice, in quanto indotto in errore, potesse giungere a conoscenza di una corretta verità processuale (è di questo specifico motivo che il costituito Fallimento chiede la reiezione);

b) al ritrovamento di documentazione decisiva, a seguito di un recente accesso agli atti del fascicolo Kalamon, richiesto alla Prefettura di Reggio Calabria e funzionale alla difesa in altro giudizio (n. 220/10) pendente innanzi il TAR della Calabria per l’accertamento della conclusione, entro la data della pubblicazione della sentenza n. 2227/09 oggetto del presente giudizio revocatorio, ovvero mancata conclusione, da parte del Ministero dell’Interno, del procedimento ex art. 81, co. 2, d.p.r. 616/77 per la qualificazione dell’immobile utilizzato dalla sede operativa della D.I.A. di Reggio Calabria quale opera destinata alla difesa militare, nonchè per la condanna del Ministero stesso al risarcimento dei danni, da determinarsi in relazione all’esito del predetto accertamento e così alla perdita temporanea ovvero definitiva della proprietà; documentazione rinvenuta, questa, idonea a comprovare che i lavori che hanno reso l’immobile difforme da quanto concessionato e ne hanno determinato l’acquisizione, con l’area di sedime, al patrimonio del Comune sono stati ordinati alla esecutrice P., allora unica proprietaria, dalla stessa D.I.A. di Reggio Calabria e che quest’ultima riteneva occorrente un provvedimento da adottare ai sensi dell’art. 81 d.p.r. 616/77; tanto denoterebbe la piena fondatezza della censura di errore di fatto della sentenza impugnata, dimostrando la totale estraneità del D. M. e la piena e totale responsabilità dell’Amministrazione dell’Interno e della P., ossia che si verta riguardo ad abuso commesso da altri e nell’impossibilità del D. M. di opporvisi, trattandosi di opere svolte dalla D.I.A. su un immobile requisito ed ovviamente inaccessibile per motivi di segretezza e sicurezza (anche nelle premesse del ricorso introduttivo il D. M. espone di ignorare se le presunte modifiche siano state realmente eseguite, poiché impossibilitato a visionare l’immobile in quanto requisito dal Ministero e segretato per destinarlo a sede della D.I.A. e che, laddove vi siano state, si tratterebbe di modifiche apportate nelle parti "interne" dell’immobile).

Ricorso e motivi aggiunti sono infondati.

Quanto al primo errore di fatto segnalato, si rileva che la Sezione ha avuto ben chiara la circostanza di fatto (che il ricorrente contesta sia stata ritenuta inesistente), che sia stata dolosamente taciuta dal Fallimento "I. P. s.r.l." e richiedesse, per poter essere portata all’attenzione, il rinvenimento di nuovi documenti non prima ottenibili.

Nella sentenza si legge "E’ ben vero che la Prefettura di Reggio Calabria aveva chiesto alla società proprietaria dell’immobile, in corso di costruzione, l’esecuzione di alcuni lavori di adattamento intesi alla creazione di aree destinate alla protezione di personaggi a rischio e magistrati, in funzione della utilizzazione a sede D.I.A., e nel contempo aveva avanzato richiesta di applicazione dell’art. 81, comma 2, D.P.R. cit. (cfr. relazione prefettizia in data 30 marzo 1993); ma all’attivazione della procedura non ha fatto seguito (quantomeno, non vi è alcuna documentazione in atti su tale punto) alcun decreto che qualifichi l’immobile quale opera destinata alla difesa militare. E’ del resto orientamento consolidato di questo Consesso che la qualificazione di un’opera come destinata alla difesa militare richiede sempre una manifestazione di volontà del Ministero per i lavori pubblici dal momento che essa comporta la sottrazione dell’opera stessa al controllo del Ministero, altrimenti competente ad accertarne la conformità alla disciplina urbanistica o comunque a stabilirne la localizzazione (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 23 gennaio 1980 n. 1276; Sez. VI, 3 novembre 1999 n. 1712).".

