Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 17-02-2011) 04-05-2011, n. 17221 Sequestro preventivo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

del PG Dott. SPINACI Sante il quale ha chiesto il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

Il Tribunale di Treviso, con ordinanza del 12.7.2010 – in accoglimento dell’istanza di riesame proposta nell’interesse di M.G., G.R. e C.I. – revocava il provvedimento 19.6.2010 con cui il G.I.P. di quello stesso Tribunale aveva disposto il sequestro preventivo di un’area, sita in (OMISSIS), nella quale era stata effettuata la sostituzione di nuovo terreno ad altro preesistente nel contesto di una attività di miglioramento fondiario.

La misura di cautela reale era stata applicata in relazione all’ipotizzato reato di cui al D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 3, (realizzazione di una discarica abusiva).

Secondo l’impostazione accusatoria, nell’area anzidetta (appartenente alla s.r.l. "Iniziative Villorba", della quale il M. era presidente ed il G. vice-presidente del consiglio di amministrazione) erano stati autorizzati dalla Regione Veneto lavori di miglioria fondiaria con escavazione e rimozione di una parte superficiale del terreno e successiva sua sostituzione con altro terreno di analoga tipologia.

Le opere erano state eseguite dalla s.p.a. "Superbeton" (della quale la C. era rappresentante legale), ma l’entità dell’escavazione era stata effettuata in misura esorbitante l’autorizzato e, in relazione a ciò, erano stati emessi plurimi provvedimenti amministrativi di sospensione ed autorizzazione di ripresa dei lavori.

Il materiale di riporto utilizzato per il riempimento dopo l’escavazione era costituito solo in minima parte da terreno vegetale per il quale erano state attivate le procedure previste dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 riguardanti le terre e le rocce da scavo;

nella parte preponderante, invece, doveva considerarsi "rifiuto", poichè si trattava di terreno di origine e qualità sconosciute e di limo proveniente dal lavaggio delle ghiaie effettuato presso un impianto di lavorazione di detto materiale gestito dalla "Superbeton" in luogo esterno alla cava di estrazione.

Il Tribunale del riesame escludeva che il terreno utilizzato per la sostituzione potesse considerarsi "rifiuto", rilevando che: a) trattavasi di un misto di terra e ciottoli in cui non erano stati rinvenuti residui di demolizioni nè superamenti dei limiti di legge quanto alle concentrazioni chimiche; b) irrilevante doveva ritenersi la presenza di limo derivante dalla prima lavatura di materiale di cava, poichè ad esso la giurisprudenza di legittimità non riconosce la natura di rifiuto; c) l’area agricola in oggetto è attualmente destinata alla coltivazione intensiva di mais e frumento, senza alcun visibile danno ambientale; d) non sussiste alcun pericolo di reiterazione della condotta contestata.

Avverso tale ordinanza ha proposto ricorso il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Treviso, il quale ha eccepito che:

– il limo utilizzato, derivante da lavaggio di ghiaie effettuato presso un impianto "fuori sito di cava", costituisce "rifiuto" ai sensi del D.Lgs. 3 aprile 2006, n. 152, art. 183;

– l’altro terreno, di origine e qualità sconosciute, non può assimilarsi alla nozione di "terre e rocce da scavo", non risultando evidente la sussistenza dei requisiti richiesti dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 ai fini della esclusione dal regime dei rifiuti ed in particolare non potendosi escludere la provenienza da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica.

I difensori degli indagati hanno depositato memorie rivolte a contestare gli assunti della pubblica accusa.

Il ricorso del P.M. deve essere rigettato perchè infondato.

1. Ribadisce il Collegio la consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo la quale i fanghi ed i limi derivanti dalla prima pulitura mediante lavaggio del materiale ricavato dallo sfruttamento delle cave non rientrano nel campo di applicazione della disciplina sui rifiuti di cui alla parte quarta del D.Lgs. a 152 del 2006, in quanto l’art. 185, comma 1, lett. d), del citato decreto legislativo – riproduttivo del D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 8, comma 1, lett. b), – esclude dalla disciplina in questione i rifiuti risultanti dallo sfruttamento delle cave e tra questi rientrano quelli risultanti dalla pulitura effettuata sia mediante setacciatura o grigliatura sia mediante lavaggio (vedi Cass., Sez. 3^: 8.2.2007, n. 5315, Doneda;

12.11.2007, n. 41584, Frezza; 3.3.2009, n. 9491, Acco).

I rifiuti di estrazione derivanti dall’attività di cava e di miniera sono assoggettati, infatti, ad una disciplina specifica, finalizzata anche alla tutela ambientale e sanitaria, dettata dalla Direttiva 2006/21/CE (relativa alla gestione dei rifiuti delle industrie estrattive) ed attuata in Italia mediante il D.Lgs. 30 maggio 2008, n. 117.

Detti rifiuti sono esclusivamente quelli prodotti nel contesto del ciclo produttivo dell’impianto estrattivo e l’ambito di applicazione del D.Lgs. n. 117 del 2008 è specificato dall’ari 2 dello stesso testo normativo. La insussistenza di tale requisito, però, non è contestata nell’imputazione provvisoria ed allo stato – con riferimento alla s.p.a. "Superbeton" – nulla è dato conoscere circa la individuazione e la perimetrazione delle aree di cantiere estrattivo e delle strutture di deposito dei rifiuti di estrazione, secondo le definizioni date dall’art. 3, comma 1, lett. hh) ed r), del decreto legislativo in oggetto.

