Cass. pen. Sez. II, Sent., (ud. 22-03-2011) 03-05-2011, n. 17100 Sentenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 23/12/2009, la Corte di Appello di Palermo, in iniziale riforma della sentenza pronunciata in data 29/02/2008 dal tribunale di Agrigento, così decideva:

1. confermava:

1.1 nei confronti di L.G.V., la condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. (capo A) ed esattamente perchè "quale rappresentante delle istituzioni locali e regionali ed in particolare nella veste prima di Sindaco del Comune di Canicattì poi di Assessore Regionale all’Ambiente e Territorio ed ai LLPP dirottava ingenti somme di denaro a favore di enti locali e quindi di imprese gestite da imprenditori appartenenti a Cosa Nostra ovvero contigui all’organizzazione mafiosa, nonchè piegava la propria attività ed influenza specie politica a favore degli appartenenti alle cosche di "Cosa Nostra agrigentina e della famiglia mafiosa di Canicattì al fine di salvaguardia e rafforzamento precipuamente economico dell’organizzazione e dei suoi componenti";

1.2 nei confronti di L.G.V. e F.S., la condanna per il reato di cui all’art. 319 c.p. (capo D) "per avere, nel marzo dell’anno 2002, L.G.V. nella qualità di Assessore ai Lavori Pubblici della Regione Sicilia e F. S., quale Presidente dell’Istituto Autonomo Case Popolari di Agrigento emanato il Decreto Assessoriale 11 ottobre 2000 che consentiva l’affidamento in convenzione a privati L. n. 10 del 1977, ex art. 7 (anzichè con le procedure dell’evidenza pubblica da rispettare per l’affidamento delle opere pubbliche, così come previsto dai D.M. 1^ dicembre 1994) la realizzazione di opere pubbliche finanziate con contributi pubblici e conseguentemente stipulato la convenzione del 23 luglio 2001, con la quale si concedeva in affidamento L. n. 10 del 1977, ex art. 7 al Consorzio ECOTER la realizzazione di lavori relativi al recupero e riqualificazione urbana dell’area Monserrato – Villaseta in Agrigento, accettando la promessa fatta da R.C. e, tramite questi, da S.G., effettivo titolare del Consorzio ECOTER, del pagamento di una somma di denaro pari al 2% dell’importo dei lavori affidati destinata agli stessi L.G. e F.";

1.3 nei confronti di D.G.M. la condanna per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., "aggravato dal ruolo direttivo;

2. dichiarava n.d.p. per intervenuta prescrizione, pur confermando le statuizioni civili a favore delle costituite parti civili, nei confronti di:

2.1. F.S. in ordine al reato di cui all’art. 353 c.p. (capo E: per avere, in concorso con il L.G., ammesso ad un illegittimo finanziamento l’opera denominata "Completamento del complesso parrocchiale Sacra Famiglia nel quartiere IACP Acquanova di Canicattì" finalizzato intenzionalmente a procurare all’IACP di Agrigento, al responsabile della chiesa parrocchiale Sacra Famiglia di Canicattì, ai progettisti gi.ca. e T. A., un ingiusto vantaggio patrimoniale consistito nel finanziamento non dovuto della predetta opera con fondi ed ex Gescal;

capo F: per avere, in concorso con L.G. e I., approvato illegittimamente il finanziamento dell’opera di costruzione di n 80 alloggi popolari e sistemazione esterna in Canicattì finalizzata a procurare intenzionalmente un ingiusto vantaggio patrimoniale allo stesso IACP di Agrigento);

2.2. C.S. per il reato di cui all’art. 353 c.p. (capo R), per avere, in concorso con altri soggetti ( M.A., B. e Gi.Ca.) separatamente giudicati, turbato la libertà degli incanti aggravata per avere ottenuto l’assegnazione provvisoria dei terreni confiscati a Gu.Di. del 1950 quale legale rappresentante della Cooperativa "(OMISSIS)" il 14 aprile del 2000 benchè detta società non poteva risultare assegnataria perchè non avente natura di cooperativa sociale ed avendo preventivamente concordato con le altre partecipanti alla gara le offerte;

2.3. G.S. per i reati di cui agli artt. 323 c.p. (capo S: per avere, nella sua qualità di capo settore affari generali del comune di Canicattì, istruito la pratica amministrativa e redatto la proposta di deliberazione poi approvata dalla Giunta Municipale, con la quale i terreni venivano assegnati provvisoriamente alla cooperativa "(OMISSIS)", atti entrambi illegittimi) e art. 353 c.p. (capo U: per avere concorso nella turbativa della trattativa privata finalizzata alla scelta del soggetto giuridico assegnatario dei suddetti terreni);

2.4. I.S. per vari episodi qualificabili come reati di all’art. 323 c.p. (capi E – F – G – H – I: per avere nella sua qualità di membro dell’Ufficio dell’Assessorato ai Lavori Pubblici della regione Sicilia, ed unico preposto all’istruttoria delle domande idi accesso ai finanziamenti dei fondi per l’edilizia sovvenzionata pubblica (c.d. fondi ex Gescal) commesso ipotesi di abuso di ufficio consistite nell’avere intenzionalmente procurato ingiusti vantaggi patrimoniali o allo IACP di Agrigento, od ai progettisti delle opere od ai Comuni ove le ditte opere dovevano essere realizzate).

1.1. Quanto al L.G., la Corte territoriale, dopo avere riportato in sintesi la motivazione addotta dal tribunale (cfr. pag.

15 ss), ne confermava la decisione ritenendo che la colpevolezza dell’imputato, in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p., fosse stata ampiamente provata sulla base dei seguenti riscontri: – conversazione di cui ai progressivi n 42704 e 42705 (cfr. pag. 68 ss), intercettata in data 16/11/2001 fra D.C. e L.G. nel corso della quale si apprendeva che il L.G. aveva contattato tale Ba., dirigente dell’Azienda Sanitaria di Caltanissetta, perchè riassumesse in servizio tale Bo. soggetto definitivamente condannato per il reato di cui all’art. 416 bis c.p., e si era recato, in piena notte a trovare un giudice non togato, molto probabilmente popolare, per convincerlo ad assumere una decisione in senso favorevole all’organizzazione mafiosa.

Nel corso della conservazione, poi, i due avevano parlato anche delle modalità attraverso le quali si era addivenuti alla candidatura di Sa.Gi., figlia del politico Sa.Ar., all’insaputa del L.G. il quale, come ritorsione, aveva progettato un’azione punitiva nei confronti del suddetto Sa.

A. che, venutolo a sapere, viveva nel terrore tant’è che aveva sparso la voce che soggetti inviati dal L.G. volevano ucciderlo;

conversazione di cui al progressivo n 627 (cfr. pag. 88 ss), intercettata in data 17/07/2001 fra Di.Gi.Sa. (arrestato per associazione mafiosa) e L.G. nel corso della quale si menzionavano dinamiche associative.

Nell’ambito di tali colloqui, il Di.Gi. affermava di essersi attivato per il L.G. per raccogliere voti e quest’ultimo faceva riferimento all’impegno svolto in passato di aggiustare un processo importante parlando ad un giudice popolari;

conversazione di cui al progressivo n 38432 (cfr. pag. 99 SS), intercettata in data 9/11/2001 fra Di.Gi.Sa. e L. G., nel corso della quale si menzionava la circostanza che D. C.C. non poteva recarsi personalmente presso la segreteria politica del L.G. per la difficoltà legata ai controlli di P.S..

Nel corso del colloquio si faceva riferimento a dinamiche associative, al rapporto del L.G. con G.G., esponente mafioso di Castronovo di Sicilia e al pregresso rapporto con D.C.P.; conversazione di cui al progressivo n 217 (cfr. pag. 109 ss), intercettata in data 15/01/2002 in cui il L.G. riceveva una raccomandazione da parte di D.B.A., soggetto gravitante nell’orbita della locale famiglia mafiosa, in cui il L. G. riferiva ai suoi interlocutori suoi passati con associati mafiosi di spicco;

conversazione di cui al progressivo n 50181 (cfr. pag. 113 ss), intercettata in data 2/04/2002 tra L.G. e tale D. A., nel corso della quale l’imputato raccomandava il suo interlocutore per una vicenda connessa ad un mutuo in banca.

Nel prosieguo del colloquio, poi, veniva descritto l’omicidio di Gu.Di., soggetto appartenente alla famiglia mafiosa di Canicattì;

– conversazione di cui al progressivo n 227 (cfr. pag. 119 ss), intercettata in data 5/01/2002 tra L.G. e M.C. nel corso della quale si menzionava l’attività di cambio di ingenti somme di denaro liquido da lire in Euro.

In tale contesto il L.G. spiegava il sistema attraverso il quale disponeva di una rete di persone a lui legate presso l’assessorato al Territorio e Ambiente pur senza più essere Assessore.

Oltre all’amicizia con l’attuale assessore lo stesso imputato avrebbe legato a sè vari funzionali con passaggi di grado tanto da essere il "padrone" in assessorato.

Inoltre nel contesto di tale colloquio il L.G. confidava al M.C. che pur non facendo parte dell’associazione mafiosa, denominata "chiesa" egli rispettava i membri dell’organizzazione, indicati come "parrini" e li agevolava;

– conversazioni intercettate il 25/05/2001 (pag. 123 ss) ed il 21/07/2002 (pag. 124) dalle quali emergevano rapporti specifici tra l’imputato e singoli associati mafiosi ed aventi ad oggetto la presentazione di progetti e l’aggiudicazione di gaie pubbliche;

– conversazioni intercettate durante una riunione tenutasi il 7/04/2001 (pag. 124 ss) nell’abitazione di Fi.Vi.

(soggetto mafioso) alla quale aveva partecipato il L.G. nel corso della quale si discusse di un dissidio politico tra il L. G. e tale Ma., per sanare il quale era stato chiesto l’intervento dei mafiosi Fi. e G.G..

Concludeva pertanto la Corte rilevando che "gli elementi desumibili dal contenuto delle numerose conversazioni intercettate, riportate solo in parte, denotano una condotta posta in essere dal L.G. V. nei confronti dell’organizzazione mafiosa che va ben al di là della sporadica commissione di azioni favoreggiatrici, emergendo rapporti con tutti i vertici delle famiglie mafiose di Canicattì risalenti nel tempo, una costante disponibilità ad assicurarne gli interessi, la consumazione di singole condotte costituenti ciascuna ipotesi certamente delittuose, tali essendo l’intervento sul Giudice popolare, l’occultamento o rivelazione di dati appresi nella sua qualità di referente della Pubblica Sicurezza, l’assegnazione illecita di appalti pubblici ad imprese mafiose, la sollecitazione diretta ad organi amministrativi a fare riassumere un individuo definitivamente condannato per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p.".

La Corte territoriale, poi, rilevava che, al suddetto compendio probatorio, già dotato dei caratteri di estrema gravità ed univocità, si aggiungevano le dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia, Gi.An. (pag. 127 ss), D.G.M. (pag. 131 ss), Br.Gi., Ca.Gi., V.C., Pu.Ca. (pag. 134 ss) da ritenersi tutte utilizzabili essendone stata verificata l’attendibilità intrinseca ed estrinseca.

1.2. In ordine al reato di cui all’art. 319 c.p. (capo D) per il quale erano stati condannati sia L.G.V. che il F. S., la Corte (pag. 139 ss) rilevava che la prova del reato si desumeva dalle intercettazioni ambientali del 26/01/2002 e del 18/03/2002, oltre che dall’illiceità degli atti amministrativi posti a fondamento dell’accordo corruttivo, accertata con sentenza passata in giudicato nei confronti dei coimputati R. e S. giudicati, per lo stesso fatto, separatamente.

1.3. Quanto al D.G.M., condannato alla pena di anni cinque di reclusione per il delitto di cui all’art. 416 bis c.p., la Corte (pag. 54 ss) confermava la decisione del tribunale di concedere le attenuanti generiche solo equivalenti, respingendo quindi l’appello proposto solo in punto trattamento pena (prevalenza delle attenuanti e riduzione pena).

1.4. Quanto a F.S., la Corte (pag. 155 ss), pur dichiarando i reati di abuso di ufficio prescritti, confermava le statuizioni civili avendo ritenuto che dal complessivo quadro probatorio emergesse un "generale malaffare e palese favoritismo per i progetti ammessi al finanziamento secondo le segnalazioni provenienti dall’Assessore L.G. e perfettamente assecondate dal suo interlocutore F." e, quindi, integrante gli estremi del contestato reato alla stregua della giurisprudenza di questa Corte di legittimità (Cass. 25162 – 35048/2008).

11.5. Quanto al I.S., la Corte (pag. 160 ss) perveniva ad analoghe conclusioni essendo stati provati i rapporti con il L. G. ed il suo coinvolgimento nell’attività di favoritismo nei confronti di determinati progetti.

1.6. Quanto a G. e C., la Corte (pag. 170 ss) riteneva che "la valutazione delle singole condotte ed in primo luogo delle plurime omissioni e dei ritardi nello svolgimento del procedimento amministrativo unite alle emergenze delle intercettazioni compiute su Gu.Di. del 1968, oltre che le dichiarazioni del D.G., integrino un materiale probatorio certamente sufficiente per escludere una pronuncia di assoluzione nel merito". 2. Avverso la suddetta sentenza tutti gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

2.1. D.G.M. ha dedotto i seguenti motivi:

2.1.1. Violazione del D.L. n. 152 del 1991, art. 8 per avere la Corte territoriale, ritenuto, da un lato, la collaborazione processuale del ricorrente importante e processualmente utile, e, dall’altro, applicato la minima riduzione di pena (cioè di un terzo) che la legge consente.

Al contrario, avendo la Corte riconosciuto l’importanza della collaborazione, avrebbe dovuto ridurre obbligatoriamente la pena in misura proporzionale al valore ed importanza della collaborazione processuale prestata.

2.1.2. violazione dell’art. 62 bis c.p. per non avere la Corte territoriale ritenuto le concesse attenuanti prevalenti sulle aggravanti contestate, nonostante il ricorrente avesse spontaneamente confessato di avere rivestito in Cosa Nostra agrigentina un ruolo apicale, di avere serbato una condotta rispettosa degli impegni assunti, di aver confessato gravi fatti di sangue per i quali non era neppure indagato, di trovarsi recluso dal novembre 2006. 2.1.3. violazione dell’art. 81 c.p. per avere la Corte territoriale taciuto in ordine alla richiesta, formulata in sede di conclusioni all’udienza del 16/11/2009, di riconoscere il vincolo della continuazione tra il fatti di cui al presente procedimento (partecipazione a Cosa Nostra dal 12/01/1999 al 1/12/2006) e quelli accertati con la sentenza passata in giudicato della Corte di Assise di Appello di Palermo del 14/01/2005 (partecipazione a Cosa Nostra fino al gennaio 1999).

2.2. C.S. ha dedotto violazione dell’art. 129 c.p.p. – artt. 353 e 49 c.p.: lamenta il ricorrente che, nonostante fosse imputato solo del reato di cui al capo R), nella sentenza impugnata tuie sua posizione, del tutto autonoma dal contesto e dalle dinamiche dei reati ascritti agli imputati G., Fa. e Sc., viene assimilata ed assorbita dai fatti contestati a quest’ultimi e come tale valutata e giudicata.

Sennonchè esso ricorrente, assegnatario solo per pochi mesi dei terreni confiscati a Gu.Di., nessun rapporto aveva mai avuto coni soggetti dell’amministrazione Sc., in quanto i soggetti protagonisti delle turbative contestate erano stati, oltre ad esso ricorrente, Ma.An., Gi.Ca. e B.M., imputati, quest’ultimi tre, però, tutti assolti, sicchè anch’esso ricorrente, in quanto ritenuto concorrente con i suddetti imputati, non poteva che essere assolto con formula piena.

La Corte, in altri termini, era incorsa in un evidente travisamento dei fatti.

La Corte, poi, non aveva considerato che, per così come era stato strutturato il capo d’imputazione, il reato non poteva essere realizzato dal solo C., rendendosi necessario l’apporto anche degli altri imputati.

Sennonchè, essendo questi stati assolti, appariva chiara l’impossibilità del reato ex art. 49 c.p..

2.3. G.S. ha dedotto violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. e) per non avere la Corte territoriale, nonostante un puntuale motivo di appello, motivato in ordine alla posizione specifica di esso ricorrente, essendosi limitata a motivare solo in ordine all’insussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7.

Esso ricorrente, infatti, nei motivi di appello aveva dato spiegazione e dimostrazione, con puntuali richiami probatori, della perfetta legittimità della procedura di assegnazione e della insussistenza di una qualsiasi turbativa, favoritismo o abuso.

Con memoria pervenuta il 11/03/2011, il ricorrente ha sostanzialmente ribadito la predetta doglianza.

2.4. I.S. ha dedotto violazione dell’art. 323 c.p. e art. 129 c.p.p. per avere la Corte territoriale ritenuto che "la prova di un comportamento generalizzato o diffuso in deroga al dovere di imparzialità e clientelare costituisca prova della violazione di legge del singolo atto".

In realtà, il principio di diritto invocalo dalla Corte territoriale andava letto "nel senso che la prova che il singolo atto è compiuto in violazione del dovere di imparzialità è sufficiente ad integrare il requisito della violazione di legge", altrimenti si correrebbe il rischio di una responsabilità oggettiva.