Il chiaro riferimento, nel riportato passaggio della motivazione della sentenza, alla "società proprietaria" (che è evidentemente riferito alla P. s.r.l., allora proprietaria dell’immobile), e solo ad essa (non si parla anche di altro soggetto, ovvero di comproprietà), rende palese che neppure vi è stata la contestata falsa percezione di "una realtà del tutto insussistente (la realizzazione dell’opera abusiva da parte del D. M.)".

Come il ricorrente mostra, anche con richiami giurisprudenziali, di ben sapere, tuttavia, il proprietario dell’opera abusiva che non sia stato l’esecutore materiale delle opere che l’hanno resa tale è anch’egli soggetto ai provvedimenti sanzionatori ove non assolva l’onere di dimostrare in modo inequivocabile di essere del tutto estraneo, ossia di essere ignaro della realizzazione di abusi ovvero di essersene dissociato con le modalità offertegli dall’ordinamento.

Ebbene, sulla questione della pretesa estraneità del D. M. la sentenza si è pronunciata. Si legge: "Oppone inoltre l’appellato che, in ragione della effettuazione di opere di realizzazione di alloggi destinati a collaboratori di giustizia, segretate, non è in grado di riconoscere se esista o meno difformità delle stesse dalla concessione edilizia: appare ovvio, sulla scorta della elencazione degli abusi rilevati, che la questione non attiene alle opere interne, ma a ben altro."; nella parte precedente, la motivazione aveva, appunto, evidenziato che, rispetto alla concessione edilizia rilasciata al D. M., la "radicale diversità dell’intervento, per caratteristiche tipologiche, planivolumentriche… è chiaramente desumibile da una serie di elementi costitutivi (in particolare, aumento consistente di volumetria; mancata osservanza, e in misura consistente, degli indici di altezza massima, nonché delle distanze; edificazione in esubero rispetto al rapporto di copertura; realizzazione di corpi di fabbrica ulteriori rispetto al progetto; realizzazione interamente fuori terra del piano seminterrato; inosservanza dei prescritti limiti dimensionali) il cui insieme è all’evidenza espressione della realizzazione di un organismo edilizio integralmente diverso da quello assentito.".

Esula dall’ambito del presente giudizio di revocazione, non trattandosi di un terzo grado di giudizio di merito, ogni valutazione sulla condivisibilità o meno della decisione assunta sul punto della riferibilità dell’abuso al D. M., (che, del resto, non è il proprietario di un terreno o di un opera legittima sui quali terzi siano, a sua insaputa, intervenuti abusivamente, bensì l’acquirente di (una quota indivisa di) un complesso edilizio già abusivamente realizzato, ed in atto locato all’amministrazione dell’Interno, la cui tesi dell’inconsapevolezza dello stato di difformità del bene dal titolo edilizio, che egli ben conosceva per averlo egli stesso ottenuto, è stata disattesa con la sintetica ma assai eloquente indicazione che non trattavasi di difformità impercepibili perché relative ad opere interne e segretate, ma, appunto, di "ben altro" e le cui difese riferite alla possibilità che una autorizzazione ex art. 81 D.P.R. n. 616/77 sanasse la situazione legittimando la deroga alle prescrizioni urbanistiche sono state riscontrate col rilievo che non era stata fornita prova dell’esistenza di simile autorizzazione; lo stesso ricorrente, in effetti, a pag. 3 della memoria di replica, rammenta che nel ricorso in primo grado aveva riferito di essere "stato sempre a conoscenza del fatto che, rispetto alla concessione da lui ottenuta, I. P. S.r.l., società accreditata di Nulla Osta Lavori Speciali e unico soggetto che in provincia poteva eseguire opere di difesa militare, avrebbe dovuto apportare all’edificio delle modifiche al fine di renderlo confacente alle esigenze rappresentate dal Ministero", e di essere inoltre informato della esistenza de "l’impegno del legale rappresentante del P., al momento in cui fu resa unico proprietario dell’immobile, alla riduzione in pristino"; su detto impegno di ripristino dello stato legittimo, nel caso non venisse data l’autorizzazione ex art. 81 D.P.R. cit. v. anche nota Prefettura 30.3.93 in atti).

