Cass. civ. Sez. II, Sent., 09-08-2011, n. 17132 Esecuzione specifica dell’obbligo di concludere il contratto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

C.G., costruttore di alloggi di edilizia convenzionata agevolata ex lege n. 457 del 1978, in virtù di apposita convenzione stipulata con il comune di Grotte, stipulava con Aq.An., A.A., Co.Li.

A., M.A., M.S., P.A. M. e Co.Ma., altri e tanti contratti preliminari di vendita degli alloggi, con previsione di accollo interno del mutuo contratto dal costruttore. Sorta questione con i predetti promissari in ordine alle modalità di determinazione del prezzo, stabilito a misura e in base ai criteri previsti dalla convenzione, erano introdotti due giudizi (uno da parte di Aq.An. contro C.G., l’altro iniziato da quest’ultimo nei confronti dei restanti predetti promissari), di poi riuniti, aventi ad oggetto contrapposte domande ex art. 2932 c.c., previa esatta determinazione del prezzo di vendita, mentre la sola Co.Ma. chiedeva la risoluzione del preliminare, sostenendo esserle stato promesso il medesimo alloggio negoziato con P.A.M., e la condanna al pagamento di L. 80.000.000 quale doppio della caparra versata.

Il Tribunale di Agrigento con sentenza del 6.5.2000 dichiarava la nullità delle clausole dei contratti preliminari che ponevano a carico degli acquirenti le spese di erogazione e gestione del mutuo e di allacciamento alla rete elettrica, nonchè di quelle che stabilivano un prezzo di vendita superiore a un determinato calcolo della superficie complessiva, utile e non residenziale, calcolo in forza del quale il prezzo massimo per appartamento era stabilito in L. 92.414.335 (pari a L. 784.502 per mq. 117,8), da aggiornare in base agli indici Istat dei prezzi al consumo alla data del trasferimento. Il Tribunale agrigentino, inoltre, accoglieva la domanda di risoluzione presentata da Co.Ma., condannando C.G. a restituirle la somma di L. 80 milioni a titolo di doppio della caparra versata.

L’impugnazione proposta dal C. nei confronti di tutte le altre parti, ad eccezione di Co.An.Ma., era respinta dalla Corte d’appello di Palermo, con sentenza del 21.9.2004, che aderiva all’impostazione della sentenza di primo grado. In particolare, rilevava che la convenzione tra il C. e il comune di Grotte prevedeva che ogni alloggio avesse una superficie utile abitabile non superiore a 95 mq., una superficie non residenziale non superiore al 40% della prima e un box auto di mq.

18, per un costo globale a misura di L. 784.502 al mq., oltre aggiornamento Istat. Osservava, poi, che le spese di erogazione e di gestione del mutuo nonchè gli interessi di preammortamento non potevano cumularsi al costo della cessione, trattandosi di oneri finanziari gravanti sul costruttore, e che invece nei contratti preliminari erano stati illegittimamente ribaltati sui promissari.

Quanto all’impugnazione relativa al capo concernente la risoluzione del contratto preliminare stipulato dall’appellante con Co.

M., la Corte palermitana riteneva infondata la censura, diretta ad affermare che nel contratto preliminare le parti erano incorse in un errore materiale, osservando che la circostanza che la promissaria fosse stata immessa nel possesso di altro appartamento era irrilevante, poichè la modifica del contratto preliminare poteva avvenire efficacemente solo tramite altro atto scritto, e che la tesi dell’errore bilaterale era inverosimile, posto che il preliminare di vendita tra il C. e P.A.M. era successivo a quello stipulato con Co.Ma., sicchè l’errore materiale avrebbe riguardato tale secondo contratto. Inoltre, se si fosse trattato di errore materiale, il C. se ne sarebbe accorto al momento dell’immissione in possesso degli alloggi alle parti acquirenti, e se fosse stato in buona fede non avrebbe consegnato alla Co. un appartamento diverso, oltre tutto tacendo il fatto che l’immobile non corrispondeva a quello promesso.

Per la cassazione di quest’ultima sentenza ricorre C. G., formulando sei motivi.

Resistono con controricorso M.A., M. S., P.A.M., Aq.An. e C. G., quest’ultima quale erede di A.A., nonchè Co.Ma., che propone ricorso incidentale, senza tuttavia esplicitare alcun motivo di annullamento.
Motivi della decisione

Preliminarmente i ricorsi vanno riuniti, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., in quanto proposti avverso la medesima sentenza.

1. – Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 10 del 1977, artt. 7 e 8, della L. n. 457 del 1978, artt. 3, 4 e 16, della L.R. Sicilia n. 79 del 1975, art. 40, della L.R. Sicilia n. 95 del 1977, art. 2, del D.M. LL.PP. C.E.R. 19 luglio 1988, n. 307 e D.M. LL.PP. C.E.R. 19 luglio 1988, n. 308, D.M. LL.PP. C.E.R. 9 aprile 1990, n. 109, D.M. LL.PP. C.E.R. 9 aprile 1990, n. 110, D.M. LL.PP. C.E.R. 9 aprile 1990, n. 117 e D.M. LL.PP. C.E.R. 9 aprile 1990, n. 118, dell’art. 1362 c.c., e segg., dell’art. 11 preleggi, nonchè il vizio di omessa o insufficiente motivazione.

Si sostiene che la sentenza impugnata abbia operato un’errata applicazione del principio tempus regit actum, ritenendo inapplicabili il D.M. Lavori Pubblici 9 aprile 1990, n. 117 e D.M. Lavori Pubblici 9 aprile 1990, n. 118, che hanno fissato nuovi limiti massimi di costo per gli interventi di edilizia pubblica agevolata ai fini dell’individuazione del mutuo concedibile entro il massimale vigente, per il fatto che la convenzione in oggetto tra il comune di Grotte e il C. risalga al mese di febbraio del 1990. In tal modo non ha considerato, però, che i mutui per la realizzazione dell’intervento in oggetto furono concessi ben dopo l’entrata in vigore dei ridetti decreti e che tutti i contratti preliminari furono stipulati anni dopo.

Anche a ritenere applicabile la disciplina anteriore e il limite del 40% della superficie utile abitabile, destinabile a superficie netta non residenziale e parcheggi, il Tribunale, prima, e la Corte d’appello, poi, sono incorsi in errore lì dove, partendo da una superficie utile massima di mq. 95, come stabilito dalla L. n. 457 del 1978, art. 16, hanno ritenuto che la superficie complessiva non potesse superare mq. 117,8. L’errore risiede nel fatto che il limite anzidetto ha carattere costruttivo e non economico, e sta a significare che sia la percentuale computabile dei parcheggi, sia quella delle superfici non residenziali non devono singolarmente superare la percentuale ammessa come limite massimo.

1.1. – Il motivo è infondato.

Questa Corte ha avuto modo di osservare che: a) a differenza degli atti e provvedimenti amministrativi generali – che sono espressione di una semplice potestà amministrativa e sono rivolti alla cura concreta d’interessi pubblici, con effetti diretti nei confronti di una pluralità di destinatari non necessariamente determinati nel provvedimento, ma determinabili -, i regolamenti sono espressione di una potestà normativa attribuita all’amministrazione, secondaria rispetto alla potestà legislativa, e disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici mediante una regolazione attuativa o integrativa della legge, ma ugualmente innovativa rispetto all’ordinamento giuridico esistente, con precetti aventi i caratteri della generalità e dell’astrattezza (Cass. S.U. n. 10124/94; Cass. n. 1972/00); b) i requisiti formali degli atti del Governo di natura normativa, poichè recanti un regolamento, sono stabiliti dalla L. n. 400 del 1988 e consistono nell’adozione di siffatta denominazione e nella emanazione nell’osservanza del procedimento a questo fine previsto, che prevede il parere del Consiglio di Stato, il visto e la registrazione della Corte dei Conti e la pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale (Cass. n. 28487/05); c) il sindacato di legittimità in tema d’interpretazione di atti amministrativi adottati con decreto ministeriale e privi di funzione normativa, è limitato alla sola verifica dei denunciati vizi di motivazione e malgoverno delle regole di ermeneutica contrattuale in quanto analogicamente applicabili (Cass. n. 5480/99 e seguenti conformi).

1.1.1. – Nello specifico, il motivo in esame concerne atti amministrativi non regolamentari, che non disciplinano in astratto tipi di rapporti giuridici, ma si limitano a specificare i limiti massimi di costo nelle costruzioni relative ad interventi di edilizia sovvenzionata o agevolata, che devono essere recepiti nelle convenzioni stipulate ai sensi della L. n. 457 del 1978 ai fini delle sovvenzioni o agevolazioni finanziarie. Tali atti, non avendo carattere innovativo nell’ordinamento giuridico, hanno natura di atti amministrativi a contenuto generale, in relazione ai quali l’unico sindacato ammissibile riguarda, pertanto, la loro interpretazione secondo le regole poste per l’interpretazione dei contratti.

1.1.2. – La censura in esame, invece, è essenzialmente diretta ad applicare un diverso D.M. ovvero a fornire un’interpretazione del D.M. applicato differente rispetto a quella della Corte territoriale, senza tuttavia indicare il criterio ermeneutico che sarebbe stato violato, limitandosi il ricorrente ad allegare un non meglio precisato vizio motivazionale che mal cela l’intento di proporre null’alto che una diversa ricostruzione del fatto contrattuale nella sua totalità, così da sollecitare un controllo di puro merito incompatibile con i limiti interni del giudizio di legittimità. 2. – Con il secondo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione della L. n. 865 del 1971, art. 35, della L. n. 10 del 1977, art. 8, della L. n. 457 del 1978, art. 18, degli artt. 1183, 1184, 1185, 1351 c.c., art. 1362 c.c., e segg. e dell’art. 2932 c.c., nonchè l’omessa o insufficiente motivazione Sostiene il ricorrente che ai sensi della L. n. 865 del 1971, art. 35, lett. c), la convenzione deve contenere i criteri per la determinazione del prezzo di cessione degli alloggi, mentre i contratti preliminari di vendita ben possono fissare un criterio di aggiornamento del prezzo, senza che ciò confligga con la ridetta previsione legislativa. Tali clausole sono state ritenute legittime dalla giurisprudenza di legittimità anche in relazione alla L. n. 10 del 1977, art. 8.

Nello specifico, prosegue, l’art. 5 della convenzione tra il C. e il comune di Grotte prevedeva che il prezzo di cessione degli alloggi sarebbe stato determinato mediante aggiornamento biennale in relazione agli indici Istat dei costi di costruzione intervenuti dopo la stipula della convenzione stessa. La Corte territoriale, invece di aggiornare il prezzo assumendo come termine iniziale dell’operazione di aggiornamento il mese di febbraio 1990, epoca di stipula della convenzione, e come termine finale quello di rilascio del certificato di abitabilità, ha deciso altrimenti, stabilendo immotivatamente che il prezzo di cessione avrebbe dovuto essere aggiornato con riferimento alla variazione Istat del biennio 1990-1992, salvo che per il preliminare concluso da M. A., in relazione al quale la variazione doveva essere riconosciuta per il periodo 1990-1994, perchè la stipula del preliminare era stata prevista entro l’anno 1994.