2. Il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186, comma 1, – dopo le modifiche introdotte dal D.Lgs. 16 gennaio 2008, n. 4 e dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, convertito nella L. 28 gennaio 2009, n. 2 – prevede che le terre e rocce da scavo, ottenute quali sottoprodotti, possono essere utilizzate per reinterri, riempimenti, rimodellazioni e rilevati solo nella contestuale presenza delle seguenti condizioni:

a) impiego diretto nell’ambito di opere o interventi preventivamente individuati e definiti;

b) certezza dell’integrale utilizzo sin dalla fase della produzione;

c) possibilità tecnica di utilizzo integrale della parte destinata a riutilizzo senza necessità di preventivo trattamento o di trasformazioni preliminari;

d) garanzia di un elevato livello di tutela ambientale;

e) certezza della non provenienza da siti contaminati o sottoposti ad interventi di bonifica;

f) presenza di caratteristiche chimiche e chimico-fisiche tali che il loro impiego nel sito prescelto non determini rischi per la salute e per la qualità delle matrici ambientali interessate; dimostrazione che il materiale da utilizzare non è contaminato con riferimento alla destinazione d’uso del medesimo, nonchè compatibilità di detto materiale con il sito di destinazione;

g) dimostrazione della certezza del loro integrale utilizzo.

In mancanza anche di una sola delle predette condizioni (e delle verifiche di compatibilità ambientale dei progetti di utilizzo), le terre e rocce da scavo sono sottoposte alla disciplina dei rifiuti (art. 186, comma 5), dovendosi tenere conto, al riguardo, che attualmente la nozione di sottoprodotto è delineata dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 184 bis, comma 1 (introdotto dal D.Lgs. 3 dicembre 2010, n. 205) e che la disciplina dell’art. 186 è fatta salva, in via transitoria, dallo stesso D.Lgs. n. 205 del 2010, art. 39, comma 4.

Questa Corte (Sez. 3^ 1.10.2008, n. 37280), inoltre, si è già espressa nel senso che, siccome il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 186 introduce una deroga alla nozione di rifiuto definita dall’art. 183, lett. a), e indirettamente configura una causa di esclusione della punibilità dei reati che hanno come oggetto o come presupposto i rifiuti (v. rispettivamente da una parte gli artt. 256, 259 e 260 e dall’altra l’art. 258, comma 4), grava sull’imputato l’onere di provare le condizioni positive per l’applicabilità della deroga (riutilizzazione delle terre e rocce da scavo secondo progetto ambientalmente compatibile), mentre resta compito del pubblico ministero la prova della circostanza di esclusione della deroga (concentrazione di inquinanti superiore ai massimi consentiti).

Nella fattispecie in esame il terreno di origine e qualità tuttora sconosciute deve considerarsi "rifiuto", in quanto non emerge – allo stato – la sussistenza delle condizioni positive per l’applicabilità della deroga.

3. Il rigetto del ricorso del P.M. discende, comunque, dalla inconfigurabilità del periculum in mora, dovendosi rilevare che:

a) pur potendo ravvisarsi il fumus di un’attività di abusivo smaltimento di rifiuti, sanzionata dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 256, comma 1, non sono individuabili però, in questa fase delle indagini, tutti i requisiti richiesti dalla legge per la configurabilità del reato di discarica abusiva, sicchè l’area già sequestrata non può attualmente ritenersi suscettibile di confisca obbligatoria;

b) l’attività contestata è cessata nel giugno del 2009 e, a fronte di ipotesi criminosa già perfezionatasi, il sequestro preventivo di cosa pertinente al reato è consentito purchè il pericolo della libera disponibilità della cosa stessa – che va accertato dal giudice con adeguata motivazione – presenti i requisiti della concretezza e dell’attualità e le conseguenze del reato, ulteriori rispetto alla sua consumazione, abbiano connotazione di antigiuridicità, consistano nel volontario aggravarsi o protrarsi dell’offesa al bene protetto che sia in rapporto di stretta connessione con la condotta penalmente illecita e possano essere definitivamente rimosse con l’accertamento irrevocabile del reato.

Nella fattispecie in esame, invece, il G.I.P. ha affermato che "la libera disponibilità dell’immobile, da parte dei soggetti che ne hanno la giuridica e materiale disponibilità, comporterebbe la concreta ed attuale possibilità di protrazione della condotta criminosa contestata", poichè, tenuto conto delle attività di impresa esercitate dalle società rappresentate dagli indagati e dell’inerzia sanzionatoria della competente autorità amministrativa, può "fondatamente presumersi" che il deposito in quel sito "costituisca ormai normale, ancorchè illecito, mezzo di smaltimento dei rifiuti" già utilizzati.

Una motivazione siffatta, fondata su elementi presuntivi smentiti dall’attuale utilizzazione agricola del fondo, non compie una valutazione coerente dell’attualità effettiva del pericolo derivante da libero uso dell’area sequestrata e non evidenzia una reale compromissione degli interessi attinenti alla protezione ambientale.

4. L’ulteriore approfondimento e la compiuta verifica spettano ai giudici del merito ma, allo stato, il disposto dissequestro appare tutt’altro che irrazionale.
P.Q.M.

la Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 127 e 325 c.p.p., rigetta il ricorso del P.M..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *