Cons. Stato Sez. IV, Sent., 03-05-2011, n. 2621Concessione per nuove costruzioni

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1.- Le sig.re L. B. e P. N., premesso di essere, in Comune di Macerata, rispettivamente la usufruttuaria e la comproprietaria di un edificio confinante con un frustolo di terreno destinato da oltre trent’anni a verde pubblico, impugnavano innanzi al TAR Marche:

– la denunzia di inizio d’attività edilizia presentata l’11 settembre 2002 (prot. n.25949, con inizio dal 2 ottobre 2002) con la quale la sig.ra M. A. dichiarava di voler realizzare sul predetto frustolo di terreno alcune opere edilizie, costituite da recinzioni, muri di cinta e cancellate (accesso carrabile o pedonale con muretti di cinta e cancelli), con inizio dell’attività dal 2 ottobre 2002;

– la nota 16 settembre 2002 prot. n.25949/2002, con la quale il dirigente del servizio chiedeva l’integrazione della documentazione presentata;

– la nota 7 ottobre 2002, prot.25949, con il quale il dirigente comunale rilasciava il "nulla osta" all’esecuzione dei lavori;

– l’atto 22 ottobre 2002 con il quale il dirigente del servizio dichiarava i lavori in corso conformi alla DIA 11 settembre 2002 n.25949.

Le ricorrenti proponevano altresì:

– azione per la declaratoria della nullità assoluta, per violazione dell’art.1418 codice civile, del contratto intervenuto (previa autorizzazione giuntale n.324/2001) tra i signori Baleani, il Comune di Macerata e la sig.ra M. A. (e comportante il trasferimento a quest’ultima della proprietà dell’area interessata dai lavori, con contestuale pagamento del prezzo stimato in favore del Comune di Macerata, stimato dai suoi uffici);

– domanda di riduzione in pristino e risarcimento dei danni riportati.

A sostegno del ricorso le esponenti deducevano:

– la violazione dell’art.1 e dell’art.4 della L. n.10 del 28 gennaio 1977, dell’art.4, co. 7, 8, 9 e 10 del D.L. n.398 del 5 ottobre 1993, nella L. n.493 del 4 dicembre 1993, con successive modificazioni di cui all’art. 2, co.60, della L. n.662 del 23 dicembre 1996 e del D.L.n.669 del 23 dicembre 1996, così come convertito nella L. 28 febbraio 1997 n.30, dell’art.1, co. 6, della L. 21 dicembre 2001 n.443, nonché degli artt. 2 e 5 del regolamento edilizio del Comune di Macerata. Le opere realizzate avrebbero dovuto comportare il rilascio di una concessione edilizia che comunque sarebbe stata illegittima perché avrebbe consentito una modifica della destinazione a verde pubblico dell’area interessata dall’intervento, senza che vi fosse stata una corrispondente variante nel piano regolatore generale;

– le opere realizzate sarebbero comunque illegittime in quanto i muri sono di sostegno (e non di recinzione), sicchè avrebbero dovuto rispettare la distanza legale minima di ml 5.00;

– l’atto di vendita del frustolo di terreno, stipulato tra le parti A. e Baleani, sarebbe illegittimo, anche per la violazione dell’art.1428 c.c..

Con la sentenza epigrafata il Tribunale amministrativo, rigettate le eccezioni di difetto di giurisdizione, tardività ed improponibilità, dichiarava il ricorso inammissibile contro la DIA (richiamandone la natura non provvedimentale) e respingeva l’azione di nullità del contratto di vendita del frustolo e l’azione risarcitoria.

Di qui l’appello proposto dalle sig.re B. e Nardi, affidato ai motivi trattati nel prosieguo dalla presente decisione.

Si sono costituiti nel giudizio il Comune e la Provincia di Macerata, nonchè la sig.ra A. che, resistendo al gravame, ha altresì proposto ricorso incidentale (v. atto dep 16.12.2004) contestando la sentenza per aver dichiarato inammissibile il ricorso B. (anzicchè di rigettarlo nel merito) e limitatamente alle spese del giudizio; l’appellante incidentale ha esposto in successiva memoria 20.12.2010 le proprie argomentazioni difensive, eccependo l’inammissibilità del ricorso in appello per omessa notifica a tutte le parti resistenti, con riferimento alla pretesa nullità del contratto A.BaleaniComune di Macerata.

