Cons. Stato Sez. IV, Sent., 03-05-2011, n. 2620 Condono Edilizia e urbanistica

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con il ricorso in esame, il Comune di Bologna appella la sentenza 8 aprile 2004 n. 504, con la quale il TAR EmiliaRomagna, sede di Bologna, sez. II, ha deciso, previa riunione, quattro ricorsi proposti dal sig. E. M., accogliendo il primo di essi e dichiarando l’improcedibilità degli altri tre per sopravvenuta carenza di interesse alla decisione.

Con il primo ricorso veniva impugnato il provvedimento con il quale il Sindaco di Bologna – in relazione a domande di condono per il frazionamento di taluni locali seminterrati e loro mutamento d’uso con destinazione abitativa, presentata dal M. – premessa la loro condonabilità, ordinava il ripristino a cantina dei locali in oggetto e ne dichiarava l’inabitabilità.

Con i successivi tre ricorsi, venivano impugnate altrettante concessioni edilizie in sanatoria riguardanti gli immobili seminterrati suddetti.

Con la sentenza appellata, il Tribunale ha ritenuto che, ai fini del rilascio di concessione edilizia in sanatoria, "gli obblighi di verifica… permanenti in capo ai Comuni riguardano esclusivamente l’osservanza di norme di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali e rispettiva normativa tecnica, mentre i requisiti fissati da norme regolamentari (in maggior parte regolamenti comunali) ben possono essere derogati ex art. 35, comma 20, della legge n. 47/1985".

Poiché, come affermato in sentenza, è stato "rilevato il contrasto delle cantine di cui si tratta unicamente con norme dei regolamenti comunali edilizio e di igiene (in materia di aerazione e illuminazione), dal quale contrasto si è poi, sic et simpliciter, fatta derivare la violazione dell’art. 221 TULS (mancanza certificato di abitabilità) e dell’art. 222 (pregiudizio per la salute degli occupanti)", ne è conseguito l’accoglimento del primo ricorso.

Quanto agli ulteriori tre ricorsi, il Tribunale, stante il predetto accoglimento, ha ritenuto che è venuto a cadere il presupposto (precedente dichiarazione di inabitabilità) sul quale si fondano le limitazioni d’uso (esclusione di permanenza di persone) imposte con le concessioni edilizie in sanatoria, ed ha pertanto dichiarato i ricorsi improcedibili per sopravvenuto difetto di interesse.

Avverso la sentenza indicata, il Comune di Bologna propone i seguenti motivi di appello:

errata motivazione per falso presupposto di fatto e di diritto; ciò in quanto le cantine condonate "risultavano, e risultano tuttora, carenti dei requisiti igienici minimi stabiliti, non già e non solo dai regolamenti comunali, bensì proprio da fonti normative di livello primario", senza cioè "quei requisiti minimi di salubrità prescritti da disposizioni di legge in materia di abitabilità poste proprio a tutela della salute costituzionalmente garantita"; ed in tal senso, i regolamenti comunali esprimono principi generali inderogabili posti a tutela del bene salute.

Si è costituito nel presente giudizio il sig. E. M., che ha concluso richiedendo in ogni caso il rigetto dell’appello, stante la sua infondatezza.

Con memoria datata 9 dicembre 2010, il Comune di Bologna ha, tra l’altro, informato di un ulteriore sopraluogo svolto dalla ASL di Bologna, "all’esito del quale è emerso il permanere della grave carenza dei requisiti strutturali minimi di igiene e salubrità abitativa"

Con "note di udienza" in data 22 dicembre 2010, il M. insiste per il rigetto dell’appello, in particolare rilevando come "il contenuto del provvedimento generale del 1991… dichiara inabitabili alcune unità immobiliari, peraltro facendone salva una funzione d’uso accessoria a residenza con conferma quindi di una abitabilità – agibilità dal punto di vista igienico, essendo ovvio che anche i locali accessori debbano avere requisiti minimi di igienicità".

