Cons. Stato Sez. V, Sent., 04-05-2011, n. 2659 Appello incidentale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il dott. M. A. N., già responsabile del Servizio di anatomia ed istologia patologica della U.L.S.S. di Legnago, con due ricorsi proposti al T.A.R. per il Veneto nel 1997 e 1998 impugnava le decisioni dell’Amministrazione, rispettivamente, di nominare una commissione di indagine sull’efficienza del Servizio da lui diretto, a seguito di lamentele dell’utenza (specialmente per ritardi ed anomalie nelle refertazioni), e indi, alla luce delle risultanze della stessa commissione, di recedere per giusta causa dal suo rapporto di lavoro.

L’Amministrazione sanitaria resisteva avverso entrambe le impugnative.

Il Tribunale con la sentenza n. 305 del 1999, riuniti i ricorsi, respingeva il primo di essi. Riteneva, infatti, che nulla impedisse all’Amministrazione, anche in assenza di un’apposita previsione normativa, di svolgere discrezionalmente ogni azione di accertamento e ricognizione sulla funzionalità delle proprie strutture. Il T.A.R. accoglieva invece il secondo gravame, ritenendone fondato il primo motivo, nella parte in cui denunziava la violazione della procedura stabilita dagli artt. 36 e 59 del C.C.N.L. 5\12\1996. Ciò sul rilievo, in sintesi, che la competenza ad accertare la responsabilità che dava (giusta) causa al licenziamento avrebbe fatto comunque capo ai servizi di controllo interno o ai nuclei di valutazione istituiti ex art. 20 d.lgs. n. 29\1993, sia quando si trattava di valutare ragioni di carattere disciplinare, sia per qualsiasi altro motivo attinente ai risultati conseguiti. Gli altri motivi a base del secondo ricorso venivano dichiarati assorbiti.

Avverso la pronuncia del Tribunale l’Amministrazione proponeva l’appello in epigrafe, con il quale deduceva l’erroneità delle argomentazioni che avevano indotto all’accoglimento dell’impugnativa avversaria.

L’interessato, a sua volta, proponeva appello incidentale, con il quale, oltre a riproporre i motivi finiti assorbiti, censurava la sentenza del T.A.R. nella parte in cui reiettiva del suo primo gravame.

La domanda cautelare proposta dall’Amministrazione appellante veniva in un primo tempo accolta. In dipendenza di risultanze successive il relativo provvedimento cautelare veniva però in seguito revocato, e l’interessato riassunto pertanto in servizio e reintegrato nelle proprie ragioni economiche per il periodo di allontanamento.

Le tesi delle parti durante la pendenza del giudizio venivano sviluppate e approfondite attraverso molteplici scritti.

In particolare, l’Amministrazione eccepiva la tardività dell’altrui appello incidentale, nella parte in cui proposto contro il rigetto del primo ricorso, e l’inammissibilità per novità di uno dei motivi con esso all’uopo articolati.

La difesa dell’appellato eccepiva invece, da ultimo, l’improcedibilità dell’appello principale, a causa di rinuncia tacita o, comunque, carenza di interesse alla sua decisione da parte della U.L.S.S..

Alla pubblica udienza dell’8 marzo 2011, sulle rispettive conclusioni di parte, la causa è stata trattenuta in decisione.

1 La Sezione deve preliminarmente disattendere l’eccezione di improcedibilità dell’appello principale opposta dall’appellato. Nessuna forma di acquiescenza, rinuncia tacita o carenza sopravvenuta di interesse è ravvisabile nel comportamento tenuto dall’Amministrazione sanitaria nelle more del giudizio, né segnatamente negli atti dalla medesima assunti dopo l’accoglimento, da parte di questo Consiglio, della domanda cautelare proposta dall’interessato. La -pur laconica- comunicazione di riassunzione a lui indirizzata costituiva, a seguito del nuovo provvedimento cautelare intervenuto, un mero atto dovuto, anche in riscontro alla diffida da lui intimata. Inoltre, la delibera di liquidazione degli arretrati allo stesso sanitario recava un’inequivocabile riserva di ripetizione all’esito del giudizio di appello, ove favorevole all’appelllante (punto 2 del dispositivo). Tantomeno potrebbe essere rinvenuta, infine, una condotta incompatibile con la volontà di proseguire nell’impugnazione, nel fatto di avere liquidato al sanitario il trattamento pensionistico sulla base dell’intera durata del periodo di lavoro, il che era ancora una volta del tutto coerente con la situazione venutasi a creare con la riconquistata esecutività da parte della sentenza del T.A.R. favorevole all’interessato.

2 Nel merito, la decisione appellata merita conferma con una motivazione, tuttavia, diversa da quella adoperata dal primo giudice.

3 Questi ha ritenuto fondata la denunzia di violazione della procedura stabilita dagli artt. 36 e 59 del C.C.N.L. 5\12\1996 sul rilievo, in sintesi, che la competenza ad accertare la responsabilità che dava (giusta) causa ad un licenziamento avrebbe fatto sempre capo ai servizi di controllo interno o ai nuclei di valutazione istituiti ex art. 20 d.lgs. n. 29\1993, sia quando si trattava di valutare ragioni di carattere disciplinare, sia per qualsiasi altro motivo attinente ai risultati conseguiti. Secondo il Tribunale, infatti, la nozione di "giusta causa" del licenziamento del dirigente avrebbe ricompreso "sia ragioni di carattere disciplinare sia qualsiasi altro motivo, con riferimento ai risultati conseguiti, Ma in entrambi i casi l’art. 59 del C.C.N.L. in questione affida ai citati servizi di controllo interno o ai nuclei di valutazione istituiti ex art. 20 d.lgs. n. 29\1993 e art. 3 comma 6 d.lgs. n. 502\1992 la competenza ad accertare la responsabilità che dà (giusta) causa al licenziamento".

L’interpretazione così data alle norme in riferimento è stata però fondatamente censurata dall’appellante Amministrazione.

Questa ha fatto notare, ben a ragione, che l’art. 36, comma 4, del C.C.N.L. si è limitato ad inserire, nel novero delle molteplici, eterogenee fattispecie integratrici di una giusta causa, quella particolare, da essa contemplata, della "responsabilità particolarmente grave e reiterata, accertata secondo le procedure dell’art. 59". Accanto a tale previsione (cui fa riscontro quella dell’art. 59, comma 8, C.C.N.L.) continua, perciò, pur sempre ad operare quella, del tutto generale, dettata dal comma 2 dello stesso articolo 36, secondo il quale la "giusta causa" consiste in "fatti e comportamenti, anche estranei alla prestazione lavorativa, di gravità tale da non consentire la prosecuzione, sia pure provvisoria, del rapporto di lavoro".

Da ciò si desume che la competenza dei servizi di controllo interno o nuclei di valutazione istituiti ex art. 20 d.lgs. n. 29\1993 sussiste solo allorché ricorra l’ipotesi specifica di "giusta causa" che è stata codificata dal comma 4 dell’art. 36 (facendo richiamo, appunto, all’art. 59 del Contratto). Al di fuori di tale particolare caso, invece, l’applicazione dell’istituto del recesso per giusta causa non può che competere, secondo le norme generali, agli organi di governo dell’Amministrazione interessata, che oltretutto sono sicuramente quelli che meglio possono valutare quali "fatti e comportamenti" siano tanto gravi da ostare alla prosecuzione del rapporto.

Ora, il procedimento promosso nel caso concreto, pur avendo preso le mosse da un’indagine sulle disfunzioni del Servizio diretto dall’interessato, non poggiava su una valutazione dei risultati ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 20\1993. Se si ha riguardo, infatti, alla tipologia, all’ampiezza e al peso specifico degli addebiti contestati all’originario ricorrente, ci si avvede che alla base del procedimento non c’era una disamina del suo operato incentrata sulla valutazione dei suoi risultati "in correlazione con gli obiettivi da perseguire secondo le direttive ricevute", e tenendo contro "dellerisorse umane, finanziarie e strumentali rese effettivamente disponibili". Gli addebiti mossi avevano nessi solo marginali con i parametri propri delle valutazione dei risultati ai sensi dell’art. 20 del d.lgs. n. 20\1993, e si collocavano invece in una prospettiva diversa: venivano assunti direttamente in rilievo ai sensi del comma 2 dell’art. 36 (specificamente richiamato dall’atto di contestazione) sotto l’assorbente profilo del venir meno del rapporto fiduciario dell’Amministrazione verso il sanitario, a causa della sua incapacità organizzativa e direzionale e della sua volontà operativa anomala.