Per la stessa ragione non possono trovare ingresso in questa sede critiche alla decisione sulla totale e non solo parziale difformità delle opere (v. ricorso introduttivo) o doglianze (comparse in memoria) relative ad una pretesa carenza di istruttoria da parte dell’amministrazione comunale per verificare autonomamente se le opere risultassero effettivamente difformi (anche a prescindere dal rilievo del Comune che tratterebbesi di censure nuove); mentre restano inconferenti accenni a supposte responsabilità dell’amministrazione dell’Interno, che non è stata parte nel giudizio deciso con la sentenza della cui revocazione si discute, e alla valenza "confessoria" delle note della D.I.A. richiamate nei motivi aggiunti.

In conclusione, non si rinviene, quanto all’aspetto della materiale realizzazione e della responsabilità dei lavori abusivi, alcun errore di fatto che, ai sensi dell’art. 395 n. 4 c.p.c., possa dar luogo alla revocazione della sentenza, non essendovi stata alcuna errata percezione del contenuto degli atti del giudizio riguardo al soggetto richiedente i lavori ed all’esecutore materiale di questi ed essendosi la sentenza espressamente pronunciata sul punto di cognizione della riferibilità dell’abuso al D. M..

Neppure sussistono i presupposti di cui ai punti 1 e 3 dell’art. 395 c.p.c..

Non si è avuto il preteso errore del giudice sul fatto anzidetto, senza il quale neppure acquista rilevanza un ipotetico dolo della controparte (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 maggio 2008, n. 2620; id. 7 maggio 2009, n. 2841); né il ricorrente ha individuato comportamenti fraudolenti della P. in suo danno, soggettivamente diretti ed oggettivamente idonei a paralizzare la sua difesa ed a fuorviare il giudicante, essendo il lamentato "silenzio" di controparte sul fatto di essere stata lei stessa ad eseguire materialmente i lavori, su indicazione dell’amministrazione dell’interno, al più qualificabile come mera reticenza su aspetto che, del resto, il ricorrente aveva già posto in luce (basti vedere gli stralci del ricorso del D. M. in primo grado riportati nella sua memoria di replica del 27.12.2010).

Quanto ai documenti in relazione ai quali viene avanzata la domanda di revocazione ai sensi del punto 3 dell’art 395 c.p.c., si rileva, innanzitutto, che il tardivo ritrovamento, considerata la possibilità di proporre nel giudizio istanze istruttorie nonché di attivarsi, al di fuori di esso, esercitando il diritto di accesso – di cui il ricorrente si è appunto avvalso, ma solo recentemente, come riferito nel ricorso integrativo -, dipende dal medesimo ricorrente e non può imputarsi a causa di forza maggiore o a fatto dell’avversario; va, inoltre, escluso il carattere decisivo di tale documentazione, che nulla aggiunge, per quanto rilevante nel presente giudizio (che non vede come parte il Ministero dell’Interno), a quanto già noto, per essere stato riferito dal D. M. e considerato nella sentenza impugnata, ossia che le opere sono state realizzate dalla società P. per conformare l’immobile alle esigenze dell’amministrazione locataria.

Infondata, infine, è la affermazione della sussistenza di un ulteriore errore di fatto revocatorio della sentenza impugnata "nella parte in cui ha fatto proprie (sempre "erroneamente") le considerazioni svolte nelle relazioni istruttorie versate in atti dalle controparti e provenienti da soggetti ritenuti (e sempre "erroneamente") CC.TT.UU. anziché CC.TT.PP.".