Alla pubblica udienza del 28 gennaio 2011 il ricorso è stato discusso e trattenuto in decisione.
Motivi della decisione

1.- La controversia all’esame della Sezione verte sulla legittimità di atti con i quali il Comune di Macerata ha reso possibile la realizzazione da parte dell’odierna appellata di opere edilizie (consistenti in recinzione, muro di cinta e cancellata) su un resede di terreno compreso tra la proprietà dell’appellata stessa e quella dell’appellante B.. La vertenza coinvolge il contratto con il quale la sig.ra A., dopo aver chiesto apposita autorizzazione al Comune, ha acquistato la proprietà dell’area sulla quale gli interventi in contestazione sono stati realizzati. Va inoltre precisato che, come risulta dagli atti, l’area in questione era stata in precedenza destinata a verde pubblico da un piano – convenzione di lottizzazione (intervenuta tra il Comune di Macerata e gli aventi causa dell’appellata), con previsione della sua successiva cessione gratuita al Comune, cessione poi non avvenuta.

2.- Con la sentenza impugnata, come già precisato in fatto, il TAR, disattese le censure processuali opposte al ricorso, ha dichiarato inammissibile l’impugnativa contro la DIA (richiamandone la natura non provvedimentale), ed ha respinto l’azione di nullità del contratto di vendita del frustolo interessato dalle opere edilizie contestate e l’azione risarcitoria.

3. Ciò premesso, precede le altre questioni sollevate dall’appello (ed inerenti la legittimità del titolo edilizio emesso in favore della sig.ra A.) quella sulla validità del contratto di trasferimento dell’area, poiché suscettibile di incidere su un presupposto, quale la disponibilità del terreno, indispensabile per l’ottenimento del titolo edilizio contestato.

Sul punto il TAR, rigettata l’eccezione di difetto di giurisdizione amministrativa sul contratto "de quo", ha respinto l’azione di nullità del rogito di compravendita A.Baleani (autorizzato dal Comune con la delibera citata) rilevando:

– la destinazione a verde pubblico di un terreno derivante da un piano di lottizzazione, con previsione di una successiva cessione gratuita al Comune, avrebbe l’effetto solo di inserire il bene nel patrimonio del Comune, senza attribuirgli i caratteri che ne determinano la collocazione nella categoria dei beni di sua proprietà, potendo questa dipendere esclusivamente da un’effettiva e concreta destinazione a pubblico servizio;

– nella specie, il Comune, quale potenziale destinatario del bene, ma non ancora proprietario, si è limitato ad incassare il prezzo della compravendita avvenuta tra privati;

– infondato è conseguentemente l’assunto di avvenuta cessione tra privati di un bene appartenente al demanio o al patrimonio del Comune.

Queste argomentazioni sono contrastate dall’appellante, la quale ribadisce la tesi che:

– la destinazione a verde pubblico dell’area e l’intervento di un’autorizzazione Comunale alla cessione, determinerebbero la nullità dell’atto di cessione tra privati (conoscibile dalla giurisdizione amministrativa);

– il terreno sarebbe rimasto nella proprietà comunale (demaniale o patrimoniale indisponibile) circostanza che, indicata peraltro nella delibera di autorizzazione, comportava comunque non poteva essere alienato senza una variante di PRG, eludendosi altrimenti la destinazione stabilita dallo strumento urbanistico

Nel procedere all’esame di queste censure, il Collegio ritiene di dovere prescindere dal trattare le collegate eccezioni processuali (qui riproposte dall’appellata) e consistenti nel difetto di giurisdizione e di notifica dell’appello ad altri soggetti (i sigg. B.) che, in questa fase sarebbero controinteressati rispetto al gravame; ciò in quanto le eccezioni contrastano un motivo d’appello che risulta infondato nel merito.

Secondo noti principi del diritto civile il contratto di cessione di bene immobile ha effetto tra le parti ed ha efficacia reale, e nella specie ha determinato l’acquisto della proprietà del "frustolo" in favore della ditta A. dai signori Baleani e non certo del Comune, il cui titolo di proprietà non emerge da alcun atto; va quindi chiarito che contrariamente a quanto affermato dall’appellante, il Comune non ha proceduto ad alcuna vendita di proprietà. Pertanto la censura è da respingere per assoluto difetto di presupposto fattuale. Il Collegio pertanto conferma il rigetto della censura di nullità, svolta nel terzo mezzo d’appello.

3.1 – Occorre ora trattare delle problematiche sollevate dall’appello in ordine alla contestazione del titolo edilizio rilasciato alla sig.ra A. per realizzare le opere di cui si controverte.

Il gravame avversa la sentenza del TAR deducendo che:

– la DIA è illegittima, sia in quanto le opere non potrebbero essere assentite con tale tipo di procedimento, sia in quanto l’area su cui sono state autorizzate è destinata a finalità pubbliche, quale la previsione di uno spazio a verde;

– il titolo della sig. A. è viziato anche per violazione della distanza che le opere debbono osservare, ai sensi della normativa locale, dal confine della proprietà B..

3.1.1.- In merito deve escludersi anzitutto la rilevanza del primo motivo d’appello, svolto contro il capo della sentenza che si è diffusamente intrattenuto sulla natura della DIA (come è noto a lungo controversa in giurisprudenza), per concludere in favore dell’inammissibilità del ricorso, atteso che alla dichiarazione di inizio di attività edilizia, secondo una parte della giurisprudenza, non potrebbe riconoscersi il carattere di provvedimento amministrativo impugnabile (come invece agli atti repressivi della DIA), ma solo quello di mero comportamento. Al riguardo, prescindendo qui dall’esistenza di orientamenti giurisprudenziali del Consiglio di Stato che si muovono in senso diverso alla tesi accolta dal TAR, il Collegio deve osservare che nella specie il procedimento promosso dalla DIA ha poi visto l’emanazione di due espliciti atti, anch’essi impugnati e costituiti da:

– la nota 7 ottobre 2002, prot. 25949, con il quale il dirigente comunale ha rilasciato il "nulla osta" all’esecuzione dei lavori;

– l’atto 22 ottobre 2002 con il quale il dirigente del servizio ha dichiarato i lavori in corso conformi alla DIA 11 settembre 2002 n.25949.

Non v’è dubbio quindi che tali atti, oggetto di impugnazione, rivestono una valenza che, nel caso in esame, determina il superamento dei problemi teorici sopra richiamati, poiché è da essi (e non dalla dichiarazione di inizio di attività edilizia) che origina il titolo amministrativo a compiere gli interventi contestati dall’appellante. Con riferimento all’atto 22.1.2002 è del resto lo stesso TAR ha riconoscere che "la nota ha natura provvedimentale ed è il sostanziale oggetto delle censure dedotte in ricorso".

3.1.2.- La sentenza va confermata sotto l’altro aspetto procedimentale, vale a dire limitatamente alla ammissibilità del procedimento mediante DIA per la tipologia dei lavori assentiti, in luogo del permesso di costruire.

L’appellante ripropone la tesi della necessità della concessione edilizia per muri di recinzione e cancellate, trattandosi a suo avviso di veri e propri di muri di contenimento e richiamando la giurisprudenza che, per questa ragione, tale necessità ha affermato.

Il motivo è infondato.

Con particolare riferimento al muro, il giudice di prime cure muove da dall’art.878 c.c., in base al quale è muro di cinta, quello che non ha un’altezza superiore a tre metri. Aggiunge la sentenza che, secondo la relazione redatta da un tecnico di fiducia della parte ricorrente, è stato realizzato "un muretto" che ha la consistenza di una testa di mattone ed un" "altezza notevolmente inferiore ai tre metri" (per essere nel punto massimo pari a ml.1,6). L’orientamento, che si fonda su parametri da ritenere corretti, merita di essere condiviso, osservando che né in primo grado né in appello i ricorrenti hanno documentato che il muro superi i tre metri, conservando quindi il manufatto la natura di muro di cinta. Conseguentemente per tale manufatto (ma anche per le altre opere contestate) va condivisa la possibilità di applicare l’art.4 del D.L. 5 ottobre 1993 n.398 (convertito dalla L. 4 dicembre 1993 n.493, modificato dall’art.5, D.P.R. 22 aprile 1994, n.425, sostituito dall’art.2, comma 60, L. 23 dicembre 1996, n.662, nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall’art.10 del T.U. 6 giugno 2001 n.380); tale norma, al co. 7°, ha infatti subordinato alla denunzia d’inizio d’attività gli interventi ivi indicati tra i quali "recinzioni, mura di cinta e cancellate". Le opere in questione potevano quindi essere oggetto di procedimento mediante DIA.

3.2.- Debbono trattarsi ora le altre questioni riproposte dall’appello, con riferimento alla sostenuta illegittimità del titolo edilizio sotto gli altri due aspetti sollevati, vale a dire del rispetto della destinazione a verde pubblico e della distanza dal confine della proprietà dell’appellante. In proposito il Collegio osserva quanto segue.

3.2.1.- Come sopra accennato, la realizzazione di opere edilizie stabili quali "recinzioni, mura di cinta e cancellate", è assentibile con DIA ma ciò non comporta "ex se" che nella formazione del titolo sia legittimo derogare alla destinazione urbanistica dell’area interessata, salvo che si dimostri che il Comune abbia rinunziato a perseguirla con gli strumenti prescelti o l’abbia modificata con variante del regime urbanistico del terreno, o che il vincolo, in quanto preordinato all’espropriazione, risulti decaduto. Quest’ultima tesi viene sostenuta dall’appellata sulla base dell’art.9 del dpr n. 380/2001 (decadenza per decorso del quinquennio dalla previsione), sicchè la sentenza gravata non sarebbe condivisibile ove ribadisce che il vincolo a verde pubblico non è venuto meno (anche se poi lo ritiene superato in ragione della modesta entità delle opere stesse).

Il motivo proposto è infondato, poiché il vincolo, per le ragioni che seguono, non era più operante alla data del perfezionamento della DIA; per converso è da accogliere la tesi dell’appellata sul venir meno del vincolo, ma per ragione diversa da quella indicata. Osserva in proposito il Collegio che l’originaria destinazione a verde dell’area compravenduta è infatti venuta meno in forza del contratto di trasferimento della proprietà (atto nel quale soggetto è intervenuto anche il Comune) che ha determinato, in tutta evidenza, una modificazione della convenzione di lottizzazione. In particolare, la destinazione a verde pubblico avrebbe potuto realizzarsi (con la preventivata cessione a completamento degli obblighi già realizzati dal costruttore in base al piano) solo se il Comune non avesse a ciò rinunziato intervenendo nello stesso contratto BaleaniA., e preferendo di monetizzare la previsione a verde pubblico (incaasndo il valore dell’area), fornendo peraltro le motivazioni della sua scelta nella cennata delibera n. 324/2001. Non si tratta quindi, come afferma l’appellata, di sopravvenuta decadenza (ex art. 9 dpr n.380/2001) di vincolo espropriativo, ma di estinzione di vincolo previsto da fonte pattizia, per effetto di nuova pattuizione a disciplina della lottizzazione.

In questo senso deve quindi confermarsi l’assunto del TAR ove afferma (chiarendo il precedente passaggio della motivazione) che, in relazione all’atto di cessione, il Comune, ancora nella mera veste potenziale destinatario del bene (ma non ancora proprietario) si è limitato ad incassare il prezzo della compravendita avvenuta tra privati; ma va anche precisato che il Comune, come risulta espressamente dal contratto, ha con ciò liberato i venditori dal residuo obbligo convenzionale, quindi rinunziando ad ogni prospettiva di acquisire in proprietà l’area in questione, come inizialmente previsto dalla lottizzazione. Del resto è noto il principio per il quale, nel caso della convenzione di lottizzazione, le destinazioni stabilite con atto convenzionale, e non da strumento urbanistico unilaterale, conservano efficacia sino a quando il soggetto onerato per la loro realizzazione non si liberi degli obblighi assunti realizzandoli, o questi vengano meno per effetto di pattuizione estintiva intervenuta con l’accordo della controparte Comune a modifica di quanto inizialmente concordato.

Deve quindi rigettarsi anche la censura dell’illegittimità della DIA per violazione di una destinazione edilizia dell’area interessata, non più sussistente.

3.2.2.- A diversa conclusione deve pervenirsi con riferimento al motivo di primo grado che lamentava la violazione della distanza di 5 m.l. dal confine della proprietà delle ricorrenti. La censura, riproposta complessivamente a carico delle opere a p.18 del ricorso in appello, è stata respinta dal TAR perché i manufatti assentiti sono stati ritenuti accessori della costruzione principale ed essendo per questo soggetti a DIA, non poteva ad essi applicarsi l’art.65, comma 3, del regolamento edilizio, che impone una distanza di 5 m.l. dal confine. Il motivo d’appello è però meritevole di accoglimento, proprio in applicazione dell’art. 65. La tesi del TAR, infatti, non è condivisibile, per le ragioni che seguono.

L’orientamento contrasta anzitutto con la formula utilizzata dall’art. 65 che, rivolgendosi a "tutti gli interventi edilizi", esclude oggettivamente che possa operarsi, ai fini in questione, un differente trattamento per gli interventi assentibili mediante DIA ai sensi di legge; questa possibilità, infatti, rappresenta solo una forma procedimentale accelerata di realizzazione degli interventi e non può perciò costituire "ex se" una ragione di deroga alle norme sostanziali che li regolano. Nè un ostacolo giuridico all’applicazione dell’art. 65 può venire dagli art. 878 ed 873, primo comma, cod.civ., in forza dei quali i muri di cinta debbono essere tenuti a distanza non inferiore ai 3 m.l.; dette disposizioni sono infatti inapplicabili al caso in esame, poiché la norma del r.e., (legittimamente fondandosi sulla derogabilità prevista secondo comma dell’art. 878) stabilisce una diversa e superiore distanza minima, costituita dai 5 m.l.. Controbatte la tesi l’appellata A., argomentando che gli interventi sarebbero in realtà rispettosi della distanza di 5 m.l. dal confine giuridico e non dal confine di fatto raggiunto dalla proprietà dell’appellante, dovendosi tenere conto che la B. avrebbe a sua volta indebitamente avanzato il proprio confine giuridico invadendo di fatto parte dell’area oggetto del contestato intervento edilizio. Ma,nel merito, a differenza della tesi dell’appellante (che viene suffragata da una planimetria dei luoghi sulle distanze degli interventi assentiti) deve osservarsi che la parte appellata non fornisce alcun principio di prova del fatto sostenuto, sicchè l’eccezione che sostiene l’avanzamento del confine B. in via di fatto non può considerarsi dimostrata ed avere quindi rilievo al fine di determinare il rispetto della distanza stabilita dalla norma.

La censura d’appello sulla illegittimità della DIA per violazione della distanza e della conseguente erroneità sul punto della sentenza del TAR, deve pertanto essere accolta, atteso che dalla planimetria esibita in atti dalla parte ricorrente risulta che tutti gli interventi sono stati realizzati (in tutto o in parte) a distanza inferiore ai 5 ml dal confine in proprietà B. ed imposti dall’art. 65 del regolamento edilizio.

4.- Deve ora trattarsi dell’azione risarcitoria, rigettata dal TAR sul presupposto della legittimità degli interventi assentiti. L’azione, riproposta in appello ed espressamente nella forma della riduzione in pristino, deve essere accolta, in ragione della cennata violazione della distanza.

Il permanere di opere edilizie erette in contrasto con la distanza prevista dal r.e. integra un indubbio danno per la proprietà confinante, riducendo specularmente (in favore della proprietà frontista) lo spazio fisico a disposizione della proprietà confinante, che subisce l’avvicinamento dei manufatti indebitamente autorizzati. La demolizione rimuove oggettivamente tale effetto e costituisce perciò misura risarcitoria specifica.

Altre ed ulteriori ragioni di danno meritevoli di tutela non sono state prospettate e non possono dare luogo ad altri titolo risarcitori.

5.- Conclusivamente, l’appello principale deve essere respinto con riferimento al capo di sentenza che ha rigettato l’azione di nullità, e che ha respinto la domanda risarcitoria.

Il gravame va invece accolto (per la violazione della distanza) limitatamente alle azioni di annullamento del titolo edilizio e di risarcimento del danno nella forma ripristinatoria, mediante demolizione delle opere illegittimamente assentite.

6.- L’appello incidentale è rivolto contro l’autonomo capo della sentenza che ha regolato le spese del giudizio di primo grado, disponendone la compensazione, anziché disporre la condanna alle stesse per infondatezza del ricorso. L’impugnativa è da rigettare tenuto del fatto che, seppur in parte il ricorso era da ritenersi fondato, sicché sussistevano gli estremi per disporre la compensazione del giudizio; questa viene peraltro confermata (infra n. 7) dalla presente decisione, che le regolamenta unitamente alle spese del giudizio d’appello e come segue.

7.- Sussistono giuste ragioni per disporre la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio, attesa sia la sufficiente complessità delle questioni sollevate e trattate, sia la soccombenza parziale.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione IV), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe:

1.- accoglie l’appello limitatamente alle azioni di annullamento e di risarcimento del danno nella forma ripristinatoria dello stato dei luoghi; per l’effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado, annullando la nota 7 ottobre 2002, prot.25949 e l’atto 22 ottobre 2002, ed accogliendo l’istanza risarcitoria, mediante demolizione di tutte le opere realizzate.

2.- respinge l’appello con riferimento al capo di sentenza che ha respinto l’azione di nullità.

3.- dichiara interamente compensate tra le parti le spese di entrambi i gradi di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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