Ad analoga conclusione di reiezione perviene il M. con successive "note aggiunte d’udienza" depositate il 5 gennaio 2011.

All’odierna udienza, la causa è stata riservata in decisione.
Motivi della decisione

L’appello è fondato e deve essere, pertanto, accolto, con conseguente riforma della sentenza appellata, nei sensi di seguito esposti.

Il punto di diritto sul quale si fonda la presente controversia riguarda l’esatta interpretazione dell’art. 35, comma 20 (tale essendo divenuto, per successive interpolazioni, l’originario comma 14) della legge n. 47/1985.

La sentenza appellata (in accoglimento della prospettazione del ricorrente in I grado, oggi appellato, sig. M.) ha ritenuto che tale disposizione prevede che, nel rilasciare il cd. condono edilizio, si debba prescindere, ai fini del successivo rilascio della dichiarazione di abitabilità, da eventuali violazioni di norme regolamentari, conservando invece rilevanza ostativa al rilascio le sole norme di legge in materia di igiene e sanità.

Di modo che, avendo il primo dei provvedimenti impugnati fatto riferimento esclusivamente a norme dei regolamenti comunali, lo stesso sarebbe illegittimo, così come, di conseguenza, sarebbe illegittima l’apposizione di clausola limitativa all’uso abitativo, apposta in sede di emanazione di tre successive concessioni in sanatoria, riguardanti i medesimi immobili (ed oggetto dei tre ulteriori ricorsi in I grado, dichiarati improcedibili per sopravvenuto difetto di interesse, a seguito dell’accoglimento del primo ricorso).

L’art. 35, comma 20 (già comma 14) della legge 47/1985, prevede che:

"A seguito della concessione o autorizzazione in sanatoria viene altresì rilasciato il certificato di abitabilità o agibilità anche in deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari, qualora le opere sanate non contrastino con le disposizioni vigenti in materia di sicurezza statica, attestata dal certificato di idoneità di cui alla lettera b) del terzo comma e di prevenzione degli incendi e degli infortuni".

La giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, in merito all’interpretazione di detta norma, ha già avuto modo di affermare che il rilascio del certificato di abitabilità di un fabbricato, conseguente al condono edilizio, ai sensi del citato art. 35 comma 20 l. n. 47 del 1985, può legittimamente avvenire in deroga solo a norme regolamentari e non anche quando siano carenti condizioni di salubrità richieste invece da fonti normative di livello primario, in quanto la disciplina del condono edilizio, per il suo carattere di eccezionalità e derogatorio, non è suscettibile di interpretazioni estensive e, soprattutto, tali da incidere sul fondamentale principio della tutela della salute, con evidenti riflessi sul piano della legittimità costituzionale (Cons. Stato, sez. V, 15 aprile 2004 n. 2140; 13 aprile 1999 n. 414).

Tale orientamento risulta, peraltro, del tutto coerente con quello espresso dalla Corte Costituzionale, che, con sentenza 18 luglio 1996 n. 256, ha affermato che la deroga introdotta dall’art. 35, comma 20, "non riguarda i requisiti richiesti da disposizioni legislative e deve, pertanto, escludersi una automaticità assoluta nel rilascio del certificato di abitabilità… a seguito di concessione in sanatoria, dovendo invece il Comune verificare che al momento del rilascio del certificato di abitabilità siano osservate non solo le disposizioni di cui all’art. 221 T.U. delle leggi sanitarie (rectius, di cui all’art. 4 del D.p.r. 425/94), ma, altresì quelle previste da altre disposizioni di legge in materia di abitabilità e servizi essenziali relativi e rispettiva normativa tecnica…. Permangono, infatti, in capo ai Comuni tutti gli obblighi inerenti alla verifica delle condizioni igienicosanitarie per l’abitabilità degli edifici, con l’unica possibile deroga ai requisiti fissati da norme regolamentari".

