Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 09-03-2010) 03-05-2011, n. 17195 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 15 marzo 2010, la Corte d’Appello di Roma riformava la sentenza del Tribunale della medesima città in data 2 novembre 2006, appellata dal Procuratore Generale e da M. G., il quale veniva condannato per i reati di tentata violenza sessuale aggravata, lesioni aggravate ed illecita cessione di sostanze stupefacenti.

Avverso tale decisione il predetto M. proponeva ricorso per cassazione.

Lo stesso deduceva la violazione dell’art. 178 c.p.p., lett. c), artt. 97 e 602 c.p.p.; la nullità della sentenza di primo grado per violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, art. 546 c.p.p., lett. e) e art. 605 c.p.p.; la violazione dell’art. 603 c.p.p. nonchè il vizio di motivazione.

Osservava, a tale proposito, che il giudizio d’appello si era svolto nell’arco di pochi minuti in assenza del difensore di fiducia e dell’imputato ed alla sola presenza del difensore d’ufficio perchè chiamato immediatamente all’udienza fissata, per la quale non era stato peraltro indicato l’orario di comparizione sul decreto che disponeva il giudizio.

Aggiungeva, inoltre, che erano state disattese dalla Corte territoriale le disposizioni in materia di prove e che la condanna era il risultato di un mero richiamo alle motivazioni del giudice di prime cure senza alcun riferimento alle possibili ricostruzioni alternative della vicenda offerte dal complessivo quadro indiziario.

Lamentava, inoltre, che era stato attribuito un eccessivo credito alla persona offesa senza procedere ad una nuova audizione della stessa come richiesto a mente dell’art. 603 c.p.p..

Veniva inoltre criticato l’apparato argomentativo posto a sostegno della riconosciuta colpevolezza, che si risolveva nell’affermazione di una mera responsabilità oggettiva, frutto di una erronea valutazione delle risultanze processuali e che aveva portato all’irrogazione di una pena eccessiva ed alla esclusione immotivata della attenuante di cui all’ultimo comma dell’art. 609 bis c.p..

Insisteva, pertanto, per l’accoglimento del ricorso.
Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Con riferimento alla eccezione di nullità conseguente alla mancata indicazione dell’ora in cui il processo sarebbe stato chiamato, deve osservarsi che secondo la giurisprudenza di questa Corte, che il Collegio condivide, tale carenza nel decreto di citazione a giudizio integra una nullità relativa la quale, se non tempestivamente dedotta, deve ritenersi sanata (Sez. 1^ n. 6686,28 dicembre 1999).

Nel caso in esame l’imputato è stato assistito da un difensore d’ufficio il quale aveva l’onere di verificare la regolarità del decreto che disponeva il giudizio ed, eventualmente, eccepire la relativa nullità la quale, in difetto di tale eccezione, è rimasta sanata.

In ogni caso deve anche osservarsi che l’orario di inizio d’udienza doveva intendersi come quello di rito e che dall’esame del verbale, consultarle dal Collegio in quanto trattasi di eccezione di natura processuale, risulta che il difensore di fiducia era giunto successivamente ed era presente alla lettura del dispositivo ed in quella occasione, pur facendo dare atto a verbale della sua presenza, nulla deduceva sul punto.

Con riferimento alle dedotte carenze motivazionali, deve osservarsi preliminarmente come, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, sia da ritenere del tutto legittima la motivazione per relationem ad opera del giudice dell’appello.

L’ambito di ammissibilità di una siffatta motivazione è stato, tuttavia, compiutamente delimitato, indicando in modo dettagliato entro quali limiti il giudice d’appello possa avvalersene.

Si è così precisato, in un primo tempo, come non sia necessario, per il giudice d’appello, esaminare nuovamente le questioni genericamente formulate nei motivi di gravame e sulle quali si sia già soffermato il giudice di prime cure, con argomentazioni esatte e prive di vizi logici, quando le censure mosse alla sentenza di primo grado non contengano elementi nuovi rispetto a quelli già esaminati e disattesi (Sez. 5^ n. 4415, 8 aprile 1999; Sez. 5^ n. 7572, 11 giugno 1999; Sez. 6^ n. 31080,15 luglio 2004).

E’ dunque consentito al giudice di appello uniformarsi, tanto per la ratio decidendo quanto per gli elementi di prova, agli stessi argomenti valorizzati dal primo giudice, specie se la loro consistenza probatoria sia così prevalente e assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione (Sez. 5^ n. 3751, 23 marzo 2000).

In tale circostanza, ciò che si richiede al giudice del gravame è, in definitiva, una valutazione critica delle argomentazioni poste a sostegno dell’appello, all’esito della quale risulti l’infondatezza dei motivi di doglianza (cfr. Sez. 4 n. 16886, 20 gennaio 2004).

Tali argomentazioni sono state ulteriormente ribadite, osservando che la conformità tra l’analisi e la valutazione degli elementi di prova posti a sostegno delle rispettive pronunce nelle sentenze di primo e secondo grado determina una saldatura della struttura motivazionale della sentenza di appello con quella del primo giudice tale da formare un unico, complessivo corpo argomentativo (Sez. 6^, n. 6221, 16 febbraio 2006).

L’individuazione dei limiti di legittimità della motivazione per relationem trova un ulteriore punto fermo nell’obbligo del giudice d’appello di argomentare sulla fallacia, inadeguatezza o non consistenza dei motivi di impugnazione in presenza di specifiche censure dell’appellante sulle soluzioni adottate dal giudice di primo grado, poichè il mero richiamo in termini apodittici o ripetitivi alla prima pronuncia o la semplice reiezione delle censure predette determina un evidente vizio di motivazione (Sez. 6^ 6221/06 cit.;

Sez. 6^, n. 35346, 15 settembre 2008; Sez. 4^, n. 38824, 14 ottobre 2008, Sez. 3^ n. 24252, 24 giugno 2010).