Non si riscontra un reale "abbaglio", tantomeno decisivo, circa la veste dei redattori delle relazioni tecniche dimesse in giudizio, mentre la critica che il giudicante abbia "erroneamente" fatto proprie le considerazioni svolte in tali relazioni eccede l’ambito di un giudizio di tipo revocatorio, in quanto attiene ad un presunto errore di giudizio ed è tesa all’obiettivo della riforma di una decisione, avente rilievo centrale, assunta con la sentenza di secondo grado impugnata.

Con quest’ultima, i giudici hanno ritenuto che le relazioni istruttorie versate in atti – sinteticamente elencate, tra parentesi, come segue: "(relazione arch. B., CTU della Curatela fallimentare; relazione geom. S., CTU nel giudizio penale; relazioni dei tecnici comunali in sede di parere di non sanabilità)" – orientassero "per un quadro d’assieme degli interventi connotato da difformità totale o variazioni essenziali rispetto al progetto approvato".

Ebbene, l’indicazione parentetica suddetta, tenuto conto della sua estrema sinteticità, non appare neppure inesatta – e, come tale, eventualmente suscettibile di rivelare una percezione fallace – riferendosi, il termine CTU, al carattere pur sempre officioso della nomina da parte del giudice delegato in ambito fallimentare, e, la locuzione "della Curatela fallimentare", alla parte del giudizio cui la relazione tecnica era riferibile; così come è un ufficio giudiziario la Procura, cui il ricorrente riferisce la nomina del geom. S..

Non è stata, comunque, la veste dei compilatori delle relazioni tecniche dimesse a risultare decisiva nella formazione del convincimento del giudicante, ma l’analiticamente, per quanto sinteticamente, riferito insieme delle indicazioni di fatto, sulla consistenza di quanto assentito e di quanto, invece, realizzato, contenute nelle relazioni, delle valutazioni compiute dai tecnici, della concordanza delle indicazioni degli elementi rilevanti fornite dalle varie relazioni; il tutto in connessione al rilievo che "Le risultanze degli espletati accertamenti tecnici vengono solo genericamente contestate dal D. M., che a puntuali rilievi non oppone elementi di pari consistenza", ed alla confutazione delle specifiche argomentazioni da quest’ultimo prospettate.

Il preteso errore definitorio della provenienza delle consulenze, quindi, appare eminentemente un pretesto per una rivisitazione del punto nodale del giudizio che ha dato luogo alla soccombenza dell’odierno ricorrente in revocazione.

Egli sostiene, ancora, la sussistenza dell’ulteriore, decisivo, errore di fatto consistente nell’aver i precedenti giudici ritenuto che le relazioni "riguardassero l’immobile destinato alla Sede della D.I.A. di Reggio Calabria (oggetto di quella e della presente azione), anziché (sempre come era) un immobile destinato alla Caserma dei Carabinieri"; ma, ancora una volta, la questione prospettata verte su un fatto che ha costituito un punto controverso e su quale la sentenza si è pronunciata, disattendendo i rilievi del D. M. (v. punto IX ove si legge "Si afferma che la relazione B. aveva sollevato l’eccezione di non corrispondenza tra la superficie utilizzata quale lotto di riferimento e quella effettivamente disponibile per la società proprietaria con riferimento ad altro immobile (destinato a Caserma dei carabinieri e non per il fabbricato destinato a sede della D.I.A.): la stessa lettura della pagina 29 della relazione B. evidenzia invece che l’eccezione è riferita espressamente al fabbricato D.I.A.).

Ricorso e motivi aggiunti vanno, in conclusione, respinti.

Si ravvisano, nondimeno, in considerazione delle particolarità della fattispecie su cui si è innestato il giudizio e delle reciproche posizioni delle parti, giuste ragioni per disporre la compensazione delle spese.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso per revocazione ed i motivi aggiunti, come in epigrafe proposti, li respinge.

Compensa le spese.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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