Orbene, alla luce della giurisprudenza riportata e della lettura costituzionalmente orientata della norma, resa dalla Corte Costituzionale, appare evidente che non è possibile ritenere che l’art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 contenga una deroga generale ed indiscriminata alle norme che presidiano i requisiti di abitabilità degli edifici, e ciò proprio perché – come chiarito sempre dalla Corte Costituzionale con la sentenza citata (e già prima con sentenza n. 427/1995) – la detta legge intende contemperare valori tutti costituzionalmente garantiti, quali, tra gli altri, da un lato il diritto alla salute e dall’altro il diritto all’abitazione e al lavoro.

Una interpretazione che validi una deroga "generale" alla normativa a tutela della salute, con particolare riguardo al luogo di abitazione, si porrebbe, dunque, in contrasto non solo con l’art. 32 Cost., ma anche con quelle stesse esigenze di contemperamento tra diversi valori costituzionali, proprie della legge n. 47/1995.

Pertanto, mentre possono essere derogate norme regolamentari, non possono esserlo norme di legge, in quanto rispetto ad esse la deroga non è evocata nell’art. 35, comma 20.

Tanto precisato, appare evidente come – nel definire l’ambito della deroga – non può assumere esclusiva rilevanza il mero dato formale dell’appartenenza della disposizione (e della norma da essa espressa) ad una fonte primaria (come tale non derogabile) ovvero ad una fonte secondaria (quindi derogabile), ma occorre verificare se le specifiche condizioni igienicosanitarie violino norme regolamentari imposte, ad esempio, dai regolamenti comunali, quale ulteriore e specifica esigenza da essi rappresentata con riferimento a specificità di quel singolo territorio, ovvero si tratti di norme regolamentari che attuano precedenti disposizioni primarie.

In altre parole, l’art. 35, comma 20, l. n. 47/1985 ha inteso evitare che singole, specifiche disposizioni regolamentari – espressione di esigenze locali e comunque non attuative di norme di legge gerarchicamente sovraordinate – possano costituire, ex post, mediante il diniego del certificato di abitabilità, ostacolo al condono, e quindi alla regolarizzazione, delle costruzioni abusive, frustrando l’esigenza di "rientro nella legalità", che, per il tramite della detta legge, si è inteso attuare.

Ma, allo stesso tempo, la citata disposizione non ha inteso porre nel nulla la tutela igienicosanitaria degli edifici e, quindi, il diritto alla salute dei cittadini.

In tal senso, occorre ricordare che l’art. 218 R.D. 27 luglio 1934 n. 1265 (Testo unico delle leggi sanitarie) prevede, tra l’altro:

"I regolamenti locali di igiene e sanità stabiliscono le norme per la salubrità dell’aggregato urbano e rurale e delle abitazioni, secondo le istruzioni di massima emanate dal Ministro della sanità.

I detti regolamenti debbono contenere le norme dirette ad assicurare che nelle abitazioni:

a) non vi sia difetto di aria e di luce;

b) lo smaltimento delle acque immonde, delle materie escrementizie e di altri rifiuti avvenga in modo da non inquinare il sottosuolo;

c) le latrine, gli acquai e gli scaricatoi siano costruiti e collocati in modo da evitare esalazioni dannose o infiltrazioni;

d) l’acqua potabile nei pozzi, in altri serbatoi e nelle condutture sia garantita da inquinamento".

Appare evidente come tale disposizione, per un verso, affida ai regolamenti, in generale, di stabilire le norme per la salubrità delle abitazioni; per altro verso, impone a tali regolamenti (con ciò esprimendo un precetto normativo di rango primario) di assicurare che nelle abitazioni, tra l’altro, non vi sia "difetto di aria e di luce", vi siano congrui servizi igienici, etc.

Allo stesso modo, il successivo art. 221 prevede che possa essere concessa l’abitabilità ad un edificio, allorchè, tra l’altro, "non sussistano altre cause di insalubrità".

In definitiva, laddove le condizioni concrete di un immobile rendano il medesimo tale da non essere ritenuto abitabile, poiché esse si pongono in contrasto con il rispetto della dignità umana ( art. 2 Cost.) e del diritto alla salute ( art. 32 Cost.), o, più specificamente, con le condizioni richiamate dagli artt. 218 e 221 TULS, non rileva che la specifica condizione di inabitabilità trovi letterale richiamo in una norma di regolamento comunale (o che ad essere citata negli atti amministrativi sia proprio e solo quella norma), poiche quanto obiettivamente constatato contrasta direttamente con le indicate norme primarie e con il contenuto precettivo di disposizioni costituzionali.

Ne consegue che, in tali ipotesi, non può trovare applicazione la deroga prevista dal più volte citato art. 35, comma 20, l. n. 47/1985.

In tal senso si è già pronunciato questo Consiglio di Stato che, con la già citata sentenza n. 2140/2004, ha valutato che "le deficienze igienico sanitarie (umidità diffusa, scarsa aereazione ed illuminazione) riscontrate nei locali di cui si tratta dai competenti uffici della U.s.l. integrano la violazione di prescrizioni poste a tutela della salubrità degli ambienti adibiti ad abitazione da fonti normative di carattere primario, quali gli artt. 218 e 221 del T.U. delle leggi sanitarie 27 luglio 1934 n. 1265."

Né deve sorprendere la circostanza che il provvedimento abbia fatto salva una funzione accessoria dell’immobile – quindi condonandolo sul piano ediliziourbanistico ma interdicendolo all’uso abitativo – posto che è del tutto evidente come possano esservi ambienti accessori ad ambienti ad uso abitativo (ad es., cantine), per i quali sono ragionevolmente diversi i requisiti igienici

Come ha chiarito la Corte Costituzionale (sent. n. 256/1996 cit.), "d’altro canto, il certificato di abitabilità non deve necessariamente autorizzare in maniera uniforme tutto l’edificio o parte di esso, dovendo essere distinti gli usi abitativi o di semplice agibilità, quando alcuni locali siano utilizzabili solo come accessori o come locali non destinabili a usi abitativi stabili o come depositi o con altri usi non abitativi, quando non siano strutturalmente idonei sotto il profilo igienicosanitario per una abitabilità piena, ancorché oggetto di concessione edilizia in sanatoria."

Alla luce di quanto esposto, l’appello appare fondato, in quanto – considerate le condizioni igienicosanitarie desumibili dal provvedimento 27 giugno 1991 con il quale il Sindaco di Bologna ha dichiarato inabitabili i locali interrati siti in Bologna, via Barbieri 115, 117 e 119, impugnato con il primo dei ricorsi proposti in I grado – non poteva, contrariamente a quanto affermato dalla sentenza appellata, essere ritenuto pienamente applicabile l’art. 35, comma 20, l. n. 47/1985, dovendosi di conseguenza ritenere legittimo il provvedimento sindacale ora citato ed infondato il primo dei ricorsi proposti in I grado.

Ne consegue, pertanto, la riforma dell’appellata sentenza, nella parte in cui essa accoglie il ricorso proposto in I grado n. 1730/1991 r.g. e dichiara improcedibili per sopravvenuto difetto di interesse (proprio per effetto dell’accoglimento del primo) gli ulteriori ricorsi nn. 1744/2001, 1749/2001 e 1750/2001, da ritenersi parimenti infondati.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)

definitivamente pronunciando sull’appello proposto dal Comune di Bologna (n. 8116/2004 r.g.), lo accoglie e, per l’effetto, riforma la sentenza appellata..

Condanna l’appellato E. M. al pagamento, in favore del Comune di Bologna, delle spese, diritti ed onorari del doppio grado di giudizio, che liquida in complessivi Euro 6.000,00 (seimila/00), oltre accessori dovuti per legge.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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