La Corte, poi, era incorsa in un’altra violazione di legge laddove aveva ritenuto che l’illegittimità degli atti amministrativi fosse stata accertata in alteri giudizi, non avvedendosi che il giudicato, formatosi a seguito di giudizio abbreviato, riguardava altri soggetti, sicchè non poteva essere utilizzato per il I. che aveva evidenziato nei motivi di appello gli errori materiali e soprattutto il rinvenimento di quasi tutti gli atti ritenuti mancanti, in baie ai quali erano state effettuate le contestazioni.

Alcuni dei suddetti atti, infatti, non erano stati consegnati al C.t del P.m. che, in difetto, aveva concluso per la violazione di legge.

La Corte, pur a fronte di tale realtà processuale, si era limitata ad asserirei apoditticamente che "le doglianze difensive non configurano elementi nuovi e decisivi". 2.5. F.S. ha dedotto i seguenti motivi:

2.5.1. Contraddittorietà e illogicità della motivazione in ordine al reato di cui all’art. 319 c.p. e art. 7 D.L. cit.: lamenta il ricorrente che la Corte territoriale in ordine al Decreto Assessoriale del 11/10/2000 aveva dato per scontato che fosse stato emesso di concerto con il L.G., nonostante fosse stato sottoscritto solo da costui, omologando così le due posizioni e sottraendosi all’obbligo di motivazione.

E, tale vizio era importante in quanto dal suddetto atto base si erano fatti discendere presuntivamente legami criminogeni più ampi e comprensivi fra il L.G. ed il F. con dirette refluenze sull’aggravante di cui all’art. 7 D.L. cit..

La Corte, poi, aveva serbato il silenzio assoluto in ordine alla legittimità del 2% richiesto dal F. per lo IACP sugli importi dei lavori.

Il ricorrente, poi, contesta quella parte della sentenza che, richiamando l’illegittimità della condotta del L.G., sancita, sia pure in via incidentale da una sentenza della Corte di cassazione, aveva finito per trasferire il suddetto giudizio anche sul F. che, quindi, era stato giudicato sulla base di un assetto probatorio carente e relativo ad altro procedimento che riguardava altri soggetti.

Quanto all’aggravante di cui all’art. 7 D.L. se era vero che la condanna (per il reato di corruzione) dei concorrenti R. e S. era passata in giudicato era anche vero che allo S. l’aggravante era stata esclusa e nei confronti del R., (nelle more deceduto) non si era formato alcun giudicato.

In altri termini, andava specificamente motivato in base a quali elementi si era ritenuto che il F. conoscesse la sicura appartenenza mafiosa del R. e ne richiedesse la garanzia, non quale imprenditore di spicco della zona, ma appunto quale mafioso che aveva poteri dispositivi nei confronti dello S. che però non sapeva che il R. operava come appartenente a Cosa Nostra.

Nè alcun elemento utile poteva desumersi dalle dichiarazioni rese dal D.G. essendo le medesime generiche e prive di qualsiasi riferimento alla vicenda Ecoter.

La sentenza, infitte, era anche contraddittoria perchè, mentre per l’episodio di corruzione aveva ritenuto la sussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 D.L. cit. quanto agli ulteriori reati di cui alle lett. E) ed L) aveva escluso la suddetta aggravante.

2.5.2. violazione dell’art. 323 c.p. e art. 129 c.p.p. per avere la Corte confermato, in ordine ai reati di cui alle lett. E) – F), le statuizioni civili.

Sul pianto, il ricorrente ripropone le stesse censure dedotte dal I..

2.5.3. Con memoria depositata il 23/02/2011, il ricorrente:

1) ha dedotto l’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche ed ambientali;

2) ha ribadito l’insussistenza dell’aggravante di cui all’art. 7 D.L. cit.;

3) ha lamentato la carenza di motivazione in ordine alla mancata concessione delle attenuanti generiche.

2.6. L.G.V., con due separati ricorsi, ha dedotto i seguenti motivi:

2.6.1. vizio di motivazione per avere la Corte omesso ogni decisione in ordine all’eccepita inutilizzabilità delle intercettazioni dedotta con memoria depositata all’udienza del 16/12/2009, intercettazioni che costituivano la fonte principale dell’accusa nei confronti dell’imputato (motivo sub 1 ricorso depositato il 10/05/2010).

2.6.2. Violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 1 per essere l’iter logico della motivazione carente per quanto riguarda l’interpretazione delle intercettazioni in quanto le deduzioni svolte sul loro contenuto, oltre a non potersi ritenere nè comprovate nè riscontrate, si basano sulla trascrizione di affermazioni generiche e prive di significato criminale inidonee, quindi, a fondare una pronuncia di colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio in ordine alla sussistenza di una affectio societatis di L.G. nei confronti di Cosa Nostra.

2.6.3. violazione dell’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 in quanto tutti i collaboratori di giustizia che avevano effettuato dichiarazioni a carico di L.G., avevano riferito fatti appresi da altri ed erano, dunque, da considerarsi de relato sicchè avrebbero dovuto essere sottoposte ad un controllo di attendibilità intrinseca ed estrinseca: vaglio che, però, la Corte aveva omesso di effettuare soprattutto in ordine alla personalità dei dichiaranti.

2.6.4. Violazione dell’art. 416 bis c.p.: il ricorrente sostiene che la sentenza è viziata sotto il "profilo della motivazione, avendo essenzialmente:

a) frainteso la disponibilità di L.G. nei confronti di singoli soggetti appartenenti all’organizzazione mafiosa, come forma indistinta di disponibilità verso l’intera organizzazione;

b) attribuito valore criminale a conversazioni o dichiarazioni che hanno un senso diverso e "comune" di scambio di informazioni ed opinioni personali – seppure mai riferite alle autorità inquirenti, in un contesto di natura politico-clientelare, fra L.G. e soggetti che costituivano parte del suo elettorato.

Gli atti processuali, in realtà, non contengono alcuna prova specifica e certa di un coinvolgimento dell’imputato nelle vicende dell’organizzazione mafiosa, emergendo piuttosto dal quadro probatorio acquisito che L.G. si è limitato a mantenere, nel tempo, rapporti di tipo "personale" con personaggi appartenenti all’organizzazione".

La sentenza impugnata, quindi, avrebbe violato i principi di diritto enunciati da questa Corte con la sentenza a SSUU (n. 33748/2005 riv 231677, Mannino) secondo le quali "la "forma del reato" non è affatto libera, e consiste piuttosto nella conclusione di un contratto di prestazione con caratteristiche ben determinate: un patto di stabile disponibilità, il quale comporta che l’associato si leghi ai correi mediante la c.d. affectio societatis, che si consideri e sia considerato una risorsa umana per il gruppo, così trasformandosi in componente della relativa struttura.

I suoi contributi, per definizione, saranno espressi ed acquisiti all’interno dell’organizzazione criminale. E, dunque, la contraddittorietà della motivazione della pronuncia gravata si rende manifesta proprio nell’aver attribuito una responsabilità per condotta partecipativa ex art. 416 bis a L.G. senza aver speso neanche una riga di argomentazione sulla sussistenza dell’affectio societatis e del correlativo elemento soggettivo del reato.

La sentenza, infatti, non offre alcuna argomentazione per mostrare la sussistenza in capo a L.G. di una coscienza e volontà del soggetto di far parte dell’associazione per apportarvi un contributo anche minimo, ma non insignificante in vista della realizzazione del programma associativo criminale.

Manca, di conseguenza, nella motivazione alcuna indicazione sulla sussistenza – nella specie – della necessaria consapevolezza in capo all’imputato della partecipazione all’associazione e dell’adesione alle finalità della stessa".

D’altra parte, non si potrebbe neppure ipotizzare un concorso esterno perchè è la stessa sentenza a rendere evidente l’insussistenza di argomenti che possano far ritenere configurabile quest’ultima fattispecie, non risultando argomenti che dimostrino la realizzazione in capo al L.G. di una condotta agevolativa del programma criminoso di Cosa Nostra e la sua cosciente volontà di contribuire ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione mafiosa.

Il ricorrente, poi, in particolare, contesta, punto per punto 0a argomenti addotti datila Corte territoriale in ordine ai presunti argomenti di prova evidenziando, per ogni singola intercettazione valorizzata dalla Corte, la contraddittorietà ed insufficienza della motivazione, sostenendo che la Corte, da una parte, avrebbe travisato il contenuto delle conversazioni e, dall’altro, le avrebbe ingiustamente enfatizzate non tenendo conto del contesto, del fatto die spesso si trattava di semplici raccomandazioni che nulla avevano a che vedere con l’appartenenza all’associazione criminale: il motivo in questione è sviluppato dal ricorrente nel ricorso datato 3/05/2010, da pag. 1 a pag. 68.

Il ricorrente, poi, (da pag. 68 a pag. 144) confuta quella parte della sentenza che ha fatto leva, come fonte di prova, anche sulle dichiarazioni rese da diversi collaboratori di giustizia, sostenendo che il D.G. mente e, comunque sarebbe inattendibile (pag. 71- 92), così come lo sarebbero le dichiarazioni rese dal Gi.

A. (pag. 91-114: che non sarebbero state verificate nè intrinsecamente nè estrinsecamente avendo, peraltro, riferito solo episodi de relato apprese da G.G.), dal Pu.

C. (pag. 114 – 126), dal V.C. (pag. 126 – 128), dal Br.Gi. (pag. 128 – 132), dal Ca.Gi. (pag.

133 – 136), dal Ga.Ig. (pag. 136- 142).

2.6.5. Violazione dell’art. 319 c.p. – D.L. n. 152 del 1991, art. 7:

il ricorrente contesta l’impugnata sentenza sotto un duplice profilo.

Innanzitutto, sostiene che non vi sarebbe alcun elemento dal quale si desuma che abbia percepito o accettato la promessa di una tangente pari al 2% dell’importo del lavoro da aggiudicare in cambio dell’emanazione del decreto assessoriale del 11/10/2000.

In secondo luogo, ritiene che "la sentenza d’appello, afferma apoditticamente che la condotta contestata è aggravata in relazione all’agevolazione dell’organizzazione mafiosa, non sussistendo alcuna motivazione sull’esistenza di una prova specifica di una sua volontà di agire al fine di agevolare o rafforzare l’associazione mafiosa, al di fuori del dato del coinvolgimento nella vicenda ECOTER di un soggetto appartenente all’organizzazione, e cioè il R.".

Nel caso di specie, poi, l’aggravante non sarebbe configurabile in quanto il dolo specifico non sarebbe desumibile da alcuna circostanza.

2.6.6. TRATTAMENTO SANZIONATORIO: il ricorrente si duole del fatto che gli è stato applicato il trattamento sanzionatorio più gravoso introdotto dalla L. n. 251 del 2005.

Sostiene, quindi, la violazione dell’art. 2 c.p. in quanto la contestazione originaria era stata "chiusa" al 29/03/2004.

Sennonchè, all’udienza del 20/12/2007, il P.M. aveva contestato la partecipazione a Cosa Nostra "fino a data odierna", cioè il 20/12/2007.

Tale contestazione doveva ritenersi, però, solo un maldestro espediente volto a spostare in avanti il momento consumativo in modo da applicate le pene più elevate introdotte nel 2005, atteso che non era stata allegata alcuna circostanza o fatto che potesse far ritenere la persistenza della permanenza che, anzi doveva escludersi in considerazione del fatto che il ricorrente era stato detenuto per anni dalla data dell’arresto fino alla scarcerazione (per decorrenza dei termini nel 2007. 2.6.7. violazione dell’art. 495 c.p.p. per non avere la Corte territoriale disposto l’acquisizione del provvedimento custodiale emesso nel luglio 2007 a carico del Pu.Ca., nonchè la consulenza psichiatrica disposta a suo carico, documenti decisivi al fine di valutarne l’attendibilità.
Motivi della decisione

3. D.G..

3.1. Violazione dell’art. 62 bis c.p.: questo primo motivo va ritenuto infondato.

Invero, la Corte territoriale si è fatta carico della doglianza (cfr. pag. 54 sentenza impugnata) ma l’ha disattesa con ampia motivazione, rilevando che, pur essendo la collaborazione dell’imputato, "apprezzabile ed indice di un profondo ravvedimento", tuttavia tale suo comportamento "non può elidere del tutto la valenza criminale delle condotte portate a termine" dal ricorrente che, nel corso di vari anni, aveva ricoperto un ruolo apicale nell’ambito della frazione agrigentina di Cosa Nostra – che faceva riferimento all’ala più sanguinaria e stragista dell’organizzazione mafiosa siciliana – e, in tale suo ruolo aveva portato a termine vari delitti che ne denotavano una valenza criminale non indifferente.

La Corte, quindi, ha valutato la complessiva personalità dell’imputato e, proprio in considerazione di tale complessivo giudizio, ha ritenuto che fosse stata corretto concedere le attenuanti generiche solo equivalenti.

La suddetta motivazione, deve ritenersi ampia, congrua e logica e, quindi, non censurabile in questa sede di legittimità, essendo stato correttamente esercitato il potere discrezionale spettante al giudice di merito in ordine al trattamento sanzionatorio).

3.2. Violazione L. n. 152 del 1991, art. 8.

In punto di diritto, va rilevato che il riconoscimento della circostanza attenuante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 8 – che si fonda e trae giustificazione sulla utilità obiettiva che deriva dal proficuo contributo fornito alle indagini, ovvero nell’aver evitato conseguenze ulteriori all’attività delittuosa – non implica necessariamente, data la diversità dei rispettivi presupposti, il riconoscimento di circostanze attenuanti generiche, le quali si basano su una globale valutazione della gravità del fatto e della capacità a delinquere del colpevole: ex plurimis Cass. 20145/2010 Rv. 24738? – Cass. 14527/2006 Rv. 233938.

Quindi, in sostanza, fra la suddetta attenuante e quella di cui all’art. 62 bis c.p., non vi è una relazione biunivoca nel senso che la concessione dell’una non implica l’automatico riconoscimento anche dell’altra e viceversa proprio perchè si tratta di attenuanti che hanno diversi presupposti giuridici.

Ora, quanto alla pretesa violazione dell’art. 8 L. cit. (sotto il profilo che la Corte avrebbe dovuto ridurre obbligatoriamente la pena in misura proporzionale al valore ed importanza della collaborazione processuale prestata), è sufficiente rilevare che la norma, pur non imponendo affatto questa sorta di matematica riduzione, lascia al giudice la discrezionalità della riduzione (da un terzo alla metà) in considerazione del contributo complessivo fornito dall’imputato.

Sul punto, va osservato che, nella sentenza di primo grado (Vol. 5^. pag. 148) la concessione dell’attenuante dell’art. 8 è così motivata: "deve altresì riconoscersi la circostanza di cui all’art. 8 del D.L. n. 152 del 1991 in ragione dell’apporto collaborativo decisivo con conseguente riduzione di pena.

La pena finale comunque non può attestarsi su quantificazioni minime in considerazione del ruolo preminente e propulsivo rivestito dal tempo dal D.G. nell’ambito della consorteria mafiosa denominata Cosa Nostra ai fini del controllo del territorio; e tale rilievo vale anche con riferimento a fatti di sangue, per come ammessi. Peraltro – il percorso di collaborazione – seppur validamente intrapreso, risulta in una fase meramente iniziale.

Il contributo conoscitivo veniva d’altronde speso nell’ambito del procedimento Alta Mafia a fronte di un quadro probatorio già sufficientemente articolato a prescindere dalle dichiarazioni del D. G. stesso, nei termini già sopra evidenziati": quindi, il Tribunale non aveva concesso l’attenuante nella sua massima estensione in quanto le dichiarazioni rese dall’imputato non erano state ritenute di eccezionale rilevanza.

Ora, è chiaro che la Corte, pur dovendosi dare atto che la motivazione verte essenzialmente sulla personalità del ricorrente (e, quindi, su criteri valutativi per la concessione delle attenuanti generiche), ha condiviso il giudizio del Tribunale, ritenendo, sia pure implicitamente, che il particolare apporto fornito dal D.G. alle indagini non fosse stato tale da consentire la diminuzione nel massimo.

E, d’altra parte, lo stesso ricorrente, al di là di insistere sull’apporto fornito alle indagini, non ha indicato, proprio sul piano fattuale, elementi tali da consentire di ritenere illogica ed incongrua la decisione dei giudici di merito.

3.2. Violazione art. 81 c.p.: la censura è fondata.

Risulta dalle stesse conclusioni riportate in epigrafe della sentenza impugnata che l’avv. Stellari aveva chiesto espressamente "la continuazione con la sentenza emessa dalla Corte di assise di appello di Palermo del 18/01/2005 irrevocabile il 18/10/2005".

Quindi, sussistevano tutti i presupposti perchè la Corte decidesse, ossia:

1) sentenza passata in giudicato prima della decisione di primo grado;

2) richiesta effettuata nel giudizio di secondo grado.

La Corte, invece, non ha speso una sola parola sulla suddetta richiesta.

