Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 12-08-2011, n. 17264 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso al Tribunale, giudice del lavoro, di Roma, regolarmente notificato, S.L., assunta con contratto a tempo determinato dalla società Poste Italiane s.p.a. per il periodo dal 2.8.1999 al 30.9.1999 (successivamente prorogato sino al 30.10.1999) per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane", e con successivo contratto dal 3.6.2003 al 30.9.2003 ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1 rilevava la illegittimità dell’apposizione del termine ai contratti in questione di talchè, essendo stata l’assunzione illegittima, i contratti si erano convertiti in contratto a tempo indeterminato. Chiedeva pertanto che, previa dichiarazione di illegittimità del termine apposto ai predetti rapporti di lavoro, fosse dichiarata l’avvenuta trasformazione degli stessi in contratto a tempo indeterminato, con condanna della società al risarcimento del danno.

Con sentenza in data 12.10 / 18.10.2004 il Tribunale adito rigettava la domanda.

Avverso tale sentenza proponeva appello la lavoratrice predetta lamentandone la erroneità sotto diversi profili e chiedendo l’accoglimento delle domande avanzate con il ricorso introduttivo.

La Corte di Appello di Roma, con sentenza in data 30.6 / 25.8.2006, in riforma dell’impugnata sentenza, dichiarava la nullità della clausola del termine apposta al contratto stipulato con decorrenza dal 2.8.1999 e quindi la natura a tempo indeterminato del rapporto in questione, condannando la società convenuta al ripristino del rapporto ed al risarcimento del danno.

In particolare la Corte territoriale rilevava la illegittimità dell’apposizione del termine, essendo stato superato il termine massimo del 30.4.1998 previsto dagli accordi aziendali; e rilevava inoltre che la società datoriale non aveva fornito la prova della esistenza di specifiche esigenze concrete, riferibili alla suddetta assunzione.

Avverso questa sentenza propone ricorso per cassazione la Poste Italiane s.p.a con tre motivi di impugnazione.

Resiste con controricorso la lavoratrice intimata.

Entrambe le parti hanno depositato memoria ex art. 378 c.p.c..
Motivi della decisione

Col primo motivo di ricorso la società lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 1362 c.c. e segg., nonchè insufficiente e contraddittoria motivazione ( art. 360 c.p.c., n. 5) in ordine all’efficacia dell’accordo del 25.9.1997, integrativo dell’art. 8 del CCNL 1994.

In particolare osserva che in maniera assolutamente arbitraria la Corte territoriale aveva ritenuto che l’ipotesi prevista dalla L. n. 57 del 1987, art. 23 dovesse essere necessariamente correlata ad una precisa limitazione temporale. In tal modo l’interpretazione fornita dai giudici di merito aveva introdotto nella normativa contrattuale un ulteriore elemento assolutamente non previsto dalle parti contraenti; per contro, la corretta applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale, avrebbe dovuto portare la Corte di merito a valutare i successivi accordi attuativi nella loro effettiva natura di atti ricognitivi di una determinata situazione di fatto, senza alcuna volontà negoziale di porre limite alcuno se non quello della intrinseca temporaneità di qualsiasi processo di ristrutturazione, e quindi anche di quello della società Poste Italiane s.p.a.

Col secondo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione alla L. 18 aprile 1962, n. 230; violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione alla L. 26 febbraio 1987, n. 56, art. 23; violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione all’art. 1362 c.c. e segg..

In particolare rileva che erroneamente la Corte territoriale aveva ritenuto che la causale del contratto in questione si sarebbe risolta in una proposizione del tutto generica in quanto priva di alcun riferimento alle specifiche esigenze che avevano determinato l’assunzione del lavoratore; ed invero l’accordo del 25.9.1997 era assolutamente coerente con la previsione di cui alla L. n. 56 del 1987, art. 23 che aveva attribuito sul punto una delega in bianco in ordine alle ulteriori ipotesi di contratto a termine rispetto a quelle legislativamente previste, ritenendo l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti.

Col terzo motivo di ricorso la ricorrente lamenta violazione o falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione agli artt. 1217 e 1233 c.c..

Rileva in particolare che erroneamente la Corte territoriale aveva condannato la società al pagamento di tutte le retribuzioni dalla data delle pretesa messa in mora, e cioè dalla data di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, incorrendo in tal modo nella palese violazione dei principi e delle norme di legge sulla corrispettività delle prestazioni, avendo la giurisprudenza evidenziato che la retribuzione spetta soltanto se la prestazione di lavoro viene eseguita, salvo che il datore di lavoro versi in una situazione di mora accipiendi nei confronti del dipendente.

E rileva inoltre che erroneamente la Corte territoriale aveva disatteso la richiesta della società di valutare l’aliunde perceptum, al fine di dedurre i ricavi conseguiti dal lavoratore e che sarebbero stati incompatibili con la prosecuzione della prestazione lavorativa, aggiungendo che la percezione da parte del lavoratore di altre somme dopo l’interruzione della funzionalità di fatto del rapporto non poteva che essere genericamente dedotta dalla società.

Il primo motivo del ricorso non è fondato.

Deve premettersi, in linea generale, che la L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23 nel demandare alla contrattazione collettiva la possibilità di individuare – oltre le fattispecie tassativamente previste dalla L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1 e successive modifiche nonchè dal D.L. 29 gennaio 1983, n. 17, art. 8 bis convertito con modificazioni dalla L. 15 marzo 1983, n. 79 – nuove ipotesi di apposizione di un termine alla durata del rapporto di lavoro, configura una vera e propria delega in bianco a favore dei sindacati, i quali, pertanto, non sono vincolati all’individuazione di figure di contratto a termine comunque omologhe a quelle previste per legge (principio ribadito dalle Sezioni Unite di questa Suprema Corte con sentenza 2 marzo 2006 n. 4588), e che in forza della sopra citata delega in bianco le parti sindacali hanno individuato, quale nuova ipotesi di contratto a termine, quella di cui al citato accordo integrativo del 25 settembre 1997.

Partendo dal detto principio questa Corte, dopo aver ribadito la legittimità della formula adottata nell’accordo integrativo, caratterizzata, in particolare, dalla mancata previsione di un termine finale, ha ritenuto tuttavia viziate quelle decisioni dei giudici di merito nella parte in cui hanno affermato la natura meramente ricognitiva dei c.d. accordi attuativi e conseguentemente il carattere non vincolante degli stessi quanto alla determinazione della data entro la quale era legittimo ricorrere a contratti a termine, atteso che con tale interpretazione dei suddetti accordi si sono discostate dal chiaro significato letterale delle espressioni usate, ed in particolare di quella secondo cui per far fronte alle predette esigenze si potrà procedere ad assunzioni di personale straordinario con contratto a tempo determinato fino al 30/4/98 (cfr. accordo del 16 gennaio 1998); ciò, fra l’altro, in violazione del principio secondo cui nell’interpretazione delle clausole dei contratti collettivi di diritto comune, nel cui ambito rientrano sicuramente gli accordi sindacali sopra riferiti, si deve fare innanzitutto riferimento al significato letterale delle espressioni usate e, quando esso risulti univoco, è precluso il ricorso a ulteriori criteri interpretativi, i quali esplicano solo una funzione sussidiaria e complementare nel caso in cui il contenuto del contratto si presti a interpretazioni contrastanti (cfr., ex plurimis, Cass. sez. lav., 28.8.2003 n. 12245; Cass. sez. lav., 25.8.2003 n. 12453).

La stessa giurisprudenza ha ritenuto inoltre la sussistenza, nelle suddette sentenze, di una violazione del canone ermeneutico di cui all’art. 1367 cod. civ. a norma del quale, nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possano avere qualche effetto, anzichè in quello per cui non ne avrebbero alcuno; ed infatti la statuizione secondo cui le parti non avevano inteso introdurre limiti temporali alla previsione di cui all’accordo del 25 settembre 1997 implica la conseguenza che gli accordi attuativi, così definiti dalle parti sindacali, erano "senza senso" (così testualmente Cass. sez. lav., 14.2.2004 n. 2866).

La giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. sez. lav., 23.8.2006 n. 18378) ha, per contro, ritenuto corretta, nella ricostruzione della volontà delle parti come operata dai giudici di merito, l’irrilevanza attribuita all’accordo del 18 gennaio 2001 in quanto stipulato dopo circa due anni dalla scadenza dell’ultima proroga, e cioè quando il diritto del soggetto si era già perfezionato; ed infatti, ammesso che le parti abbiano espresso l’intento di interpretare autenticamente gli accordi precedenti, con effetti comunque di sanatoria delle assunzioni a termine effettuate senza la copertura dell’accordo 25 settembre 1997 (scaduto in forza degli accordi attuativi), la suddetta conclusione deve comunque ritenersi conforme alla regala iuris dell’indisponibilità dei diritti dei lavoratori già perfezionatisi, dovendosi escludere che le parti stipulanti avessero il potere, anche mediante lo strumento dell’interpretazione autentica (previsto solo per lo speciale settore del lavoro pubblico, secondo la disciplina nel D.Lgs. n. 165 del 2001), di autorizzare retroattivamente la stipulazione di contratti a termine non più legittimi per effetto della durata in precedenza stabilita (vedi, per tutte, Cass. sez. lav., 12.3.2004 n. 5141).

Il sopra citato orientamento di questa Corte deve essere pienamente confermato atteso che le tesi difensive che si sono confrontate nelle fasi di merito e quelle oggi proposte all’attenzione della Corte non sono sorrette da argomenti che non siano già stati scrutinati nelle ricordate decisioni o che propongano aspetti di tale gravità da esonerare la Corte dal dovere di fedeltà ai propri precedenti.

La censura relativa alla legittimità del termine apposto al contratto de quo deve essere pertanto considerata infondata per le ragioni sin qui esposte; ed in tale statuizione rimane assorbita la censura sviluppata col secondo motivo di ricorso, concernente la mancata indicazione delle specifiche esigenze che avrebbero determinato l’assunzione della lavoratrice.

Per quel che riguarda il terzo motivo del ricorso, osserva il Collegio che lo stesso è inammissibile.

Ed invero, trattandosi di ricorso avverso una sentenza depositata il 25.8.2006, ad esso si applica, ratione temporis, l’art. 366 bis c.p.c. (introdotto del D.Lgs. n. 40 del 2006 ed applicabile, ex art. 27 del predetto decreto legislativo, ai ricorsi per cassazione avverso le sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006). Tale articolo, successivamente abrogato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47, comma 1, lett. d), ma applicabile nella fattispecie in esame, dispone che "nei casi previsti dall’art. 360 c.p.c., nn. 1, 2, 3 e 4, l’illustrazione di ciascun motivo si deve concludere, a pena d’inammissibilità, con la formulazione di un quesito di diritto".

Nell’interpretazione di tale norma questa Corte (ex plurimis: Cass. SS.UU., 5.1.2007 n. 36; Cass., SS.UU., 28.9.2007 n. 20360; Cass. SS.UU., 12.5.2008 n. 11650; Cass. SS.UU., 17.7.2007 n. 15959) ha stabilito che il rispetto formale del requisito imposto per legge risulta assicurato sempre che il ricorrente formuli, in maniera consapevole e diretta, rispetto a ciascuna censura, una conferente sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, sicchè dalla risposta (positiva o negativa), che al quesito medesimo deve essere data, possa derivare la soluzione della questione circa la corrispondenza delle ragioni dell’impugnazione ai canoni indefettibili della corretta applicazione della legge, restando, in tal modo, contemporaneamente soddisfatti l’interesse della parte alla decisione della lite e la funzione nomofilattica propria del giudizio di legittimità.

E’ stato, pertanto, precisato che il nuovo requisito processuale non può consistere nella mera illustrazione delle denunziate violazioni di legge, ovvero nella richiesta di declaratoria di una astratta affermazione di principio da parte del giudice di legittimità, ma è per contro indispensabile che il quesito di diritto, inteso quale punto di congiunzione tra la risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio di diritto generale, sia esplicitamente riferito alla lite in oggetto, anche attraverso concreti riferimenti al caso specifico, di talchè sia individuabile il carattere risolutivo rispetto alla controversia concreta, altrimenti risolvendosi nella richiesta di una astratta affermazione di principio.

Siffatta ipotesi si è verificata nel caso di specie ove si osservi che la formulazione del quesito relativo al motivo suddetto si appalesa assolutamente generica, priva di qualsivoglia riferimento alla fattispecie oggetto del presente giudizio, risolvendosi nella richiesta di una astratta affermazione di principio, assolutamente pacifica.

La evidente genericità del quesito rende inammissibile il motivo, allo stesso modo di quel che si verifica in tema di censura non attinente al decisum.

Il ricorso va pertanto rigettato.

A tale pronuncia segue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio di cassazione, che liquida in Euro 40,00, oltre Euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00) per onorari, oltre spese generali, IVA e CPA come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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