Di conseguenza, diversamente da quanto sostenuto nell’appello incidentale, nella deliberazione di recesso dell’Amministrazione non vi è alcuna "prevalenza del momento economico", il quale vi riveste, semmai, una posizione del tutto marginale, a fronte di ben più pregnanti considerazioni di ordine funzionale.

Da ciò la conclusione della Sezione che, diversamente da quanto ritenuto dal T.A.R., l’Amministrazione non era nel caso concreto affatto astretta dalle regole di competenza e procedura poste dagli artt. 36, comma 4, e 59 del C.C.N.L..

4 Riscontrata l’inconsistenza del motivo accolto a suo tempo dal primo giudice, va esaminato il residuo contenuto del relativo ricorso di primo grado, assorbito dal T.A.R. ma riproposto in questa sede dall’originario ricorrente con il suo appello incidentale.

5 In questa prospettiva, si presenta logicamente preliminare e subito fondata la doglianza di eccesso di potere per incongruità della motivazione che figurava articolata nell’ambito dello stesso primo motivo dell’originario ricorso, con il quale l’interessato si è doluto -appunto- dell’erroneità, insufficienza ed incongruità della motivazione del provvedimento di recesso, in relazione alle non dimostrate carenze ascrittegli, all’omessa considerazione delle -pur più volte- opposte carenze organiche, strutturali e strumentali, e alla mancata disamina di proporzionalità tra la misura assunta e le sue presunte inadempienze, in relazione al dovere datoriale di accertare in concreto, con riguardo a tute le circostanze del caso, se i fatti emersi fossero idonei a giustificare la risoluzione del rapporto.

La Sezione deve osservare che, mentre l’interessato in sede di audizione -durata circa otto fitte ore di lavori- aveva controdedotto con un notevole volume di argomentazioni alle contestazioni mossegli, a loro volta estremamente articolate, di contro la motivazione del provvedimento impugnato risulta assai sommaria e sbrigativa, e inoltre del tutto assertiva. Essa, lungi dal seguire i binari analitici che contrassegnavano l’impostazione data al procedimento (e così imposta anche alla difesa dell’interessato), ha proceduto per forzosa e superficiale sintesi; inoltre, senza farsi carico di confutare le argomentazioni difensive, si è limitata a sostenere apoditticamente che le giustificazioni non sarebbero valse a confutare gli accertamenti della commissione.

Non è possibile nutrire dubbi sul fatto che l’istruttoria dell’Amministrazione avesse fatto emergere fatti sicuramente gravi, e come tali meritevoli della massima attenzione e rigore. Tuttavia, le risultanze disponibili avevano una loro complessità, non disgiunta nemmeno da qualche elemento di ambiguità, come hanno dimostrato anche le vicende successive, e segnatamente la relazione ispettiva del Ministero della Sanità del 3\8\1999 e, soprattutto, il provvedimento di archiviazione emesso dalla Procura regionale della Corte dei conti in data 19 maggio 1999, motivato, in particolare, sulla "mancanza di uno stretto nesso di causalità tra la condotta del dott. N. e l’asserito danno subìto dall’Amministrazione", rapporto causale reputato dal magistrato contabile non dimostrabile.

Sicché risulta sufficientemente chiaro che il provvedimento conclusivo non avrebbe potuto prescindere da una disamina effettiva, organica e analitica di tutte le risultanze disponibili, a carico, ma anche -e pur nei loro limiti- a favore, in qualche modo, dell’interessato, dovendo altresì l’Amministrazione farsi carico, sempre nella parte motiva del provvedimento, sia di quella puntuale considerazione delle sue obiezioni che in concreto è invece mancata, sia di una valutazione obiettiva anche in ordine all’aspetto della proporzionalità della misura in discussione.

E" d’altra parte fuori discussione che una misura quale quella in contestazione, per la sua incisività e radicalità, pur essendo nei congrui casi sicuramente appropriata (se non addirittura sacrosanta), non può andare esente da un idoneo, specifico corredo motivazionale.

La fondatezza della censura comporta dunque la conferma, con la diversa motivazione appena esposta, della decisione di accoglimento del secondo ricorso di prime cure del dott. N..

6 Le rimanenti censure introdotte con quest’ultimo gravame non possono invece trovare un esito favorevole.

Il terzo motivo dell’originario ricorso avverso l’atto destitutorio va disatteso, per la semplice ragione che esso pretende di attingere direttamente il merito della questione della fondatezza dei singoli addebiti dei quali si tratta, la quale non può, però, essere giudicata dal Giudice amministrativo, che può solo sindacare le valutazioni cui sia pervenuta l’Amministrazione al riguardo.

Va respinto anche il quarto motivo, con il quale l’interessato si è doluto che la commissione originariamente attivata abbia sentito, in fase di assunzione di informazioni, una serie "indistinta ed innominata" di utenti, sanitari e altri dipendenti dell’Amministrazione. Il punto denunciato non ha invero comportato in concreto alcuna lesione delle prerogative difensive: le contestazioni mosse al dipendente erano infatti sufficientemente chiare, tanto che egli stesso riconosce di avere potuto svolgere in audizione una difesa analitica.

Va rilevata, infine, conformemente all’eccezione della difesa dell’Amministrazione, la novità, e quindi l’inammissibilità, del motivo di sviamento dedotto dall’interessato per la prima volta solo con il suo appello incidentale (pag. 4, sub n. 5). Tale censura non poteva reputarsi introdotta dalla mera enunciazione recata alla pag. 6 del ricorso di primo grado, sulla quale l’appellante pur richiama oggi l’attenzione ("E" evidente la strumentalità del provvedimento ad un probabile tentativo di risoluzione del rapporto di lavoro…"), poiché con essa non era stato prospettato un vizio di legittimità, ma solo espresso un timore.

Ogni residua censura del ricorso di primo grado può rimanere senz’altro assorbita.

7 Resta da dire, a questo punto, della contestazione portata dal dott. N., con il proprio appello incidentale, alla stessa sentenza in epigrafe, nella parte in cui reiettiva della sua prima impugnazione dinanzi al T.A.R., che aveva investito la decisione dell’Amministrazione di nominare una commissione di indagine sull’efficienza del Servizio da lui diretto.

7a La difesa dell’Amministrazione eccepisce la tardività dell’appello incidentale per questa parte, assumendo che l’interessato sarebbe dovuto insorgere immediatamente contro il relativo capo della decisione.

Osserva la Sezione che la giurisprudenza richiamata a fondamento dell’eccezione, tuttora dominante (cfr. infatti C.d.S., V, 29 marzo 2010 n. 1785 e 24 aprile 2009, n. 2588), effettivamente sottopone l’appello incidentale c.d. improprio al rigore dei termini dell’appello principale, con la conseguente inammissibilità dell’appello incidentale improprio c.d. tardivo.

L’appello incidentale c.d. improprio, invero, si caratterizza per non essere rivolto avverso il medesimo capo della sentenza gravato attraverso l’appello principale (ovvero, un capo rispetto ad esso connesso o dipendente), bensì avverso capi autonomi della sentenza, trattandosi di una forma di appello volta a far valere un autonomo interesse. Esso si connota, quindi, per una marcata autonomia, tanto nei suoi presupposti (autonomia dell’interesse alla proposizione dell’appello), quanto sotto il profilo funzionale, configurandosi quale conseguenza dell’introduzione nell’ambito del rito amministrativo della previsione di cui all’art. 333 c.p.c., nella logica del simultaneusprocessus.

Ai fini dell’appello incidentale improprio, pertanto, poiché l’interesse alla proposizione del gravame sorge non con la notifica dell’appello principale, bensì già direttamente dalle sfavorevoli statuizioni delle sentenza da impugnare, il termine per insorgere non è quello di cui al primo comma dell’art. 37, r.d. 1054 del 1924 (trenta giorni successivi al termine per il deposito dell’appello), bensì quello previsto in via generale per la proposizione dell’appello principale (C.d.S., VI, 12 novembre 2008, n. 5649; 17 aprile 2007, n. 1736).

L’appello del dott. N. contro il rigetto del primo dei suoi ricorsi al T.A.R., però, non può essere considerato come un’impugnazione incidentale di tipo improprio.

Occorre infatti considerare che il suo primo gravame al giudice territoriale concerneva la stessa materia, e trama di interessi, che anche il secondo ricorso avrebbe investito. I motivi dei due ricorsi erano in realtà interdipendenti: e i capi della sentenza che ne ha deciso le sorti erano, quindi, solo in apparenza e formalmente autonomi, ma, nella realtà, sostanzialmente connessi in maniera intima.

L’appello incidentale della cui qualificazione si discute non è, dunque, espressione di un interesse autonomo, di un interesse all’impugnativa sorto, cioè, direttamente dalla sentenza, ma di un interesse generato solo dall’appello altrui, in quanto lo scopo che lo ha ispirato è stato semplicemente quello di conservare le utilità acquisite per effetto della sentenza di primo grado, e nulla di più.

7b L’appello incidentale del dott. N., benché integralmente tempestivo, è tuttavia anche per questa parte infondato.

Le argomentazioni svolte in proposito dal primo giudice sono rimaste infatti prive di valida confutazione.

Il T.A.R. ha fatto giustamente osservare che la circostanza che manchi una previsione normativa specifica non impedisce punto all’Amministrazione, nella sua discrezionalità, di svolgere ogni utile azione di accertamento e ricognizione sulla funzionalità delle proprie strutture: iniziativa nella specie, tra l’alto, opportunamente avviata, in quanto erano pervenute lamentele dall’utenza, in particolare, sui ritardi delle refertazioni e le loro anomalie.

Il T.A.R ha pure condivisibilmente osservato: che nemmeno poteva reputarsi illegittimo il fatto di avere affidato la relativa attività istruttoria ad un collegio di esperti appositamente nominato; che, essendo stata rappresentata una situazione straordinaria di disfunzione, tutta da verificare ed indagare, era fuori causa il sistema, solo ordinario, previsto dalla legge, degli indicatori della qualità dei servizi e delle prestazioni sanitarie; che, infine, l’istituzione della commissione non aveva quale suo compito quello di sottoporre a controllo l’attività del primario (che solo all’esito sarebbe emerso come il principale responsabile delle disfunzioni effettivamente individuate).

Ai giusti rilievi del primo giudice deve qui semplicemente aggiungersi che proprio l’atipicità dell’iniziativa rendeva ad essa inapplicabili le norme invocate dal ricorrente, che postulavano la presenza di precise fattispecie previste dalla legge, non ricorrenti però nello specifico.

Infine, anche a voler dare per un attimo credito all’idea che nei fatti la commissione abbia preso ad operare a guisa di un ufficio disciplinare, ciò non sarebbe stato comunque ascrivibile ad un vizio di legittimità degli atti che l’avevano istituita, che non le attribuivano una simile fisionomia.

Per questa parte l’appello incidentale va pertanto respinto.

8 In conclusione, la Sezione, accogliendo per quanto rispettivamente di ragione l’appello principale e quello incidentale, deve confermare la sentenza di primo grado con la diversa motivazione qui indicata al n. 5.

Le spese dei due gradi di giudizio, attesa la reciprocità della soccombenza, possono essere compensate tra le parti.
P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quinta),

definitivamente pronunciando sull’appello in epigrafe, accoglie per quanto di ragione l’appello principale e quello incidentale, e per l’effetto conferma con diversa motivazione la sentenza appellata.

Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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