Di conseguenza, la doglianza deve ritenersi fondata alla stregua della giurisprudenza di questa Corte, che qui va ribadita, secondo la quale "rientra nei poteri del giudice d’appello accertare se sussistano i presupposti per l’applicazione della disciplina della continuazione anche in mancanza di una specifica doglianza nei motivi di impugnazione. Tale accertamento è peraltro doveroso quando i procedimenti relativi ai reati per i quali è prospettabile il vincolo della continuazione siano riuniti davanti allo stesso giudice e vi sia stata esplicita richiesta in tal senso da parte dell’imputato nel corso del dibattimento": Cass. 36352/2003 Rv.

227031 – Cass. 33403/2008 riv 240902 (in specie in motivazione).

4. C..

Il fatto che ha visto imputato il C. è il seguente (cfr. sentenza impugnata pag. 171): tra Sc.An. (sindaco) e Gu.Di. (classe 1968) si raggiunse un accordo in virtù del quale, in cambio dell’appoggio elettorale di tutti componenti della famiglia, il futuro Sindaco si sarebbe adoperato per consentire il ritorno in possesso, in capo alla famiglia Gu., dei terreni confiscati al defunto Gu.Di. (classe 1950), attraverso l’assegnazione dei suddetti terreni ad una cooperativa composta da soggetti riconducibili alla suddetta famiglia mafiosa, così vanificando l’effetto della misura di prevenzione patrimoniale.

Fu proprio in adempimento di tale impegno che, in effetti, grazie alle condotte dilatorie e poi agevolatrici poste in essere dallo Sc. e dallo G., nella fase dell’assegnazione provvisoria prima e di quella decennale poi, che i suddetti terreni vennero assegnati ad una cooperativa che faceva capo al C. legato alla famiglia Gu.: da qui l’imputazione (cfr. 1 in parte narrativa), per il C., per il reato di cui all’art. 353 c.p..

La Corte territoriale, sulla base di ampi riscontri probatori, puntualmente evidenziati (cfr. pag. 171), ha ritenuto provato l’acconto suddetto e, quindi, la turbata libertà degli incanti, reato per il quale, pur pronunciando sentenza di declaratoria di prescrizione, ha confermato le statuizioni civili nei confronti del C..

La doglianza, nei termini in cui è stata dedotta (cfr. 2.2. in parte narrativa), deve ritenerti fondata alla stregua delle considerazioni che seguono.

In punto di diritto va premesso che, in tema di declaratoria di prescrizione quando vi è costituzione di parte civile, questa Corte (ex plurimis SSUU 35490/2009 riv 244273 – Cass; 3284/2009 riv 245876 – Cass. 14863/2004 riv 228597 – Cass. 16067/2001 riv 219510, in modo costante ha affermato il principio secondo il quale il giudice di appello (o la Corte di cassazione), nel dichiarare estinto per amnistia o prescrizione il reato per il quale in primo grado è intervenuta condanna, è tenuto a decidere sull’impugnazione agli effetti delle disposizioni dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili ed a tal fine i motivi di impugnazione proposti dall’imputato devono essere esaminati compiutamente, non potendosi trovare conferma della condanna, anche solo generica, al risarcimento del danno dalla mancanza di prova della innocenza degli imputati secondo quanto previsto dall’art. 129 c.p.p., comma 2.

L’art. 578 c.p.p., nel rendere obbligatoria – per il giudice dell’impugnazione penale – una pronuncia di merito sull’impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, impone al giudice, da un lato, di verificare se sussistano gli estremi del reato dal quale la parte civile fa discendere il proprio diritto e, dall’altro, di accertare, sia pure in modo sommario, la sussistenza di tale diritto.

La cognizione del giudice penale, sia pure ai soli effetti civili, rimane, quindi, integra e il giudice dell’impugnazione deve verificare l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale al fine di confermare o meno il fondamento della condanna alle restituzioni o al risarcimento pronunziata dal primo giudice.

In altri termini, la valutazione deve essere duplice, in quanto dev’essere condotta, anzitutto, nell’ottica penalistica, al fine di stabilire se sussistano gli estremi del reato ascritto (e dichiarato estinto), illecito dal quale la parte civile fa discendere, ex art. 185 c.p., il proprio assunto diritto al risarcimento; in secondo luogo, sotto tale ultimo profilo, dovrà essere compiuto un accertamento sia pur sommario e limitato all’an debeatur, in ordine alla sussistenza di tal diritto.

Sul punto, va, infatti, osservato che, se è vero che l’art. 129 c.p.p. impone di dichiarare la causa estintiva del reato, è anche vero che il suddetto principio deve coordinarsi con la presenza della parte civile e con una condanna in primo grado che impone ex art. 578 c.p.p. di pronunciare sull’azione civile, e quindi di non essere legati ai canoni di economia processuale che impongono la declaratoria della causa di proscioglimento quando la prova dell’innocenza non risulti ictu oculi, proprio perchè la pronuncia sull’azione civile ex art. 578 c.p.p. fa stato tra le parti, e, dunque, s’impone, pur in presenza della causa estintiva, un esame approfondito di tutto quanto rilevi ai fini della responsabilità civile (mentre quanto riguarda esclusivamente la responsabilità penale senza incidere su quella civile non dev’essere oggetto di esame quando ricorre la causa estintiva): se da detto esame emerge la prova dell’innocenza, si dovrà ricorrere alla corrispondente formula assolutoria, siccome l’obbligo di declaratoria immediata della causa estintiva si fonda sul principio di economia processuale.

Pertanto quando l’esame ex professo di altri aspetti è effettuato, sia pur per esigenze di decisione non penale, l’accertamento effettuato non può esser posto nel nulla e può portare ad un’assoluzione in merito, riprendendo vigore come canone interpretativo quello del favor rei.

Dunque, un’eventuale assoluzione in luogo del proscioglimento per causa estintiva può aver luogo solo se l’esame ai fini civilistici porti ad affermare l’applicabilità della relativa formula assolutoria per effetto dell’esame volto a questi fini, e quindi senza pregiudizio per il principio di economia processuale: ma, qualora non emerga la prova dell’innocenza dell’imputato (il fatto non sussiste – non lo ha commesso – non costituisce reato), non potrà addivenirsi ad una pronuncia pienamente assolutoria.

Pertanto, fuori dal caso in cui non opera il principio di economia processuale, dovendo comunque valutarsi la responsabilità ex professo ai fini civilistici, unico modo per ottenere un esame più approfondito, in mancanza dell’evidenza che il fatto non sussiste, che l’imputato non l’ha commesso, che non costituisce reato, consisterà nel rinunciare alla causa estintiva.

Da quanto detto si evince che, qualora il prosieguo del processo in sede d’impugnazione comporti l’annullamento con rinvio, questo – in mancanza di rinuncia alla causa estintiva – andrà effettuato ai sensi dell’art. 622 c.p.p. al giudice civile competente per valore in grado di appello, operando appieno il principio di economia, che vieta il permanere in sede penale in mancanza di un interesse penalistico della vicenda.

In conclusione, quando, in grado di appello, maturi una causa di estinzione del reato per il quale vi è stata condanna in primo grado, e vi è costituzione di parte civile, si può addivenire anche ad un proscioglimento nel merito dell’imputato in due casi:

1. quando, dall’esame della responsabilità ex professo ai fini civilistici, emerga le prova dell’innocenza dell’imputato;

2. quando l’imputato, rinunciando alla prescrizione, devolve al giudice penale un esame approfondito della vicenda processuale anche ai fini penali, all’esito della quale il giudice, appunto, ritenga la fondatezza delle ragioni dell’imputato.

Nel caso in cui, invece, non si verta in una di queste due ipotesi (e, quindi, ai fini penali, manca la piova dell’evidenza dell’innocenza), resteranno ferme le disposizioni penali (declaratoria di improcedibilità per prescrizione), mentre al giudice civile va rimessa la decisione sulle statuizioni civili oltre che quella in ordine alle spese del grado di giudizio della Cassazione tra le parti dell’azione civile.

Ora, applicando i suddetti principi alla concreta fattispecie, va osservato che, pur volendo dare atto che l’antefatto descritto dalla Corte territoriale risulti provato (non peraltro, perchè, sul punto, lo stesso ricorrente nulla ha dedotto), tuttavia la frattura che si registra nel ragionamento della Corte è la mancata descrizione della condotta tenuta dal C. integrante gli estremi della turbativa.

Nel capo d’imputazione si fa riferimento ad una precisa condotta e cioè nell’aver "preventivamente concordato, con le altre partecipanti alla gara, le offerte".

Ma, poichè i concorrenti furono assolti, la Corte non ha chiarito con chi il C. avrebbe concordato l’esito della gara.

La Corte, nonostante la precisa censura sollevata sul punto, nulla ha risposto in ordine all’elemento materiale del reato limitandosi ad un mero quanto sterile rinvio alla sentenza di primo grado, rinvio che non poteva essere effettuato in presenza di una puntuale censura.

La Corte, poi, impropriamente ha sovrapposto la condotta dello Sc. e del G. con quella del C. ma non si capisce a che titolo.

In altri termini, la Corte territoriale non ha evidenziato la prova in base alla quale si possa ritenere che il C. turbò la libertà degli incanti e cioè si mise d’accordo con gli altri partecipanti (poi assolti) per organizzare un simulacro d’asta con il preventivo accordo delle offerte.

Ciò comporta che, se ai fini penali non è emersa nè è ipotizzabile l’evidenza della prova dell’innocenza dell’imputato, in quanto si verte in un caso di motivazione carente che imporrebbe il rinvio al giudice penale per un nuovo giudizio sul punto (il che è precluso dall’intervenuta prescrizione e dal fatto che l’imputato non vi ha rinunciato), tuttavia, ad fini civilistici, la questione va rimessa a giudice civile competente per valore in grado di appello secondo le regole di diritto innanzi illustrate.

5. G..

Costui risulta imputato dei reati di cui agli artt. 323 e 353 c.p. (cfr. 1. in parte narrativa i fatti descritti nei capi d’imputazione).

La Corte, a pag. 171, nonostante un preciso motivo di appello (illustrato a pag. 45 – 46 della sentenza), pur dichiarando la prescrizione, ha confermato le statuizioni civili, limitandosi a sostenere che lo Sc. ed il G. avevano posto in essere condotte "dapprima dilatorie e poi agevolatrici nella fase dell’assegnazione provvisoria prima e di quella decennale poi in favore delle Cooperative presiedute dal C. e dal Fa.".

Sennonchè si tratta di una motivazione in pratica inesistente che non da il minimo conto dei motivi di appello.

Il capo della sentenza relativo al G. va quindi annullato con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, valendo le stesse considerazioni, mutatis mutandis, illustrate in relazione al ricorrente C..

6. I..

Costui risulta imputato per vari episodi qualificabili come reati di cui all’art. 323 c.p (cfr 1. in parte narrativa e pag. 6-7 sentenza impugnata), reati per i quali, sebbene dichiarati prescritti, la Corte ha confermato le statuizioni civili.

La Corte territoriale ha ritenuto di confermare le statuizioni civili con la seguente motivazione:

– " L.G. dirigeva un "poderoso sistema clientelare che in parte prescinde da Cosa Nostra" coinvolgendo una serie di liberi professionisti ( Pa., T. e gi.ca.) e pubblici ufficiali ( I. e F.) che mirava a favorire alcuni progetti piuttosto che altri, realizzati da architetti od ingegneri allo stessi vicini a fini di rafforzamento della propria posizione politica creando un comitato d’affari che poi lo ricambiava appoggiandone la candidatura" (pag. 151): i suddetti progetti "venivano predisposti da tecnici collegati al comitato d’affari del L.G. e poi ammessi al finanziamento con fondi per l’edilizia sovvenzionata solo perchè era interesse di detto gruppo favorirne alcuni a discapito di altri" (pag. 156);

– la suddetta affermazione veniva ritenuta provata da numerosi riscontri probatori che la Corte evidenziava (pag. 156 – 158 e 160 quanto alla posizione specifica del I.); "se ne ricava quindi un quadro di generale malaffare e palese favoritismo per i progetti ammessi al finanziamento secondo le segnalazioni provenienti dall’Assessore L.G. e perfettamente assecondate dal suo interlocutore F..

Proprio tali considerazioni inducono questa Corte a ritenere che la ricerca di una specifica violazione di legge in relazione a ciascuno dei progetti indicati ai capi E), F), G), H) ed I) non si rivela necessaria ed indispensabile per addivenire ad un giudizio di esistenza dell’ipotesi illecita e conseguente affermazione della responsabilità civile degli imputati, dovendo nel caso in esame farsi applicazione dell’orientamento giurisprudenziale ripetutamente ed anche recentemente reiterato dalla Suprema Corte secondo cui: "In tema di abuso di ufficio, la violazione, nell’esercizio di pubbliche funzioni, del dovere di imparzialità sancito dall’art. 97 Cost. integra il requisito della "violazione di norme di legge" elemento costitutivo della fattispecie; (Cass. 33048 del 10 giugno 2008 ed anche 23162 12 febbraio 2008).

Se, invero, detta affermazione può essere contestata sotto il profilo dell’assenza di violazione di una norma immediatamente e specificamente precettiva, non può però che essere evidenziato che nei casi in cui detto atteggiamento di favore e violazione del principio di imparzialità sia talmente evidente ed addirittura preordinato sicchè il procedimento amministrativo diviene solo lo strumento per favorire taluno, esso integra l’elemento oggettivo del delitto di abuso di ufficio e ciò proprio perchè preesistente addirittura all’inizio della fase procedimentale ed unica ragione dell’atto amministrativo, che risulta quindi completamente asservito alle esigenze private e particolari del pubblico ufficiale il quale intenzionalmente procura un vantaggio all’extraneus.

Appare così evidente che la spasmodica ricerca del singolo vizio in ciascuno dei progetti richiamati nei vari capi di imputazione da E) ad I), (argomento sul quale peraltro le difese si sono ampiamente dilungate con motivi specifici ed assai tecnici) perde di significato decisivo essendo emerso, a monte, l’esistenza di un progetto che accomunava tutti i correi nel favorire i progetti provenienti dai componenti del c.d. comitato d’affari" (pag. 158 – 159);

– peraltro, in concreto, dovevano ritenersi sussistenti anche le violazioni di legge in relazione ai singoli abusi contestati (pag.

159-160).

Il ricorrente ha dedotto la censura illustrata in parte narrativa che, però, dev’essere disattesa per le ragioni di seguito indicate.

La Corte territoriale, come si è visto, ha motivato sotto un duplice profilo:

a) in via di stretto diritto, ha fatto propria quella giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo la quale la violazione del dovere di imparzialità (e, quindi, i favoritismi a favore di alcuni soggetti compiuti nell’esercizio delle funzioni pubbliche) integra di per sè, violazione di legge ed esattamente violazione dell’art. 97 Cost.;

b) in via di fatto, ha poi ritenuto che, in reltà, dovevano ritenersi sussistenti, per i singoli abusi, anche le violazioni di legge.

Il ricorrente, nel presente ricorso, nulla obietta in ordine all’elemento materiale (ossia il "quadro di generale malaffare e palese favoritismo per i progetti ammessi al finanziamento secondo le segnalazioni provenienti dall’Assessore L.G.") limitandosi, da una parte, in via generica, a sostenere che il principio di diritto al quale la Corte aveva ritenuto di attenersi, era stato male interpretato, e, dall’altra, a contestare la sussistenza delle violazioni di legge.

In punto di diritto, va rilevato che la giurisprudenza invocata dalla Corte territoriale è stata correttamente applicata.

In proposito, è noto che, a seguito della riformulazione del testo dell’art. 323 c.p. frutto della L. 16 luglio 1997, n. 234, veniva inserite quale elemento costitutivo del reato la violazione di una norma di legge o di regolamento (da individuarsi precisamente nel caso concreto), violazione che deve avere efficacia causale specifica rispetto all’evento di danno o di vantaggio. Si volle dunque impedire una indebita invasione del giudice penale nella sfera di discrezionalità della amministrazione, circoscrivendo l’ambito di operatività della norma.

Questa Corte, ha però chiarito che come pure si ricava dai lavori preparatori, l’art. 323 c.p., nel prevedere che la condotta del pubblico ufficiale si caratterizzi per la violazione di norme di legge o di regolamento, ha voluto evitare, quanto al controllo del giudice penale, che questi, ispirandosi ad esigenze di giustizia espresse da principi quali l’eguaglianza, l’imparzialità, il buon andamento, possa sindacare i comportamenti che rientrano nell’ambito di discrezionalità del pubblico ufficiale, o sovrapponendo alle scelte dell’amministratore proprie scelte che ritiene più rispettose di canoni fondamentali, o apprezzando in via sintomatica la violazione di legge, valendosi dei tradizionali strumenti del sindacato di eccesso di potere, quali l’irragionevolezza della motivazione addotta, l’inadeguatezza dell’istruttoria, la disparità di trattamento e via dicendo.

Quanto appena detto, tuttavia, non esclude che il medesimo giudice si valga, per accertare una violazione di norme di legge, di tutti gli strumenti ermeneutici coessenziali alla sua funzione.

La dizione "violazione di norma di legge", insomma, se, nell’alludere alla tripartizione classica dei vizi dell’atto amministrativo, pare impedire la rilevanza penale del merito amministrativo nonchè del vizio di eccesso di potere, non circoscrive però al solo tenore letterale, logico o sistematico della disposizione di riferimento il contrasto tra quanto posto in essere e la legge.