Non si comprende, allora, per quale ragione l’aggiornamento, per il contratto stipulato con Aq.An. l’11.4.1994, sia stato stabilito con riferimento alle variazioni intervenute tra il 1990 ed il 1992, poichè risulta incomprensibile il riferimento a tale data finale. Lo stesso è a dirsi quanto ai contratti stipulati con A.A. e con P.A.M., stipulati nel 1994 e con definitivo previsto nello stesso anno. Mentre per i contratti stipulati da A. e M.S., conclusi il 2.12.1995, la Corte territoriale ha stabilito che l’aggiornamento dovesse essere operato per il periodo 19.2.1990-18.2.1994. 2.1. – Il motivo è inammissibile, in quanto deduce una questione la decorrenza dell’aggiornamento Istat sul prezzo di cessione di ciascun alloggio che non risulta essere stata oggetto di specifico motivo di gravame nel giudizio d’appello, lì dove l’appellante, odierno ricorrente, aveva censurato – come si ricava dalla sentenza impugnata – l’interpretazione del D.M. 9 aprile 1990, un connesso errore di calcolo relativo alla superficie abitabile, la mancata esclusione dell’obbligo degli acquirenti di pagare anche le spese di erogazione del mutuo e gli interessi di preammortamento e la non considerazione del fatto che il prezzo doveva essere soggetto a revisione. Ne consegue che si è formato il giudicato interno sul calcolo dell’aggiornamento Istat, in ordine al quale la sentenza d’appello si è limitata a ribadire le relative decorrenze indicate dal Tribunale.

3. – Con il terzo motivo, articolato in due punti, è dedotta la violazione e falsa applicazione della L. n. 10 del 1977, art. 8, della L. n. 457 del 1978, art. 18, del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 18, art. 1218 c.c., art. 1362 c.c., e segg., e art. 112 c.p.c., nonchè l’omessa o insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Nell’escludere il rimborso delle spese di erogazione e di gestione del mutuo e degli interessi di preammortamento, ritenuti oneri gravanti sul costruttore, e nel ritenere affetta da nullità ogni pattuizione diretta a stabilire un prezzo superiore a quello stabilito dalla convenzione, la Corte d’appello non ha considerato che il C. aveva rilevato di avere formalmente invitato i promittenti acquirenti a stipulare i contratti definitivi di trasferimento entro il 31.12.1996, facendo loro presente che in attesa del perfezionamento della vendita egli aveva continuato a pagare le rate di mutuo e che questo comportava onerosi interessi passivi. La sentenza impugnata non spiega, e in ciò risiede un difetto di motivazione, su quale parte debbano gravare gli interessi passivi dei mutui, limitandosi a ribadire la nullità delle pattuizioni prevedenti un prezzo d’acquisto superiore a quello stabilito dalla convenzione. La sentenza d’appello ha ignorato il fatto che il C. aveva più volte invitato i promissari a stipulare l’atto pubblico di trasferimento, dichiarandosi disposto ad accettare un prezzo inferiore, e trascura di distinguere, fra gli oneri finanziari, quelli a carico della parte venditrice e quelli gravanti sulla parte acquirente. Quanto agli interessi moratori, essi sono imputabili agli acquirenti, essendo essi incorsi in un ritardo prima nell’approntare la documentazione necessaria ai fini della presentazione della pratica, e poi nel rifiutare ingiustificatamente la stipula del rogito.

La sentenza, prosegue il ricorrente, è altresì errata nel punto in cui ha mantenuto a carico del C. l’IVA e le spese extra sostenute dal costruttore (videocitofono, antenna centralizzata, prese TV e telefoniche in più rispetto al previsto e materiali extra), spese che il Tribunale aveva posto a carico del costruttore, con statuizione che la Corte d’appello ha confermato senza rispondere alle censure mosse dall’appellante.

3.1. – Il motivo è infondato in entrambe le censure di cui è composto.

E’ fermo e noto orientamento di questa Corte che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5 sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia, e non può invece consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte perchè la citata norma non conferisce alla Corte di Cassazione il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta individuare le fonti del proprio convincimento, e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (Cass. S.U. n. 5802/98 e successive conformi tra cui, da ultimo, Cass. n. 15264/07). In ogni caso, per poter considerare la motivazione adottata dal giudice di merito adeguata e sufficiente, non è necessario che nella stessa vengano prese in esame (al fine di confutarle o condividerle) tutte le argomentazioni svolte dalle parti, ma è sufficiente che il giudice indichi le ragioni del proprio convincimento, dovendosi in tal caso ritenere implicitamente disattese tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass. nn. 2272/07 e 14084/07).

3.1.1. – Ciò posto, va osservato che la prima censura consiste in una doglianza di puro merito che attiene alla ricostruzione storica dei fatti, senza indicare uno specifico punto, avente di per sè carattere decisivo, su cui la motivazione della sentenza impugnata risulterebbe omessa o carente.

Nè tale censura coglie altrimenti la ratio decidendi, ben espressa dalla Corte territoriale lì dove afferma, in ordine alle spese di erogazione e gestione del mutuo e al carico degli interessi di preammortamento, che la clausola contenuta nei contratti preliminari, secondo cui erano a carico dell’acquirente tutte le spese e gli oneri finanziari sostenuti dal C. al fine della formazione, ottenimento, perfezionamento ed esecuzione del contratto di mutuo, era da ritenere nulla in quanto diretta a prevedere un prezzo di acquisto superiore a quello stabilito dalla Convenzione, in violazione dell’art. 7 di quest’ultima e della L. n. 10 del 1977, art. 8. 3.1.2. – Quanto alla seconda censura, premesso che la violazione dell’art. 112 c.p.c. va ricondotta alla previsione del n. 4 e non del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., trattandosi di violazione di carattere processuale potenzialmente implicante la nullità della sentenza, va osservato che ai fini dell’ammissibilità del motivo con il quale si lamenta un vizio del procedimento ( art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 4) per erronea individuazione del "chiesto" ex art. 112 c.p.c., è necessario che il ricorrente, alla luce del principio di autosufficienza dell’impugnazione, indichi le espressioni con cui detta deduzione è stata formulata nel giudizio di merito (Cass. n. 10605/10).

3.1.3. – Nella specie, il motivo è del tutto carente al riguardo, non avendo parte ricorrente indicato in quali esatti termini avrebbe sollevato in appello, mediante apposito motivo di gravame, la questione inerente al carico dell’IVA e del costo per le opere aggiunte, per cui anche la doglianza di omessa pronuncia appare priva di autosufficienza, limitandosi il ricorrente a citare, a par. 15 del proprio ricorso, il fatto di aver lamentato con l’atto d’appello "che il Tribunale aveva a torto considerato l’IVA quale imposta dovuta dal venditore anzichè dal compratore". 3.2. – Infine, il ricorrente non ha minimamente esplicitato in qual modo la pronuncia impugnata avrebbe violato le norme di cui è dedotta l’errata interpretazione o la falsa applicazione.

4. – Il quarto motivo denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 1350, 1362, 1428, 1429 e 1432 c.c., nonchè l’omessa o insufficiente motivazione.

Afferma il ricorrente che la Corte territoriale non ha adeguatamente motivato la ritenuta esclusione dell’errore materiale nella redazione del contratto preliminare, e la mancata ammissione della prova testimoniale diretta a dimostrarlo, e sostiene al riguardo che la convinzione di entrambe le parti del contratto preliminare di negoziare l’appartamento di cui la promissaria aveva conseguito il possesso materiale è dimostrato dal fatto che ella vi aveva fatto eseguire le opere ritenute necessarie per renderlo di suo gradimento, scegliendo ed acquistando materiali che il C. aveva, poi, provveduto a porre in opera. Inoltre la Co. era ben consapevole che la sig.ra P.A.M. era entrata in possesso dell’appartamento posto al secondo piano, a destra salendo e che tali circostanze l’appellante aveva chiesto di provare per testi.

Per contro il ragionamento della Corte territoriale non appare nè logico, nè corretto, considerato che la reale volontà delle parti risulta dal fatto che la sig.ra Co. fu immessa nel possesso dell’immobile posto a sinistra, al secondo piano, e non in quello ubicato a destra; che ella vi fece eseguire delle opere, scegliendo e acquistando i materiali; e che tramite un proprio legale notificò al C. un atto stragiudiziale invitandolo alla stipula del rogito, premettendo l’avvenuta immissione nel possesso del bene.

4.1. – Anche tale motivo è infondato, in quanto involge una questione di puro fatto.

In tema di giudizio di cassazione, la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata conferisce al giudice di legittimità non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, bensì la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando, così, liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti (salvo i casi tassativamente previsti dalla legge).

Conseguentemente, per potersi configurare il vizio di motivazione su un asserito punto decisivo della controversia, è necessario un rapporto di causalità fra la circostanza che si assume trascurata e la soluzione giuridica data alla controversia, tale da far ritenere che quella circostanza, se fosse stata considerata, avrebbe portato ad una diversa soluzione della vertenza. Pertanto, il mancato esame di elementi probatori, contrastanti con quelli posti a fondamento della pronunzia, costituisce vizio di omesso esame di un punto decisivo solo se le risultanze processuali non esaminate siano tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia probatoria delle altre risultanze sulle quali il convincimento è fondato, onde la ratto decidendi venga a trovarsi priva di base (v. Cass. n. 9368/06 e le successive conformi).

4.1.1. – Nello specifico, la censura consiste nella mera deduzione di elementi di giudizio antagonisti rispetto a quelli valorizzati dal giudice di merito, il che non vale a costituirli come dati decisivi, e quindi idonei a fondare il dedotto vizio motivazionale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, secondo il costante indirizzo sopra ricordato. Nè tanto meno il motivo d’annullamento isola nella decisione impugnata una contraddittorietà interna, evidenziabile, cioè, in base allo stesso percorso logico ivi esposto, ma pretende di trarla grazie al richiamo a dati estrinseci, quali le emergenze istruttorie non considerate, per cui anche sotto tale profilo la censura appare priva di pregio.

5. – Con il quinto motivo, formato da due censure, è dedotta la violazione e falsa applicazione dell’art. 1385 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3.

Afferma il ricorrente che la caparra versata al momento della stipula del contratto era di 20 e che la seconda franche di 20 milioni, benchè qualificata nel preliminare stesso come caparra, dovrebbe logicamente qualificarsi come semplice acconto, atteso che costituisce caparra la somma che una parte da all’altra al momento della conclusione del contratto. In ogni caso, prosegue il ricorrente, la restituzione del doppio della caparra consegue al recesso della parte non inadempiente, e non alla risoluzione del contratto, di talchè la domanda non poteva essere presa in considerazione, avendo la Co. chiesto la risoluzione per inadempimento e il risarcimento del danno.

5.1. – Anche tale motivo è inammissibile, in quanto prospetta una questione nuova di cui non v’è traccia nei motivi d’impugnazione in appello, quali desumibili dalla sentenza impugnata e dalla stessa narrativa del ricorso.

6. – Il sesto motivo, che denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., ma in realtà si limita a dedurre che l’accoglimento del ricorso imporrebbe una diverso regime delle spese, è affatto apparente, perchè costituisce non un’autonoma censura della decisione impugnata, ma una pura deduzione delle conseguenze dell’eventuale accoglimento del ricorso.

7. – Infine, va rilevata l’inammissibilità del ricorso incidentale proposto da Co.Ma., che in realtà non ha formulato alcun motivo di annullamento della decisione di secondo grado.

8. – In conclusione, va dichiarato inammissibile il ricorso incidentale e respinto quello principale.

9. – Le spese del presente procedimento, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza del ricorrente.
P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, dichiara inammissibile il ricorso incidentale, rigetta il ricorso principale e condanna il ricorrente a pagare a ciascuna delle parti controricorrenti le spese, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali di studio, I.V.A. e C.P.A. come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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