Date tali premesse, si osserva che, nel caso di specie, il giudice dell’appello non si è limitato, come affermato in ricorso, ad un acritico richiamo della pronuncia di primo grado, poichè ha chiaramente evidenziato di aver assunto le proprie determinazioni alla luce dell’indirizzo interpretativo formulato dalla giurisprudenza richiamata e rilevando, testualmente, che le censure formulate a carico della sentenza del primo giudice non contenevano elementi di novità tali da scalfire la congruità della pronuncia di primo grado.

La Corte non si è tuttavia limitata a tale richiamo, perchè è stata nuovamente rappresentata la congruità ed attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa ed i riscontri obiettivi alle dichiarazioni della stessa.

Su tali dichiarazioni la Corte territoriale, richiamando l’orientamento di questa Corte, ha operato il necessario vaglio critico.

Si è infatti osservato che le dichiarazioni della parte offesa, la cui testimonianza sia ritenuta intrinsecamente attendibile, viene riconosciuta la natura di vera e propria fonte di prova, ammettendo che sulla stessa, anche esclusivamente, possa essere fondata l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, purchè la relativa valutazione sia adeguatamente motivata (Sez. 4^ n. 30422, 10 agosto 2005; Sez. 4^ n. 16860, 9 aprile 2004; Sez. 5^ n. 6910, 1 giugno 1999).

Nella fattispecie, i giudici dell’appello non si sono limitati a valorizzare le dichiarazioni della vittima, ma ne hanno anche considerato l’oggettiva attendibilità sulla base della coerenza del dettagliato racconto della vicenda che la riguardava, del successivo comportamento concretatosi anche nella pur influente remissione della querela, del riscontro offerto dalle dichiarazioni dei vicini accorsi alle grida della stessa sfondando la porta dell’appartamento in cui il ricorrente e la parte offesa si trovavano ed, infine, sui contenuti del colloquio avuto dalla donna con i soccorritori ai quali la stessa riferì, nell’immediatezza del loro intervento, di aver subito dal ricorrente in tentativo di violenza sessuale.

La decisione impugnata non presenta i vizi di motivazione denunciati neppure con riferimento alla sussistenza del dolo richiesto per i reati contestati.

Contrariamente a quanto affermato in ricorso, i giudici dell’appello si addentrano in una ricostruzione dell’evento sulla base dei dati acquisiti, evidenziando l’univocità e l’idoneità degli atti posti in essere dal ricorrente, rivelatori non solo dell’intenzione di coinvolgere forzatamente la donna nel compimento di atti sessuali, ma anche della evidenza dell’elemento soggettivo inequivocabilmente manifestatosi attraverso i pesanti approcci, l’indifferenza alle richieste della P.O. di desistere da tale comportamento e la violenza fisica successivamente esercitata.

Anche per quanto riguarda la esclusione della attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., u.c., la sussistenza delle aggravanti contestate ed la quantificazione della pena la sentenza non merita le censure mosse con il ricorso.

Invero, come questa Corte ha avuto modo di osservare, l’attenuante di cui all’art. 609 bis c.p., u.c. può essere applicata allorquando vi sia una minima compressione della libertà sessuale della vittima, accertata prendendo in considerazione le modalità esecutive e le circostanze dell’azione attraverso una valutazione globale che comprenda il grado di coartazione esercitato sulla persona offesa, le condizioni fisiche e psichiche della stessa, le caratteristiche psicologiche valutate in relazione all’età, l’entità della lesione alla libertà sessuale ed il danno arrecato, anche sotto il profilo psichico (Sez. 3^ n. 40174, 6 dicembre 2006; n. 1057, 17 gennaio 2007; n. 45604, 6 dicembre 2007).

Si è ulteriormente precisato che, per l’applicazione dell’attenuante in questione, non è sufficiente la mancanza di congiunzione carnale tra l’autore del reato e la vittima (Sez. 3^ n. 14230, 4 aprile 2008;

n. 10085, 6 marzo 2009).

Alla luce dei summenzionati principi, che il Collegio condivide e dai quali non intende discostarsi, appare del tutto coerente e conforme a legge la decisione dei giudici di ritenere inapplicabile l’attenuante al caso sottoposto alla loro attenzione in considerazione del tempo trascorso dalla P.O. in balia dell’imputato, la somministrazione di stupefacente e le violenze fisiche dalla stessa subite.

Altrettanto condivisibili appaiono le considerazioni svolte in merito alla sussistenza dell’aggravante applicata per l’uso dello stupefacente in ossequio al tenore letterale dell’art. 609 ter c.p..

La pena è stata infine determinata dai giudici del merito con motivato riferimento ai criteri direttivi di cui all’art. 133 cod. pen. – in relazione ai mezzi, alle modalità e circostanze dell’azione delittuosa – con corretta e razionale valutazione complessiva di tutte le componenti oggettive e soggettive dell’azione medesima e della personalità dell’imputato, non essendo peraltro richiesta l’analitica valutazione di ogni singolo elemento esaminato, ben potendosi assolvere adeguatamente all’obbligo di motivazione limitandosi anche ad indicarne solo alcuni o quello ritenuto prevalente (v. Sez. 2^ n. 12749, 26 marzo 2008).

Il ricorso deve pertanto essere rigettato con le consequenziali statuizioni indicate in dispositivo.

Alla parte civile vanno liquidate le spese come da dispositivo.
P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonchè al pagamento di Euro 2.000,00 oltre accessori di legge in favore della parte civile.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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