Sicchè tale dizione implica che la violazione possa riguardare anche l’elemento teleologico della norma e possa valutarsi anche sotto il profilo finalistico.

Ne consegue che, se l’infedeltà allo specifico fine indicato dal legislatore si realizza con "svolgimenti della funzione o del servizio" che trasmodano da ogni possibile opzione che è stata commessa al pubblico ufficiale per realizzare tale fine, è del tutto corretto da parte del giudice penale concludere che nella specie la norma di legge è stata violata": Cass. 1229/2001 riv 220649 – Cass. 12196/2005 riv 231194 – Cass. 38965/2000 riv 235277 – Cass. 41402/2009 riv 245287- Cass. 35501/2010 riv 248496.

Non solo, ma questa Corte, oltre che ritenere che integra gli estremi dell’abuso di ufficio il c.d. sviamento dei poteri, è giunta alla conclusione che anche la violazione del principio di imparzialità (che costituisce, a ben vedere, pur sempre un aspetto dello sviamento dei poteri), sancito dall’art. 97 Cost., è idoneo ad integrare l’abuso di ufficio sotto il profilo della violazione di legge.

Si è precisato, infatti, che "l’imparzialità di cui parla l’art. 97 Cost., si traduce, nel suo nucleo essenziale, nel divieto di favoritismi, quindi nell’obbligo per l’amministrazione di trattare tutti i soggetti portatori di interessi tutelabili con la medesima misura. Inteso in questa limitata accezione il principio di imparzialità finisce con realizzarsi attraverso strumenti diversi, a seconda che venga calato nell’attività della pubblica amministrazione ovvero nella sua organizzazione. In quest’ultimo caso, riferito cioè all’aspetto organizzativo, il principio di imparzialità non avrà mai un immediato contenuto precettivo ai fini del rilievo in ordine alla sussistenza del reato di abuso d’ufficio, in quanto dovrà essere necessariamente mediato dalla legge; non così per quanto riguarda l’attività dell’amministrazione, in cui la decisione avviene alla fine di un procedimento amministrativo in cui il criterio di imparzialità comporta che vengano acquisiti gli interessi e gli elementi utili ad una deliberazione il più possibile ponderata.

In questo caso, l’imparzialità amministrativa intesa come divieto di favoritismi ha i caratteri e i contenuti precettivi richiesti dall’art. 323 c.p., in quanto impone all’impiegato o al funzionario pubblico una vera e propria regola di comportamento, di immediata applicazione" Cass. 25162/2008 Ry. 239892 – Cass. 35048/2008 Rv.

243183 -Cass. 9862/2009 Rv. 243532.

Orbene, nel caso in esame, come si deduce dall’ampia motivazione addotta sul punto dalla Corte territoriale, il ricorrente – nella sua veste di pubblico ufficiale; essendo membro dell’ufficio di Gabinetto dell’Assessorato ai Lavori Pubblici della Regione Sicilia ed unico preposto all’istruttoria delle domande di accesso ai finanziamenti dei fondi per l’edilizia sovvenzionata pubblica – in concorso con altre persone, faceva parte di un "comitato di affari" che, in modo sistematico, privilegiava e favoriva un ristretto gruppo di professionisti a scapito, quindi, di tutti gli altri che non ne facevano parte.

Non si verte, quindi, nell’ambito di quella discrezionalità amministrativa che non è censurabile ma nell’ambito di un vero e proprio sviamento del potere amministrativo utilizzato, forzato e deviato a fini di parte.

Il che rende palese la configurabilità dell’elemento materiale dell’art. 323 c.p., sia sotto il profilo della violazione del principio di imparzialità sia sodo quello dello sviamento dallo svolgimento della funzione o del servizio, violazioni che vanno ritenute entrambe, secondo la citata e condivisa giurisprudenza di questa Corte, rientranti nella violazione di legge.

Tanto basta, quindi, per ritenere il ricorso infondato avendo la Corte territoriale applicato correttamente i principi di diritto enunciati da questa Corte di legittimità. 7. F..

Costui ha proposto ricorso relativamente ai seguenti reati: – abuso di ufficio (capi E – F) per il quale è stata dichiarata la prescrizione ma confermate le statuizioni civili; corruzione aggravata dall’art. 7 D.L. cit. (capo D).

7.1. Quanto all’ABUSO DI UFFICIO, la doglianza è, in pratica, identica a quella proposta dal I.: di conseguenza, il ricorso, sul punto, va rigettato, dovendosi richiamare, mutatis mutandis, quanto già illustrato a proposito del ricorrente I..

7.2. Quanto alla CORRUZIONE, il fatto è quello descritto nel capo d’imputazione (cfr. 1. in parte narrativa).

La Corte (a pag. 139 ss) illustra, sulla base di un ampio compendio probatorio (intercettazioni del 26/1 e 18/3/2002 – illegittimità Decreto Assessoriale del 11/10/2000), le ragioni per le quali il F. (in concorso con il L.G.) doveva ritenersi responsabile del suddetto reato.

A fronte di tale ampia motivazione, il ricorrente, si è limitato ad una generica censura sostenendo che la Corte non avrebbe motivato:

a) in ordine al fatto che il suddetto Decreto sarebbe stato emesso di concerto tra il L.G. ed esso ricorrente;

b) in ordine alla tesi difensiva secondo la quale la percentuale del 2% era stata richiesta dal F. non per sè ma per lo IACP. Sennonchè deve replicarsi che dal complesso dell’ampia motivazione – in specie dal contenuto delle intercettazioni – si desume agevolmente che la Corte, pur non essendosi soffermata in modo specifico sui due citati aspetti, ha ritenuto il concorso del F. con il L. G. quanto all’emanazione del Decreto (che, ovviamente non poteva che essere sottoscritto dal solo L.G.) e che la tangente richiesta non era di certo per lo IACP (sul punto il ricorrente, nel presente ricorso, non si perita di chiarire sulla base di quali norme o per quali ragioni lo IACP avrebbe avuto diritto a quella percentuale sui lavori).

Pertanto, la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto provato il reato di corruzione, non si presta alla generica censura dedotta dal ricorrente.

7.3. La Corte, però, ha ritenuto che il suddetto reato fosse aggravate dall’art. 7, D.L. cit..

L’ipotesi accusatoria può essere riassunta nei seguenti termini:

il L.G. ed il F., a seguito dell’accordo corruttivo di cui si è dettò affidarono al consorzio Ecoter i lavori per il recupero e la riqualificazione urbana dell’area Monserrato – Villasete in Agrigento.

L’effettivo titolare del Consorzio Ecoter era l’imprenditore S. G. che aveva promesso il pagamento della tangente del 2%.

Sennonchè, poichè il L.G. ed il F. non si fidavano dello S., coinvolsero nell’esecuzione dei lavori anche l’imprenditore R., il quale, essendo legato alla mafia, dava "più garanzie" dello S. per il pagamento della pattuita tangente.

In altri termini, il R. venne coinvolto nei lavori perchè "garantì" il pagamento della tangente per sè e per lo S..

La Corte, ha ritenuto la sussistenza dell’aggravante dell’art. 7, D.L. cit. sulla base della seguente motivazione: "complessivamente valutato il materiale probatorio, deve ritenersi certamente sussistere la volontà di agevolare l’organizzazione mafiosa e lo sfruttamento del vincolo intimidatorio della stessa nella fattispecie di cui al capo D) poichè ciò che emerge con assoluta chiarezza dalle conversazioni intercettate è che il coinvolgimento di R. e cioè dell’imprenditore associato mafioso, veniva prima sollecitato e poi attuato proprio a seguito delle sollecitazioni degli odierni appellanti e di L.G. in particolare, che ne ritenevano impellente il suo intervento sia per assicurare il pagamento della tangente che per garantire allo stesso anche l’esecuzione dei lavori connessi alla convenzione con Ecoter che grandi vantaggi economici avrebbe arrecato alla sua posizione imprenditoriale e, quindi, anche all’organizzazione criminale di provenienza.

L.G. e F. quindi agivano sia per la realizzazione di un interesse proprio che per garantire i fini di arricchimento e rafforzamento nel campo imprenditoriale dell’organizzazione mafiosa, presente nell’affare tramite il R. di cui determinavano l’intervento e, comunque, sfruttavano la capacità intimidatoria dell’organizzazione mafiosa connessa alla assunzione della garanzia di pagamento della tangente da parte del predetto R. C." (pagg. 147 s.).

La Corte ha, quindi, ritenuto la configurabilità dell’art. 7 sotto il duplice profilo del metodo mafioso ("capacità intimidatoria dell’organizzazione mafiosa connessa alla assunzione della garanzia di pagamento della tangente da parte del predetto R. C.") che dell’agevolazione mafiosa ("garantire i fini di arricchimento e rafforzamento nel campo imprenditoriale dell’organizzazione mafiosa, presente nell’affare tramite il R.").

Sia il L.G. che il F. hanno dedotto le censure di cui si è dato conto in parte narrativa che devono ritenersi fondate per le ragioni di seguito indicate.

In via di diritto, va ribadito il costante principio enunciato da questa Corte secondo il quale la ratio dell’art. 7, L. cit. "non è solo quella di punire più severamente coloro che commettono reati con il fine di agevolare le associazioni mafiose, ma essenzialmente quella di contrastare in maniera più decisa, data la loro maggiore pericolosità e determinazione criminosa, l’atteggiamento di coloro che, partecipi o non di reati associativi, utilizzino metodi mafiosi, cioè si comportino come mafiosi oppure ostentino, in maniera evidente e provocatoria, una condotta idonea ad esercitare sui soggetti passivi quella particolare coartazione e quella conseguente intimidazione che sono proprie delle organizzazioni della specie considerata" Cass. 16486/2004 riv 227932.

Da questo principio sono stati fatti discendere i seguenti corollari:

– quanto all’agevolazione mafiosa, occorre che la condotta incriminata offra un contributo al perseguimento dei fini dell’associazione mafiosa e tale comportamento risulti assistito, sulla base di idonei dati indiziali o sintomatici, da una cosciente ed univoca finalizzazione agevolatrice del sodalizio criminale: Cass. 2696/2008 riv 242686.

– quanto al metodo mafioso, occorre che l’esplicamento di condotte caratterizzate da "mafiosità", al di là degli interessi personali dei soggetti che le attuano, siano altresì riconducibili agli interessi del clan mafioso che ha il controllo sul territorio ovvero siano rese possibili con l’ausilio degli appartenenti al sodalizio (Cass. 12882/2007 Rv. 239846), sicchè non basta il mero collegamento dei soggetti accusati con contesti di criminalità organizzata o la loro "caratura mafiosa", occorrendo, invece, l’effettivo utilizzo del metodo mafioso nell’occasione delittuosa: Cass. 26326/2007 Rv.

236861.

Orbene, deve ritenersi che la Corte territoriale, non abbia applicato, ai caso di specie, i suddetti principi, essendo ricorsa ad una motivazione tautologica, assertiva e contraddittoria.

Quanto all’agevolazione mafiosa, non è chiaro come gli imputati potessero agevolare il sodalizio criminale pretendendo dall’imprenditore mafioso R. non sole il pagamento della tangente per i lavori da lui eseguiti ma anche, eventualmente, di quella dovuta dallo S. ove questi non l’avesse pagata.

E’ evidente invece, come pure afferma contraddittoriamente la Corte, che gli imputati perseguirono, in via immediata e principale, un esclusivo interesse personale (quello di conseguire la tangente ad ogni costo) e, solo indirettamente, con il conferire una parte dei lavori al R., venne agevolata l’associazione mafiosa.

Deve quindi escludersi, sulla base della ricostruzione dei fatti così come effettuata dalla stessa Corte territoriale, che gli imputati, con il coinvolgere il R. nei lavori, avessero agito con la cosciente ed univoca finalità di agevolare in modo diretto il sodalizio criminale.

Quanto all’ipotesi del metodo mafioso, l’affermazione della Corte è rimasta una mera asserzione perchè non è stato chiarito sulla base di quali elementi la Corte abbia ritenuto che il R. potesse esercitare (e/o esercitò) sullo S., condotte caratterizzate da "mafiosità".

La sentenza, quindi, sul punto va annullata senza rinvio ed il reato di corruzione (consumato nel marzo del 2002) dichiarato prescritto.

Vanno però, confermate le statuizioni civili a favore di:

1) Regione Sicilia, assessorato ai LLPP, in persona del legale rappresentante pro tempore;

2) Comune di Agrigento in persona del legale rappresentante pro tempore;

3) IACP di Agrigento in persona del rappresentante pro tempore.

Infatti, sulla base di quanto detto (7.2.), manca l’evidenza della prova che l’episodio corruttivo non sia avvenuto.

8. L.G..

Costui ha proposto ricorso per cassazione avverso i due capi della sentenza che l’hanno condannato:

1) per il reato di cui all’art. 416 bis c.p. (capo A);

2) per il reato di cui all’art. 319 c.p. aggravato dall’art. 7 D.L. cit. (capo D).

8.1. Quanto al capo D) deve giungersi alla stessa conclusione alla quale si è pervenuti nei confronti del F. imputato, in concorso, dello stesso fatto: quindi, esclusione dell’aggravante di cui all’art. 7 D.L. cit., declaratoria di prescrizione e conferma delle statuizioni civili non peraltro perchè, sul punto, in pratica, entrambi i ricorsi si fondano sulla sola non configurabilità dell’aggravante, nulla essendo stato dedotto sulla non configurabilità della corruzione, al di là di una generica censura che si basa su usa diversa lettura del compendio probatorio rispetto a quella ritenuta dalla Corte territoriale (cfr. pag. 146-147 ricorso 3/05/2010).

8.2. Resta, pertanto, da esaminare l’imputazione di cui all’art. 416 bis c.p. sotto i diversi profili dedotti.

8.2.1. vizio di motivazione per avere la Corte omesso ogni decisione in ordine all’eccepita inutilizzabilità delle intercettazioni dedotta con memoria depositata all’udienza del 16/12/2009: si tratta della stessa eccezione dedotta anche dal F. con la memoria 23/02/2011.

La censura è infondata.

Come risulta dallo stesso ricorso, la questione dell’inutilizzabilità delle intercettazioni era stata dedotta avanti il Tribunale di Agrigento il quale, però, con ordinanza del 30/06/2005, l’aveva disattesa (cfr. pag. 3 ricorso depositato il 10/05/2010).

Ciò significa, quindi, che la questione avrebbe dovuto essere riproposta con uno specifico motivo di appello (il che non fu fatto) e non sollevata con una semplice memoria depositata all’udienza del 16/12/2009 avanti alla Corte di Appello.

Infatti, è vero che i vizi di inutilizzabilità sono rilevabili, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (art. 191 c.p.p., comma 2), ma tale regola vale quando il vizio, appunto, non è stato mai rilevato, perchè, nel caso in cui, come quello in esame, sia stato oggetto di una specifica doglianza disattesa dal giudice, la questione dev’essere coltivata, con uno specifico motivo di gravame, avanti al giudice di grado superiore, pena la formazione del giudicato sul punto: il che è quanto si è verificato nel caso di specie, sicchè la Corte non aveva alcun obbligo di motivare su una questione decisa in senso sfavorevole all’appellante e sulla quale si era formato il giudicato.

8.2.2. Contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta appartenenza dell’imputato all’associazione mafiosa Cosa Nostra.

Come si è anticipato in parte narrativa (1.1.) la Corte territoriale ha desunto la prova della colpevolezza dell’imputato da due fonti di prova:

1) intercettazioni;

2) dichiarazioni di diversi collaboratori di giustizia.

Il ricorrente, in questa sede, sostiene, da una parte, che la Corte avrebbe addotto una motivazione illogica e contraddittoria in ordine alle suddette prove (tale argomento è sviluppato nel ricorso datate 3/05/2010) e, dall’altra, che avrebbe male applicato i principi di diritto enunciati da questa Corte di legittimità in ordine alla corretta applicazione dell’art. 192 c.p.p., commi 1, 3 e 4 e ai requisiti di cui all’art. 416 bis c.p. (tali argomenti sono sviluppati nel ricorso depositato il 10/05/2010).

Per evitare sovrapposizioni delle diverse problematiche sollevate, si prenderà, per prima, in esame il ricorso datato 3/05/2010 con l’analisi, quindi, del compendio probatorio ritenuto dalla Corte territoriale sufficiente per giungere alla condanna dell’imputato.

8.2.2.1. INTERCETTAZIONI. 8.2.2.1.1. Intercettazioni nn. 42704 e 4270 del 16/11/2001 del colloquio svoltosi fra D.C.C. (ndr: capo mafia locale) e L.G.V. presso la segreteria politica di quest’ultimo (pag. 68 ss sentenza impugnata).

La conversazione ha il seguente andamento:

– all’inizio il L.G. si rivolge al D.C. in termini di grande familiarità chiamandolo con un diminutivo e chiedendogli se poteva procurargli due cassette d’uva da destinare quale regalia ad altro Onorevole regionale: al che il D.C. si mostra subito disponibile;

– subito dopo il L.G. si lamenta con il D.C. dicendogli che una precedente richiesta proveniente dal gruppo di appartenenza del D.C. lo aveva indotto a commettere un’imprudenza.

Si trattava della raccomandazione che il L.G. aveva speso per la riassunzione di tale Bo. presso l’Azienda Sanitaria di Caltanissetta, riassunzione che però non era stata possibile perchè il Bo., come gli era stato comunicato dal dirigente dell’Azienda, essendo stato condannato per il delitto di associazione mafiosa, era stato anche interdetto dai ppuu;

la conversazione, quindi, vira verso un altro argomento e cioè il contrasto insorto fra il L.G. ed il Sa.Ar. che, senza dire nulla al L.G., aveva candidato alla regione la propria figlia Sa.Gi., scatenando l’ira dell’imputato che sentì messo a rischio la sua elezione.

Il L.G., dopo avere vantato i favori che aveva fatto all’organizzazione mafiosa (fra gli altri, in piena notte si era recato, su sollecitazione di tale " Z.P.", presso un giudice popolare per convincerlo ad assumere una decisione in senso favorevole all’organizzazione mafiosa), della quale cosa il D.C. gli dette atto dicendogli che i suddetti favori non sarebbero mai stati dimenticati, comunicava al D.C. che era sua intenzione punire il Sa.Ar. per il gesto che aveva compiuto.

Al che, il D.C., che era stato sollecitato dal terrorizzato Sa.Ar. – che era venuto a conoscenza delle intenzioni del L.G. – ad intervenire presso costui, rispose che il Sa.Ar. era già sottomesso e che era conveniente pervenire ad un accordo;

– nel prosieguo della conversazione i due parlano delle alleanze politiche e delle mosse elettorali, della situazione politica del comune di Canicattì e di quali enormi vantaggi sarebbero potuti derivare dalla sostituzione del primo cittadino con un soggetto di loro fiducia.

La Corte commenta la suddetta conversazione nel seguente modo:

la familiarità con la quale il L.G. parla con il mafioso D. C., è indice di una conoscenza risalente nel tempo e di un consolidato rapporto di frequentazione;

– l’episodio Bo. dimostrava resistenza di rapporti preesistenti tra il L.G. ed il D.C. e la disponibilità del primo ad assecondare le richieste di intervento e raccomandazioni provenienti dalla cosca mafiosa;

lo stesso imputato, pur dichiarando di non far parte della "Chiesa" (da intendersi come associazione mafiosa), l’aveva sempre rispettata essendosi messo a sua disposizione con il compiere azioni in favore della cosca locale (episodio del giudice popolare);

la minaccia nei confronti del Sa.Ar. non era una semplice esagerazione ma un progetto ben preciso, tant’è che il Sa.

A., venutone a conoscenza, terrorizzato aveva sparso la voce che il L.G. lo voleva fare ammazzare: il D.C., al quale il Sa.Ar. aveva chiesto di intercedere, "ritiene talmente credibile detta minaccia che, assumendo una posizione di supremazia ed al contempo di garanzia, diffida l’uno politico dal portare a termine l’operazione delittuosa".

In tal modo, per l’organizzazione mafiosa "il contrasto politico doveva essere sfruttato per assicurarsi l’assoluta fedeltà dell’uno e dell’altro politico agrigentino rappresentando al Sa.Ar. il venir meno di qualunque pericolo proveniente dal L.G.";

infine, dalla descrizione della situazione politica in cui versava il Comune di Canicattì si poteva desumere che "il rapporto fra il L. G. e l’organizzazione mafiosa è di particolare compenetrazione e tale da potergli garantire l’appoggio della stesa, non attraverso generiche ed indimostrate promesse di appoggio elettorale, bensì attraverso concreti interventi tesi a ricostruire una rete di soggetti fedeli al Parlamentare regionale che da questi si erano in precedenza allontanati".

Il ricorrente ha ribattuto sostenendo che:

la Corte aveva frammentato la conversazione isolando e commentando solo alcuni passaggi suggestivi;

l’episodio Bo. dimostrava la buona fede del L.G.;

– l’episodio Sa.Ar. provava, contrariamente a quanto ritenuto dalla corte, che l’imputato non faceva parte della "Chiesa" evidenziando, quindi, la carenza dell’affectio societatis che non poteva dirsi provata neppure da alcun frasi frammentarie ed incomprensibili;

le frasi pronunciate a proposito della vicenda Sa.Ar. (e cioè l’intenzione di ammazzarlo), poi, andavano valutate come frasi pronunciate in un momento d’ira e l’intervento del D.C. andava visto come quello di un mero nuncius e non di esponente di Cosa Nostra.

8.2.2.1.2. Intercettazione n. 627 del 15/07/2001 del colloquio svoltosi fra il mafioso Di.Gi.Sa. e L.G.V. presso la segreteria politica di quest’ultimo (pag. 88 ss della sentenza impugnata).

Nella suddetta conversazione i due discutono della faccenda legata all’assegnazione dell’opera pubblica all’impresa di tale Su.

(vicenda di cui al capo B dell’imputazione), dell’uccisione del mafioso Gu.Di. classe 1950, di un’intimidazione che il L. G. aveva subito senza denunciarla (aveva rinvenuto all’interno della propria auto un candelotto di dinamite), l’intervento che il L.G. aveva effettuato su un giudice popolare (è lo stesso episodio della conversazione precedente) e la Corte, all’esito dell’analisi del lungo colloquio (riportato integralmente), dopo avere disatteso la tesi difensiva secondo la quale una frase pronunciata dall’imputato indicava l’assoluta estraneità del medesimo all’organizzazione mafiosa (cfr. pag. 95), così conclude:

"anche tale conversazione conferma quindi, come quella già in precedenza analizzata, l’esistenza di rapporti di frequentazione tra associati mafiosi e L.G. finalizzati ad organizzare e portare a termine accordi in ordine alla illecita assegnazione di lavori ad imprese di chiara estrazione mafiosa, l’avvenuto appoggio elettorale della famiglia mafiosa di Canicattì all’imputato in occasione delle elezioni regionali del giugno 2001, l’esistenza di rapporti confidenziali dell’imputato con detti esponenti criminali, i quali confidavano allo stesso le ragioni della soppressione di altri uomini d’onore, l’attività di agevolazione dell’organizzazione mafiosa svolta in passato dall’appellante".

In questa sede il ricorrente ribatte che:

a) il Di.Gi. si era recato dal L.G. per una raccomandazione;

b) la vicenda del Su. era irrilevante perchè sia il Di.

G. che il Su. erano stati assolti dal reato di cui all’art. 353 c.p.;

c) il Di.Gi. si era attivato nella raccolte dei voti nel quadro di un normale rapporto politico clientelare non di natura mafiosa;

d) il L.G. aveva usato espressioni che denotavano la sua estraneità al sodalizio mafioso;

e) non era evidente che il Di.Gi. aveva confidato al L. G. i particolari dell’omicidio del Gu..

8.2.2.1.3. Intercettazione n 38432 del 9/11/2001 del colloquio svoltosi fra il mafioso Di.Gi.Sa. e L.G.V. presso la segreteria politica di quest’ultimo (pag. 100 ss della sentenza impugnata).

Il colloquio, secondo la Corte, può essere sintetizzato nei seguenti termini:

a) "Gli interlocutori si riferiscono in primo luogo alla condotta tenuta in precedenza a Canicattì da G.G., associato mafioso di Gastronovo di Sicilia dipendente di un’agenzia bancaria con sede a Canicattì e soggetto già in ottimi rapporti con il L. G..

Questi dopo avere lamentato al Di.Gi. che il G.G. non si era più fatto notare e non era più andato a trovarlo apprende che lo stesso non aveva tenuto un comportamento perfettamente regolare secondo i dettami dell’organizzazione mafiosa.

Infatti il G.G. aveva inteso creare un rapporto privilegiato con il L.G. in virtù del quale era solo lo stesso a potere rivolgere richieste all’uomo politico, ma così facendo era entrato in contrasto con altri esponenti mafiosi locali che avevano autorizzato il Di.Gi. a recarsi dall’uomo politico senza la necessità di alcun preventivo lasciapassare";

b) il Di.Gi., poi, chiede al L.G. le modalità con le quali si poteva procedere alla rimozione del Sindaco Sc. ed "il L.G. da parte sua si dimostra pronto ad assecondare gli interessi dell’organizzazione, rappresentando nel colloquio quali occasioni di guadagno l’organizzazione criminale stia perdendo per effetto dell’atteggiamento dello Sc. che non lo aveva assecondato nelle sue illecite attività svolte all’Assessorato Regionale ai lavori Pubblici";

c) il L.G., infine, si spende in apprezzamenti favorevoli nei confronti del D.C. e si dichiara pronto ad incontrarlo "e ciò a fronte della prudenza di quello che, secondo quanto riferito dal Di.

G., voleva evitare di essere notato in compagnia dell’onorevole regionale".

Il ricorrente ribatte che:

a) il Di.Gi. non era altro che uno dei tanti questuanti che a lui si rivolgevano per raccomandazioni;

b) sul G.G. non era affatto certo che si trattasse del bancario di cui la Corte aveva parlato;

c) sulle modalità della caduta del Sindaco Sc. aveva espresso solo un parere tecnico;

d) era azzardato ritenere che i due avessero parlalo del D.C..

8.2.2.1.4. Intercettazione n. 217 del 5/01/2U’Q2 del colloquio svoltosi fra Gr.Ca. (segretario dell’imputato), D.B. A. e L.G.V. (pag. 109 ss della sentenza impugnata).

In relazione a questo colloquio la Corte scrive: " L.G. quindi dapprima si rammarica di non avere potuto partecipare al funerale della zia dell’associato mafioso D.C., con il quale non poteva mantenere rapporti più stretti per il pericolo di essere individuato dalle forze dell’ordine e, poi, passa con assoluta chiarezza ad elencare i suoi passati legami con i componenti della famiglia mafiosa di Canicattì ("io sono stato in simpatia con una certa realtà della società"), assumendo un atteggiamento di evidente vanagloria e sottolineando un dato concreto e cioè quello di essere stato sempre a disposizione degli associati mafiosi.

E tale dato non è certamente secondario, poichè risulta quindi che L.G.V. in più colloqui con diversi esponenti della locale famiglia mafiosa ha sempre reclamato la propria disponibilità ad agevolare le attività svolte dalla stessa organizzazione sin da tempi passati ed altresì palesemente pubblicizzato i suoi rapporti preferenziali con i vertici della locale cosca appartenente a "Cosa Nostra".

Il ricorrente ribatte che:

a) la mancata partecipazione al funerale è un fatto neutro;

b) alla base di alcune espressioni "poco carine volte all’indirizzo del Maggiore dei Carabinieri mo." vi era un contrasto di natura personale e, per il resto, "aveva gonfiato il proprio ruolo innanzi all’interlocutore per ragioni di immagine politica".

Il ragionamento della Corte, era, quindi, falsato perchè aveva isolato un frammento della conversazione dall’intero contesto.

8.2.2.1.5. Intercettazione n 50181 del 2/04/2002 del colloquio svoltosi fra Di.An. e L.G.V. (pag. 113 ss della sentenza impugnata).

La Corte territoriale scrive: "in tale colloquio ciò che interessa sapere al L.G. è chi abbia ucciso il Gu.Di., notizia che il suo interlocutore, evidentemente ben inserito nelle dinamiche mafiose, conosce sin dal giorno dell’omicidio e che identifica in tale Av., nominativo di una storica famiglia di killers agrigentini.

Fattesi spiegare le modalità dell’omicidio, mai denunciate all’autorità giudiziario o alla Polizia, il L.G. interloquisce poi su altri argomenti connessi ad esponenti mafiosi, famiglie contrapposte ed altre dinamiche associative, chiamando in causa nuovamente, il D.C.C. detto Li., significative di un suo inserimento nell’organizzazione certamente non occasionale".

Il ricorrente, ribatte che si tratta di "parole in libertà" e che dimostrerebbero che il L.G. era estraneo alle dinamiche mafiose perchè altrimenti sarebbe stato a conoscenza dei particolari dell’omicidio del Gu. avvenuto all’inizio degli anni novanta.

8.2.2.1.6. Intercettazione n 227 del 5/01/2002 del colloquio svoltosi fra M.C. e L.G.V. (pag. 119 ss della sentenza impugnata).

La Corte, dopo avere chiarito che l’imputato, nella suddetta conversazione, in pratica, aveva confessato la Condotta illecita tenuta all’interno degli Assessorati doveva aveva ricoperto cariche politiche il sistema posto in essere per potere influenzare l’attività di tali organi attraverso una rete di funzionali a lui rimasti fedeli, così conclude: "Ancora una volta, invero, l’appellante facendo riferimento ai termini "chiesa" e "parrini" si riferisce all’organizzazione mafiosa ed ai suoi componenti, altrimenti apparendo del tutto prive di senso le affermazioni, per chiarire che pur non essendo membro effettivo di "Cosa Nostra" egli è sempre stato a disposizione dell’organizzazione alla quale ha assicurato il proprio impegno in ripetute occasioni.

Negli anni passati i rapporti di frequentazione con gli esponenti mafiosi erano ancor più intensi, secondo quanto riferito dallo stesso L.G., il quale va precisato, nei mesi precedenti aveva appena ricevute le visite di vari componenti della famiglia mafiosa locale ( D.C., Di.Gi., D.B.A.)".

Il ricorrente, in ordine alla suddetta intercettazione, nulla deduce.

8.2.2.1.7. Conversazioni del 25/05/2001 e 21/07/2002 fra Pa.

A. e L.G.V. (pag. 123 ss) nel corso delle quali il " Pa. interloquiva con il L.G., già Assessore ai LLPP, di un sistema di aggiudicazione illecito che i Mo.

(ndr: soggetti che di recente erano stati arrestati conoscevano ed avrebbero potuto rivelare all’Autorità Giudiziaria.

Il ricorrente, nulla deduce.

8.2.2.1.8. Riunione del 7/04/2001 tenutasi presso l’abitazione del mafioso Fi.Vi. alla quale parteciparono G. G. e G.S., Fi.Vi., M. C., L.G.V. e Pa.An., (pag. 124 ss).

Scrive la Corte "scopo dichiarato, e peraltro poi ammesso dal Ma. escusso come testimone nel corso del giudizio di primo grado, era quello di comporre un dissidio politico che vedeva contrapposti il Ma. stesso ed il L.G..

Il primo dato che se ne ricava è che, ancora una volta, per la mediazione di un conflitto intercorrente tra soggetti politici operanti nel territorio agrigentino e di Canicattì in particolare, interviene l’associazione mafiosa rappresentata nel caso in esame proprio dal Fi. e dai G.G..

E’ appena il caso di osservare che L.G. quale soggetto abbondantemente a conoscenza delle dinamiche dell’organizzazione mafiosa canicattinese od agrigentina, dato questo inequivocabilmente ricavatale dalle conversazioni ambientali in precedenza riportate, era certamente a conoscenza della valenza criminale dei G.G. ed assai probabilmente anche dei Fi..

L’accaduto è stato ricostruito dal testimone br. nel corso della deposizione durante il giudizio di primo grado e risulta confermato, oltre che dal Ma. anche da una serie di conversazioni che intercorrono tra Fi.Vi. ed altri soggetti all’interno della sua autovettura e tra il Pa. ed il L.G..

Per esigenze di sintesi le conversazioni non verranno riportate occorrendo segnalare ed evidenziare che i dati di maggiore rilievo sono la circostanza che Fi.Vi. fa riferimento a precedenti incontri con il L.G., quella della familiarità tra l’appellante ed il Fi. stesso (denominato " zu.Vi."), il ruolo di primattore svolto da tale associato mafioso nel corso del burrascoso colloquio tra i due politici che venivano richiamati dal medesimo, il rappresentato pericolo corso dall’organizzazione mafiosa per effetto del conflitto che Fi.Vi. confida al figlio Fi.Di..

La difesa ha sostenuto che L.G. sarebbe stato portato all’incontro a sua insaputa dal Pa.; ebbene se anche dovesse addivenirsi a tale conclusione, occorre comunque osservare che mai Pa. avrebbe condotto L.G. presso l’abitazione di un associato mafioso ad una riunione alla quale presenziavano altri soggetti organici a Cosa Nostra se non avesse avuto la certezza di potere contare sulla disponibilità dell’uomo politico ad incontrare detti soggetti.

Peraltro, che il L.G. fosse in contatto con il F. V. risulta testualmente da un brano di conversazione intercettata in cui quest’ultimo espressamente fa riferimento ad altri precedenti incontri (…)".

Ad avviso della difesa (pag. 62 ss) le intercettazioni in questione sarebbero state travisate da entrambi i giudici di merito in quanto:

le conversazioni del 7/04/2001 intercettate a bordo della Mercedes di Pa.An., evidenziavano in prima battuta l’estraneità di L. G. nell’organizzazione dell’incontro con Ma.;

il L.G. non sapeva chi e perchè avesse organizzato l’incontro tant’è che non conosceva neppure i presenti e credeva che l’appuntamento fosse stato organizzato per le imminenti elezioni in cui era candidato il Ma. che avrebbe desiderato il suo appoggio politico.

8.2.2.1.9. Ora, quanto al contenuto delle suddette intercettazioni, è del tutto evidente che il tentativo del ricorrente di sminuirle, va disatteso.

Infatti, come appare evidente, il ricorrente, lungi dall’evidenziare contraddittorietà o illogicità nel ragionamento seguito dalla Corte, si limita ad evidenziare una versione alternativa alla motivazione addotta dalla Corte territoriale tant’è che, solo surrettiziamente vengono evidenziati pretesi vizi logici che, però tali non sono in quanto l’interpretazione che la Corte ha dato del contenuto delle varie conversazioni – condivisibile o meno che sia – di certo non presenta alcun vizio motivazionale denunciabile in sede di legittimità, non peraltro perchè la Corte non solo ha fornito un’interpretazione coerente ed adeguata al contenuto dei vari colloqui ma ha preso in esame la diversa opinione espressa sui vari punti dalla difesa, disattendendo, in modo puntuale e coerente, ogni volta la tesi difensiva (cfr. ad es. pag. 81 – 82 – 87 – 125).

In particolare, va rilevato che il ricorrente insiste molto sull’argomento secondo il quale dalle stesse intercettazioni si desumerebbe che egli non era affatto un affiliato della mafia proprio perchè si era dichiarato estraneo alla "Chiesa" (cfr pag. 9 – 10 – 22 ricorso depositato 10/05/2010 e ricorso datato 3/05/2010), affermazioni che non sarebbero state prese in considerazione dalla Corte territoriale.

In realtà, così non è.

Infatti, la Corte territoriale (a pag. 72 – 95 – 113 – 123 dell’impugnata sentenza), prende più volte in esame il suddetto argomento difensivo, ma lo disattende osservando che: – se pure era vero che l’imputato si era dichiarato estraneo alla "Chiesa", tuttavia, di fatto, non lo era mai stato perchè, subito dopo, aveva accennato "ad una reiterata disponibilità dello stesso nei confronti delle "persone di un certo tipo" (…) di avere compiuto diverse condotte nell’interesse dell’organizzazione (…)" (pag. 75 e 123 sentenza);

era vero che l’imputato aveva detto che lui imbrogli con mafiosi non ne faceva, ma "la frase va intesa in un contesto specifico legato a quella elezione particolare ed all’esistenza di gruppi, anch’essi criminali, che fronteggiavano nella predisposizione di attività elettorali in favore o contro specifici candidati" (pag. 95);

d’altra parte, lo stesso imputato, in una conversazione aveva dichiarato con assoluta chiarezza ad elencare i suoi passati con i componenti della famiglia mafiosa di Canicattì ("io sono stato in simpatia con una certa realtà della società"), assumendo un atteggiamento di evidente vanagloria e sottolineando un dito concreto e cioè quello di essere sempre stato a disposizione degli associati mafiosi" (pag. 113).

Ugualmente non possono essere tenuti in alcuna considerazione i pretesi travisamenti in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nella disamina delle intercettazioni (cfr. ad es. pag. 125), perchè, com’è ben noto, nel caso di c.d. doppia conforme (come nel caso di specie), il limite del devolutum non può essere valicato ipotizzando recuperi in sede di legittimità, salva l’ipotesi in cui il giudice del gravame, al fine di superare le critiche mosse dall’appellante al provvedimento di primo grado, individui fatti a contenuto probatorio mai prima presi in considerazione, ovvero dei quali dia una diversa lettura.

E’ in relazione a questi atti che il ricorrente deve conservare la possibilità di denunciarne il travisamento: ma non è questo il caso in esame.

La censura dedotta, quindi, va ritenuta null’altro che la riproposizione di una versione alternativa dei fatti già valutata e disattesa dalla Corte con motivazione ampia, logica ed adeguata agli evidenziati elementi fattuali.

In altri termini, le censure devono ritenersi infondate in quanto la ricostruzione effettuata dalla Corte e la decisione alla quale è pervenuta deve ritenersi compatibile con il senso comune e con "i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento": infatti, nel momento del controllo di legittimità, la Corte di cassazione non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune Cass. n. 47891/2004 rv 230568; Cass. 1004/1999 rv 215745; Cass. 2436/1993 rv 196955.

Sul punto va, infatti ribadito che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, dev’essere percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze:

ex plurimis SSUU 24/1999.

Deve, quindi, concludersi che la censura in ordine all’interpretazione che delle intercettazioni ha dato la Corte territoriale, è infondata.

8.2.2.2. FONTI ORALI. La Corte, a pag. 127 ss dell’impugnata sentenza, rileva che il compendio probatorio, già grave ed univoco, derivante dalle intercettazioni, è corroborato e confermato dalle dichiarazioni rese dai collaboratori di giustizia Gi.An. (pag. 127/131), D.G.M. (pag. 131/134), Br.Gi., C. G., V.C. (pag. 134), Pu.Ca. (pag. 135), le cui dichiarazioni vengono riscontrate sia intrinsecamente che estrinsecamente.

La Corte, poi, ha cura anche di prendere in esame la tesi difensiva e disattenderla.

8.2.2.2.1. D.G.M..

Costui, secondo quanto scritto nella sentenza impugnata (pag. 131 s.s.), riferì:

a) di conoscere dal 1998 il L.G. per averlo incontrato nell’abitazione del mafioso Fi.Vi.;

b) di sapere che il sistema degli appalti nella provincia di Agrigento gravitava intorno al L.G. che pretendeva (ed otteneva) cospicue tangenti dagli imprenditori che erano stati favoriti;

c) che il L.G. era un soggetto a disposizione dell’associazione mafiosa che aveva interesse a mantenerlo nelle sue cariche istituzionali;

d) che, in effetti, era stato contattato dal Gi.An., per la vicenda dell’acquisto della Farmacia gu., incarico che però aveva declinato.

La difesa (pag. 72 ss ricorso e pag. 138, in via riassuntiva) ha replicato che il D.G. doveva ritenersi inattendibile essendo stato più volte smentito in ordine:

a) alle presunte tangenti versate al L.G.;

b) all’appoggio elettorale fornito dall’associazione mafiosa L. G.C., al figlio dell’imputato.

Non vi era poi certezza su quanto riferito a proposito dell’episodio della Farmacia.

La censura, nei termini in cui è stata dedotta, va ritenuta infondata.

Il punto di partenza non può che essere la sentenza di primo grado che, sulla base di puntuali elementi fattuali e alla stregua della consolidata giurisprudenza di questa Corte di legittimità in ordine alla valutazione della chiamate in reità, giunse alla conclusione che il D.G. doveva ritenersi attendibile sia intrinsecamente ("ai fini del giudizio in ordine alla credibilità soggettiva del dichiarante, oltre alle valide ragioni che determinavano lo stesso ad iniziare la collaborazione, si deve osservare che le stesse dichiarazioni acquisite in sede di esame del D.G. devono intanto considerarsi come promananti da un soggetto che è stato nella situazione oggettiva di conoscere i fatti oggetto di cognizione, riferiti per aver fatto parte dell’associazione mafiosa denominata Cosa Nostra, con ruoli anche primari nell’ambito provinciale con l’appoggio di Gi.Ni..

Peraltro, oltre alla logicità ed alla costanza nella narrazione, si deve evidenziare che non sono rilevabili elementi che possano deporre per un qualunque intento calunniatorio" da parte dell’imputato in danno dei chiamati in correità, posto che appare sufficientemente chiaro che il D.G. – pur potendo aggiungere elementi a carico che non avrebbero essere ragionevolmente vagliati – si asteneva da rendere dichiarazioni meno che sobrie": cfr. vol. 2^, pag. 797 ss), sia sotto il profilo Oggettivo ("Sotto il profilo obiettivo si deve evidenziare che i riscontri alla narrazione di D.G. promanano dalle risultanze di sentenze passate in giudicato quali quelle rispettivamente emesse nei procedimenti denominati "Appalti Liberi e Cupola", da una lettura antica e coordinata del compendio delle intercettazioni in atti posto in relazione con le risultanze delle investigazioni, nonchè dalle dichiarazioni rese da ulteriori collaboratori di Giustizia quali Gi.An. e Ga.

I., e, per un quadro di riferimento nel tempo con specifico riferimento alla spartizione di lavori e finanziamenti pubblici in provincia di Agrigento, anche dalle dichiarazioni rese da Si.

A.": pag. 798).

Il Tribunale, poi, dopo avere riportato le dichiarazioni rese dal D. G., di volta in volta, aveva cura di precisare quali fossero i riscontri alle suddette dichiarazioni (cfr. ad es. pagg. 825 (quanto al riscontro dei rapporti tra L.G.V. e F. V.) – 828 (quanto al riscontro "in ordine al sistema di tangenti instaurato nell’ambito della spartizione dei finanziamenti pubblici dal L.G. si confronti ancona una volta il compendio delle intercettazioni, in relazione alle dichiarazioni specifiche sul punto rese da Gi.An.; riscontro obiettivo alla percezione effettiva peraltro si desume dalle ingenti somme liquide nella disponibilità del L.G., per il cui riciclaggio venivano interessati M.C. ed il figlio del L.G., Ri., che coinvolgeva da parte sua la famiglia della coniuge D. A.F.") – 829 (quanto ai riscontri in ordine ai lavori affidati alla ditta Mo., il Tribunale richiamava due relazioni di servizio della P.G dalle quali si desumeva la presenza di fratelli di D.G.M. presso il cantiere dei Mo. in Canicattì) – 834 (quanto al riscontro dell’episodio oggetto di contestazione di cui al capo b) della rubrica – di turbativa d’asta, oggetto di una specifica conversazione intercettata presso la segreteria politica del L.G. che vedeva quali interlocutori lo stesso L.G. ed il Su., conversazione dalla quale si desume la capacità del L.G. di attribuire il lavoro ad uno specifico destinatario, anche in contrasto con i Li. di Grotte; sul punto appare peraltro rilevante l’approfondimento tecnico in ordine alle modalità della turbativa d’asta sviluppate da parte del CT del P.M. Ing. D’.; le dichiarazioni sul punto del D.G. si ritengono dunque pienamente riscontrate") – 838 (ulteriore riscontro alla suddetta turbativa d’asta) – 847 (in ordine alla disposizione data nell’ambito mafioso di far votare L.G.C. nell’ambito delle elezioni provinciali, il Tribunale osserva che "le deposizioni testimoniali ammesse a prova contraria su richiesta della difesa a fronte delle dichiarazioni rese dal D.G. non hanno smentito in alcun modo la circostanza specifica riferita dall’imputato") – 850 (riscontri sull’influenza "dell’ambito mafioso nelle elezioni provinciali nell’anno 2003 in favore di L.G.C., che venne proclamato presidente del consiglio provinciale") – 851 (riscontri sui rapporti tra L.G.V. e D.C.C.).

La Corte territoriale, avanti alla quale la questione dell’attendibilità delle dichiarazioni rese dal D.G. era stata dedotta, l’ha disattesa, confermando il giudizio di attendibilità intrinseca ed estrinseca espresso dal Tribunale e rilevando come un oggettivo riscontro fosse "il bigliettino recante la dicitura Farmacia gu. di Porto Empedocle rinvenuto in possesso del Gi.An. che denota inequivocabilmente l’utilizzazione da parte del L.G. in tempi contestuali alle condotte contestate, di un canale mafioso per ottenere l’acquisto di un importante esercizio commerciale".

In questa sede, il ricorrente cerca di confutare il giudizio di attendibilità del D.G. ricorrendo alla ben nota tecnica retorica del frazionamento dei singoli episodi e della minimizzazione dei riscontri oggettivi tramite l’enfatizzazione di elementi che non sarebbero stati presi in esame dalla Corte.

Sul punto va rammentato, però, che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte alla quale va data continuità:

"la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complesso corpo argomentativo": ex plurimis Cass. 8868/2000;

la motivazione è costituita da una serie di argomenti che s’integrano a vicenda sicchè va censurata nel suo insieme (tenendo conto di tutta la ratio decidendi) e non isolando i vari indizi per criticarli avulsi dal contesto in cui sono stati inseriti.

In particolare, ad es., il ricorrente:

sull’ampia motivazione con la quale il tribunale aveva sostenuto che il D.G. fosse attendibile intrinsecamente (giudizio condiviso dalla Corte a pag. 133), in pratica, non ha speso una sola parola;

sui singoli riscontri obiettivi individuati di volta in volta dal Tribunale (richiamati e condivisi dalla Corte a pag 133 della sentenza impugnata), ne ha analizzato solo alcuni;

ha tentato di sminuire l’episodio del "pizzino" trovato in possesso del Gi.An. e relativo alla Farmacia gu., non rilevando, però, che quel dato costituiva un oggettivo riscontro a quanto dichiarato dal D.G. che aveva riferito che era stato proprio il Gi.An. a contattarlo perchè si occupasse della vicenda;

ha concentrato la sua attenzione, frazionandole, solo su pretese contraddizioni in cui sarebbe caduto il D.G. su singoli episodi, trascurando il dato complessivo ossia che, secondo quanto rilevato dalla Corte territoriale, il D.G. aveva "sempre circostanziato le sue affermazioni accusatorie nei riguardi del L.G., calandole in un contesto costituito dalle attività della famiglia mafiosa di Canicattì e degli imprenditori per essa operanti, del tutto consono al contenuto dei riferimenti.

E così i rapporti tra Fi.Vi. ed il L.G. risultano comprovati da altri elementi già rassegnati, quelli tra l’uomo politico ed il Su. trovano conferma inequivocabile in un’intercettazione ambientale, la percezione di tangenti è poi confermata dallo svolgimento della vicenda Ecoter oltre che dalla notevole disponibilità di somme di denaro contante da parte di L. G. che lo stesso certamente non avrebbe voluto a tutti i costi occultare se avessero avuto origine lecita".

In altri termini, quello che rileva non sono tanto le eventuali contraddizioni in cui il D.G. sarebbe incorso, quanto il fatto che quelle dichiarazioni, complessivamente valutate e, tenendo conto del fatto che il D.G. aveva riferito fatti appresi de relato (il che spiega le pretese contraddizioni), hanno trovato una sostanziale conferma in quei dati obiettivi evidenziati da entrambi i giudici di merito (intercettazioni – vicenda Ecoter – disponibilità non giustificata di grosse somme di denaro – rinvenimento del pizzino – rapporti e frequentazioni con notori mafiosi – appoggio elettorale da parte della cosca mafiosa) dati, o non contestati dal ricorrente o contestati adducendo una mera versione alternativa dei fatti che, però, non è tale da evidenziare nella motivazione dei giudici di merito alcuna contraddittorietà o illogicità. 8.2.2.2.2. GI.AN..

Costui, secondo quanto scritto dalla Corte territoriale (pag. 127 ss), ha riferito:

a) di aver conosciuto e frequentato il mafioso G.G., impiegato presso un’agenzia bancaria di Canicattì;

b) il G.G. – che era socio di fatto dell’impresa di tale ga., aggiudicatario di lavori pubblici – gli aveva riferito che era in ottimi rapporti con il L.G. grazie al quale era riuscito ad avere i suddetti appalti e che il L.G. rappresentava "il canale per ottenere altri finanziamenti di opere da fare realizzare ad imprese collegate all’associazione mafiosa".

La Corte, in uno con la sentenza di primo grado (cfrl vol. 2^ pag.

712 ss), ha ritenuto che le suddette dichiarazioni erano state riscontrate dai seguenti dati obiettivi:

a) il ritrovamento, al momento dell’arresto del Gi.An., di due "pizzini" che contenevano il riferimento all’impresa Scaer di ga.;

b) le opere riguardanti il finanziamento della realizzazione di un acquedotto a Sinagra per un importo di L. 1.500.000.000, erano state finanziate con decreto sottoscritto dal L.G.;

c) l’amicizia fra G.G. e L.G. era stata confermata dalle intercettazioni;

d) un "pizzino" avente ad oggetto la vicenda della Farmacia gu. in relazione alla quale il Gi.An. riferì che era stato il G.G. a chiedergli se poteva intercedere per favorire l’acquisto della suddetta Farmacia da parte del L.G..

Il ricorrente (pag. 91 ss e, riassuntivamente, a pag. 140) ha obiettato che il Gi.An. aveva riferito, de relato, solo su due episodi, quello della Farmacia e quello del preteso intervento tramite illecito finanziamento di due lavori nella provincia di Messina eseguiti dall’imprenditore ga., intervento, però, che non poteva dirsi riscontrato.

In particolare, quanto all’episodio della Farmacia, il ricorrente (da pag. 91 a pag. 95) s’ingegna a dimostrare che, nei confronti del farmacista dott. gu., non era mai stata esercitata alcuna forma di intimidazione e che, sul piano logico, non era credibile che il L.G., se davvero avesse fatto parte della famiglia mafiosa di Canicattì, si fosse rivolto a gente estranea alla provincia.

Quanto alla vicenda dell’impresa ga., il ricorrente (da pag.

95 a pag. 114) sostiene che:

a) le dichiarazioni del Gi.An. non erano credibili perchè fruttò di progressione accusatoria;

b) non era possibile che il Si., vero dominus in materia di appalti pubblici, non avesse mai menzionato il L.G.;

c) i "pizzini" non dimostravano l’illecita influenza del L.G. il quale si era solo limitato a firmare, nella sua qualità di assessore regionale, i decreti di finanziamento, essendo poi responsabili del bando i singoli Comuni.

Anche tale complessa censura non coglie nel segno.

Quanto all’episodio della Farmacia gu., la doglianza, nei termini in cui è stata dedotta, è fuorviante.

Infatti, la Corte, davanti alla quale la stessa censura era stata proposta, ha così ineccepibilmente risposto (pag. 130): "ciò che rileva non è la circostanza della mancata cessione della Farmacia e dell’assenza di qualsiasi pressione mafiosa sul gu., quanto il dato dell’avvenuta sollecitazione da parte del L.G. di un canale "mafioso" tramite il percorso G.G. – Gi.An. – D.G. per ottenere un risultato dallo stesso sperato.

L’imputato, cioè, dovendo compiere un acquisto certamente economicamente importante, si rivolgeva all’associato mafioso G.G., della cui appartenenza all’organizzazione era ben a conoscenza …": osservazione questa che smentisce, quindi, anche la presunta illogicità del ragionamento della Corte, atteso che il L. G. non si rivolse affatto a gente fuori di provincia ma al G.G. che, a sua volta, tramite il Gi.An., interessò il D.G., ossia un personaggio mafioso di una certa caratura nell’ambito della mafia locale.

Quanto all’episodio dei finanziamenti all’impresa del ga., sebbene il ricorrente cerchi di minimizzare il suo ruolo, le dichiarazioni del Gi.An. – come evidenziato da entrambi i giudici di merito – hanno trovato un riscontro in dati di fatto oggettivi, gravi, precisi e concordanti, essendo costituiti:

a) dal ritrovamento di due "pizzini" che contenevano "l’indicazione dell’impresa aggiudicataria (Scaer), dell’importo dei lavoro, del luogo di svolgimento degli stessi nonchè la data del loro invio (10/11/2000 e 7/772001)";

b) dal decreto di finanziamento sottoscritto dal L.G.;

c) dall’avvenuta iterazione della regolarità della gara pubblica descritta ampiamente dal tribunale nel vol. 4^ a pag. 322 ss (in particolare pag. 335).

Quanto al Si., la Corte ha replicato che, avendo costei iniziato a collaborare all’inizio degli anni novanta (secondo il ricorrente fu arrestato nel 1997: cfr. pag. 99 ricorso), non poteva riferire sul L.G. perchè i fatti addebitati a costui si riferiscono a condotte poste in essere nel 2000.

In conclusione, anche per il Gi.An., deve concludersi che il giudizio di attendibilità attribuitogli da entrambi i giudici di merito, non risulta minimamente scalfito dalle censure dedotte in questa sede dal ricorrente.

Entrambi i giudici di merito, infatti, nel valutare l’attendibilità del medesimo, si sono attenuti ai criteri enunciati da questa Corte di legittimità atteso che rie è stata vagliata la credibilità soggettiva (" in quanto connotate dai caratteri della costanza, della logicità e dal chiaro difetto di intenti accusatori gratuiti. Nè si ravvisano ipotesi di effettiva "progressione accusatoria", sostanzialmente apparenti considerata la specificità delle domande progressivamente poste, rispetto ad argomenti spesso non enucleati in modo compiuto in prima battuta.

Il ruolo rivestito dal Gi.An. nella consorteria lo poneva d’altronde nella condizione di conoscere effettivamente i fatti riferiti": sentenza di primo grado vol. 2^ pag. 797, le cui considerazioni sono state recepite anche dalla Corte territoriale) ed oggettiva attraverso il riscontro con numerosi, precisi e concordi dati fattuali.

8.2.2.2.3. BR. – CA. – V.C..

La Corte, relativamente a costoro ha scritto: "Invero a fronte delle già analizzate accuse altre ne sono state formulate da Br.

G., il quale dichiarava che al L.G., Assessore Regionale, ci si rivolgeva per essere agevolati nei finanziamenti dei progetti;

CA.Gi. secondo cui l’imputato era un soggetto inserito nelle dinamiche della famiglia mafiosa di Canicattì;

V.C. che ricordava un riferimento di altro associato mafioso al L.G. in occasione di una riunione di mafia avvenuta negli anni 80.

Esse integrano quali riscontri un quadro probatorio già assai cospicuo e devono far ritenere sostanzialmente condivisibili le conclusioni cui perveniva il Tribunale circa la responsabilità del L.G. per il delitto di cui al capo A) della rubrica".

Il ricorrente, quanto al BR. (pag. 128 ss del ricorso) ha contestato la rilevanza probatoria delle suddette dichiarazioni sostenendo che dalla sua deposizione "non emerge alcun fatto concreto riconducibile a L.G.V. nell’ottica di integrazione del reato associativo".

La sentenza di primo grado (vol. 2^ pag. 492), dopo aver dato atto della attendibilità soggettiva ed oggettiva del Br., rileva che il medesimo aveva dichiarato di non avere mai conosciuto il L. G. ma che aveva saputo che era un politico, assessore ai lavori pubblici, o quanto meno era alla Regione Siciliana, era una persona a cui si rivolgeva per ottenere finanziamenti, era di Canicattì o comunque dell’agrigentino, ed era persona molto vicina al D.C. ed "a disposizione".

Si tratta, come si può notare, di dichiarazioni de relato che, come ha già rilevato la Corte territoriale, se da sole di certo non sarebbero sufficienti, per la loro genericità, a suffragare l’ipotesi accusatoria, unite al già evidenziato compendio probatorio, contribuiscono, indubbiamente, a fornire un ulteriore riscontro sia alle chiamate in reità sia al contenuto delle intercettazioni.

Quanto al CA., il ricorrente (pag. 133 ricorso) obietta che il narrato "è destituito da riscontri convalidanti. Ciò che rende del tutto cassabile il dictum di secondo cure sullo specifico profilo dell’attitudine al riscontro asseritamente posseduta dalle dichiarazioni del Ca.".

La sentenza di primo grado tratta delle dichiarazioni rese dal Ca. nel vol. 2^ a pag. 513 ss. rilevando che era un soggetto attendibile, che aveva affermato di non conoscere personalmente il L.G. ma che sapeva che costui era vicino all’associazione mafiosa Cosa Nostra di Caricattì, per averlo saputo da conversazioni con vari esponenti mafiosi e per averlo constato personalmente quando, essendo stato recluso con un mafioso di nome Co., costui inviò al L.G. una cartolina con la quale chiedeva un aiuto per i suoi guai giudiziari.

Il tribunale, da pag. 515 a pag. 517, da atto dei riscontri alle dichiarazioni del Ca..

Anche in questo caso di tratta di dichiarazioni de relato peraltro molto più particolareggiate di quelle del Br. e sulle quali il ricorrente erroneamente sostiene che non vi siano riscontri convalidanti, perchè, come ha riassunto il tribunale, alla fine di un puntuale riscontro sul piano oggettivo delle dichiarazioni rese dal Ca. "la ambientazione e le specifiche circostanze descritte dal Ca. devono purtroppo ritenersi corrispondenti ad una realtà storica, pur se riferite essenzialmente de relato, per essere le stesse ampiamente riscontrate sotto il profilo obiettivo".

Infatti, il ricorrente, lungi dal contestare quanto scritto dal tribunale, a ben vedere, si limita o a minimizzare i vari episodi o a dare una versione alternativa dei fatti.

Quanto al V.C., il Tribunale (vol. 2^ pag. 542 ss), dopo avere dato atto della sua attendibilità, chiarisce che le informazioni sul L.G. venivano narrate dal collaboratore con riferimento a quinto appreso all’esito di una riunione mafiosa nell’anno 1983, nel corso della quale "l’ Fe.An. davanti a tutti ricordo ancora che rivolgendosi al c. dice " ca., poi fisso l’incontro con il L.G. per cercare di sostenere questa candidatura di D’.Ma.".

Cioè questo era il concetto, il discorso del Fe.An. che faceva a c.c. davanti a tutti" (pag. 564).

Il Tribunale evidenzia che nessun dubbio poteva esserci sul fatto che il L.G. di cui si era parlato in quella riunione fosse proprio l’odierno imputato (cfr. pag. 574) e conclude rilevando che "peraltro, il chiaro interesse alla politica coltivato dal V.C. nella qualità di esponente mafioso giustifica la conoscenza dell’onorevole L.G., mentre d’altra parte risulta riscontrata la questione dell’uccisione di L.L..

In ogni caso, i rapporti tra L.G.V. e la mafia di Canicattì risultano ampiamente provati dal tenore delle conversazioni telefoniche presso la segreteria politica, tenore dal quale si desume il contatto con soggetti della famiglia mafiosa di Canicattì da parte del L.G.; in talune occasioni peraltro l’imputato conversando ricordava con rimpianto il rapporto di amicizia che lo legava con alcuni di tali soggetti".

A fronte di tale motivazione (fatta propria dalla Corte territoriale), il ricorrente (pag. 126 ss), ancora una volta, ha minimizzato la suddetta dichiarazione sostenendo che il V.C. non aveva riferito nulla in ordine all’appartenenza dell’imputato in Cosa Nostra e che non risultava riscontrato che il Fe. avesse contatto il L.G. per richiedere appoggio elettorale in favore del D’..

Ora, sul punto, va osservato che, se la suddetta dichiarazione viene considerata avulsa dall’intero contesto probatorio, indubbiamente, come sostiene il ricorrente, è poco rilevante sia perchè risalente nel tempo sia perchè riferisce un fatto del quale non risulta alcun riscontro.

Se, però, la suddetta dichiarazione viene letta, come si deve, insieme a tutte le altre, è indubbio che, come hanno rilevato entrambi i giudici di merito, fornisce un ulteriore tassello all’impianto accusatorio perchè è una dichiarazione che, ancora una volta, individua il L.G. come un soggetto orbitante nell’ambito dell’associazione mafiosa tant’è che era conosciuto da soggetti mafiosi ai quali era talmente familiare che a lui si rivolgevano o per affari privati o per appoggi elettorali.

Quindi, in conclusione, il fatto che le dichiarazioni del Br., del Ca. e del V.C., siano dichiarazioni de reato, non significa che possano essere poste nel nulla perchè, com’è noto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, una volta che sia stata verificata positivamente l’attendibilità intrinseca ed estrinseca dei dichiaranti, anche le dichiarazioni de relato sono idonee a costituire un valido riscontro al thema decidendum (nella specie partecipazione all’associazione mafiosa) quando le medesime:

a) siano indipendenti perchè provengono da fonti completamente diverse ed autonome l’una dall’altra;

b) non siano calunniose;

c) siano specifiche nel senso che la cd. convergenza del molteplice dev’essere sufficientemente individualizzante e riguardare sia la persona dell’incolpato sia le imputazioni a lui ascritte, fermo restando che non può pretendersi una completa sovrapponibilità degli elementi di accusa, dovendosi privilegiare l’aspetto Sostanziale sul nucleo centrale della questione fattuale da decidere (ex plurimis Cass. 9001/2000 riv 217728 – Cass. 24249/2004 riv 228550 – SSUU 49691/2004).

Orbene, le dichiarazioni rese dal Br., V.C. e Ca. rispondono a tutti i suddetti criteri perchè:

il tribunale ha vagliato per tutti e tre, in modo puntiglioso, la loro attendibilità intrinseca ed estrinseca tant’è che il ricorrente, sul punto, nulla ha replicato;

sono sicuramente indipendenti perchè provengono da soggetti diversi e che non risulta abbiano mai avuto contatti fra di loro in modo da potersi influenzare l’uno con l’altro;

– non sono calunniose: sul punto, il Tribunale ha avuto cura di chiarirlo per ciascuno dei dichiaranti;

– sono convergenti e specifiche sul nucleo essenziale delle dichiarazioni perchè riguardano il L.G. ed hanno ad oggetto la sua partecipazione all’associazione mafiosa, ossia il capo d’imputazione.

8.2.2.2.4. PU.Ca..

Scrive la Corte: "Quanto alle dichiarazioni del Pu.Ca., la cui attendibilità è stata fortemente contestata dall’appellante, se è vero che questo collaboratore di giustizia ha un percorso sicuramente assai travagliato nel corso del quale non sono mancate anche affermazioni giurisprudenziali di scarsa credibilità, deve comunque rilevarsi come il medesimo abbia comunque riferito plurime circostanze nel procedimento in esame anche nei riguardi di altri coimputati giudicati nel separato giudizio abbreviato, ritenute attendibili dai giudici di appello con affermazione non smentita nel giudizio di legittimità.

Tenuto conto di tali considerazioni può ritenersi che il medesimo abbia riferito vicende riguardanti l’attività politica del L. G. e le sue connessioni con ambienti mafiosi, che costituiscono un ultimo riscontro alle tesi accusatorie già autonomamente idonee a fornire un giudizio di colpevolezza dell’imputato".

Il ricorrente (pag. 114 ss del ricorso), oppone una serrata critica all’attendibilità del suddetto dichiarante.

Sul punto questa Corte si limita ad osservare che è la stessa Corte territoriale, a ben vedere, che dà atto che si tratta di un collaboratore problematico dal punto di vista della credibilità e che le sue dichiarazioni, in pratici, nulla tolgono e nulla aggiungono "alle tesi accusatorie già autonomamente idonee a fornire un giudizio di colpevolezza dell’imputato".

Il che è come dire che si tratta di un collaboratore le cui dichiarazioni sono state ritenute irrilevanti ai fini della decisione e, quindi, del tutto inutile l’acquisizione della documentazione dalla quale avrebbe dovuto desumersi l’inattendibilità (da ciò consegue l’infondatezza della censura illustrata al 2.6.7).

8.23. La configurabilità dell’art. 416 bis c.p..

8.23.1. Il ricorrente (pag. 142 ricorso 3/05/2010 e pagg. 7-31 ricorso depositato il 10/05/2010), alla fine della disamina del suddetto compendio probatorio, ha concluso per l’annullamento dell’impugnata sentenza per le ragioni di seguito indicate.

Mancherebbe, innanzitutto, la prova dell’affectio societatis perchè tutti i contatti con esponenti mafiosi andrebbero inquadrati nell’ambito di rapporti di amicizia, vicinanza e/o clientelare – elettorale, come risulterebbe da alcuni brani delle intercettazioni – in cui il L.G. dichiarava di non far parte della "Chiesa" – non valorizzate dalla Corte.

La sentenza, infatti, non offrirebbe "alcuna argomentazione per mostrare la sussistenza in capo a L.G. di una coscienza e volontà del soggetto di far parte dell’associazione per apportarvi un contributo anche minimo, ma non insignificante in vista della realizzazione del programma associativo criminale".

La Corte, in altri termini, aveva frainteso la disponibilità di L. G. nei confronti di singoli soggetti appartenenti all’organizzazione mafiosa, come forma indistinta di disponibilità verso l’intera organizzazione, nonchè attribuito valore criminale a conversazioni o dichiarazioni che hanno un senso diverso e "comune" di scambio di informazioni ed opinioni personali – seppure mai riferite alle autorità inquirenti (ma, com’è noto, nel nostro ordinamento non vi è alcun obbligo per il cittadino di riferire alle autorità inquirenti su fatti penali di cui si è venuti a conoscenza) – in un contesto di natura politico-clientelare, tra L. G. e soggetti che costituivano parte del suo elettorato".

Tutti i collaboratori di giustizia avevano profferito dichiarazioni de relato e la Corte non si era attenuta ai criteri stabiliti da questa Corte di legittimità in ordine al vaglio di credibilità dei medesimi.

Mancavano, in conclusione, sia gli elementi per ritenere il L. G. come facente parte, a pieno titolo, dell’organizzazione criminosa, sia come concorrente esterno in quanto, anche sotto quest’ultimo profilo, mancavano, nella motivazione della sentenza, argomenti die dimostrassero "a) la realizzazione in capo a L. G. di una condotta agevolativa del programma criminoso dell’organizzazione Cosa Nostra o b) la sua cosciente volontà di contribuire ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione mafiosa, infatti, determina, com’è ovvio, la non configurabilità a carico dell’imputato neanche della fattispecie di concorso esterno". 8.2.3.2.La complessa censura dedotta dal ricorrente, pone le seguenti questioni di diritto:

in cosa si sostanzi la prova dell’appartenenza al sodalizio criminale;

quali siano le differenze tra il partecipante organicamente inserito e quello del concorrente esterno;

quale sia la linea di confine fra il mero favoreggiamento, frequentazione o la mera "messa a disposizione" e la partecipazione al sodalizio criminale.

Si tratta tutte di questioni che questa Corte ha ampiamente esaminato e rispetto alle quali sono stati enunciati i consolidati principi di diritto di seguito indicati.

L’APPARTENENZA AL SODALIZIO CRIMINALE: partecipante all’associazione mafiosa è colui senza il cui apporto quotidiano, o comunque assiduo, l’associazione non raggiungerebbe i suoi scopi o non li raggiungerebbe con la dovuta speditezza.

E’, quindi, partecipante all’associazione colui che agisce nella "fisiologia" della vita corrente del sodalizio, ossia chi si impegna a prestare un contributo alla vita del sodalizio, avvalendosi (o sapendo di potersi avvalere) della forza di intimidazione del vincolo associativo e delle condizioni di assoggettamento e di omertà che ne derivano per realizzare i fini previsti.

Al contempo, l’individuazione di una espressione come "fa parte" non può che alludere ad una condotta che può assumere forme e contenuti diversi e variabili così da delineare una tipica figura di reato "a forma libera", consistendo in un contributo apprezzabile e concreto, sul piano causale, all’esistenza o al rafforzamento dell’associazione e, quindi, alla realizzazione dell’offesa tipica agli interessi tutelati dalla norma incriminatrice.

L’elemento psicologico consiste nella consapevolezza e volontà di associarsi con lo scopo di contribuire alla realizzazione del programma dell’associazione.

Non è richiesto che il concorrente voglia realizzare i fini propri dell’associazione, ma è sufficiente che abbia la consapevolezza che altri fa parte e vuole far parte dell’associazione e agisce con la volontà di perseguirne i fini: ex plurimis Cass. 49691/2004, Andreotti – SSUU 16/2004, Demitry – SSUU 22327/2003, Carnevale.

LA PROVA DELL’APPARTENENZA: in relazione alla prova della partecipazione all’associazione va ribadito che la prova logica costituisce il fondamento della dimostrazione dell’esistenza del vincolo associativo.

E, invero, occorre procedere all’esame delle condotte criminose, ciascuna delle quali può non essere dimostrativa del detto vincolo, sicchè solo attraverso un ragionamento logico può desumersi correttamente che le singole intese dirette alla conclusione dei vari reati costituiscono espressione del programma delinquenziale, oggetto della stessa associazione.

Infatti, la prova dell’esistenza della volontà partecipativa è desunta per lo più dall’esame d’insieme di condotte frazionate ciascuna delle quali non necessariamente dimostrativa della partecipazione stessa e attraverso un ragionamento dal quale si possa dedurre che le singole intese dirette alla conclusione dei vari reati costituiscono l’espressione del programma delinquenziale oggetto dell’associazione: Cass. 1631/2000 riv 216263 – Cass. 1525/1997 riv 209105 – Cass. 1470/2007 Rv. 238839.

DIFFERENZE FRA IL PARTECIPANTE ORGANICAMENTE INSERITO E QUELLO DEL CONCORRENTE ESTERNO: il concorso esterno sussiste in capo alla persona che, priva della "affectio societatis" e non inserita nella struttura organizzativa del sodalizio, fornisca un contributo concreto, specifico, consapevole e volontario, a carattere indifferentemente occasionale o continuativo, purchè detto contributo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e l’agente se ne rappresenti, nella forma del dolo diretto, l’utilità per la realizzazione, anche parziale, del programma criminoso.

Nell’occasione le Sezioni Unite hanno anche precisato che la prova del concorso esterno nel reato associativo deve avere ad oggetto gli elementi costitutivi della fattispecie delittuosa, con la conseguenza che esulano dall’ipotesi in esame situazioni quali la "contiguità compiacente" o la "vicinanza" o la "disponibilità" nei riguardi del sodalizio o di suoi esponenti, anche di spicco, quando non siano accompagnate da positive attività che abbiano fornito uno o più contributi suscettibili di produrre un oggettivo apporto di rafforzamento o di consolidamento sull’associazione o quanto meno su un suo particolare settore.

Non basta, quindi, neppure ai fini del concorso esterno, la mera disponibilità a fornire il contributo richiesto dall’associazione, ma occorre l’effettività di tale contributo, cioè l’attivazione del soggetto nel senso indicatogli dal sodalizio criminoso: SSUU 22327/200, Carnevale – Cass. 24469/2009 Rv. 244382 che ha confermato che "in tema di associazione di tipo mafioso, la mera frequentazione di soggetti affiliati al sodalizio criminale per motivi di parentela, amicizia o rapporti d’affari, ovvero la presenza di occasionali o sporadici contatti in occasione di eventi pubblici e in contesti territoriali ristretti, non costituiscono elementi di per sè sintomatici dell’appartenenza all’associazione, ma possono essere utilizzati come riscontri da valutare ai sensi dell’art. 192 c.p.p., comma 3, quando risultino qualificati da abituale o significativa reiterazione e connotati dal necessario carattere individualizzante". 8.2.3.3. Premesse (questi notorie nozioni, non resta che da verificare, in concreto, se la sentenza impugnata, abbia correttamente applicato al caso di specie, i suddetti principi ed esattamente se i giudici di merito abbiano individuato elementi fattuali idonei a far ritenere che il L.G. facesse parte del sodalizio criminale.

Quanto al contenuto delle prove desunte dalle intercettazioni e dalle fonti orali, non può che rinviarsi a quanto chiarito nei precedenti paragrafi.

Quanto, poi, alla valenza delle suddette prove in ordine al reato di cui all’art. 416 bis c.p., va rilevato, innanzitutto, che la Corte territoriale, a pag. 19 della sentenza impugnata, riporta un ampio brano della sentenza di primo grado (vol. 4^ pag. 501 ss) in cui il Tribunale, riassume tutti gli elementi di prova dai quali desume, attraverso una lettura coordinata ed unitaria di tutto il suddetto compendio probatorio, che "la funzione specifica, strutturale e protratta assunta dal L.G. ai fini delle esigenze associative, quale referente della consorteria nell’ambito delle istituzioni, ove considerata in relazione ai rapporti di cointeressenza e di spartizione con Cosa Nostra, non consente di prospettare una riqualificazione del fatto ascritto in mero concorso esterno in associazione mafiosa.

Risulta d’altronde provato lo stabile inserimento dell’uomo politico nella organizzazione, nonchè l’apporto decisivo dello stesso per gli interessi non solo economici della consorteria anche tramite lo sfruttamento della propria rete politica e clientelare.

La situazione così descritta risulta ampiamente coperta dal necessario elemento psicologico tipico della fattispecie in contestazione, a nulla rilevando – ovviamente – il difetto di formale affiliazione da parte di chi offriva a Cosa Nostra un apporto certamente più rilevante rispetto ai singoli "soldati" o "capidecina".

A sua volta, la Corte territoriale (pag. 136; ma vedi anche pag.

126), all’esito della disamine dei motivi di appello, ha ribadito il giudizio del Tribunale, osservando "che la manifestata costante disponibilità in favore dell’organizzazione mafiosa protratta per un lungo arco temporale (secondo le parole dello stesso L.G. rimontante a più di 20 anni addietro), il compimento di numerose azioni agevolatici in precedenza evidenziate, lo svolgimento di ripetute condotte di finanziamento di opere pubbliche destinate ad imprese mafiose, la frequentazione ripetuta, costante e reiterata di soggetti appartenenti all’organizzazione mafiosa alcuni dei quali ricoprenti incarichi di vertice delle locali famiglie appartenenti a Cosa Nostra", la condivisione di segreti riguardanti gli autori delle eliminazioni di uomini d’onore e l’appartenenza a schieramenti contrapposti, sono tutti indice di una condotta partecipativa che va ritenuta non esclusivamente sulla base dell’assunzione di qualifiche formali (la qualità di uomo d’onore) bensì sotto il profilo ripetutamente richiamato dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione dei facta concludentia e cioè dei concreti contributi apportati alla vita associativa dall’imputato.

Nel caso di specie, pertanto, la piena consapevolezza in capo al L. G. di essere stato un soggetto permanentemente a disposizione dell’associazione mafiosa e il suo coinvolgimento in molteplici vicende associative rende il profilo formale, della mancata acquisizione di una formale qualifica di membro dell’organizzazione, assolutamente secondario e sostanzialmente irrilevante".

Non è vero, quindi, che "la sentenza contiene l’analisi dei singoli elementi di prova, quasi una mera elencazione di essi, senza tuttavia offrire una "lettura" approfondita sulla loro significatività, prima singolarmente considerati e poi nel loro complesso, al fine di fondare la tesi dell’esistenza di un’affectio societatis".

Al contrario, come si è visto nell’analisi dei singoli elementi di prova, la Corte, di volta in volta, ha evidenziato il valore sintomatico dei medesimi e, alla fine, li ha valutati in un quadro di insieme.

Infine, la circostanza che il L.G., nell’ambito della sua attività di politico, dispensasse favori e raccomandazioni, non esclude la sua partecipazione all’associazione mafiosa, essendo stato accertato che quell’attività era diretta anche ad agevolare il sodalizio.

In altri conclusivi termini si deve affermare che gli elementi individuati da entrambi i giudici di merito ( 1) la manifestata costante disponibilità in favore dell’organizzazione mafiosa protratta per un lungo arco temporale; 2) il compimento di numerose azioni agevolatrici dell’attività del sodalizio criminoso; 3) lo svolgimento di ripetute condotte di finanziamento di opere pubbliche destinate ad imprese mafiose; 4) la frequentazione ripetuta, costante e reiterata di soggetti appartenenti all’organizzazione mafiosa alcuni dei quali ricoprenti incarichi di vertice delle locali famiglie appartenenti a Cosa Nostra; 5) la condivisione di segreti riguardanti gli autori delle eliminazioni di uomini d’onore e l’appartenenza a schieramenti contrapposti; 6) episodi di cointeressenza economica con esponenti mafiosi; 7) sostegno politico da parte della cosca mafiosa di riferimento; 8) intervento di esponenti mafiosi per dirimere contrasti politici nei quali il L. G. era implicato; 9) interessamento di esponenti mafiosi per concludere un affare privato ), costituiscono – valutati nel loro complesso – sicuri indici di appartenenza – come intraneus – al sodalizio criminale, essendo indicativi di un’attività di piena e condivisa affectio societatis avente un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento dell’associazione e ben differente dalla semplice "contiguità compiacente" o "vicinanza" o "disponibilità" nei riguardi del sodalizio o di suoi esponenti.

8.2.4. violazione dell’art. 2 c.p. e art. 516 c.p.p. per avere la Corte territoriale applicato il trattamento sanzionatorio più gravoso introdotto dalla L. n 251 del 2005, laddove l’originaria contestazione "chiudeva il periodo di commissione del reato al 29/03/2004, data di esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare".

In punto di fatto, va rilevato che, secondo quanto si desume dall’impugnata sentenza, "il P.M. all’udienza dibattimentale svoltasi il 20/12/2007 prorogava la data di contestazione dei fatti contestati al L.G. sino a tale data ricoprente, quindi, anche un periodo ben ulteriore rispetto a quello oggetto di contestazione originaria che si arrestava al momento di esecuzione delle ordinanze di custodia cautelare in carcere (marzo 2004)".

Osservava, poi, la Corte, che "come non soltanto non risulti in alcun modo acclarata la dissociazione del L.G. dall’associazione mafiosa, una sua presa di distanza dalle attività di "Cosa Nostra" invero non risulta mai manifestata dall’imputato nel corso del procedimento di primo o secondo grado, ma anzi risultano acquisite agli atti del giudizio conversazioni intercettate dopo l’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare dalle quali risulta palesemente che alcun mutamento di atteggiamento rispetto alle condotte criminose che gli venivano contestate l’imputato ha posto in essere, mancando qualsiasi autocritica delle proprie passate condotte pur a fronte dei rilevanti elementi di prova che gli venivano contestati e quindi, di quelle stesse intercettazioni in cui era sempre L.G. medesimo a reclamare la sua costante e reiterata collusione con l’organizzazione mafiosa.

Ci si riferisce in particolare alle conversazioni intercettate all’interno della Casa Circondariale Ucciardone e riportate nell’impugnata pronuncia alle pagine 77 e segg. del volume terzo, nelle quali il L.G. a colloquio con i familiari contesta la valenza del materiale probatorio sussistente nei suoi confronti negando ogni sua possibile responsabilità ed anzi, del tutto noncurante della natura delle accuse, cerca di concertare versioni di comodo da offrire all’autorità giudiziaria in comune con il figlio L.G.C. imputato di gravi fatti di reato di cui all’art. 12 quinques (vedi capo N della rubrica).

In particolare nelle conversazione l’imputato, sollecitato dai familiari, cerca di individuare i referenti politici cui indirizzare i voti provenienti dai suoi uomini eli fiducia, discute della attivazione di intercettazioni ambientali e telefoniche nei suoi riguardi nel corso del 2001, fa riferimento a visite ricevute da personaggi sospetti negandone il significato probatorio, evidenzia che il coimputato M.C. da poco scarcerato avrebbe potuto rendere dichiarazioni confessorie, ammette che i problemi giudiziari potrebbero derivargli dalle visite ricevute evidentemente da soggetti appartenenti a Cosa Nostra".

Può, quindi, affermarsi positivamente che, ben lungi dal prendere le distanze dal contesto criminale di appartenenza anche dopo l’esecuzione dell’ordinanza di custodia in carcere, l’imputato ha tenuto un atteggiamento pervicacemente negativo contestando la solidità dell’indagine e le prove sussistenti a suo carico così mantenendo sostanzialmente inalterato il proprio rapporto di reciproca fiducia con quell’associazione mafiosa con la quale per più di un ventennio aveva costantemente collaborato secondo quanto risultante dalle sue stesse affermazioni.

Tale aspetto della condotta, risultante da conversazioni e non contestabile attraverso le prove richieste con l’istanza di riapertura dell’istruzione, può ritenersi avere arrecato un ulteriore e concreto contributo all’organizzazione mafiosa avendo la stessa potuto ancora contare sulla fiducia di un soggetto rimasto in stabile contatto con la medesima per un lungo arco temporale".

In punto di diritto, va confermata quella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale in tema di associazione per delinquere, il sopravvenuto stato detentivo di un soggetto non determina la necessaria ed automatica cessazione della partecipazione al sodalizio criminoso di appartenenza, atteso che, fino a quando non abiuri o venga a morte, la perdurante appartenenza al gruppo di persona della quale sia provata l’affiliazione può essere correttamente ritenuta in qualunque momento, se manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione, anche in assenza della prova di condotte attualmente riferibili al fenomeno associativo, ed anche nel caso di arresto e di condanna: Cass. 6262/2003 Rv, 227710 – Cass. 2893/2005 Rv. 232883.

Secondo il ricorrente "balbettanti e inconducenti appaiono i riferimenti della Corte d’Appello sulla persistenza dell’intraneità al sodalizio mafioso …" nonchè apodittica la motivazione addotta in quanto "un soggetto che si ritiene innocente non ha nulla di che pentirsi".

Al che deve replicarsi che la censura è del tutto generica perchè al di là di parole fortemente stigmatizzanti la decisione della Corte, nulla in concreto è stato dedotto avverso la puntuale motivazione con la quale la Corte ha spiegato, a fronte di plurimi e convergenti riscontri fattuali, le ragioni per le quali doveva applicarsi il nuovo trattamento sanzionatorio.

In conclusione, nei confronti dell’imputato L.G. la pena – detratta quella irrogata dalla Corte di Appello per il reato di corruzione (essendo stato il medesimo da questa Corte dichiarato prescritto) pari ad anni uno e mesi quattro di reclusione (cfr. sentenza impugnata pag. 148) – va rideterminata in anni dieci per il solo reato di cui all’art. 416 bis c.p..
P.Q.M.

ANNULLA la sentenza impugnata, relativamente alla posizione di C.S., con riferimento alla condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, il quale deciderà anche in ordine alle spese processuali del presente grado di giudizio;

ANNULLA la sentenza impugnata, relativamente alla posizione di D. G.M., limitatamente al mancato esame della chiesta continuazione fra il reato di cui al presente procedimento e quelli giudicati con la sentenza della Corte di Assise di Palermo in data 18/0112005 irrevocabile il 18/1012005;

Rigetta nel resto il ricorso;

ANNULLA senza rinvio l’impugnata sentenza, relativamente alla posizione di F.S., limitatamente alla sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 che esclude e, per l’effetto, annulla senza rinvio la sentenza impugnata in relazione al reato di cui all’art. 319 c.p. (capo d) perchè estinto per prescrizione; conferma le statuizioni civili relative al suddetto reato e rigetta nel resto il ricorso;

ANNULLA la sentenza impugnata, relativamente alla posizione di G.S., con riferimento alla condanna al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello, il quale deciderà anche in ordine alle spese processuali del presente grado di giudizio;

ANNULLA senza rinvio l’impugnata sentenza, relativamente alla posizione di L.G.V., limitatamente alla sussistenza dell’aggravante di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 7 che esclude, e, per l’effetto, annulla senza rinvio la sentenze impugnata in relazione al reato di cui all’art. 319 c.p. (capo d) perchè estinto per prescrizione; conferma le statuizioni civili relative al suddetto reato; rigetta nel resto il ricorso e ridetermina la pena da applicare al suddetto imputato in anni dieci di reclusione;

RIGETTA il ricorso di I.S. che condanna al pagamento delle spese processuali.

CONDANNA D.G.M., F.S., L.G. V. e I.S. alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile Comune di Agrigento, in persona del Sindaco pro tempore, liquidate in complessivi Euro 7.500,00 oltre Iva e Cpa;

CONDANNA F.S., L.G.V. e I. S. alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Agrigento, in persona del legale rappresentante pro tempore, liquidate in complessivi Euro 5.000,00 oltre Iva e Cpa;

CONDANNA L.G.V. alla rifusione delle spese sostenute nel presente grado di giudizio dalla parte civile, Comune di Canicattì, in persona del Sindaco pro tempore, liquidate in complessivi Euro 3.500,00 oltre Iva e Cpa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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